Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

 

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

COMUNISTI E POST COMUNISTI

 

 

SE LI CONOSCI, LI EVITI

 

 

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

Quando la Sinistra e la Destra sono uno spazio, più che una ideologia.

Solo con quattro tipi di persone non puoi instaurare un rapporto in antitesi, o non puoi tenere un discorso difforme al loro essere: I mussulmani; i testimoni di Geova; i comunisti (fascisti) e post comunisti (post fascisti) ed i coglioni ignoranti.

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PREFAZIONE. L’UTOPIA MARXISTA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LE SETTE IDEOLOGICHE FIGLIE DEL SOCIALISMO: FASCISMO, COMUNISMO, LEGHISMO E GRILLISMO.

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

IL DOVERE DI UCCIDERE.

LA PROPAGANDA E L'OSSESSIONE ANTIFASCISTA.

FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.

MORALISTI E MORALIZZATORI. IL MORALISMO E LA MORALIZZAZIONE COMUNISTA.

IL MORALISMO DEI TIFOSI.

A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.

COMUNISTI? NO, SETTARISTI!

IL VANGELO SECONDO LENIN.

COME I COMUNISTI UCCIDONO IL LAVORO.

COMUNISTI ITALIANI. LE CRITICHE DALL’INTERNO DELL’APPARATO.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

I CATTIVI MAESTRI DELLA SINISTRA.

LA SINISTRA E LA SINDROME DEL TRADIMENTO.

CERCANDO LA SINISTRA: COMUNISTI COL ROLEX.

IL COMUNISMO. UNA FEDE MORTALE.

IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.

SOCIALISMO ISLAMICO.

ATTENTATO A BARCELLONA. DA KARL MARX A MAOMETTO.

IL FASCISMO ISLAMICO. QUELLO CHE I FASCISTI NON VORREBBERO SAPERE…

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

I COMUNISTI NON MUOIONO MAI.

DESTRA-SINISTRA.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

E LA CHIAMANO DEMOCRAZIA…

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

L’INVIDIA E L’ODIO DI CLASSE.

I REGIMI TOTALITARI FIGLI DEL SOCIALISMO/COMUNISMO.

I PADRI COMUNISTI.

LA STORIA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO.

ORIGINI E CARATTERISTICHE COMUNI DI NAZISMO E COMUNISMO.

BENITO MUSSOLINI. UN COMUNISTA UCCISO DAI COMUNISTI.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

COMUNISTA/FASCISTA A CHI?

PALMIRO TOGLIATTI, UN DEMOCRATICO ALLA STALIN...

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’. DAL ’68 AL ’77.

25 APRILE. DATA DI UNA SCONFITTA.

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

L’ITALIA DELLE MENZOGNE.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

L’OLOCAUSTO COMUNISTA.

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

REVISIONISMO STORICO.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI RENZO DE FELICE.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

IL TRAVESTITISMO.

IL MINISTERO DELLA CULTURA POPOLARE (MINCULPOP) FASCISTA/COMUNISTA

TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.

ONESTA’ E DISONESTA’.

LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

LA STAMPA ROSSA BRINDA ALL’ODIO.

QUANDO IL PCI RICATTO’ IL COLLE PER LA GRAZIA ALL’ERGASTOLANO.

I POST COMUNISTI. I POST DELLA VERGOGNA.

POOL MANI PULITE, MAGISTRATURA DEMOCRATICA E COMUNISMO: ATTRAZIONE FATALE PER FAR FUORI AVVERSARI POLITICI E MAGISTRATI SCOMODI!

CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

                                                                                                        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

PREFAZIONE. L’UTOPIA MARXISTA.

«In alcune case editrici (come l'Einaudi), se non eri comunista non c'entravi. Questo è nato da due fatti. Uno, i comunisti non avendo il potere economico - secondo la lezione di Gramsci - volevano avere almeno l'egemonia culturale. Secondo, i quadri del Partito Comunista, avendo un impegno politico molto forte, erano lettori; mentre nella DC e nel PSI nessuno leggeva. Quindi, le case editrici (come l'Einaudi) che si occupavano di politica, di economia, ecc..., avevano capito che il loro unico mercato era quello dell'area comunista. Su questo si aggiunge il fatto delle masse universitarie, per cui tutti gli insegnanti o quasi erano comunisti [...]. Tutti i premi sono andati a comunisti». Giorgio Bocca (1920-2011)

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:

attraverso la televisione di Stato e similari;

con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;

con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.

Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.

Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.

Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.

Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.

Cosa vorrei? Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.

Invece...

L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".

Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.

Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.

C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.

Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...

Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.

L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)

Si stava meglio quando si stava peggio.

I miei nonni paterni Giuseppa Caprino e Leonardo Giangrande, democristiani, contadini beneficiari delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista e genitori di 8 figli, dicevano che con i democristiani nessuno rimaneva indietro e tutti avevano la possibilità di migliorare il loro stato, se ne avevano la voglia (lavorare e non sprecare). Nonostante gli sprechi a vantaggio di alcuni figli a danno di altri e nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, loro hanno migliorato il loro stato ed hanno avuto la pensione.

Mio nonno materno Gaetano Santo, comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 8 figli cresciuti con l’illusione della loro utilità al suo benessere ed alla sua vecchiaia, tra un bicchiere di vino e l’altro affermava che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Luigi Malorgio, il nonno materno di mia moglie, prigioniero di guerra e comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 4 figli, tra uno spreco e l’altro affermava, con il solito mantra comunista, che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Altro mantra dei comunisti era ed è: gli altri vincono perché, essendo ladri, comprano i voti.

E come dire a detta degli interisti e dei napoletani: la Juventus vince perché ruba e quindi ridistribuiamo i suoi scudetti. L’Inter ed il Napoli son morti, comunque, perdenti.

Dopo tanti anni ho constatato che oggi rispetto al tempo dei nonni, nonostante il progresso tecnologico e culturale, non è più possibile migliorarsi ed arricchirsi. Inoltre oggi se si diventa ricchi per frutto della propria capacità e lavoro, non si è più tacciati di ladrocinio, ma di mafiosità. E se prima non c’era, oggi c’è l’espropriazione proletaria antimafiosa, ma non a favore dei poveri, ma solo a vantaggio dell’antimafia di sinistra, sia essa apparato burocratico di Stato, sia essa apparato associativo comunista, sia esso regime culturale rosso.

Dopo tanti anni ho constatato che, nonostante la magistratura politicizzata che collude ed i media partigiani che tacciono, i moralizzatori solidali erano e sono ladri come tutti gli altri, erano e sono mafiosi come, è più degli altri.

Ergo: ad oggi noi moriremo tutti poveri…e probabilmente senza pensione, accontentandoci di un misero reddito di cittadinanza che prima (indennità di disoccupazione) era privilegio solo dei lavoratori sindacalizzati disoccupati.

Di fatto, nel nome di un ridicolo ambientalismo, ci impediscono di farci una casa, ma ci spingono a comprarci un’auto. 

Questo non è progressismo politico, ma una retrograda deriva culturale che ti porta a dire che:

è meglio non fare niente, perché si fotte tutto lo Stato con il Fisco;

è meglio non avere niente, perché si fotte tutto lo Stato con l’Antimafia.

Quindi, si stava meglio quando si stava peggio.

Ma lasciate che sia il solo a dirlo, così sanno con chi prendersela ed è facile per loro vincere tutti contro uno. Senza una lapide di rimembranza.

Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

La sinistra nel mondo: i numeri della crisi. Dall'Italia agli Stati Uniti i numeri della crisi dei partiti di sinistra (e della loro ideologia), scrive Barbara Massaro il 27 novembre 2018 su "Panorama". I partiti di sinistra hanno mancato l'appuntamento con la storia e per questo sono entrati in crisi. E' vero, infatti, che il nostrano Partito Democratico è talmente disperato da plaudire ed elevare a icona uno stizzito Rino Gattuso che, in conferenza stampa post partita, ha ammonito Salvini invitandolo a occuparsi di politica e non di pallone, ma è altrettanto vero che nel resto del mondo le cose non vanno per niente meglio per progressisti, laburisti e democratici.

Le sinistre nel mondo. Le elezioni Usa di midterm, ad esempio, avrebbero dovuto sancire il ritorno in grande dei democratici americani e invece sono state un mezzo flop con i democratici che hanno conquistato la Camera, ma non il Senato e senza un leader in vista delle primarie per le prossime presidenziali. In Francia il socialista Hollande, nel 2017, non ha neppure avuto il coraggio di ripresentarsi all'Eliseo spianando la strada all'ibrido tentativo centrista di Macron di sostituirsi a una sinistra che non è più di sinistra. Addirittura Macron è arrivato al ballottaggio con l'estremista di destra Marine Le Pen, mentre il candidato della sinistra moderata francese, Benoit Hamon, ha ottenuto solo il 6,4% dei voti.

A sinistra di chi? Quello sta succedendo in tutte le democrazie occidentali non è un ammutinamento repentino dell'elettorato progressista, ma è l'esito di uno iato storico che va ampliandosi da almeno tre decadi tra la sinistra e il popolo.

Perché mentre il mondo cambiava e le premesse della socialdemocrazia post bellica diventavano anacronistiche, l'intellighentia al potere non è stata in grado di captare il malcontento del suo elettorato e di comprendere che, in un mondo sempre più globalizzato, digitalizzato e frammentato parlare di partito operaio, lotta di classe, conflitti di capitale e proletarizzazione dello Stato non aveva più senso. A entrare in crisi, infatti, è stato il concetto stesso di sinistra storica che ha ceduto il passo a chi è stato in grado di trasformare e attualizzare i valori socialdemocratici.

Il caso Schulze. E' successo così in Germania dove i Verdi guidati dalla giovane Katharina Schulze hanno conquistato l'importantissima Baviera lasciando i socialdemocratici della Spd fermi al palo (già nel 2017 il risultato conseguito alle elezioni federali era stato il 20,5 per cento, il peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale). Schulze, infatti, è riuscita nell'impresa che sfugge alla stragrande maggioranza delle sinistre mondiali e cioè è stata capace di unire temi classici cari alla causa ambientalista (energie rinnovabili, ecologia, riciclaggio, etc) ad argomenti più contemporanei come la crisi economica, il cambiamento del mercato del lavoro, l'immigrazione e la sicurezza. E' stata credibile, ci ha messo la faccia e le idee e ha vinto. Quello che le sinistre (che siano i laburisti inglesi battuti, seppur di poco, da Theresa May o gli austriaci che cedono il passo al populismo el Partito della libertà - Fpö, vero vincitore delle elezioni 2017 con il 27,4% dei voti e lo storico sorpasso sui social democratici fermi al 26,6% e divenuti terzo partito nazionale) paiono non capire è che a non esistere più sono gli stessi ambienti sociali che erano il bacino elettorale della socialdemocrazia.

Come è cambiato il bacino elettorale della sinistra. Riavvolgendo all'indietro il nastro della storia di almeno un ventennio ci si trova, infatti, faccia a faccia con quella rivoluzione tecnologica e digitale che ha modificato la geografia degli impieghi con quella che era la classe operaria che ha ceduto il passo ai computer e ai robot e che ha dovuto riciclarsi lasciando, per altro, un vuoto professionale alle generazioni future. E così il giovane che fino a un ventennio fa avrebbe cercato lavoro in fabbrica, si è trovato nella condizione di trovare un altro modo per sopravvivere entrando nel vortice dei contratti a termini, delle collaborazioni occasionali e trasformandosi in un precario ontologico in eterna attesa di rinnovo. Il precariato strutturale ha determinato la perdita della fiducia nella vecchia politica e soprattutto nella rappresentanza sindacale che veniva intercettata dalle sinistre del mondo. 

I progressisti non hanno avuto la lucidità d'intercettare l'insoddisfazione di quei lavoratori vittime del nuovo precariato di massa, di quei neo-proletari figli di una classe operaia che non c'è più.

L'avanzata dei neo-populismi. I nuovi sfruttati, quindi, hanno trovato nei neo-populismi il luogo in cui poter trovare risposte a domande che prima di oggi nessuno aveva mai avuto la necessità di porsi. Basti guardare all'esempio brasiliano del neo-eletto Jair Bolsonaroche con i suoi proclami ha attratto l'elettorato brasiliano stufo degli inciuci burocratici di Lula e del lulismo. (Fernando Haddad, pupillo di Lula e candidato del partito dei lavoratori è rimasto fermo al 44,8%). L'esempio di Bolsonaro permette di affrontare uno degli altri grandi problemi che la sinistra non è stata in grado di risolvere, ovvero la crisi del "politicamente corretto". Bolsonaro, infatti, ha conquistato la presidenza del Brasile (non del Molise, per dire...) a furia di proclami definiti omofobi, razzisti, machisti e contro il sistema. Si tratta di tutta una serie di argomenti antitetici al democratico buonismo progressista fatto di welfare State, multiculturalismo, diritti individuali, parità salariale e cosmopolitismo. Tutti concetti che nella valigia del progressista occidentale sono sempre presenti e che, invece, oggi vengono vissuti, capiti e interpretati solo da una classe sociale medio alta, la cosiddetta borghesia radical chic che è diventata l'unica ancora fedele al bagaglio gnoseologico della sinistra mondiale.

Lavoratori vs. radical chic. I lavoratori, invece, se ne sono andati altrove. Hanno cercato conforto tra le braccia di chi parla un linguaggio semplice (a tratti sempliciotto) ma facile da capire; ha votato chi prometteva soldi, casa, lavoro e meno tasse. Storicamente, in ogni momento di crisi economica, l'elettorato si è spostato a destra cercando consolazione nella capacità delle destre conservatrici di catalizzarsi intorno a un leader. La figura del leader carismatico è catartica e tranquillizzante e un popolo alla deriva tende a credere a chi si mostra più risoluto nei confronti del potenziale elettorato. Persino la progressista Olanda ha smesso di credere nella socialdemocrazia e alle ultime elezioni ha assistito al tonfo dei socialisti a favore del partito di estrema destra Pvv guidato da Gert Wilders che con il suo 4% di preferenze ha sottratto voti alla sinistra che ha abbassato il capo alla riconferma del conservatore Mark Rutte e lo stesso è accaduto nella Repubblica Ceca dove i progressisti non hanno neppure raggiunto la doppia cifra.

Il fallimento della "terza via" della sinistra. Dopo il fallimento del comunismo storico, dunque, si sta assistendo anche alla fine della "terza via" teorizzata da Tony Blair che, a inizio anni 2000 era stato in grado di spostare l'asse labour inglese verso il centro ampliando l'elettorato e tranquillizzando i mercati. Negli stessi anni in Italia ci aveva provato Massimo D'Alema, mentre in Germania il cancelliere Gerhard Schröder conquistava il 40% dei voti. Erano anni in cui la sinistra splendeva e gli elettori credevano in quell'infiocchettato bagaglio di buoni propositi e sentimenti veicolati dal progressismo moderato. Ora quel tempo è finito e anche la terza via ha fallito la sua missione politica. L'intera area progressista e democratica è chiamata a farsi un bagno di realtà e a cercare una diagnosi alla malattia di cui soffre perché senza diagnosi non c'è prognosi e senza prognosi non c'è possibilità di definire una cura che possa trasportare le sinistre fuori da quel guano stagnante in cui hanno fatto affogare valori che un tempo erano sinonimo di futuro e progresso.

Dal Pci a oggi. Le scissioni della sinistra. Storia di quello che era il più grande partito comunista d'Europa ora ridotto in mille pezzi da scissioni e divisioni, scrive Barbara Massaro il 22 novembre 2018 su "Panorama". C'era una volta la sinistra in Italia. Una sola sinistra. Quando nel 1921 Antonio Gramsci fondò il Partito Comunista Italiano (il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa occidentale) non poteva immaginare quello che, in meno di un secolo, i suoi discepoli sarebbero stati in grado di combinare alla sua creatura tra scissioni e divisioni di idee, personaggi, temi e dinamiche in una caleidoscopica quantità di sfumature che a guardarle tutte insieme di rosso non hanno più nulla.

Il Partito Comunista Italiano. Era uno si diceva. Il PCd'I, il braccio politico della resistenza antifascista; il cuore rosso della nascita della Repubblica, il luogo in cui Palmiro Togliatti ha avuto modo di realizzare quella collaborazione con i moderati (anche cattolici) in nome della Repubblica. Anche quando De Gasperi ha deciso di estromettere le sinistre dal Governo il PCI è stato capace di fare opposizione, anzi è stato in grado di fare quel capolavoro politico del compromesso storico con la DC. Certo, allora il segretario era Enrico Berlinguer, mica Matteo Renzi. Berlinguer, però, è morto prima di vedere la caduta del Muro di Berlino e la fine dei grandi comunismi europei e su quella sedia, mentre il concetto stesso di comunismo si sgretolava davanti all'evidenza della storia, sedeva Achille Occhetto che non ha potuto che prenderne atto e, nel 1991, ha sciolto il PCI. E qui sono iniziati i guai della sinistra.

1991 - Lo spartiacque. Mentre infatti Occhetto e i moderati della nuova sinistra erano in cerca d'identità fondando il Partito Democratico della Sinistra(PDS) i nostalgici della falce e martello hanno seguito Armando Cossutta che ha fondato il Partito della Rifondazione Comunista in cui sono confluite tutte le correnti e le posizioni più a sinistra della sinistra come Democrazia Proletaria e Partito Comunista d'Italia. L'idea era proprio quella di opporsi allo scioglimento del PCI e quindi a tutte le posizioni moderate e centriste che avrebbe potuto assumere la sinistra. 

1994 - "I progressisti". Anno di elezioni politiche importanti il 1994. Il primo appuntamento elettorale dopo lo scioglimento del PCI. In campo le due forze maggiori della sinistra sono il PDS e il PRC che, insieme a Verdi, socialisti e partiti minori decidono di unire le forze e di presentarsi come I Progressisti nel tentativo di battere la neonata coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi. Non ce la fanno, ma il progetto de I Progressisti sarà alla base di quello che poi sarà l'esperimento politico de L'Ulivo. A causa della sconfitta politica entrambe le segreterie (PDS e PRC) cambiano e Massimo D'Alema succede ad Achille Occhetto, mentre un riottoso Cossutta lascia la poltrona a Fausto Bertinotti.

1996 - L'Ulivo e i Comunisti italiani. Dopo due anni la sinistra ha di nuovo occasione d'imporsi come maggioranza politica del paese e lo fa attraverso l'Ulivo ovvero il raggruppamento di forze riformiste moderatamente di sinistra e liberali teorizzato da Romano Prodi. E' la prima volta che ex DC ed ex Comunisti corrono insieme. Il centrosinistra ha la maggioranza e Romano Prodi viene nominato Premier. Rifondazione Comunista decide di dare appoggio esterno alla maggioranza. E' lo strappo. Cossutta e i suoi non possono accettare la svolta centrista di PRC e se ne vanno dando vita all'esperienza dei Comunisti Italiani il cui primo segretario è lo stesso Cossutta seguito da Oliviero Diliberto nel 2000. I temi sono quelli della bandiera rossa, dell'internazionale socialista, della lotta di classe e della rivoluzione operaia. Intorno ai Comunisti italiani convergono i delusi dal moderatismo di Bertinotti.

1998 - Nascono i Democratici di sinistra. Dall'esperienza dell'Ulivo e nella consapevolezza che tutte le anime della sinistra avrebbero bisogno di convergere in un unico contenitore per avere più forza politica nasce l'illuminazione dei Democratici di Sinistra. Si tratta del progetto di creare un unico partito di sinistra sul modello dei gradi partiti laburisti europei. Massimo D'Alema (nel frattempo succeduto a Prodi a Palazzo Chigi a causa della crisi di governo dovuto alla fine del sostegno esterno del PRC alla maggioranza) viene eletto presidente e primo segretario è Walter Veltroni. A lui, nel 2001, succederà Piero Fassino che resterà in carica fino allo scioglimento dei DS nel 2007. L'ideologia è quella socialdemocratica e riformista, il sogno è quello di creare un unico soggetto politico capace di racchiudere le sinistre italiane. Più che un sogno, un'utopia. 

2001 - Il Correntone. Che i DS, da soli, non fossero in grado di mettere d'accordo tutti lo si è visto subito. La crisi del governo D'Alema con le successive dimissioni di Veltroni da segretario e l'elezione di Piero Fassino in vista delle imminenti politiche davano la cifra della necessità di ritrovare quell'unità appena acquisita e subito perduta. Ecco che ancora l'Ulivo diventa la casa madre di una sinistra, che però, esce sconfitta dal confronto col centro destra. E così, invece che trovare unità i moderati di sinistra acquistano frammentazione unendosi ai girotondini e ai movimentisti che proprio in quegli anni si affacciavano sulla scena politica nostrana. Persino gli stessi DS devono fare i conti con un Correntone interno centrale e frange dissidenti di aspiranti disertori.

2003-2004: L'Ulivo per le europee. In vista delle Europee del 2004 a rompere gli indugi è Romano Prodi che propone a tutti i partiti della coalizione di presentarsi sotto un unico simbolo, quello, appunto, dell'Ulivo. Oltre ai DS accettano la Margherita, SDI e i Repubblicani mentre ne restano fuori i Verdi, i Comunisti Italiani, l'Udeur e Rifondazione Comunista. Nasce così Uniti nell'Ulivo che un buon risultato alle europee del 2004.

2005-2006 Il Governo Prodi-bis. Visto il successo delle europee Prodi propone di creare una federazione di partiti dell'Ulivo. Nasce così l'esperienza dell'Unione, che si può considerare l'embrione del PD. Perché dopo le politiche del 2006, vinte a risicata maggioranza dal centro sinistra, i DS e gli altri si accorgono di essere più forti in gruppo unico che presentandosi per singoli partiti. E così inizia a sembrare a portata di mano l'idea che l'Italia, come le più grandi democrazie, possa offrire ai suoi elettori solo due grandi liste, quella dei laburisti e quella dei conservatori.

2007 - Nasce il PD. Con questa grande ambizione politica Fassino apre a Firenze il IV Congresso dei DS. La sua mozione è quella di superare i DS per costruire un unico grande partito di sinistra in grado di semplificare lo scenario politico italiano. Mentre Fassino parla ai suoi a Firenze Francesco Rutelli fa lo stesso con la dirigenze e la base della Margherita (nata nel 2002 come forza centrista e riformista cattolica) nel tentativo di dar vita al soggetto politico che si chiamerà Partito Democratico. Più semplice il compito di Rutelli che ha velocemente convinto i suoi del senso stesso del progetto del PD. Fassino, invece, tra correnti, correntoni e correntelle ha dovuto combattere non poco per far passare la sua mozione e poter brindare alla nascita del PD il 14 ottobre 2007. Primo segretario eletto è Walter Veltroni. Da subito il PD ha avuto il ruolo importante di sostenere il secondo Governo Prodi che, ad appena un anno dal suo insediamento, già faticava a reggere. Approfittando della momentanea debolezza del centro-destra l'esecutivo guidato da Prodi e sostenuto dal neonato PD ha retto fino a gennaio 2008 crollando poi sotto i mancati accordi circa la riforma elettorale.

2008 - La frammentazione degli ex comunisti. E' tempo di nuove elezioni politiche e, per la prima volta nella storia, il PD sceglie di stringere intese programmatiche e non ideologiche tagliando, di fatto, i ponti con i partiti più a sinistra che, a partire dal 2008, si frammentano in una costellazione di partituccoli che dovrebbero rappresentare la sinistra alternativa. Nascono così le esperienze di La sinistra arcobaleno, la federazione della sinistra, L'altra Europa con Tsipras e Sinistra anticapitalista. Si tratta di soggetti politici che, lungi dall'avere rappresentanza parlamentare, finiscono solo per sottrarre voti alla sinistra. Nel frattempo il PD si allea con l'Italia dei Valori e perde le elezioni. Sconfitta ribadita anche alle successive regionali dopo le quali si apre l'Assemblea Nazionale. A un anno dalla nascita del PD è già crisi. La corrente Parisi chiede di cambiare tutto: dalla classe dirigente al programma politico, mentre la maggioranza del partito sceglie di aspettare le Europee per vedere cosa succede. E' un bagno di sangue. In un anno il PD ha perso 7 punti. Veltroni si dimette. Bersani pensa di candidarsi, ma poi ci ripensa, restano in corsa l'ex Margherita Dario Franceschini e Arturo Parisi. Vince Franceschini: il Pd è sempre più centrista. Gli ex Ds sono in subbuglio.

2009 - L'anno di Bersani. Tra frondisti, pentiti e moderati in qualche modo arrivano le elezioni primarie e Pier Luigi Bersani viene eletto segretario. Questa volta a lasciare il partito sono gli ex Margherita, Rutelli in primis che fonda Cambiamento e Buongiorno.

2013 - Da Bersani a Renzi. Per un paio d'anni Bersani regge la segreteria del partito tra alleanze con l'Udc e sostegno esterno al Governo Monti, poi nel 2013 i ranghi vengono di nuovo stretti perchè è tempo di elezioni politiche. Bersani stesso viene scelto come candidato premier del centro sinistra e le elezioni, seppur per pochi voti, le vince pure. Sale al colle, forma il Governo, ma dopo pochi mesi rimette il mandato perché il PD non è stato in grado, finito il settennato al quirinale di Giorgio Napolitano, di imporre in nome di Romano Prodi o in alternativa quello di Franco Marino. E' l'aprile del 2013 e si apre l'ennesima frattura nella sinistra italiana. Bersani si dimette, arriva Epifani ma solo in attesa delle primarie di dicembre dove trionfa il "rottamatore": Matteo Renzi, sindaco di Firenze. L'homo novus viene eletto segretario e per un attimo sembra che l'odore di chiuso della sinistra prenda una boccata d'ossigeno. Renzi ha la meglio su Gianni Cuperlo, Gianni Pittella, ma soprattutto su Giuseppe Civati che da lì a due anni (2015) sarebbe uscito dal PD fondando a sua volta un nuovo soggetto politico, Possibile, che andrà a far parte della galassia della sinistra nata sulle ceneri dei Comunisti del tempo che fu.

2014 - Da Letta a Renzi. Nel frattempo a Palazzo Chigi si è sistemato Gianni Letta che riceve il celebre "Stai tranquillo" da Renzi a mo' di benedizione per un ricco futuro politico. Dura poco, perché il 13 febbraio dello stesso anno proprio Renzi propone una mozione di sfiducia a Letta e una settimana dopo accetta lui stesso l'incarico di formare un nuovo governo. Nella primavera dello stesso anno regionali e europee confermano l'entusiasmo degli elettori per Renzi che prende in mano il timone dell'esecutivo e conduce per un po' la barca della cosa pubblica.

2016 - Il referendum costituzionale. Fa riforme Renzi, firma decreti e emette circolari a ritmo vorticoso; ci crede davvero nell'idea di poter cambiare il mondo e di renderlo un posto migliore e per questo mette mani anche alla nostra Costituzione; la riforma, cerca di superare il bicameralismo perfetto, prova a dar forma una sorta di presidenzialismo alla francese, ma fallisce. Il referendum confermativo del dicembre 2016 rimette il buon Matteo che voleva un mondo migliore con i piedi per terra e, di fronte al no della gente, Renzi gira i tacchi e torna a casa dimettendosi anche dalla segreteria del partito.

2017 - 2018- Liberi e Uguali. Nonostante la debacle politica, l'assemblea nazionale del Pd conferma Renzi alla segreteria in vista delle politiche del marzo 2018. La minoranza interna al partito però non ci sta e Bersani con Rossi e Speranza lascia il PD e fonda Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista. In vista delle elezioni politiche quelli di Art. 1 si alleano con Sinistra Italiana e Possibile (quello di Civati) creando la coalizione Liberi e Uguali per Pietro Grasso Premier. Nello stesso tempo la sempre più striminzita falange a sinistra della sinistra si organizza con l'esperimento politico di Potere al popolo che nasce dai centri sociali e ha come punti di riferimento Ferrero, la Carofalo e Acerbo. Alle politiche le due coalizioni della sinistra altenativa alla sinistra non superano la soglia del 5%, ma vanno a succhiare voti a un PD che a marzo le prende di santa ragione con Renzi che, ancora una volta, dà le dimissioni e sparisce (per il momento) dalla scena pubblica. La sedia che scotta della segreteria piddina è affidata ora pro tempore a Maurizio Martina in attesa del congresso fissato per il marzo 2019.

Ultimi della classe (dirigente). Non ci sono in Italia istituzioni politiche, scientifiche o formative unificanti, scrive Francesco Alberoni, Domenica 08/07/2018, su "Il Giornale". Una classe dirigente, ci insegna il grande sociologo Vilfredo Pareto, è formata da tutti coloro che eccellono nella loro attività. Quindi i politici più abili, i giudici più saggi, i giornalisti più ascoltati, i presentatori più seguiti, ma anche gli imprenditori, gli economisti, gli artisti, i registi, gli scrittori, i filosofi, gli scienziati, i professionisti più eminenti. E ha le sue radici nel passato. Il Paese che più di ogni altro ci ha fornito il modello di una grande classe dirigente è stata l'Inghilterra dove c'è stato sempre l'irrompere del nuovo ma anche la sopravvivenza dei poteri tradizionali e il permanere delle grandi istituzioni unificanti. L'Inghilterra è il Paese che innalzava colonne all'eroe Orazio Nelson mentre lasciava morire di fame Lady Hamilton, che glorificava Winston Churchill mentre lo mandava a casa nelle elezioni. Ma anche un Paese che da secoli ha istituzioni scientifico-culturali come la Royal Society, le università di Oxford e di Cambridge e il collegio di Eton dove si è formata la classe dirigente inglese. Non esiste nulla di simile in Italia dove storicamente si sono succeduti gruppi politico ideologici diversi: prima i liberali, poi i fascisti a cui seguono nel dopoguerra i comunisti e i cattolici. Poi la crisi di Mani pulite che ha fatto emergere il potere della magistratura. In seguito, si formano o movimenti o raggruppamenti attorno a un capo come Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo e ora Salvini. Sono gruppi ristretti, formati da amici, conoscenti, simpatizzanti e «clienti» che egemonizzano il potere e creano istituzioni per loro stessi da cui escludono gli altri. Non ci sono in Italia istituzioni politiche o scientifiche o formative unificanti, non c'è una vera, unica classe dirigente. E sembra che a livello popolare non se ne senta neppure l'esigenza. Il politico non viene eletto per ciò che ha dimostrato di sapere fare e non gli si chiede di avere una formazione culturale adeguata. Grillo arriva a sostenere che i parlamentari dovrebbero essere estratti a sorte tra i cittadini. Questa divisione delle élite lascia il potere in mano alla burocrazia che non ha valori, non ha mete, ostacola la creazione e tende solo a crescere su se stessa.

I bulli che umiliano la cultura. Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione così elevata, sia inutile studiare, scrive Francesco Alberoni Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione giovanile così elevata, sia inutile studiare, inutile imparare, inutile prendere bei voti perché tanto, si dice, nella vita si affermano i forti, i corrotti, i violenti, quelli che sanno dominare gli altri, imporre il loro volere. È questo il pensiero che sta dietro il diffondersi del bullismo in tutte le sue forme. Dal piccolo gruppo di studenti che domina sugli altri, deride e si beffa dei più deboli, li mette a tacere, fino ai gruppi più aggressivi che offendono ed insultano anche i professori in modo che perdano agli occhi dei loro allievi l'ultima autorità loro rimasta. E così denigrano la cultura, il sapere, l'unica forza che nel mondo moderno fa avanzare tanto gli individui che i popoli. Gli individui, perché emergono solo coloro che fanno le scuole e le università migliori e i popoli perché solo alcuni hanno i centri di ricerca più avanzati, gli studiosi più apprezzati e una ferrea organizzazione del lavoro. E questo modo di pensare disastroso si afferma anche in politica col principio anarchico che «uno vale uno» quindi chiunque, anche il più fannullone e ignorante, può dirigere un Paese moderno e affrontare le bufere geopolitiche di oggi. Bisogna riporre in primo piano l'idea che lo strumento fondamentale con cui gli esseri umani lottano, si affermano, si rendono utili agli altri, è il sapere, la cultura. In tutte le forme: scientifica, artistica musicale, linguistica, come capacità di scrivere e di parlare, di calcolare e di prevedere. Ma voi provate a domandare alla gente che cosa desidera. Vi risponderà che desidera viaggiare, fare crociere, una nuova macchina, una barca, un nuovo televisore. Nessuno vi risponde che desidera imparare la matematica, il diritto, le lingue, l'economia, la biologia o l'informatica. Le spese per svago e per divertimenti superano paurosamente le spese culturali. Ci sono ancora persone che leggono libri? Solo una minoranza, quella che studia con fermezza e costituirà la futura élite internazionale. E gli altri? Gli altri saranno tutti dei disoccupati e dei sottoproletari. Basta, cambiate direzione, datevi da fare. Siete ancora in tempo, per poco.

Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.

“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.

“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.

“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.

Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:

“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.

“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.

“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.

Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.

PIU’ COMUNISTI DI COSI’?

La legge anti-caporalato? La fece il fascismo nel 1926. E la abolì Badoglio, scrive Antonio Pannullo, mercoledì 8 agosto 2018, su "Il Secolo d’Italia". Il “caporale” è la figura di intermediatore illegale tra latifondista e manodopera non specializzata. È una piaga presente da sempre, e in Italia si è saldata con la criminalità organizzata, soprattutto nel centrosud. La parola “caporalato” è tornata in questi giorni sotto i riflettori a causa degli incidenti che hanno visto coinvolti lavoratori stagionali stranieri in Puglia, ma è un male antico, un male “liberale”. Nel 2016 la Camera approvò la cosiddetta legge anti-caporalato, che però evidentemente non ha avuto effetto sul fenomeno, probabilmente a causa degli scarsi controlli da parte delle autorità. La rivista e blog Italia coloniale però, diretta da Alberto Alpozzi, ci ricorda che il caporalato fu combattuto e sconfitto, come la mafia del resto, dal fascismo, che nel 1926 varò la legge 563, detta “legge sindacale”, perfezionata e modificata fino al 1938 con altre norme tese a “contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”. Italia coloniale ricorda anche che queste rivoluzionarie normative, inserite nel Codice corporativo e del lavoro fascista, valevano oltre che in Italia anche nelle colonie, cosa che contribuì ad abolire nell’Africa italiana la schiavitù e la servitù della gleba, fiorenti fino alla conquista da parte dell’Italia dell’Africa orientale.

Il caporalato era completamente scomparso. In particolare, racconta ancora l’Italia coloniale, due furono i provvedimenti più incisivi: “i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”, provvedimenti non esistenti nella precedente legislazione liberale. Insomma, l’imprenditore poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi, dice ancora la rivista storica. In nessun caso l’imprenditore poteva assumere operai attraverso intermediatori privati, considerati dal fascismo né più né meno che parassiti sociali. Inoltre, ci dice l’Italia coloniale, le richieste di manodopera non potevano essere nominative ma numeriche, per evitare qualsiasi tipo di clientelismo. Se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, poteva ricorrere alla Magistratura del Lavoro. Caporalato e mafia, quest’ultima grazie al prefetto Cesare Mori, furono bandire per qualche anno dall’Italia. Fino al settembre 1944, quando il governo Badoglio con il decreto 287 abolì tutte le leggi della Carte del Lavoro con le conseguenze che oggi ci troviamo a combattere.

Caporali e Operai. La legge fascista anti caporalato valida in Italia e nell’Africa Orientale, scrive Alberto Alpozzi il 18 luglio 2017 su Italiacoloniale.com. (Di Maria Giovanna Depalma). Il Caporale è una figura storica che da sempre si occupa sia di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – che di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe. Un sodalizio che spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che oggi coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione. A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nell’ottobre del 2016, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge anti-capolarato che prevede la descrizione del comportamento punibile e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione” venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale. Ovviamente queste leggi -previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia nella Madre Patria che nelle Colonie, sia per i lavoratori coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana. Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori (non contemplati nel sistema liberale vigente in precedenza): i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato. Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928). Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi. In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti. Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti, accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità (allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti) fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente. Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro attuando la rivalsa del sistema liberale nei confronti di quello corporativo e ripristinando quel principio economico basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta pur di accrescere la propria ricchezza – anche a scapito della collettività e della giustizia sociale. Di Maria Giovanna Depalma.

In una circolare fascista la tutela dei lavoratori somali che i sindacati di oggi dovrebbero leggere, scrive Alberto Alpozzi il 29 maggio 2017 su Italiacoloniale.com. A Genale, poco a sud di Mogadiscio, quando la Somalia era chiamata italiana, vi era la sede dell’Azienda Agricola Sperimentale. Qui, negli ’20 e ’30 del ‘900, si trovava una vasta zona di concessioni agricole, sorrette dal Governo italiano. Le concessioni si estendevano su 30.000 ettari per la coltura del cotone, resa possibile dalla grande diga di sbarramento dell’Uebi Scebeli e dalle numerose canalizzazioni che il Regno d’Italia aveva realizzato. Vi si coltivavano, oltre al cotone, anche la canna da zucchero, il sesamo, il ricino, il granoturco, la palma, il capok e soprattutto le banane. La prima azienda sperimentale a Genale venne creata nel 1912 da Romolo Onor che vi condusse i primi studi tecnici ed economici sull’agricoltura in Somalia. Nel 1918, alla sua morte l’Azienda cadde in disgrazia e quasi abbandonata. Fu il primo Governatore fascista, il Quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon che ne intuì l’importanza e la risollevò, facendone un grosso centro di colonizzazione unico nel suo genere. Fu infatti il primo esperimento di colonizzazione sorretto totalmente dallo Stato, assegnando i terreni a coloni italiani. L’Ufficio Agrario e l’ufficio di Colonizzazione ordinavano e disciplinavano le concessioni e curavano e distribuivano l’acqua per l’irrigazione. Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone. Ma come funzionava la manodopera nelle concessioni e quali erano le direttive del governatore fascista per gestire il comprensorio?

Così scriveva il de Vecchi in una CIRCOLARE del 14 GIUGNO 1926 (vedi “Orizzonti d’Impero”, Mondadori 1935, pagg. 320-327)indirizzata al Residente di Merca: “Le popolazioni indigene hanno risposto allo sforzo dello Stato con una ubbidienza, una disciplina ed uno slancio, di cui non si può a meno di tenere conto oggi ed in avvenire, quando si ricordi che appena poco più di due anni addietro il Governo stentava a mettere assieme in questa regione duecento uomini per il lavoro dei bianchi, che si rassegnavano a lasciar perire ogni impresa per la deficienza della mano d’opera, mentre oggi abbiamo al lavoro nella zona circa settemila persone, senza che mai avvenga il benché minimo incidente da parte delle masse lavoratrici, buone, serie e fedeli; si deve avere ragione di profondo compiacimento, sia per i risultati della politica compiuta, sia per il giudizio sulle popolazioni.” […] Molti dei concessionari, invece di comprendere tutto ciò e di sforzarsi di rimanere nella loro funzione, materialmente la più proficua senza dubbio, di parti di una grande macchina, sono portati da un male inteso individualismo, dominato da un egoismo gretto e da non poca protervia, a credersi ciascuno creatore, operatore e centro della risoluzione di un problema che invero è stato risolto soltanto dal dono fondamentale dell’acqua, della terra e della organizzazione delle braccia che la lavorano, e cioè della Stato per tutti. […] Il Governo ed il Governatore hanno un solo interesse: quello del popolo italiano e cioè quello di tutti. Ogni singolo è parte dello Stato. […] Ho riservata da ultima la questione delle mano d’opera. Ho detto più sopra che il Governo della Colonia ha creduto opportuno di organizzare e guidare questo servizio, ottenendo così quello che può essere ritenuto un miracolo in confronto ai convincimenti prima radicatasi in Colonia ed in Patria nella materia. La soluzione, così pronta e così ferma, del problema ha indotto la massima parte dei concessionari ad attendersi tutto dal Governo ed a credersi in diritto di pretendere che quegli vi provveda ora e sempre, secondo aliquote fisse o variabili createsi nella fantasia degli interessati. Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, di “gente che scappa”, di “forza presente”, come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, per la semplice ragione di aver fatto un viaggio per mare e di aver ottenuto in uso un pezzo di terreno, avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto. Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Singolare come nessun libro di storia coloniale abbia mai ripreso questa circolare fascista, fascistissima, del 1926 del Governatore de Vecchi a tutela dei lavoratori somali, affinché non venissero sfruttati e maltrattati, che non si creasse una qualsivoglia forma di sfruttamento o di caporalato e che sottolineava come in Colonia vigesse il Codice Penale italiano e che era valido per bianchi e neri.

La Resistenza accusata di genocidio. La Corte internazionale dell’Aia accoglie il ricorso del figlio di un milite della Repubblica sociale assassinato senza processo dai partigiani comunisti. Chiede giustizia per altri 400 caduti, scrive Eugenio Di Rienzo, Venerdì 12/03/2010, su "Il Giornale". La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà. Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino». In questo modo, l’International Criminal Court, la cui competenza si estende a tutti crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale, come il genocidio appunto, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, potrebbe intervenire su una vicenda italiana che per tanti decenni è rimasta volutamente occultata dalla storiografia ufficiale ed è sopravvissuta solo grazie alla memoria dei sopravvissuti. Fino alla comparsa dei libri di Giampaolo Pansa (un grande giornalista che sa bene di storia), quanti italiani conoscevano le tristi vicende della caccia al repubblichino, che si aprì dopo il 25 aprile 1945 per protrarsi fino al 1946 e al 1947? Pochi, pochissimi. Soltanto i parenti delle vittime o quanti di noi avevano un amico, un conoscente che visse personalmente quella tragedia. A me capitò di avere questa triste «fortuna» e di apprendere dell’uccisione di un proprietario agricolo dell’Emilia, fucilato insieme al nipote dodicenne, con l’accusa di vaghe simpatie fasciste; della morte di un contadino del bellunese fatto fuori dopo aver rifiutato di vettovagliare una banda partigiana; e del linciaggio di alcuni giovanissimi «ragazzi di Salò» che ora giacciono interrati nel Campo X al cimitero di Musocco a Milano. Ma di tutto questo fino a pochissimo tempo fa neanche un rigo sui libri di storia e ancora oggi nessun accenno nei manuali di scuola che vanno in mano ai nostri giovani. Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito». Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati». Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.

Corte penale internazionale e articolo del giornale..., scrive Silvia Buzzelli su "groups.google.com" il 14/03/10. Scritta e descritta in questo modo mi sembra una notizia-spazzatura perdonatemi. L'art. 11 dello Statuto della Corte penale internazionale stabilisce la competenza ratione temporis a partire dalla "sua entrata in vigore". La Conferenza ONU di Roma istitutiva della Corte risale al luglio 1998. La legge italiana di ratifica ed esecuzione la n. 232 del 1999. Il genocidio sulla base dello Statuto stesso ben altro. E si potrebbe continuare... O il procuratore Ocampo uscito pazzo (come si direbbe a Napoli) o il giornale sta barando. Un saluto fraterno a tutti. Per cortesia, chi avesse notizie le faccia circolare. Silvia. Silvia Buzzelli, professore di procedura penale europea e sovranazionale, facoltà di giurisprudenza Università di Milano-Bicocca, Piazza dell'Ateneo nuovo, 1 20126 Milano.

‎Aleks Falcone su Facebook‎ a Scetticamente il 29 aprile 2016. "Ciao, tra le bufale più o meno revisioniste che appaiono intorno al 25 aprile, mi sono imbattuto in una (presunta) notizia del 2010 secondo cui il figlio di un miliziano della Repubblica Sociale avrebbe ottenuto l'apertura di una inchiesta sulla fucilazione di suo padre, tale Lodovico Tiramani, dalla Corte Internazionale dell'Aia. Ho cercato qualche informazione in proposito, compresa una ricerca sul sito della Corte Internazionale di Giustizia, ma non è saltato fuori nulla. Sembra che la sola fonte della notizia, ripresa pari pari su siti e forum revisionisti, complottisti e di area estremista, sia un unico articolo comparso su Il Giornale il 12 marzo 2010. Stando così le cose, mi sembra una delle tante bufale inventate da quel quotidiano, ma una inchiesta a seguito di un ricorso potrebbe benissimo essere stata aperta e poi magari chiusa senza alcun seguito. Insomma, scetticamente chiedo se qualcuno ne abbia mai sentito parlare.

L'articolo originale, in sintesi, dice che:

- Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale. 

- L’ipotesi di reato è genocidio. 

- La domanda è opera di Giuseppe Tiramani, figlio di Lodovico. 

- L'apertura del procedimento è stata richiesta tramite una memoria, attraverso la consulenza del suo avvocato Michele Morenghi

- Giuseppe Tiramani sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria»".

Risponde Alessandro Tantussi: sarebbe a dire che, secondo te, i crimini della resistenza sono bufale?

Urla dal silenzio. Lettere dei condannati a morte dalla Resistenza. Poco più di due settimane fa, Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte internazionale dell’Aia, ha accolto la domanda di Giuseppe Tiramani che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte del padre, Lodovico Tiramani (milite scelto della Guarda nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, trucidati dalle bande partigiane dopo il 25 luglio 1945. L’ipotesi di reato è genocidio. Il 12 marzo, il Giornale ha dato conto della vicenda con un lungo articolo di Eugenio Di Rienzo. Oggi il figlio di Giuseppe Tiramani, Devis, ci scrive questa lettera alla quale segue la risposta di Di Rienzo.

L'odio antifascista colpisce ancora, riporta Eugenio Di Rienzo, Domenica 28/03/2010, su "Il Giornale". Caro Eugenio Di Rienzo, le scrivo per ringraziarla dell’articolo scritto il 12 marzo scorso riguardante il ricorso presentato da mio padre alla Corte Internazionale dell’Aia. Abbiamo molto apprezzato le parole che ha avuto la bontà e il coraggio di scrivere sul «Giornale». Come può immaginare, la storia della nostra famiglia ha toccato anche me. Io sono arruolato nell’Arma dei Carabinieri dal 1999 e presto tutt’ora servizio presso il Nucleo Radiomobile di Bobbio (Piacenza). Ricordo ancora con amarezza il periodo in cui fui arruolato nella Benemerita, quando la notizia trapelò in paese – Rustigazzo – arrivarono a casa mia alcune telefonate anonime contro di me, «il nipote del fascista». E da quanto ho saputo certe «rimostranze» furono manifestate anche nel comando Stazione Carabinieri cui fui assegnato. Ma preferisco non sapere se sia vero e no…Come vede, caro Di Rienzo, certe macchie non scompaiono nemmeno dopo sessant’anni. Mio padre Giuseppe nella sua vita ha patito ben di peggio. Qualche volta, in rare occasioni, ha raccontato parte delle angherie subite quando era bambino. Mia nonna, mancata lo scorso aprile, mi raccontò di percosse inflitte a papà quando andava a scuola, e di persone che tenevano lontani i loro figli da lui dicendo che era «ammalato» di qualche patologia strana e contagiosa…Mia zia Luisa, la sorella di papà, una volta mi raccontò che in giovane età, attorno ai 18-20 anni, una domenica si recò dopo tanti anni che non la frequentava più nella chiesa del suo paese. Portava al collo una catenella d’oro con un piccolo ciondolo. Qualcuno la avvicinò – non mi disse mai chi fosse – e prendendole la catenina in mano come per strapparla, le disse in dialetto piacentino «e qusta che, chi t’la data?», «e questa qui, chi te l’ha data?», per dire che la figlia di un fascista non poteva indossare nulla che avesse un qualche valore…Ricordo i racconti di mia nonna Pierina, di quando in lacrime mi parlava di quando nonno Lodovico fu rapito e ucciso dai partigiani, e di quando andò a recuperarne la salma insieme al mio bisnonno Giovanni, suo padre. Lo trovarono martoriato e crivellato di colpi. Indosso aveva ancora i suoi cenci (mio nonno era un terziario francescano). Dopo pochi giorni che lo avevano seppellito, mia nonna mi raccontò che alcuni dei «briganti» – così li chiamava lei – passò in località Mulino del Duca ove il mio bisnonno aveva un mulino: lei stava lavando i panni nel torrente Rugarlo, due o tre di loro portando a tracolla dei fucili si fermarono, la guardarono e le chiesero da bere. La nonna, capendo cosa stava succedendo e avendo i suoi due figli in casa, andò in lacrime a prendere da bere, senza proferire parola, sapendo che se si fosse azzardata a parlare avrebbe messo in pericolo la sua stessa vita e quella dei bambini. A quel punto i partigiani sicuri del silenzio di mia nonna si allontanarono dicendole: «E per quella cosa, hai capito vero?». Lei piangendo rispose solo «Sì». E avrei ancora tante altre cose da raccontare…Mio padre ha fondato l’«Associazione vittime dei partigiani», a Piacenza. Spero che la questione aperta con la sua lettera alla Corte Internazionale dell’Aia non si chiuda con un nulla di fatto. Grazie davvero, caro Di Rienzo, per Lei un articolo è sicuramente una questione lavorativa di routine, ma per noi – per la memoria di mio nonno Lodovico e per tutti coloro che come lui sono caduti abbracciando quella che da qualcuno era ritenuta una «causa sbagliata» – una ventata di giustizia, e di onore. Io non so chi, giudicando una guerra, possa concedere o togliere la ragione delle scelte che ogni combattente fa, secondo la propria morale e le proprie convinzioni. Io so che mio nonno fece un giuramento e quel giuramento lo ritenne vincolante fino all’estremo sacrificio. Io stesso ho giurato fedeltà alla Patria per due volte, prima da Alpino e poi da Carabiniere. E sono orgoglioso della divisa che porto e del Giuramento che ho fatto. Il 4 novembre sono voluto andare con papà al Sacrario di Redipuglia. Ho salito quei gradini da solo, in silenzio, indossando il mio cappello da Alpino… Sono arrivato nella chiesetta che lo sovrasta, ed entrando ho letto queste parole scritte sui due lati della chiesa: «Queste pareti custodiscono trentamila Militi Ignoti a noi ma Noti a Dio». Ancora adesso penso a loro, a mio nonno e a tutti i morti, dell’una e dell’altra parte. Mi inginocchiai in quel posto sacro e piansi. Piansi in silenzio per alcuni minuti, prima di salutarli militarmente congedandomi da loro.

Caro Devis Tiramani, scrivere dell’eccidio di suo nonno e delle persecuzioni subite dalla sua famiglia, costretta alla condanna del silenzio su quanto accaduto al loro congiunto, non è stato per me, le assicuro, «una semplice questione lavorativa di routine».  Si è trattato piuttosto di un preciso dovere d’informazione nell’esercizio del quale mi è stato difficile mantenere quel distacco dagli eventi che pure dovrebbe far parte della deontologia dello storico. Per una volta mi è capitato di pensare che il vecchio Benedetto Croce avesse errato affermando che la storia non possa mai essere «giustiziera ma sempre giustificatrice» e di ritenere invece che proprio l’analisi del passato debba essere un’attività che se certamente non può far giustizia non deve però mai cessare di chiedere giustizia. Mi hanno confermato in questa opinione le comunicazioni dei lettori del «Giornale», che hanno riempito la mia casella di posta elettronica nei giorni scorsi, tante da poter formare un volume che sarebbe opportuno intitolare Lettere dei condannati a morte dalla resistenza italiana. Urla dal silenzio di un popolo restato senza nome e senza voce, per troppi decenni, che mi chiedevano di ricordare le uccisioni singole e le stragi di massa che si sono succedute nelle campagne, nei borghi, nelle grandi città del nostro paese. Esecuzioni sommarie di militari della Repubblica Sociale Italiana ma anche assassinii, violenze, stupri efferati perpetrati sui loro familiari e sui tanti, altri responsabili, agli occhi dei «liberatori in casacca rossa», di aver voluto mantenere una parvenza di vita civile nel grande «macello messicano» (come disse Ferruccio Parri) che si scatenò in quegli anni. Perché ad essere colpiti furono anche carabinieri, militari del Regio Esercito, amministratori pubblici, sacerdoti, magistrati, persino medici, avvocati, semplici borghesi, rei di mantenere in piedi, con la loro semplice presenza fisica, quella sottile linea di contenimento che separava l’umanità dalla barbarie. Spinto da queste testimonianze sono ancora una volta disceso nell’inferno di quella stagione di male assoluto, cercando però di non farmi sopraffare dall’orrore, ma tentando al contrario di trovare una ragione giuridica che dia soddisfazione alla domanda di giustizia, senza odio, di cui lei, caro Tiramani, si è fatto interprete, anche a nome di molti altri. Per farlo ho riletto gli atti del processo tenuto presso il Tribunale militare di La Spezia del giugno 2005, con cui si condannavano all’ergastolo, «per crimine contro l’umanità», i soldati tedeschi della sedicesima Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, che, il 12 agosto 1944, massacrarono 560 abitanti del villaggio di Sant’Anna di Stazzema, a ridosso delle Alpi Apuane, accusati di aver dato supporto alle formazioni partigiane. I giudici spezzini motivavano la loro sentenza sostenendo che «la vile ed ignobile azione a Sant’Anna non trovava giustificazione in nessuno stato di necessità bellica ma doveva considerarsi la lucida attuazione di un deliberato proposito, la cui gratuità era andata ben al di là del necessario e dell’immaginabile». Eppure, i carnefici nazisti avevano agito sotto la copertura formale del «diritto di rappresaglia» contro le popolazioni civili, previsto durante le ostilità, dalla Convenzione dell’Aia e di Ginevra. Non così era accaduto per i carnefici di alcune formazioni comuniste (non combattenti di una «guerra per bande», ma molto spesso semplici «banditi») che si macchiarono di gran parte dei loro delitti, dopo il 25 aprile 1945, quando tutta l’Europa aveva deposto le armi. La pietà cristiana vuole, caro Tiramani, che tutti i morti siano considerati eguali (precetto che questo paese per molto tempo ha dimenticato). Quella degli uomini, per quanto imperfetta e tardiva essa sia, ci obbliga però a considerare eguali, dinnanzi al foro della nostra coscienza, anche i loro boia. (Pubblicato il 28 marzo 2010 – «il Giornale»)

Quid est veritas? Scrive Oreste Roberto Lanza Martedì 25 Aprile 2017 su "Basilicatanotizie.net". “Quid est Veritas?”, cos’è la verità, chiede Pilato a Gesù. Gesù non replica perché la risposta è “Est vir qui adest”, è l’uomo che ti sta di fronte. Questo dovrebbe essere il pensiero essenziale della nostra vita, della nostra quotidianità, del nostro passato, presente e futuro. Ricercare la verità come idea predominante del nostro cammino di vita. Il nostro unico pensiero di una giornata. La verità indica il senso di accordo o di coerenza con un dato o una realtà oggettiva, o la proprietà di ciò che esiste in senso assoluto e non può essere falso. Nel dizionario Treccani, la verità viene considerata come il carattere di ciò che è vero. Per Platone la ricerca della verità necessitava di un impegno serio e severo, di una assoluta attenzione, di un uso assiduo di esercizi, e soprattutto di una giusta disposizione di animo. Proprio così. La ricerca della verità ha bisogno di un impegno serio ma soprattutto di un animo pulito e predisposto a dire la verità. È da tempo che molti, ancora pochi, stanno riscoprendo chi l’esigenza, chi il desiderio e tanti altri il dovere morale di dare alla verità il fondamento stabile di una vita normale che è e non può non essere. La storia del nostro passato è il punto di partenza per ricercare la verità. Nel 2012 Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia accolse la domanda che chiedeva l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani, milite scelto della Guardia nazionale repubblicana, e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. Ipotesi di reato, genocidio. Prelevato nei pressi della sua abitazione a Rustigazzo, in provincia di Piacenza nel luglio del 1944, da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Segui la profezia malinconica di Piero Buscaroli, uno dei più importanti musicologi del Novecento, che sentenziò che la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio. Ma grazie ad Ocampo ciò non si avvererà. Nel suo libro “dalla parte dei vinti”, edito da Mondadori, propone una lettura alternativa della storia del Novecento, partendo appunto dalla prospettiva dei vinti del Secondo conflitto mondiale. Vengono così rievocati i massacri partigiani dopo la fine della guerra, taciuti dalla storiografia ufficiale prona al volere dei vincitori e una serie di episodi noti a pochissimi per il medesimo motivo. Un volume che non può lasciare indifferenti, per gli argomenti trattati che risultano scottanti per la mentalità perbenista di una certa sinistra ancorata al mito resistenziale. Pagine di verità indispensabile per chi vuol conoscere la Storia del Novecento al di là delle semplificazioni. Per non parlare del libro di Roberto Beretta “Storia dei preti uccisi dai partigiani”. Il giornalista di Avvenire riesce a ricostruire ben 129 omicidi avvenuti tra il 1944 ed il 1947 prevalentemente in Istria, Emilia e Romagna, da parte di estremisti comunisti a seguito degli eccessi ideologici della Resistenza. Una verità mai detta e mai conosciuta dai tanti. Ma la verità va ricercata anche in un passato ancora più lontano datata 17 marzo 1861. La verità mai detta sulla farsa dell’Unità d’Italia e sul primo campo di concentramento creato nella fortezza di Fenestrelle in provincia di Torino. Il libro di Pino Aprile “Carnefici” ben racconta con carte alla mano le verità non dette di una storia scomoda per i corruttori e i massoni del tempo che letteralmente strapparono la dignità, l’animo e la libertà degli uomini del Sud. E la verità sui Briganti, sulle Brigantesse e le donne dei Briganti. Per non parlare di come la verità continua ad essere nascosta e taciuta nella nostra quotidianità sui tanti documenti, avvenimenti e conflitti a livello mondiali. Diceva Anna Frank “la verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta”. Penso invece che nel tempo dell'inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario. E i rivoluzionari sono quelli che restano in piedi anche dopo la morte.

Ucciso dai partigiani, il figlio ricorre all’Aja. Lega: “Vicenda dimenticata, stop all’indottrinamento della sinistra”, scrive il 14 agosto 2017 "Piacenza24.eu". “Stop all’indottrinamento culturale della sinistra. Piena solidarietà a Lodovico Tiramani e a tutte le vittime dimenticate dalla storiografia ufficiale». È l’input lanciato dalla segreteria provinciale della Lega Nord, che riprende un caso di qualche anno fa “occultato dai mezzi d’informazione, nonché emblema dell’attuale dittatura ideologica” relativo al ricorso alla Corte internazionale dell’Aja che il piacentino Giuseppe Tiramani, figlio di un milite della Repubblica sociale, ha presentato per l’assassinio senza processo compiuto dai partigiani comunisti contro suo padre. “Non se n’è parlato abbastanza, ma è giusto riportare l’attenzione su questo caso significativo – esordisce il Carroccio – tempo fa, Luis Moreno Ocampo, l’allora procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia, accolse la domanda che chiedeva l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani, milite scelto della Guardia nazionale repubblicana, e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato era genocidio. Secondo la ricostruzione di Giuseppe, il padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel luglio del ’44 da un gruppo della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria e ritrovato crivellato di colpi. Oltre a testimoniare il nostro appoggio alla vittima di questo terribile avvenimento, chiediamo di riportare alla luce la questione nel nome della giustizia”. “Stiamo assistendo all’affermazione di una nuova forma di fascismo – prosegue la Lega Nord – che vuole omologare il dibattito, unificare le opinioni e nascondere le nefandezze di certe componenti politiche. Il comunismo, durante la Guerra di Liberazione, ha compiuto atti inammissibili che devono essere ricordati e puniti. Il primo passo per farlo, chiaramente, sarebbe quello di ammettere una visione più oggettiva – e non condizionata a priori – anche sui banchi scolastici, dando spazio a una serie di opere scritte. Per esempio, affrontando il saggio storico “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che racconta le falsità della Resistenza, gli orrori perpetrati dai partigiani, le esecuzioni commesse dopo il 25 aprile 1945 a Liberazione ormai compiuta, verso fascisti e presunti tali o antifascisti non comunisti”.

Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Saviano è il vero intoccabile. Vietato fare satira su di lui. Chi ha provato a scherzare sullo scrittore, da Zalone ai comici Luca e Paolo, è stato subito messo a tacere, scrive Nino Materi, Lunedì 25/06/2018, su "Il Giornale". Scherza con i santi, ma lascia stare Saviano. Giù le mani da Roberto. E poco importa se la mano è quella - innocua - che potresti mettere davanti alla bocca, magari solo per soffocare un inizio di risata. Perché in Italia si può fare ironia su tutti (compresi Papa e presidente della Repubblica), eccetto che sullo scrittore di Gomorra. Chi si è cimentato con la sua parodia, ha subito avvertito la stessa piacevole sensazione di mettere le dita in una presa di corrente. Insomma, Saviano come i fili dell'alta tensione. E una bella scossa, nel corso degli anni, se la sono presa i pochi coraggiosi che hanno tentato di imitarlo comicamente. Niente di pesante, per carità: appena una bonaria presa in giro del suo eloquio da santone in perenne trance sciamanica; del suo incedere messianico sulle acque procellose dell'antimafia; delle sue pause meditative da salvatore della patria in servizio h24; del suo grattarsi la pelata come se pensieri e preoccupazioni fossero solo una sua esclusiva; del suo sapiente gesticolare ostentando più anelli di J-Ax e Fedez messi insieme. Un minimo sindacale satirico che, tuttavia, si è rivelato più che sufficiente per far scendere il «guitto» di turno a più miti consigli. Lo sa bene il grande Checco Zalone che, in uno show televisivo, vestì i panni di uno sfigatissimo Saviano cui tutte le ragazze davano il due di picche «perché la camorra ha il monopolio della f...». Saviano (personaggio che notoriamente non brilla per autoironia), invece di riderci su, si risentì. E con lui si attapirarono tutti i suoi fan secondo i quali «ironizzare su Saviano equivale a fare un favore ai camorristi». Risultato: Checco Zalone, da quella volta, non si «permise» mai più di imitare lo scrittore più scortato del mondo. Stessa parabola censoria anche per il duo comico Luca e Paolo che, addirittura dal palco del Festival di Sanremo, si azzardarono a punzecchiare Roberto, ricordandogli come alcune delle sue denunce equivalessero un po' alla scoperta dell'acqua calda. Apriti cielo. I due artisti furono immediatamente redarguiti dal rigoroso «funzionario Rai» che suggerì loro di «occuparsi d'altro». Meno clamorosa, ma altrettanto deciso il consiglio a «non insistere sull'argomento» indirizzato al cabarettista Sergio Friscia, «reo» di animare un Saviano un po' troppo bozzettistico. La stessa «colpa» attribuita pure ad altri due colleghi di Friscia: Cristian Calabrese, autore di uno sketch dal titolo dissacratorio, Zero Zero Zero ed Enzo Costanza protagonisti di una serie di video esilaranti, ma ritenuti non propriamente savianolly correct. In questi casi non risulta un intervento diretto del giornalista finalizzato a zittire i suoi epigoni parodistici, ma alcune sue dichiarazioni esprimono bene il concetto che Saviano ha rispetto alla creatività umoristica: «La creatività fa, non commenta. E i The Jackal ne sono un esempio». Ma perché mai ai comici dovrebbe essere precluso il diritto al «commento»? e, poi, chi sono «The Jackal»? Al primo quesito Saviano non ha mai risposto; facile invece la risposta al secondo: si tratta di un gruppo di brillanti filmaker che devono il successo a video-parodie cliccatissime su youtube, la più celebre delle quali è: Gli effetti di Gomorra sulla gente. In questo caso, per non correre rischi, Saviano ha voluto prendere parte direttamente ad alcuni ciak. Motivo? I maligni dicono: «Per accertarsi di non essere preso in giro». Intanto lui, un giorno sì e l'altro pure, dà del «buffone», «razzista» e «codardo» al ministro dell'Interno. A offese invertite, Salvini sarebbe già stato costretto alle dimissioni.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

Dr Antonio Giangrande

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.

L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.

Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 

Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.

Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.

Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.

Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);

Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);

Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);

Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);

Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);

Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).

Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.

Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.

Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.

Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".

Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.

Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?

Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.

Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.

«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?

Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.

Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;

Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;

Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;

Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;

Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;

Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;

Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;

Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;

Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».

Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.

Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.

In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.

Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.

A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.

Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby. 

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

A chi votare?

Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.

Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).

A costui si deve rispondere:

Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?

I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.

Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.

La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.

Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.

Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.

Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.

Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.

E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.

L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.

Quindi io non voto.

Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.

Se nessuno votasse?

In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…

Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

La politica italiana? Tutta chiacchiere e distintivo…Stemmi, coccarde pins, badge, spillette, l’irresistibile fascino dei simboli: dai fasci littori, alle falci e martello, dal tricolore di Forza Italia, allo spadone di Alberto da Giussano. E intanto spuntano le stelle dei nuovi sceriffi, scrive Fulvio Abbate l'1 luglio 2018 11 su "Il Dubbio". Implacabili, i distintivi, sono riapparsi nelle asole delle giacche di alcuni compunti politici. Segnatamente leghisti o anche membri di Forza Italia, Berlusconi a fare da esempio. A proposito di quest’ultimo, forse, rammenterete l’esemplare che, magico, luccicava a favore di telecamera durante un suo messaggio registrato alla Nazione, al «Paese che amo», forse il distintivo più ipnotico degli ultimi decenni, Silvio come Mandrake. Personalmente, perdonate la presunzione, conosco l’argomento, anzi, è il collezionista di questo genere di accessori politici che riflette ad alta voce, consapevole del valore simbolico da dare a questa noticina che fa proprio caso al ritorno trionfale del distintivo da occhiello: segno, appunto, identitario, di appartenenza, supplemento di orgoglio e talvolta perfino di velata minaccia. Nella storia nazionale, il periodo che più ha dato fulgore ai distintivi, lo si sappia, combacia con il “ventennio”. Durante il fascismo, non c’era infatti organizzazione legata più o meno formalmente al regime che non ne mostrasse almeno uno, ufficiale, a corredo ulteriore dell’abbigliamento, iniziando dalla proverbiale “cimice” del PNF, il Partito Nazionale Fascista. Così continuando con la ginnica GIL ( Gioventù Italiana del Littorio), la ricreativa OND ( Opera Nazionale Dopolavoro), la fanciullesca ONB ( Opera nazionale Balilla), compreso perfino ogni singolo evento civico, sportivo o di semplice beneficenza, Littoriale, inaugurazione di Fiera campionaria o Giornata delle Due Croci, cioè campagna antitubercolare, distintivi sempre lì, ora con fascio tradizionale o talvolta stilizzato con modalità perfino cubo- futurista, opportunamente bene in pubblica vista tra tukul, elmetti, pugnali, teschi e gladio, obelischi di Axum, Arco dei Fileni, ecc…Con l’avvento della Repubblica e delle conseguenti istituzioni democratiche, le ditte produttrici – Lorioli e Johnson, in testa hanno comunque, almeno inizialmente, resistito; nell’immediato secondo dopoguerra ogni partito risorto dalla clandestinità ne forniva ai propri tesserati o semplici simpatizzanti, così la falce e martello dei comunisti di Togliatti, idem i socialisti di Nenni con incluso libro e sole dell’avvenire, i liberali, i repubblicani con l’Edera, fino al “torchietto” del Fronte dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, ufficioso progenitore dei 5 stelle di Grillo, con l’omino schiacciato dalla burocrazia statale “infame”… Senza dimenticare lo Scudocrociato di De Gasperi e Scelba. Tornando al fascismo, durante i giorni delle “sanzioni”, 1935, si riuscì perfino a coniarne un modello che innalzava una frase- monito del giornalista Mario Appellius: «Dio stramaledica gli inglesi». E ancora, in ambito assai più prosaico, altri, temendo l’introduzione di una multa per gli scapoli, soprattutto in tempo di campagna demografica, ne realizzarono una serie sul cui smalto figurava: “Meglio la tassa che la suocera”. Restando in tema, aggiungo ancora che le madri prolifiche ottenevano addirittura una decorazione con fiocchi di alluminio apposti sul nastrino a indicare il numero di figli “generosamente offerti alla Patria” così come l’oro delle vere nuziali. Intendiamoci, anche i paesi del socialismo reale, cominciando dall’Urss, non si sono mai fatti mancare nulla in quest’ambito propagandistico, e forse, cosmonauti a parte, l’acme della produzione risale al 1970, centenario della nascita di Lenin. Culturalmente ragionando, il distintivo serve a mostrare appartenenza, un’orgogliosa indicazione del proprio status politico: noi siamo questo, chiaro? Dimenticavo, nei giorni del Littorio il distintivo era comunque un obbligo, sono giunte fino a noi fotografie dove perfino Luigi Pirandello mostra la “cimice” sull’abito antracite. Si racconta ancora che il giorno stesso della Liberazione molti cittadini se ne disfecero nei tombini, lo sanno bene gli addetti alla pulitura di questi, periodicamente svuotando le fogne, ancora adesso, c’è modo di rinvenire pezzi, compresi quelli dell’Asse Roma-Tokio-Berlino, della Milizia o perfino i teschi delle Brigate nere o dei “Moschettieri del Duce” (sic). Se nel caso della bandiera di Forza Italia di Berlusconi, stesso stilema iconico del trascorso simbolo del Partito comunista italiano, il distintivo corrisponde a un segno, non sembri un bisticcio di parole, di distinzione “borghese”, come nel caso di coloro che appartengono alle organizzazioni para- massoniche quali Rotary e Lions, l’esempio dei leghisti suona quasi come segno di riconoscimento militare, razziale, superiore, di una superiorità tuttavia regionale, circoscrizionale, da ronda di quartiere, da alto portierato, guardiania, quasi che Salvini ne abbia raccomandato implicitamente, perfino a dispetto del ruolo istituzionale, l’uso quotidiano a tutti i suoi, Alberto da Giussano a campeggiare come un Belfagor, spadone ammonitore. Non c’è leghista maschio che partecipi a talkshow che non lo mostri; estremizzando, torna il ricordo dei deputati nazisti sugli scranni del Reichstag tutti rigorosamente in divisa. È vero, e lo sappiamo, sempre ragionando di distintivi, e ancora di “pins” e di “spillette” come succedanei nel tempo, si può fare altrettanto ritorno al Club di Topolino con i suoi “ispettori” o “governatori generali” a due o tre stellette, o magari alla “girandola” del Club del Corriere dei Piccoli e perfino alla “G” di “Giovani”, il rotocalco beat della fine degli anni Sessanta celebre per i suoi “manifesti”, e tuttavia, nonostante queste altre piccole gemme inoffensive della nostra memoria bambina, ciò che infine resta, sembra raccontare invece una sorta di militarizzazione civile, roba angusta e piccina per un Paese che volesse prendere il volo definitivo dalla subcultura rionale del «… lei non sa chi sono io!». Chiacchiere e distintivo, diceva quell’altro, quasi a ventilare il passo successivo al segno intimidatorio corrispondente alla vista della stella di sceriffo, una parola ancora ed ecco sbucare anche il furgone- cellulare sia della squadra politica sia della “buon costume”. Per non parlare dei contrassegni di riconoscimento che i nazisti formalizzarono ora per gli ebrei ora per i politici ora per gli “antisociali”, e non occorre una laurea in semiologia per capire il nostro semplice ragionamento, o forse, sì, assodato il disprezzo per la complessità culturale che certi signori al governo oggi mostrano come ennesima patente di orgoglio piccolo- borghese.

Così il Pci preparava l'insurrezione in Sicilia. Nel '45 il partito impartì direttive per scatenare la rivolta armata. Ma qualcosa andò storto, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 30/07/2018, su "Il Giornale". Armi. Fondi riservati. Militanti da addestrare. Si, ci sono tutti gli elementi per preparare un'insurrezione in quel pezzo di carta scovato dalla professoressa Gabriella Portalone. Un documento eccezionale perchè per la prima volta si parla, dall'interno del partito, del mitico apparato paramilitare del Pci, da sempre evocato e mai dimostrato. Certo, su scala ridotta, perchè ci muoviamo all'interno del perimetro siciliano, probabilmente nei mesi immediatamente successivi alla fine della Guerra, forse fra la primavera e l'estate del 1945, ma la circolare porta la firma pesantissima di Ruggiero Grieco, dirigente di primissimo piano del partito, appartenente all'ala «dura» guidata da Pietro Secchia. Grieco si rivolge «ai compagni segretari delle Federazioni provinciali siciliane» e a loro impartisce direttive precise: «Intensificare la propaganda fra le masse contadine al fine di ottenere, attraverso l'occupazione delle terre, l'applicazione del lodo mezzadrile non ancora accetto ai latifondisti siciliani». Siamo dunque nel pieno della questione agraria, esplosa con la modifica dei vecchi assetti: i mezzadri, secondo i decreti Gullo del 1944, avevano diritto al 60 per cento dei raccolti, superando la vecchia divisione a metà con i padroni. Ma le misure appena varate furono oggetto di interminabili contese e discussioni e alla fine, dopo estenuanti trattative, si stabili che in caso di eccedenze si poteva tornare alla vecchia divisione del 50 per cento. Questo è lo sfondo, in una Sicilia in cui si confrontano i padroni, i contadini, gli indipendentisti, i mafiosi. Qui però più del contenuto conta il metodo: «In caso di resistenza reazionaria appoggiata su elementi mafiosi - prosegue la circolare che è scritta a mano, reca la dicitura riservata, ed era conservata nell'archivio Guarino Amella di Canicatti - non rifuggire da atti di violenza i quali serviranno a creare le premesse per l'intervento degli speciali reparti di polizia già all'uopo dislocati in Sicilia». Insomma, si va verso lo scontro con un cinismo scientifico. I passaggi sono presto delineati e non lasciano nulla al caso: «Attirare in seno alle organizzazioni del partito i reduci... sfruttando lo stato di disagio economico dei disoccupati. E incitarli contro le classi abbienti da definirsi reazionarie e affamatrici del popolo». Siamo al terzo punto, quello decisivo: «Intensificare, usando i fondi necessari all'uopo destinati, l'incetta delle armi con speciale riguardo a quelle automatiche e accelerare la formazione e l'istruzione delle squadre di emergenza». Ancora: «Informare con sollecitudine questo esecutivo dell'entità delle forze mobilitate in conformità al piano B». Da ultimo: «Investigare... e segnalare i nominativi di quei proprietari che non hanno consegnato i prodotti contingentati all'ammasso, in modo da poter all'occorrenza, effettuare prelevamenti giustificati con l'illegalità del loro possesso». Siamo, come si vede, davanti a uno scenario preinsurrezionale, come altre volte in quell'epoca difficile e turbolenta. Ma qui, in più, ci sono quei riferimenti cosi suggestivi e precisi alla macchina da guerra del partito: «La circolare - scrive Portalone in un saggio che verrà pubblicato dalla rivista Storia e politica dell'Università di Palermo dove la studiosa ha insegnato per molti anni - ha un'enorme importanza a livello storiografico. Infatti, per la prima volta troviamo direttamente nello scritto autografo di un dirigente comunista, la conferma dell'esistenza di un apparato paramilitare del partito o, quantomeno la preparazione dello stesso e il progetto, seppure limitato alle province siciliane, di un'insurrezione armata. Si parla di incetta di armi, preferibilmente automatiche e di fondi appositamente adibiti allo scopo, di arruolamento e addestramento di uomini per combattere la resistenza degli agrari. Finora - è la conclusione - le notizie che si avevano sull'apparato paramilitare comunista si fondavano su ipotesi più o meno concrete, o su informazioni ottenute per via indiretta, ma non si era mai trovato un documento del partito che ne accertasse l'effettiva esistenza». Ora la scoperta casuale di quel «biglietto stropicciato» fra le carte della Fondazione Guarino Amella riapre la questione e pone le basi per ulteriori ricerche. «Fino ad oggi - conferma Francesco Perfetti, uno dei più autorevoli storici italiani e firma del Giornale - l'esistenza della faccia nascosta del Pci ci era giunta soprattutto dalle informative dei servizi segreti e delle forze di polizia. In questo senso la circolare Grieco», sulla cui autenticità sembrano non esserci dubbi, «rappresenta un passo in avanti». Ed è interessante una coincidenza, messa in evidenza proprio da Portalone: «Nel 1947 alcuni delatori anticomunisti avevano raccontato come, almeno in Piemonte, l'apparato clandestino del Pci fosse guidato proprio da Grieco».

STORIA: DE GASPERI NEL '48, C'E' PIANO PCI PER GOLPE. RICOSTRUZIONE STORICO SECHI SU ''NUOVA STORIA CONTEMPORANEA'', scrive il 13 dicembre 2003 l'Adnkronos. Nell'autunno del 1947 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi fu informato, riservatamente, sia da fonti diplomatiche che da organi di polizia, di piani segreti del Partito comunista italiano per arrivare ''al potere con il mitra'' anzichè con le schede elettorali. Nell'estate del 1948, subito dopo l'attentato a Palmiro Togliatti, quel piano, fece sapere il leader democristiano al governo, era più che un progetto teorico. E' questa la ricostruzione che offre del pericolo di un cosiddetto “golpe rosso” lo storico Salvatore Sechi, ordinario dell'Università di Ferrara, nel saggio “I comunisti italiani e il centrismo”, che sarà pubblicato sul prossimo fascicolo della rivista ''Nuova Storia Contemporanea'', diretta dal professor Francesco Perfetti, in libreria il 20 dicembre. I rapporti, anche dettagliati, di piani messi a punto dalle formazioni armate comuniste (talvolta ribattezzate di recente 'gladio rossa') erano sul tavolo del ministro dell'Interno Scelba fin dal novembre del 1947. Se tuttavia all'epoca, Scelba si mostrò ancora scettico sulla reale minaccia - afferma Sechi sulla base di documenti dell'Archivio Centrale dello Stato - il dossier sul “golpe rosso” si gonfiò con il passare del tempo. Fu lo stesso De Gasperi, nella riunione del Consiglio dei Ministri del 15 luglio 1948, a informarne il governo con toni allarmati all'indomani dell'attentato a Togliatti: ''I comunisti hanno un piano pronto che intendono attuare al momento opportuno (...) Si può affermare o meno che vogliano porlo in atto, ma il piano, con il pericolo di una dittatura comunista, esiste''.

SALVATORE SECHI PROTESTA "IL PCI MI NEGA LA CATTEDRA", scrive "La Repubblica" il 10 maggio 1984. Salvatore Sechi il docente universitario dimessosi dal Pci dopo lunghe polemiche non otterrà una cattedra nel capoluogo emiliano per motivi politici? Lo afferma lui stesso dicendosi vittima di una manovra ordita dal presidente della facoltà di scienze politiche, Umberto Romagnoli, iscritto al Pci. Ma quest' ultimo definisce "fantasioso" l'episodio, negando qualunque discriminazione nei confronti di Sechi. La facoltà due mesi fa ha chiesto un trasferimento di cattedra per "storia dei partiti e dei movimenti politici". Al concorso sono giunte due domande, quella di Sechi (insegna a Ferrara) e quella di Paolo Pombeni ordinario a Sassari, bel nome accademico bolognese. A questo punto secondo Sechi - che ha portato un comunicato alle agenzie di stampa - scatta la congiura. Romagnoli organizza un referendum telefonico pro o contro Sechi e forma una commissione dalla quale - sempre secondo l'ex comunista oggi vicino al Psi - vengono esclusi pur avendone diritto suoi amici a beneficio di suoi nemici (altri docenti comunisti e democristiani). Il tutto per negargli la cattedra. Molto diversa la versione del preside Romagnoli. "Chi decide - dice - è il consiglio di facoltà, il quale deve ancora riunirsi. Non c' è stato alcun referendum telefonico e quanto afferma Sechi è quasi completamente errato. Comunque posso assicurare che la decisione verrà presa tra una decina di giorni sulla base dei pareri dei vari dipartimenti e senza alcuna discriminazione politica".

IL CASO/ Dossier Mitrokhin e politica, quando i pm difendono la libertà di ricerca. La Corte d'appello di Bologna ha assolto Salvatore Sechi da un'accusa e da un tentativo rivolto a limitare fortemente la libertà di critica e di ricerca, scrive Max Ferrario il 22 gennaio 2018 su "Il Sussidiario". Il primo dicembre scorso la Corte d'Appello di Bologna ha assolto con la formula più ampia ("perché il fatto non sussiste") il prof. Salvatore Sechi, collaboratore del sussidiario (le motivazioni sono state comunicate un paio di giorni fa). L'ex capogruppo dei diessini (ora aderente ai Liberi e uguali di Pietro Grasso) nella Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin, Valter Bielli (difeso dall'ex pm bolognese avvocato Libero Mancuso), insieme al giudice Alessandro Mancini, aveva accusato Sechi di averlo diffamato. In due suoi articoli sui quotidiani L'Opinione (28 novembre 2006) e sul Corriere della Sera (29 novembre 2006) Sechi lo avrebbe presentato come sodale del servizio segreto sovietico, il Kgb. Si tratta di un'accusa che Sechi ha sempre negato. La sua assoluzione è una buona notizia anche per i giornalisti e più in generale per il mondo dei ricercatori e degli studiosi. Fare informazione, magari traendola dai risultati degli studi di docenti universitari e semplici cittadini che consultano archivi e rinvengono documenti interessanti, nel nostro paese è diventato sempre più difficile. E comunque comporta un rischio non solo in termini penali. Bisogna infatti tenere conto anche delle spese, per non parlare del grande stress e della perdita di tempo per l'estrema lunghezza dei processi. Ma la notizia dell'assoluzione di Sechi non si è ancora asciugata che dobbiamo segnalarne un'altra. A Pescara, alla fine di un dibattito per la presentazione del libro di Elena Aga Rossi (Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito, il Mulino, Bologna 2016) a finire sotto inchiesta giudiziaria sono stati uno dei giornalisti più noti e potenti, Paolo Mieli, e un cronista del Corriere, Giovanni Morandi. Avrebbero contribuito alla de-mistificazione della tragedia che si consumò a Cefalonia. Nel 1943 la divisione Acqui, col suo comandante Antonio Gandin, fu decimata orrendamente dall'esercito tedesco per non essersi arresa e non aver collaborato con essi. Molto opinabile è stata invece la storia che ha raccontato, e fatto diffondere per decenni, il gen. Apollonio, come ha dimostrato Elena Aga Rossi. Una vicenda dello stesso tipo è avvenuta qualche tempo fa tra l'ex ministro Francesco Storace e un gruppo di intellettuali di destra legati a Gianfranco Fini. A sinistra come a destra, dunque, l'obiettivo sembra essere quello di rendere sempre più difficili, se non impossibili, inchieste, studi e ricerche su eventi cruciali della nostra storia più recente. L'aria si sta facendo pesante perché chi usa l'arma della querela non intende demordere. Infatti nel caso di Sechi l'assoluzione ha avuto luogo in Corte d'Appello di Bologna. I magistrati (presidente Luca Ghedini, consiglieri Sergio Affronte e Giuliana Mori, procuratore generale Gianluca Chiapponi) hanno ribadito il giudizio emesso il 30 marzo 2012, cioè circa 5 anni prima, dal Tribunale monocratico di Forlì guidato da Massimo De Paoli. Dunque, si è voluto proseguire nella kermesse (se così possiamo chiamarla) trasferendola dal primo al secondo grado di giudizio. Nel caso specifico del nostro collaboratore la materia del contendere ha due aspetti. La prima riguarda la mancata candidatura per un terzo mandato parlamentare (dopo 12 anni) del Bielli. Secondo l'accusa, l'articolo del prof. Sechi sul Kgb avrebbe indotto la federazione diessina di Forlì e il segretario Piero Fassino a non ripresentarlo. In realtà, l'on. Bielli dieci mesi prima che L'Opinione e il Corriere della Sera pubblicassero l'articolo di Sechi aveva annunciato spontaneamente ad un quotidiano locale, Romagna oggi, che non intendeva candidarsi. L'accusa mossa al nostro collaboratore non aveva dunque nessun fondamento nella realtà. Il secondo aspetto è di natura storico-politica. Sechi è stato consulente della Commissione sul dossier Mitrokhin presieduta dal sen. Paolo Guzzanti, che lo ha nominato col consenso dei rappresentanti di tutti i partiti per i suoi studi sul comunismo e la sua attività di docente universitario. Durante il lavoro svolto per conto della Commissione si è occupato della penetrazione del contro-spionaggio sovietico nelle istituzioni, nell'economia, nelle forze armate e in seno agli stessi partiti (compreso il Pci). Contestualmente i suoi interessi sono stati rivolti alla formazione, per un certo periodo di tempo durante la guerra fredda, di una struttura para-militare tra i comunisti italiani. "Non ho mai considerato il Bielli una spia del Kgb — ha detto Sechi —. E credo che il Kgb non abbia mai mostrato interesse né a reclutarlo e neanche a contattarlo. Pertanto non ho mai avuto rapporti con lui. Né di lavoro (non è uno studioso) e neanche per prendere un caffè. L'accusa che mi ha mosso è stata puramente pretestuosa. Ma su di me e sulla mia famiglia ha avuto pesanti conseguenze. L'abbiamo vissuto come una sorta di avvertimento". Chi vive di stipendio o di pensione non può far fronte sorridendo allo stress che comporta la richiesta, fatta dal Bielli (titolare di un vitalizio di circa 4.500 euro per 12 anni di mandato parlamentare), di un risarcimento di oltre 150mila euro. Al pari di Sechi, la maggior parte degli studiosi del comunismo non sono in grado di correre il pericolo di soccombere in un processo che abbia questa pesante posta in gioco. Per questa ragione l'insistente tentativo dell'on. Bielli di far condannare da due tribunali lo studioso bolognese equivale ad una minaccia all'esercizio non solo del diritto di critica, ma alla stessa libertà di ricerca. Proprio su questi due elementi hanno insistito i difensori di Sechi (Marco Zanotti e Massimo Donini, professori di diritto penale nelle università di Bologna e di Modena). Sono valori della cultura e della civiltà liberale. Uno dei maggiori rappresentanti dell'illuminismo francese Jean-Baptiste Le Rond (detto d'Alembert) fin dal Settecento ha identificato il ruolo dell'intellettuale nella critica del potere, di tutti i poteri. Fa ben sperare anche ai giornalisti che la loro salvaguardia abbia trovato accoglimento nella sentenza emessa dal presidente del Tribunale bolognese Luca Ghedini.

Palmiro Togliatti. Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano! Senza dubbio! Il nostro obiettivo è la creazione nel nostro Paese di una società di liberi e di eguali, nella quale non ci sia sfruttamento da parte di uomini su altri uomini, scrive "ilviaggiodellacostituzione.it". Palmiro Togliatti nasce a Genova il 26 marzo 1893. La sua famiglia è originaria di Coassolo, in provincia di Torino. Presto si trasferiscono in Liguria, dove il padre, Antonio, è economo presso il Convitto Nazionale di Genova mentre la madre, Teresa Viale, è insegnante. Grazie a una borsa di studio il giovane Togliatti riesce a iscriversi all'Università di Torino e, orientato da Gramsci, nel 1914 aderisce al PSI. Appassionato di Hegel, Marx, Labriola e Croce, dopo la laurea in Giurisprudenza vorrebbe conseguire quella in Filosofia ma lo scoppio della Prima guerra mondiale rovina i suoi piani: riformato per miopia al corso allievi ufficiali sceglie di arruolarsi volontario, prima nella Croce Rossa e poi negli Alpini. Congedato si sposta a Torino dove inizia a collaborare con il Grido del Popolo, il settimanale socialista diretto da Gramsci, con l’edizione torinese dell'Avanti! e successivamente con Il Comunista. Dopo la "marcia su Roma" la situazione precipita: Bordiga e molti altri dirigenti del partito sono arrestati dalla polizia fascista: lo stesso Togliatti è arrestato a Milano. Passa tre mesi in carcere a San Vittore e torna in libertà. Inizia per lui un periodo molto intenso: cura la nascita del quotidiano l'Unità e collabora alla campagna elettorale che porterà Antonio Gramsci all’elezione come deputato. Nuovamente arrestato perché considerato "comunista pericoloso", ottiene l'amnistia dopo 4 mesi di carcere. Si sposa con la “compagna” Rita Montagnana e si trasferisce a Mosca, dove inizierà un esilio di diciotto anni in diversi Paesi, dalla Svizzera alla Francia, dall’Unione Sovietica alla Spagna. Tornato in Italia il 27 marzo del 1944, Togliatti promuove quella che passerà alla storia come "la svolta di Salerno", ovvero il raggiungimento di un compromesso tra i partiti antifascisti, la monarchia e il governo di Pietro Badoglio per consentire la formazione di un governo di unità nazionale. Alla fine della guerra, la situazione era tale che non ci sarebbe stato difficile prendere il potere ed iniziare la costruzione di una società socialista. La gran parte del popolo ci avrebbe seguito. Liberata Roma dai nazifascisti nasce il governo Bonomi, a cui Togliatti prende parte come ministro senza portafoglio, ed è istituita la Luogotenenza del regno. Nel secondo governo Bonomi Togliatti è vice presidente del Consiglio e sarà ministro di Grazia e Giustizia nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi. Eletto all'Assemblea Costituente nel 1946 e confermato deputato nella II, III e IV legislatura, Togliatti contribuisce alla stesura del testo costituzionale. Andando di nuovo contro il partito, si impegna per l'approvazione dell'articolo 7, quello che rimanda ai Patti Lateranensi per la regolamentazione del rapporto tra Stato e Chiesa. L'estromissione dei comunisti dal governo nel 1947 porta Togliatti a organizzare insieme a Pietro Nenni l’opposizione alla DC. Lo stesso anno si separa da Rita Montagnana e inizia una relazione con la giovane deputata Nilde Iotti, che gli sta accanto anche il 14 luglio 1948, quando Togliatti, all'uscita da Montecitorio, è raggiunto da tre colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata dal giovane esaltato Antonio Pallante. All’attentato seguono diverse e violente manifestazioni di protesta in tutta Italia. Guarito, torna alla guida del PCI in un momento in cui il comunismo europeo è sotto attacco, con la rivolta polacca di Poznan e quella ungherese contro il regime stalinista. Con il XX Congresso del Partito Comunista guidato da Krusciov inizia il processo di destalinizzazione. Per Togliatti è il momento di guidare il PCI alla pace e chiede con insistenza un accordo tra comunisti e cattolici “per salvare la civiltà umana". Il 21 agosto del 1964, poche ore prima di essere colto dal malore che lo porterà alla morte nella città di Yalta, Togliatti consegna alla compagna di partito Nella Marcellino il documento riservato che passerà alla storia come Memoriale di Yalta, fonte di ispirazione per la politica estera dei comunisti italiani negli anni a seguire.

L’attentato a Palmiro Togliatti, 70 anni fa, scrive sabato 14 luglio 2018 "Il Post". Venne colpito da tre colpi di pistola sparati fuori da Montecitorio da uno studente, e per qualche giorno sembrò che in Italia stesse per iniziare una rivoluzione. Alle 11.45 del 14 luglio 1948, settant’anni fa, l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti stava uscendo da Montecitorio, il palazzo di Roma dove ha sede la Camera dei deputati, quando lo studente Antonio Pallante gli sparò tre colpi di pistola. Erano passati tre mesi dalle prime elezioni politiche della storia repubblicana, in cui la Democrazia Cristiana aveva sconfitto i comunisti e i socialisti, e il clima politico e sociale in Italia era molto teso. Togliatti sopravvisse, ma l’attentato ebbe comunque grosse conseguenze: in tutta Italia furono organizzati scioperi e cortei di protesta e per qualche giorno sembrò che stesse per iniziare una guerra civile, o una rivoluzione comunista. Nei giorni successivi ci furono violenti scontri tra la polizia e i manifestanti: morirono in tutto 30 persone e altre 800 furono ferite.

L’attentato. Pallante era uno studente di giurisprudenza fuoricorso di 24 anni. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile 1948 aveva militato per il Blocco Democratico Liberal Qualunquista, un piccolo partito nato da una scissione del movimento antipolitico Fronte dell’Uomo Qualunque, quello da cui deriva il termine “qualunquismo”. Anni dopo, raccontando dell’attentato a Togliatti, Pallante disse che in quel periodo era animato da un «nazionalismo portato all’estremo». Pallante acquistò una pistola e andò a Roma da Randazzo, in Sicilia, dove viveva con la famiglia, con il preciso obiettivo di uccidere Togliatti: già il 13 luglio, il giorno prima dell’attentato, aveva tentato di farsi ricevere dal segretario del PCI nella sede del partito, in via delle Botteghe Oscure. Non essendoci riuscito, era andato a Montecitorio per assistere a una seduta parlamentare, grazie a due permessi speciali ottenuti da un deputato democristiano e da uno comunista. Voleva infatti vedere dal vivo Togliatti, per assicurarsi di riconoscerlo prima di sparargli. Quello stesso giorno il deputato socialdemocratico Carlo Andreoni, in un editoriale del quotidiano l’Umanità molto critico nei confronti di Togliatti, aveva dato al segretario del PCI del traditore e aveva scritto che la maggioranza degli italiani avrebbe dovuto avere il coraggio di «inchiodarlo al muro», «e non solo metaforicamente». La mattina del 14 luglio, un mercoledì, Pallante si mise ad aspettare Togliatti in via della Missione, dove si trova un’uscita secondaria di Montecitorio, quella che Togliatti era solito utilizzare. Alle 11.45 Togliatti uscì dal palazzo insieme a Nilde Iotti, deputata e sua compagna. Iotti raccontò in seguito che Pallante sparò quattro colpi: dopo i primi tre Togliatti cadde a terra, e il quarto fu sparato quando già era disteso. Solo tre proiettili comunque lo colpirono: uno lo prese alla nuca, ma non gli sfondò la calotta cranica perché i proiettili non erano di buona qualità.

Caos. Togliatti fu portato di urgenza al Policlinico di Roma, dove fu operato dal chirurgo Pietro Valdoni. Intanto il direttore dell’Unità Pietro Ingrao fece uscire un’edizione straordinaria del quotidiano, per raccontare dell’attentato. Inizialmente si pensava che Togliatti sarebbe morto per le ferite, perché era stato colpito alla testa e aveva perso molto sangue. Non appena se ne sparse notizia ci furono le prime manifestazioni spontanee, e moltissime persone si radunarono fuori dall’ospedale. La CGIL indisse poi uno sciopero generale, che peraltro fu all’origine della scissione con la CISL (il 22 luglio 1948), con cui i sindacalisti cattolici si staccarono da quelli comunisti. Le manifestazioni di reazione all’attentato furono organizzate in tutto il paese per chiedere le dimissioni del governo. Molti militanti comunisti le presero come un’occasione per far cominciare una rivoluzione in Italia, e dal giorno successivo parteciparono ai cortei armati: erano passati solo tre anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e moltissime persone possedevano ancora molte delle armi che erano state usate durante il conflitto e nella lotta partigiana. Ci furono scontri con la polizia, morti, feriti e migliaia di arresti. Anche l’esercito fu mobilitato per gestire la situazione. Non appena si riprese dall’operazione chirurgica, Togliatti invitò i dirigenti del Partito Comunista e i suoi sostenitori a interrompere le manifestazioni per evitare che la tensione aumentasse. Già il 15 luglio Giuseppe Di Vittorio, il capo della CGIL, interruppe lo sciopero generale, e il giorno successivo i deputati comunisti ritirarono la richiesta di dimissioni del governo. Togliatti tornò alla direzione del PCI a settembre e criticò chi aveva partecipato al tentativo di insurrezione, in linea con la sua strategia di legittimazione dei comunisti come potenziale forza politica di governo.

Un intervista a Togliatti del 30 luglio 1948: Il racconto della storia dell’attentato e delle tensioni che lo seguirono negli anni ha spesso incluso anche il presunto contributo del ciclista Gino Bartali alla risoluzione della situazione. Il 15 luglio, infatti, Bartali vinse un’importante tappa del Tour de France (la notizia arrivò in Italia il giorno dopo) e il 25 il Tour stesso: fu un’impresa sportiva notevole visto che Bartali all’epoca aveva 34 anni. Qualcuno sostenne che l’entusiasmo per questo risultato contribuì a distrarre i manifestanti dai loro intenti di protesta e rivolta.

Cosa successe a Pallante. Subito dopo aver sparato contro Togliatti, Pallante fu fermato dai carabinieri e un anno dopo fu processato per tentato omicidio volontario: fu condannato e scontò cinque anni e tre mesi di carcere, grazie a riduzioni della pena e a un’amnistia nel 1953. Nonostante avesse sparato a Togliatti di sua iniziativa, dopo l’attentato furono fatte diverse ipotesi su possibili legami tra Pallante e diversi gruppi politici: dalla Democrazia Cristiana agli indipendentisti siciliani fino ai comunisti sovietici. Pallante è ancora vivo e abita a Catania; negli anni ha lavorato nel Corpo Forestale dello stato e poi come amministratore condominiale.

Le masse, quel giorno, sfuggirono al Pci. Era il 14 luglio di 70 anni fa e Pallante sparò a Togliatti, scrive Paolo Delgado il 14 luglio 2018, su "Il Dubbio". Settant’anni fa, il 14 luglio 1948, erano da poco passate le 11.30 quando Palmiro Togliatti, scortato solo dalla compagna Nilde Jotti, lasciò Montecitorio avviandosi verso l’uscita secondaria di via della Missione. Ad aspettarlo, con una Smith calibro 38 comprata al mercato nero del suo paese, Bronte, provincia di Catania, per 250 lire, c’era un ragazzo mezzo squilibrato, Antonio Pallante, arrivato nella capitale col preciso obiettivo di uccidere il massimo leader del Pci. Pallante non era un fascista. Si definiva liberale, era corrispondente dalla Sicilia del settimanale dell’Uomo qualunque ed era ossessionato dall’anticomunismo. «Ero giovane. Ero esasperato. Ritenevo i comunisti responsabili della morte di molti italiani. Elaborai l’idea: tagliare alla radice il problema, uccidere Togliatti». A Roma era arrivato qualche giorno prima e aveva preso alloggio in un’infima pensione vicino Termini. Disponeva solo di 5 proiettili da tirassegno, comprati per 25 lire in un’armeria siciliana. Secondo le sue ricostruzioni, rilasciate al Giornale molti decenni più tardi, a salvare ‘ il Migliore’ fu proprio la scarsa potenza di quei proiettili che non erano fatti per uccidere. Il progetto iniziale era colpire all’interno di Montecitorio e per questo, grazie all’interessamento di un deputato siciliano, si era procurato il pass per entrare alla Camera. Si era reso conto che colpire all’interno del palazzo non sarebbe stato possibile ma aveva anche registrato l’abitudine del leader comunista di uscire dalla porta di via della Missione. Alle 11.40 del 14 luglio si fece trovare pronto. Vide uscire prima la Jotti, dietro di lei il segretario del Pci. Pallante sparò tre colpi. Ferì il suo obiettivo a una gamba e al polmone. Il colpo fatale doveva essere il terzo, quello che raggiunse Togliatti alla testa ma non arrivò a profondità sufficiente. La Jotti cominciò a urlare “Hanno ucciso Togliatti”, i deputati si riversarono fuori dalla Camera, la notizia arrivò velocissima in tutti i quartieri di Roma e una folla immensa si concentrò al centro, tra piazza Venezia e piazza Colonna. Il leader della Cgil Di Vittorio, appena tornato da San Francisco, proclamò lo sciopero generale. Il Pci chiese le dimissioni dell’intero governo, una scelta che non piacque al ferito, una volta ripresosi. Da politico esperto qual era, il Migliore sapeva che la testa di De Gasperi non la si sarebbe potuta ottenere, quella del ministro degli Interni, il temuto Mario Scelba, forse sì. Non c’era nessun complotto dietro le rivoltellate di Pallante, così come nelle ore successive all’attentato non ci sarebbe stata nessuna scelta insurrezionale del Pci nei violentissimi scontri che in moltissime città italiane provocarono una trentina di morti (ma studi più recenti registrano un numero di vittime più limitato: 17) tra cui nove poliziotti, alcuni dei quali finiti a coltellate o a mani nude. C’era però una tensione montante che esplose in quel luglio. Meno di tre mesi prima, il 18 aprile, il Fronte composto da Pci e Psi era stato sconfitto nelle prime elezioni politiche della Repubblica. Non era stato, come si pensa oggi, un risultato previsto. Al contrario, la base rossa, dopo la cacciata del Pci dal governo della primavera 1947, aspettava quelle elezioni come il momento della rivincita e della resa dei conti. La frustrazione fu fortissima, l’idea di rovesciare il verdetto con un colpo di mano insurrezionale era tanto distante dai progetti del vertice rosso quanto diffusa alla base. La guerra fredda intanto montava nel mondo e il riflesso sul fronte italiano era immediato. Il 10 luglio, quattro giorni prima di essere colpito, proprio Togliatti, nel dibattito sul piano Marshall era stato perentorio: ‘ Se il nostro Paese dovesse essere trascinato sulla strada che porta alla guerra, sappiamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde con la rivolta, con l’insurrezione…». Non era retorica e non lo era neppure la replica che il 13 luglio scrisse sul giornale del Psdi, Umanità, il deputato Carlo Andreoni: «Prima che i comunisti possano consumare per intero il loro tradimento… il governo e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non solo metaforicamente». Qualche giorno dopo, col Paese in fiamme, il leader del partito, Saragat, lo obbligherà a dimettersi. Proprio perché questo era lo scenario, la prima preoccupazione dei dirigenti del Pci, anche prima che Togliatti stesso desse indicazioni precise in quel senso dal suo letto d’ospedale, fu di tenere i nervi e le masse a posto. Lo stesso dirigente più vicino all’ala dura e agli ex partigiani che non vedevano l’ora di riprendere le armi, Pietro Secchia, fu solerte nel bocciare tra i primi ogni tentazione insurrezionale. A tutt’oggi è impossibile dire come siano partite le manifestazioni violentissime che incendiarono per giorni l’Italia. Nessun dirigente né del Pci né della Cgil invocò la piazza. Fu la base a fare da sola, e forse giocò un ruolo l’interpretazione ambigua che fu data del telegramma inviato da Stalin appena raggiunto dalla notizia. Baffo- ne si diceva apertamente «contrariato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile e brigantesco attentato». Che fosse una critica sferzante alla mancata vigilanza del partito era evidente. Ma molti quadri ci videro anche il segno che la strada del parlamentarismo per Mosca era ormai tramontata. Ma nessuno diede l’ordine di tirare fuori le armi nascoste dopo la fine della guerra o di affrontare la polizia su un piano che sfiorò quello della guerra civile. Ma fu così e i fatti lo dicono d soli. A Roma la manifestazione si spostò verso piazza Esedra e negli scontri furono uccisi due manifestanti, come a Napoli. A Taranto lo sciopero dei cantieri navali finì con una battaglia nella quale persero la vita un manifestante e un poliziotto. A Livorno furono svaligiate le armerie e negli scontri a fuoco furono uccisi un dimostrante e un poliziotto. In tutta l’area di Genova la protesta acquistò caratteri insurrezionali, con alcune mitragliatrici issate sulle barricate. Anche qui ci furono vittime, come a Bologna e a Porto Marghera. Sul Monte Amiata l’episodio più noto, con l’attacco alle sedi della Dc da parte dei minatori, l’occupazione della centrale telefonica, l’uccisione di due agenti. Nelle città operaie la spinta fu anche più forte. Alla Fiat operai armati di mitra Sten si presentarono nello studio di Valletta e lo informarono che la fabbrica era occupata. Il massimo dirigente Fiat, imperturbabile, promise di licenziarli dopo lo sgombro. Fu tenuto sotto sequestro per giorni e per liberarlo dovette arrivare da Roma, su un elicottero messo a disposizione dalla Fiat, il dirigente del Pci Celeste Negarville. A Milano furono occupate la Breda, la Motta e la Pirelli mentre gli agenti di polizia venivano disarmati di fronte alle fabbriche. L’insurrezione non fu mai neppure presa in considerazione, e del resto sarebbe stata una scelta catastrofica. Ma fermare la piena, per il Pci, non fu facile. Ricordava anni dopo Rossana Rossanda: «Mi fu detto di andare all’Autobianchi per spiegare agli operai che non bisogna puntare su uno sciopero generale a oltranza. Convincere la piazza fu molto arduo. Resta una delle prove più dure della mia vita politica». La fiammata si spense in parte perché Togliatti, salvato da un intervento chirurgico del professor Valdoni, rassicurò i militanti sulle sue condizioni di salute e diede di fatto disposizioni per fermare la protesta. In parte perché si era trattato davvero di un’esplosione di violenza spontanea e priva di progetto, ma in parte anche grazie a Gino Bartali, il ciclista. Nella tappa dell’allora seguitissimo Tour de France il campione italiano partiva con 22 minuti di svantaggio rispetto alla maglia gialla, il francese Luison Bobet. Si dice da sempre che quella mattina De Gasperi e il giovanissimo Andreotti abbiano chiamato la squadra italiana per chiedere uno sforzo sovrumano per salvare la situazione. Bartali vinse la tappa recuperando lo svantaggio e affermandosi con 19 minuti di scarto. I giornali titolarono: “Bartali batte Di Vittorio”. Andreotti ha sempre negato che la vittoria del ciclista italiano abbia pesato sull’esito della sanguinosa rivolta. Di certo fu sfruttata al meglio dalla propaganda e qualche effetto, anche se non delle proporzioni amplificate dalla leggenda, lo ebbe. Antonio Pallante fu condannato a 13 anni e 8 mesi. Ne scontò 5, poi uscì grazie a un’amnistia. È ancora vivo, ultranovantenne.

Spari su Togliatti, l’Italia di settant’anni fa sull’orlo della guerra civile. Quattro colpi di pistola contro il segretario comunista a Roma, scrive Mirella Serri il 14/07/2018 su "La Stampa". “Vidi cadere Togliatti a terra… mi inginocchiai… mi gettai d’istinto sul suo petto e forse questo gesto fece deviare all’ultimo istante la mira dell’assassino»: così Nilde Jotti, giovane deputata e compagna del leader comunista, ricorda quando, alle 11 e 30 del 14 luglio 1948, nella semideserta via della Missione, la stradina che costeggia palazzo Montecitorio, vide accasciarsi il segretario uscito con lei da una porta secondaria. I quattro proiettili sparati da una rivoltella calibro 38, pur avendo centrato Palmiro Togliatti in punti nevralgici, per fortuna erano di materiale così scadente che non furono mortali.

Scioperi ovunque. L’ Ansa diede notizia dell’attentato ma anche dell’arresto del potenziale omicida, lo studente universitario 25 enne Antonio Pallante. E incendiò la Penisola: lo sciopero spontaneo di tutto lo Stivale interruppe le comunicazioni telefoniche, bloccò la circolazione urbana e ferroviaria mentre i negozi delle maggiori città abbassavano le saracinesche. L’uomo tra i più potenti dell’Italia governata da De Gasperi, il ministro degli Interni Mario Scelba, trasmise ai prefetti l’ordine di vietare ogni manifestazione.  Parole al vento: il fuoco della protesta aggrediva Torino, Roma, La Spezia, Abbadia San Salvatore, Genova, Livorno, Napoli e Taranto. Ad alimentare la rivolta dei militanti comunisti - uniti ai socialisti nel Fronte popolare avevano appena subito la batosta elettorale del 18 aprile in cui aveva trionfato la Dc - furono anche le fake news di un golpe in atto.

L’incontro in treno. Comunque, in quel momento e anche dopo, durante il processo che condannò Pallante a 10 anni ridotti a 5 e mezzo dall’amnistia, non furono mai chiarite le reali dinamiche de Il fattaccio di via della Missione come spiega la saggista Graziella Falconi in questa ricerca sottotitolata L’attentato a Togliatti e la rivoluzione impossibile nelle carte del governo e del partito (Castelvecchi, pp. 222, €18, 50), la vicenda di cui ricorrono i settant’anni nasconde ancora oggi segreti e misteri. Fu veramente il gesto isolato di uno squilibrato? O vi furono dei burattinai che tirarono i fili dell’operazione che nei moti di piazza costò la vita a più di 70 persone e ne portò in ospedale circa 3.500? Furono parecchi i buchi neri a proposito dell’operato di Pallante: lo studente arrivò a Roma da Catania il 10 luglio, dopo aver conosciuto in treno «per caso», come disse lui stesso, uno strano personaggio, Alfonso Caracciolo, controllato dalla polizia poiché «moralmente discusso in quanto pederasta». Quest’ultimo era legato a gruppi di destra e di patrioti polacchi che durante la seconda guerra mondiale avevano obbedito al generale Wladyslaw Anders e avevano rapporti con i servizi segreti americani. Secondo la saggista, dunque, né la polizia né l’apparato comunista approfondirono questa inquietante connessione con gli 007 d’oltreoceano. 

La vittoria di Bartali. Forse non c’era alcun interesse a scoprire una verità scomoda e che poteva innescare una guerra civile: il primo a gettare acqua sui bollenti spiriti fu lo stesso Togliatti, appena uscito dai ferri del chirurgo Pietro Valdoni, che ordinò «state calmi» e «non fate pazzie» a Pietro Secchia e a Luigi Longo. Si schierò contro la mobilitazione collettiva del paese (si disse pure che l’inaspettata vittoria di Gino Bartali al Tour de France avesse contribuito a sedare gli animi ma il campione del ciclismo considerò irrealistica questa ipotesi).  

Tensione a Torino. Anche il sindacalista Giuseppe Di Vittorio cercò di tenere sotto controllo gli operai in lotta: a Torino un consistente gruppo di tute blu della Fiat, credendo che il leader comunista fosse morto, propose «alura fuma fora Valletta» (allora facciamo fuori Valletta). E mise sotto chiave l’amministratore delegato della fabbrica torinese. Scelba per liberarlo voleva attaccare con uomini armati la Fiat ma l’avvocato Agnelli lo pregò di desistere, ritenendo che la protesta si sarebbe spontaneamente esaurita. Vittorio Valletta, infine, al processo contro i suoi sequestratori dichiarò che si era trattenuto volontariamente in fabbrica. L’attentato di Pallante, ancorché fallito, incise profondamente sulla storia della Penisola. Innescò infatti la scissione dalla Cgil della componente democristiana. Così nacque la Cisl. Cambiò radicalmente anche la fisionomia del partito comunista: dopo il tentativo insurrezionale (per cui vennero compiuti circa 97 mila arresti) furono sostituiti i responsabili comunisti locali, considerati teste calde o ex partigiani che soffiavano sul dissenso di sinistra.

Vittorio Feltri: "Perché voglio che tutti i sindacati spariscano", scrive il 14 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Pubblichiamo il botta e risposta tra Francesco Paolo Capone, segretario generale Ugl, e il direttore, Vittorio Feltri.

Caro Direttore, ieri il vicepremier e Ministro del Lavoro e per lo Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, ha comunicato l’intenzione di una verifica della rappresentanza sindacale, nella convinzione che ciò possa stimolare «un processo di aggiornamento all’interno delle rappresentanze». È fuor di dubbio che, in passato, i sindacati siano stati vittima di centralismo, eccessiva burocrazia e assenza di autonomia e, molte volte, abbiano guardato al merito delle questioni in modo non indipendente e neutrale. Al netto di questo, occorre ribadirlo, il sindacato ancora oggi riesce a mantenere il suo ruolo autorevole e di comprensione dei problemi, in un universo lavorativo profondamente mutato, aperto a nuove sfide, a nuovi diritti e nuovi doveri, in cui c’è bisogno di un’adeguata rete di protezione e di formazione. Per dirla con Bauman, siamo di fronte a un mondo del lavoro sempre più “liquido”, caratterizzato da un “precariato esplosivo” (che il Ministro Di Maio con il suo decreto vuole cancellare) e che ha messo in crisi tutti i corpi intermedi, in cui, nonostante la retorica avversa, il movimento sindacale può ancora recuperare la propria azione solamente se riuscirà a irrobustirsi nei luoghi di lavoro. Occorre, dunque, che i sindacati siano in grado di farsi promotori di dinamiche di inclusione e coesione sociale, elaborando una visione che ponga al centro del loro operare una nuova “etica dello sviluppo”, in cui si dia centralità alla salvaguardia delle dignità del lavoratore e dei suoi diritti, accertato che l’attuale sistema economico-finanziario è ormai divenuto insostenibile, anche dal punto di vista ambientale. In tal senso, il «sindacalismo di prossimità» ai luoghi di lavoro che si estrinseca con la proposta del contratto di comunità (avanzata dal nostro sindacato Ugl), può rappresentare una sfida sempre più centrale per garantire a tutti i lavoratori i miglioramenti delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro, attivando al contempo un circuito virtuoso che va al di là del semplice aspetto economico. Ci auguriamo tutti, quindi, che quando il Ministro Di Maio parla di «un processo di aggiornamento all’interno delle rappresentanze», sottintenda la volontà di ricondurre al centro della democrazia i cosiddetti corpi intermedi, ancora attuali nel rapporto tra Stato e cittadini, inaugurando con i sindacati un confronto aperto, magari anche critico, ma propositivo, incentrato piuttosto sulla questione occupazionale e sulla necessità di rilanciare quantitativamente e qualitativamente il lavoro, come chiedono milioni di nostri concittadini. di Francesco Paolo Capone Segretario Generale Ugl

Caro segretario generale, devo confessarle di non aver capito molto della sua lettera, anzi nulla. Ciononostante la pubblichiamo volentieri perché immaginiamo che i lavoratori che lei rappresenta al massimo livello siano più arguti di me. Approfitto della circostanza per dirle rispettosamente che a me i sindacati non vanno a genio, avendo essi arrecato più danni al popolo che vantaggi. Naturalmente mi riferisco in particolare alla Associazione dei giornalisti la cui categoria conosco bene da parecchio tempo. Il nostro organismo difensivo dalla fine degli anni Sessanta ha cominciato a trasformarsi e in breve è diventato una minaccia, anzi, una iattura per la corporazione degli scribi. Quando iniziai a fare questo mestieraccio, il mio primo stipendio (1968) di praticante, con meno di tre mesi di anzianità, ammontava a 240 mila lire il mese. La cifra oggi non dice niente. Faccio solo presente che con 490 mila lire compravi una Fiat 500, il potere di acquisto della moneta era quindi rilevante. Chiaro? Nel giro di pochi lustri avvenne uno sconvolgimento retributivo. Nel 1975, allorché il sindacato ebbe una influenza maggiore nelle redazioni, noi ricchi amanuensi che incassavamo 800 mila lire il mese, all’improvviso diventammo non dico poveri, ma subimmo una decurtazione notevole dei compensi. Per esemplificare, le ore straordinarie mensili, che contribuivano a ingrassare le buste paga, furono ridotte a 21 onde favorire assunzioni delle quali non vi era alcun bisogno. Aumentò il numero dei colleghi e diminuì sensibilmente l’ammontare delle palanche. I sindacati ci fecero un dispetto grave. E io dovrei stimarli, apprezzarli? Cessai di iscrivermi ad essi, giudicandoli nemici miei e dei cronisti in generale. I tribuni del popolazzo erano quasi tutti comunisti che puntavano ad appiattire i nostri redditi per infoltire gli organici nella speranza di avere un seguito massiccio da parte dei nuovi, numerosi redattori reclutati all’Unità e in varie altre testate rosse.

Queste operazioni hanno mandato in frantumi un mondo in cui mi trovavo bene e aperto le porte allo schiacciamento salariale. Al punto che oggi, un praticante, con il poco che guadagna riesce in 30 dì, a malapena, a comprarsi una bicicletta, magari di seconda mano. Tutto ciò grazie ai sindacati, i quali hanno ammazzato la categoria dei pennini riducendoli a proletari di seconda fila. Dovrei elogiarli? No, li vorrei eliminare, anche se personalmente vivo decentemente poiché al loro appoggio, che poi tale non è, ho rinunciato da una vita trattando le mie vicende economiche per i fatti miei, ricavando soddisfazioni rilevanti. In conclusione, sono persuaso - dati alla mano - che ogni lavoratore debba arrangiarsi per conto proprio. Forse non riuscirà a sistemare il proprio portafogli, ma almeno non lo distruggerà. In sintesi, i sindacati non sono amici di chi lavora, bensì nemici che impediscono la pacifica convivenza nelle aziende e ne polverizzano il benessere. Vittorio Feltri

Dopo Togliatti gli ex comunisti non hanno più avuto idee. L’anno scorso si riuscì a far polemica anche per delle corone di fiori portate sulla tomba di Palmiro Togliatti di cui domani si commemora la scomparsa. Ma la sinistra di origine comunista dopo di lui non ha elaborato alcuna nuova idea. Il tributo al togliattismo, soprattutto nella corrente dalem..., scrive Peppino Caldarola il 19 Agosto 2011 su "L’Inkiesta". Non ci sarà nessun dirigente del Pd, neppure fra quelli che vengono dal filone post-comunista, che celebrerà domani l’anniversario della morte di Togliatti, il 21 agosto del ’64 a Yalta. La rimozione della figura del capo comunista è uno degli esempi di cancellazione della memoria che ha fatto la sinistra dopo l’89. Solo nei giorni scorsi se ne è riparlato a proposito di un suo giudizio tranciante su De Gasperi che il suo stesso biografo, Giuseppe Vacca, autore anche di studi eccellenti su Antonio Gramsci, ha portato alla luce. Eppure non c’è dubbio che buona parte della cultura politica anche della sinistra post comunista trova le sue radici nel pensiero di quello che gli avversari, più che i sostenitori, definirono “il Migliore”. La vicenda politica di Togliatti è la summa delle contraddizioni del movimento comunista italiano. Intellettuale di grande profondità, amico di Gramsci e anche suo censore quando il fondatore dell’ “Ordine Nuovo” criticò lo stalinismo, è stato a lungo considerato dagli storici il massimo interprete della politica staliniana fra le due guerre. Anche la sorte di tanti antifascisti e comunisti caduti nelle maglie del regime sovietico si giocò senza che da lui sia mai venuta una parola di comprensione e un gesto di dissociazione dal potere sovietico. Molti storici hanno considerato questo aspetto della sua biografia come prevalente dimenticando però come dallo stesso Togliatti sia venuta l’elaborazione più avanzata del giudizio sul fascismo definito come “regime reazionario di massa”, approccio che consentì di capire il legame fra la dittatura e il popolo. Questa metodologia nella lettura delle contraddizioni dell’avversario ispirò gran parte del realismo comunista anche nel dopo guerra. E fu questa la stagione in cui si dispiegò l’egemonia togliattiana sul comunismo italiano. In estrema sintesi furono sue le scelte più significative che portarono il Pci ad essere il punto di riferimento principale dell’opposizione. La più nota fu denominata "via italiana al socialismo" non solo per sottolineare il distacco dal modello rivoluzionario del comunismo internazionale ma soprattutto perché metteva al centro il tema della democrazia politica come orizzonte della battaglia della sinistra. Da qui venne la scelta del partito di massa e non di quadri e soprattutto l’attenzione sia al ceto medio - Ceti medi e Emilia rossa, fu uno dei suoi testi più famosi - ma soprattutto quell’idea di riconciliazione politica fra avversari, fino all’amnistia verso i fascisti nell’immediato dopoguerra, che ritroveremo nel compromesso storico berlingueriano.

Anche l’attenzione al mondo cattolico segnò la rottura con la tradizione ateistica e anticlericale del vecchio mondo socialista fino al tentativo di far convergere il comunismo italiano con quel “cattolicesimo sofferto” che si confrontava con il rischio della guerra nucleare. Nel dopoguerra Togliatti mantenne il suo rapporto con l’Urss come asse della sua visione anche se si rifiutò di tornare a Mosca a capo del Cominform come Stalin voleva, e la Direzione del Pci autorizzò, forse temendo di non sopravvivere a un nuovo soggiorno moscovita. Alcuni storici militanti attribuiscono a lui, generosamente, un’idea di autonomia dal Pcus che in verità non è dimostrabile anche se è vero che nel memoriale di Yalta, che scrisse prima di morire colpito da un ictus, la presa di distanza dai due colossi del comunismo, quello sovietico e quello cinese, era assai marcata. Anche la destalinizzazione lo vide in una posizione contraddittoria, critico ex post del dittatore ma anche critico della riduzione del suo potere a “culto della personalità” come emergeva dal tremendo rapporto kruscioviano al XX congresso. Le contraddizioni del togliattismo, contrastato da sinistra come “traditore” della vocazione rivoluzionaria e dai laicisti come artefice dell’approvazione dell’art.7 della Costituzione, ne hanno fatto una figura ingombrante della sinistra così carica di un passato oscuro, gli anni di Mosca, e così debitrice di una moderna cultura politica nella costruzione del partito comunista più originale fra quelli non al potere. Questa costruzione fu innanzitutto una architettura culturale che si fondò sulla diffusione degli scritti di Gramsci che tuttora costituiscono i testi più significativi della cultura politica italiana. L’egemonia sugli intellettuali e la chiusura burocratica verso coloro che fra questi dissentivano, basti pensare alla rottura con Elio Vittorini e a tutta la diaspora del ’56, dopo che la ferocia dei carri armati sovietici repressero la grande rivoluzione democratica ungherese, ha costituito il lascito più forte che la stagione togliattiana ha consegnato ai suoi eredi. Questo breve sommario dei punti forti del mito del capo comunista conferma l’impressione che sia la strategia delle alleanze, sia la rottura del dogma operaista, sia l’apertura al mondo cattolico, sia la ricerca costante di un compromesso con l’avversario possano essere considerate le idee guida che tuttora costituiscono la dote culturale dei suoi eredi che si rifiutano ormai di celebrarlo. La sinistra di origine comunista dopo Togliatti non ha elaborato alcuna nuova idea. Anche Berlinguer si mosse entro le coordinate inventate dal suo illustre predecessore. Il tributo al togliattismo, soprattutto nella corrente dalemiana e in quella “migliorista” meno in quella veltroniana, è sopravvissuto anche nella stagione del post comunismo soprattutto nella visione delle alleanze, del dialogo con il cattolicesimo politico, nell’ondeggiamento verso il berlusconismo volta a volta considerato come cenacolo di populismo con cui alternare momenti di scontro e tentativi di accomodamento strategico. Insomma Togliatti non è morto culturalmente. Per alcuni questo è un limite di coloro che sciolsero il Pci. La pensano così soprattutto quelle forze di ispirazione socialista con cui Togliatti e il togliattismo ebbero solo occasioni di scontro e che accusarono il leader del Pci di essere attento esclusivamente al mondo cattolico e protagonista di un radicale tentativo di soppiantare la tradizione socialista. Gli eredi invece tacciono, così accade che si tengano addosso l’etichetta di essere corresponsabili delle sue scelte più discusse senza godere del vantaggio delle sue visioni più lungimiranti. I più giovani non conoscono questa storia e ne sono estranei ma se vogliono capire quello che accade nella sinistra di oggi da qui devono partire.

L'Arte di farsi da parte. Un politico che avrebbe potuto fare ma che è rimasto vittima di arroganza e presunzione: quelle del suo stesso carattere, scrive Raffaele Leone il 13 luglio 2018 su "Panorama". Io non so se Matteo Renzi farà bene come novello Alberto Angela per un programma tv in cui vuol mostrare le bellezze d'Italia. La parlantina non gli manca e neanche l'intelligenza, magari sullo schermo non otterrà lo stesso effetto che ha ottenuto a Palazzo Chigi: il rigetto. Il referendum sulle riforme istituzionali è stato l'emblema di questo rigetto. Abbiamo votato no a una riforma migliore dell'attuale legge elettorale perché Renzi se l'era fatta su misura e per potercelo togliere dai piedi. Ha fatto votare con la pancia perfino quelli come me che la pancia la tengono a bada. Un capolavoro. Non ne vado fiero. Oltretutto ero partito con tutte le buone intenzioni di questo mondo nei confronti del giovin fiorentino. Buone intenzioni che sono andate a sbattere contro l'arroganza di un politico emergente la cui politica guardava lontano per finire sul suo ombelico. Racconto un episodio che non ho mai raccontato. Io ho spesso il difetto di dare consigli non richiesti, mi accade nella vita privata (ricordo una memorabile lavata di capo da parte della moglie di un collega prossimo al divorzio) ma mi accade anche nella vita pubblica. Se ho un'idea che ritengo buona e utile, chissà perché alzerei subito il telefono. Quell'istinto mi è venuto con D'Alema al governo, poi con Berlusconi, oggi con Salvini e Di Maio. Quella volta mi venne con Pierluigi Bersani. Quando nel 2013 prese la sventola che prese, quando cominciava a soffiare impetuoso il vento grillino, quando farfugliava in streaming con i Cinquestelle, mi procurai il numero di cellulare e gli mandai un messaggio. "Gentile segretario, sono un cittadino moderato che in passato ha votato a sinistra ma che non lo farà mai più finché non diventerete un partito moderno e post ideologico, però siccome ci tengo a veder progredire l'Italia, e in questo momento siete voi a dare le carte, di fronte a questa batosta le chiedo: perché non dice agli elettori che ha capito davvero il messaggio di rottura? Perché non azzera la classe dirigente del suo partito? Perché non propone come premier il giovane Matteo Renzi?". Non ho ovviamente ricevuto risposta. Bersani deve aver pensato che fossi il solito rompiballe incompetente e probabilmente ne aveva ben donde. Renzi non lo conoscevo e non lo conosco, allora mi sembrava uomo di buona volontà e di belle speranze. Con quel suggerimento credevo che il Pd avrebbe potuto avviare una fase di modernizzazione e magari far partire un dialogo con i moderati del centrodestra dopo anni di caccia alle streghe. E pensavo che se il passaggio di consegne fosse venuto dal vecchio apparato di partito, il giovanotto avrebbe calmato la sua diffidenza e il Pd avrebbe potuto davvero imboccare una strada nuova con facce nuove. Non so come sarebbe andata, so com'è andata. E quattro anni dopo quel sms ho votato no al referendum. Per la prima volta (e spero l'ultima) ho votato con la pancia per togliere dai piedi il presuntuoso di Rignano. Spero che Giuliano Ferrara non mi tolga il saluto per questo. Avrei votato sì soltanto se Renzi, invece di legare il destino di quelle riforme al suo destino politico, si fosse presentato agli elettori così: "Ho capito che non mi sopportate, ho capito che sono riuscito a trasmettere il peggio di me, ma siccome quella riforma vale più di Matteo Renzi e fa bene all'Italia, vi comunico in anticipo che mi dimetterò da premier comunque vada a finire, così il vostro voto sarà un sì al futuro di questo Paese e non al mio futuro. Grazie". Titoli di coda, luci in sala, applausi perfino e rivalutazione del personaggio. Mi hanno spiegato che non funziona così la politica. Me lo avevano già spiegato gli amici quando avevo trovato una carognata dire a Enrico Letta di stare sereno per poi piantargli una coltellata alle spalle e prendere il suo posto. Anche allora mi fu detto che la politica ha le sue regole, che l'onore e la correttezza a volte risultano impolitiche. Abbozzai, eppure mi piacerebbe non fosse così. Sabato scorso ho dunque ascoltato il discorso di Renzi alla direzione del suo partito. Da tempo ha la capacità di rendersi insopportabile anche quando ha ragione, ma ha detto alcune cose sacrosante davanti a un partito ormai schiacciato tra parrucconi e claque fiorentina. Ne ha però omesse tante altre. Di nuovo ho immaginato una conclusione del discorso a mio modo: "Cari compagni, anch'io ho enormi responsabilità, non solo voi e la vostra guerra di retroguardia. Giuro che non volevo, eppure ho fatto un sfilza di errori lunga da qui alla mia casa in Toscana. Non ho ascoltato le critiche, ho governato gli italiani senza capirli, mi sono arroccato nel palazzo io che volevo aprirlo quel palazzo, sono stato arrogante e presuntuoso, ho gestito il potere in modo personalistico, mi ha tradito il mio carattere proprio quando ho dovuto affrontare la prova più grande della mia vita politica. Capita, agli esseri umani, ma io non me lo perdono. Chiedo scusa a voi e agli italiani tutti. Largo ai giovani. Non ai giovani renziani, ma a quelli che guardano avanti con mente aperta e nel nostro partito ci sono. Io mi ritiro". Mi sono sciroppato tutti i quaranta minuti del suo intervento sperando che lo dicesse. Non l'ha detto. Dimostrando ancora una volta che saper stare bene sulla scena è un'arte, ma saper uscire bene di scena è un'arte ancora più grande.

La propaganda sovietica? Era borghese e consumistica. Parchi, parate, lusso, mondanità. Così il regime illudeva un popolo affamato. Piegando l'arte al proprio volere, scrive Elena Fontanella, Mercoledì 02/01/2019, su "Il Giornale". Il mondo radioso dell'Avvenire sovietico appare lontano, per noi attori di questo umile «tempo di seconda mano», come lo definisce Svjatlana Aleksievic. Proprio quel tempo, di cui oggi sfugge il valore, fu una categoria fondamentale nella creazione del «nuovo mondo» e nella mitopoiesi dei rivoluzionari d'ottobre. Gian Piero Piretto in Quando c'era l'Urss. 70 anni di storia culturale sovietica (Cortina Editore, pagg. 622, euro 39) traccia un'analisi accurata dei presupposti su cui si è potuto realizzare un archetipo così potente, delineando linee storiche, decriptando vecchie iconografie e nuove estetiche, spolverando strati di vissuto della lunga marcia del popolo russo nel Secolo Breve e offrendoci un saggio illustrato immancabile per chi vuole coniugare cultura e società. Lo spartiacque è il 21 gennaio 1924, quando un'emorragia cerebrale stroncò la vita di Lenin. «Lenin non è più, ma è rimasto il Leninismo» titola la Pravda, facendo del leader non solo il primo martire della nuova religione bolscevica, ma materia viva e plasmabile per il nuovo stalinismo. Malgrado il tentativo di estirpare la gramigna obnubilante del credo ortodosso, la vecchia madre Russia dimostra di non poter sopravvivere senza icone e riti, così la sacralizzazione del regime diventa la primaria strategia del nuovo corso. Se con Lenin ancora in vita il Politbjuro aveva già costruito un processo di «canonizzazione», con la sua morte si instaura il vero culto del corpo che «secondo il Vangelo marxista» assumerà un'aura cristologica. Senza perdere di vista stilemi cari al popolo, il corpo diviene il simbolo, il leninismo il verbo e il mausoleo il sacrario della nuova ideologia. Sarà Malevic a teorizzarne l'estetica trasfigurando il ritratto di Lenin, «immagine dell'invisibile», icona laica dell'utopia socialista, permettendo anche all'umile contadino, poco dotato di sensibilità artistica, di ritrovare le stesse forme che avevano costituito un inossidabile punto di riferimento spirituale. In ogni casa, d'ora in poi per 5 copechi sarà il lubok, la stampa popolare, a ottenere, con la sua cornicetta dorata, il posto d'onore nel krasnyj ugol, l'angolo prima riservato all'immagine sacra. Sulle ceneri ancora calde di antichi archetipi si realizzava l'alfabetizzazione al «buon gusto» bolscevico e la lotta alle categorie borghesi identificate da Trotsky sulla Pravda nella triade «vodka, cinema e chiesa». Per combattere «gli umori decadenti dei giovani» il partito si organizzava scegliendo riferimenti riconoscibili e affidabili, permeati da una «rossificazione» a oltranza, irrisa dagli intellettuali, ma destinata a mantenersi costante nel tempo. Intanto la nascente politica culturale staliniana si racchiude in una spettacolarità carnevalesca, oscillante fra terrore ed euforia, in cui anche il ricorso alla violenza delle «purghe» assume un preciso ruolo. Se ne percepisce l'urlo nell'arte attraverso quelle sagome senza volto, sospese a mezz'aria, prive di contatto emotivo in cocente contrasto con i primi corpi ideali del realismo socialista tracimanti ottimistica fissità. L'arte stalinista propone il futuro garantito da un passato epico e glorioso e in una scenografia posticcia la gigantesca forma apollinea della città contiene tutto il dionisiaco staliniano: parchi di divertimento, parate, cinema, luoghi del lusso e mondanità come l'Hotel Moskva, aperto nel 1935, con le sue lussuose limousine... Tutto contrasta con la grigia quotidianità retrostante delle masse che, tuttavia, rispondono narcisisticamente compiaciute di appartenere a una Grande Patria. Lo spazio civile è posto al servizio della massificazione per garantire accesso e controllo. Alla linearità spaziale dei binari ferroviari della propaganda stalinista si oppone la verticalità dei palazzi-alveari nelle città, creando uno spazio bidimensionale in cui per 70 anni si muove una vita dalle categorie sovvertite e carica di inquietudine: «Campi di ferro che vanno su ruote e portano un sacco di folla, gettandola in una catasta comune, il vitreo palazzo, più dritto di un bordone di un vecchio, getta il suo asse, solingo sulle nere nuvole» (V. Chlebnikov, 1920). E qui si consuma l'attacco alla vita privata. La sperimentazione utopistica entra nei rapporti individuali, nell'intimità, nella sessualità in cui, comunque, forti tratti di machismo non abbandonano una parvenza di emancipazione femminile il cui simbolo è la «donna scapolo», sobriamente in grigio con l'immancabile fazzoletto rosso sui capelli raccolti. In una Mosca fredda ed esausta, odorante di cherosene, nutrita da aringhe rancide e patate muffite riscaldate sulle onnipresenti panciute burujka di latta, l'assemblea generale degli inquilini assurgerà a topos dell'epoca e l'appartamento di lusso espropriato si trasforma in coabitazione forzata pervasa da un misto di diffidenza e imbarazzo, come nel celebre quadro di Kuzma Petrov-Vodkin. Inizia l'epoca in cui il manifesto diventa idea platonica, baluardo iconico contro la tranquilla retorica tradizionale. Giovani artisti, come Vladimir Lebedev, prestano gratuitamente la penna all'agenzia statale telegrafica Fenetre Rosta', arrivando a realizzare ciascuno 50 disegni ogni notte sui fatti del giorno, in una sorta di rassegna stampa finalmente comprensibile alla maggioranza del popolo. Nel mentre l'avanguardia afferisce a una nuova cultura sperimentale al servizio della causa. L'arte non può più esistere per se stessa, ma deve incarnare una funzione, come nel celebre binomio pubblicitario Malevic-Rodcenko per il lancio della grande distribuzione Mossel'prom. Questa riaffermazione borghese, gaudente, consumistica e cialtrona, pare a Bulgakov «un teatro spelacchiato e scalcinato pieno di correnti d'aria». In una Mosca in cui si lotta per ottenere una stanza, sulle strade piene di buche si accalcano centinaia di persone circondate da «un'insegna dopo l'altra... e che cosa non c'è su quelle insegne! Qui si indovinano i pensieri... e in questa allegra mescolanza di parole, di lettere, su fondo nero, una figura bianca: lo scheletro di una mano, tesa verso il cielo. Aiuto! Fame!». L'artista però non appartiene più alla classe dei demiurghi ma, riunito in sindacati, indirizza l'energia creativa verso la trasformazione sociale in atto. Il politicamente corretto, prima altalenante tra realismo retorico e velleità avanguardiste, si spegnerà dopo il Congresso degli scrittori sovietici del 1934 che, fornendo la definizione del «realismo socialista», determinerà che in nessuna delle arti si sarebbe dovuto trovare un contenuto non chiaramente esprimibile in parole. L'arte assume definitivamente il compito di raffigurare «una vita possibile», come sarebbe diventata grazie ai benefici effetti del regime, una laccatura consolatrice del vero. Il Paese ormai marciava verso l'ottimismo, l'eroismo, il pathos che neppure la durezza della guerra avrebbe scalfito. In un mondo bidimensionale, solo la scoperta della terza dimensione, simbolicamente negata per 70 anni, avrebbe potuto spezzare l'incantesimo dell'utopia che, non a caso, si sarebbe simbolicamente manifestata con l'apertura di una breccia in un semplice muro di cemento.

La Lady Macbeth che fece paura a Stalin. In un articolo non firmato il dittatore russo attaccò la partitura, definita “caos non musica”, scrive Giuseppe Pennisi il 12 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Critici musicali si diventa o si nasce? Normalmente si pensa che il percorso per diventare un critico musicale sia lungo e comporti anni in Conservatorio, nonché studi a una scuola di giornalismo per poter fare il “critico militante” per un quotidiano e per periodici. Stalin ci nacque e con un articolo di fondo non firmato (ma riconosciuto come di suo pugno) il 28 gennaio 1936 mise al bando quello che si pensava fosse ‘ il musicista di corte’ del regime, Dmitri Šostakovic, la cui opera La lady Macbeth del distretto di Mensk stava trionfando al maggior teatro di Mosca, il Bolshoi. Un lavoro che, secondo le intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto essere il primo di una tetralogia sul coraggio della ‘ nuova donna sovietica’. L’ira di Stalin — si badi bene — non cadeva sulla vicenda, né sul libretto quanto mai esplicito (per il teatro in musica degli anni trenta); vicenda e libretto anzi potevano venire assunti come critica alle degenerazioni borghesi che l’uomo nuovo del comunismo avrebbe curato. Inoltre, dal racconto su cui si basava l’opera era già stato un dramma teatrale con non avuto censure. L’ira era con la partitura, chiamata "caos non musica". Scrittura difficile, che richiede un grande organico ed è intrisa del linguaggio del Novecento allora più moderno; la musica accentua il sesso e il sangue con la ferocia degli ottoni (chiamati a sottolineare gli amplessi) e l’arditezza delle soluzioni timbriche. Utilizza richiami a canti e cori popolari nonché alla "musica futurista" russa che aveva cultori in quegli anni prima di essere schiacciata dalla stalinismo. Richiede un enorme organico orchestrale, diciotto solisti in venti ruoli, un grande coro e frequenti cambiamenti di scene. Richiede soprattutto una direzione incalzante, veloce, a volte ruvida ma pronta al tempo stesso a scivolare in afflati lirici negli intermezzi. Si ricorda un’esecuzione bellissima di Myung- Whun Chung per l’Opéra di Parigi ed una esemplare (anche grazie alla regia di Lev Dodin) di Semyon Bichkov al Maggio Musicale Fiorentino. Il lavoro sarà in scena al San Carlo dal 15 aprile in una coproduzione con il Teatro dell’Opera di Amsterdam, la direzione musicale di Juraj Valcuha, la rega di Martin Kusej, le scene di Martin Zehetgruber, i costumi di Heide Kastler e Natalia Kreslina, Dmitry Ulianov, Ludovit Ludha Ladislav Elgr nei ruoli principali. La stroncatura condizionò la vita e la produzione successiva di Šostakovic. Gran parte dei lavori sulla vita tormentata di Šostakovic, apprezzato nel resto del mondo ma considerato con diffidenza in Patria (nonostante lo stesso contributo personale che diede durante la seconda guerra mondiale) si basano sul libro Testimonianza. Le Memorie di Dmitri Šostakovic pubblicate da Solomon Volkov nel 1979 (ossia a quattro anni circa dalla morte del compositore), memorie scritte in seguito a lunghe interviste. Anche se Volkov non ha esibito i nastri in cui le interviste sarebbero state registrate le conversazioni, nessuno degli stretti familiari di Šostakovic ne ha mai smentito i contenuti. E’ difficile dire quanto nel libro di Volkov ci sia di forzato. Il ritratto che emerge è quello di un fiero antistalinista, costretto dalle circostanze della vita e dalla ferocia del tiranno ( che aveva mandato di fronte al plotone di esecuzione alcuni dei suoi migliori amici) a vivere una doppia esistenza dal 1936 ( anno in cui venne bandita La lady Macbeth del distretto di Mensk): conformista in apparenza ( e in tal modo anche con importanti riconoscimenti ed incarichi ufficiali) ma antistalinista in fondo al cuore e con il timore di essere, in qualsiasi momento, scoperto. Tuttavia, sempre profondamente patriota, come mostra la sua settima sinfonia Leningrado composta (e diffusa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) durante il lungo assedio nazista della città.

Il volume di Volkov ha avuto diffusione limitata in Italia. Il film tratto da Tony Palmer nel 1988 dal libro di Volkov, con Ben Kingsley come protagonista, ha avuto numerosi premi internazionali ma in Italia si è potuto vedere soltanto sul canale ‘ classica’ di Sky in lingua originale con sottotitoli; non ha trovato un distributore che lo circolasse nelle sale anche in quanto politici di rango avrebbero, all’epoca, fatto sapere che non gradivano la diffusione di un film che metteva in cattiva luce l’Unione Sovietica dalla rivoluzione del 1917 al 1975. Un nuovo volume uscito nel 2013 per i tipi di Zecchini Editore Šostakovic Continuità della Musica, Responsabilità nella Tirannide di Piero Rattalino (pp 280, € 25), è stato inteso come un saggio ‘ revisionista’, rispetto alle analisi di Volkov. Il libro di Rattalino è una biografia musicale (non storico- politica) del compositore. È un lavoro attento, rivolto non solo al pubblico del mondo della musica; è scritto con eleganza e pone le opere di Šostakovic nel contesto dell’evoluzione musicale di settanta anni del Novecento. Riconosce come, dopo il bando di La lady Macbeth del distretto di Mens, il giovane compositore ( uno dei più corteggiati dalle belle donne dell’intellighentsia di Leningrado ( il nome dato a San Pietroburgo dopo la rivoluzione sovietica), anche a ragione della sua arguzia ( oltre che della sua avvenenza), era diventato timido e timoroso ( tanto da mettere anche la sua firma a una lettera di censura al suo amico Sacharov) ma trova come elemento di fondo della vita del compositore “la continuità di musica legata alla tradizione e l’assunzione di responsabilità personali, pur nei lacci della tirannide”. Essenzialmente, si differenzia solo in parte da un’analisi dalla personalità di Šostakovic quale tratteggiata da Volkov. Occorre, però chiedersi, se, dopo avere composto due opere indubbiamente rivoluzionarie (Il Naso prima di La lady Macbeth) sotto l’aspetto della sintassi musicale, gran parte della produzione di Šostakovic (soprattutto le sinfonie, meno la cameristica e le musiche da film) siano rimaste così tradizionali (e lontane da altri fermenti del Novecento) proprio in quanto sentitosi nel mirino di un regime che non accettava l’innovazione. E che invidiava il successo altrui (Molotov, in palco con Stalin alla prima moscovita di La lady Macbeth) si piccava di essere musicista ed era cugino di Skjabrin, a cui il successo sarebbe arriso molto più tardi.

Karl Marx, fra mito e polemiche a 200 anni dalla nascita. Nato nella cittadina tedesca di Treviri il 5 maggio del 1818, scrive Sabato 5 maggio 2018 Askanews. Tra mille polemiche, la Germania celebra il bicentenario della nascita di Karl Marx: non meno di 600 eventi – mostre, concerti, rappresentazioni teatrali, conferenze – sono programmati a Treviri, città vicina al confine con Francia e Lussemburgo dove Marx è nato il 5 maggio 1818, per tracciare la vita, il lavoro e l’eredità dell’autore del “Capitale” e ispiratore del comunismo. Ma diversi fatti potrebbero offuscare le celebrazioni, poiché l’eredità del filosofo rimane controversa quasi 30 anni dopo la caduta del muro di Berlino. Il momento clou delle celebrazioni è l’inaugurazione di una statua in bronzo del filosofo tedesco, alta 5 metri e mezzo, donata dalla Cina, Paese ancora ufficialmente comunista. Un fatto che ha suscitato più di un mal di pancia in una Germania dove il Muro ha diviso il popolo per decenni e la repressione nella Ddr comunista ha lasciato tracce ancora palpabili. Diverse associazioni e partiti manifestano contro l’omaggio al “padre” delle dittature comuniste: “Vogliamo protestare a gran voce contro l’inaugurazione della statua e far sentire le nostre voci contro la glorificazione del marxismo!”, ha detto Dieter Dombrovski, presidente dell’Unione delle vittime della tirannia comunista. Marx, afferma, “ha gettato le basi su cui sono state costruite tutte le dittature comuniste fino ad oggi”. “Non dimentichiamo le vittime del comunismo – Smontiamo Marx!”, sostiene il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), che ha costruito i suoi successi alle ultime elezioni generali proprio nell’ex Germania dell’Est. Il sindaco di Treviri, il socialdemocratico Wolfram Leibe, respinge le critiche di coloro che gli rimproverano di aver accettato la statua per cercare di accattivarsi turisti e investitori cinesi: è un “semplice gesto di amicizia” da parte di Pechino, ha detto alla France Presse. E di fronte al rischio che la statua possa essere danneggiata dai vandali, risponde: “In una grande città, è sempre così, questo non mi impedirà di dormire”. Più di 130 anni dopo la sua morte a Londra, nel 1883, l’autore del “Capitale” e del “Manifesto del Partito Comunista” (con Engels) rimane uno degli intellettuali più commentati al mondo, critico visionario e acuto dei pericoli del capitalismo per alcuni, ispiratore delle dittature sovietica o cinese per altri. Alcuni paesi rivendicano ancora il marxismo come base ideologica, come la Cina e il Vietnam. Pechino “continuerà a brandire la bandiera del marxismo”, ha detto ieri il presidente cinese Xi Jinping, mentre il suo omologo vietnamita Tran Dai Quang ha affermato che “marxismo e leninismo sono la forza materiale e l’eredità spirituale del Vietnam”. “C’è qualcosa di eterno in Marx” e questo bicentenario permetterà di spiegare l’autore del famoso slogan “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” senza “glorificarlo o diffamarlo”, afferma Rainer Auts, direttore della società responsabile della supervisione delle mostre su Marx. Marx è stato innegabilmente un “grande pensatore”, ha detto il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, ma “non dovremmo avere paura di lui, non più di quanto dovremmo erigere statue dorate in suo onore”, ha detto l’esponente socialdemocratico.

Auguri Marx: cosa resta delle sue idee a 200 anni dalla nascita. La crisi del capitalismo. L'inevitabile conflitto con il lavoro. La lotta di classe. Ancora oggi la dottrina del filosofo tedesco domina il dibattito politico. E la destra se ne sta appropriando, scrive Samuele Cafasso su Lettera 43 il 5 maggio 2018. Il 29 ottobre 2017 Il Foglio, in un articolo caustico dedicato a Marta Fana, si chiedeva in che secolo siamo se la ricercatrice di Sciences Po, l’istituto di studi politici di Parigi, in televisione parla ancora di rovesciamento di rapporti di forza all’interno dei processi di produzione. «Non nel Duemila, forse nemmeno nel Novecento», motteggiava il quotidiano. Eppure basta fare un passo in libreria per accorgersi che intorno al pensiero di Marx, di cui il 5 maggio 2018 si festeggiano i 200 anni dalla nascita, si stanno spendendo molte parole, anche in Italia dopo un’onda lunga che ha già toccato gli Stati Uniti - la rivista Jacobin ha 10 anni -, la Gran Bretagna, la Francia di Thomas Piketty.

LE STORTURE DELLA GIG ECONOMY. Di Marta Fana si è detto: è uscito a ottobre 2017 il suo Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza), racconto delle storture della gig economy e del neo-liberismo in salsa italiana. «La lotta di classe», ha detto l’autrice, «è una categoria viva e vegeta». Per Minimum Fax è uscito Teoria della classe disagiata, il saggio di Raffaele Alberto Ventura che ragiona intorno all’impoverimento della classe media, pescando in larga parte dalla teoria marxiana sulle contraddizioni ineliminabili del capitalismo. «Ma io», dice subito Ventura, «marxiano non sono».

SI PESCA TRA I GRANDI DEL PASSATO. A marzo 2017 è stata la volta di Mimesis con Economia e società. Otto lezioni eretiche di Maria Turchetto (già insegnante di Ventura), dove l’eresia è Marx, ma anche Lenin, Hilferding, Rosa Luxemburg. È uscita a giugno, invece, una raccolta di scritti di Lenin per lacura di Vladimiro Giacché, Economia della rivoluzione (Il Saggiatore); Domenico Losurdo ha pubblicato per Laterza Marxismo occidentale. Sottotitolo: Come nacque, come morì, come può rinascere. Si ripesca tra i grandi del passato, e non solo in economia: così torna in libreria per Il Saggiatore Verifica dei poteri, a 100 anni dalla nascita del poeta e critico (marxista, ça va sans dire) Franco Fortini. Tutto questo senza andare a scomodare Toni Negri negli Usa con Assembly. Che cos’è tutto questo parlare di Marx e intorno a Marx a parte l’inevitabile agiografia dei 150 anni dalla pubblicazione del primo volume del Capitale e i 100 dalla rivoluzione russa caduti nel 2017? Lo abbiamo chiesto a studiosi e universitari italiani che intorno al pensiero del filosofo tedesco hanno lavorato. «Noi non capiremo niente di quanto accaduto negli ultimi decenni senza mettere al centro delle nostre analisi un forte conflitto di interessi tra il capitale e il lavoro», spiega Antonella Stirati, economista, esponente della scuola neoricardiana che ha all’Università Roma3 un suo importante centro e che, dell’eredità di Marx, valorizza tutto quanto riguarda il conflitto sociale e il conflitto distributivo, categorie di analisi sparite dai radar della sinistra politica.

PER SPIEGARE LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO. «Persino studiosi progressisti e liberal come Paul Krugman, o Joseph Stiglitz, che non sono affatto marxisti, alla fine ricorrono alla categoria del conflitto per spiegare cosa è successo alla distribuzione del reddito in questi anni, è inevitabile». Questo è il primo elemento che sta guadagnando visibilità nel dibattito pubblico, anche in Italia. Non è una idea marxiana in senso stretto, ma marxista nella misura in cui il filosofo è considerato «il punto di arrivo di una tradizione iniziata anche prima, con il pensiero dei Fisiocratici, di Adam Smith e di Ricardo».

SISTEMA CON DISOCCUPAZIONE PERMANENTE. Un altro aspetto importante e ancora valido delle idee marxiane consiste nella critica del capitalismo come sistema in cui si può avere disoccupazione persistente e in cui si presentano instabilità e crisi ricorrenti. Secondo Stirati, tali aspetti del pensiero di Marx rimangono validi anche quando si abbandonino la teoria del valore lavoro e l’idea che vi sia una tendenza secolare alla caduta del saggio di profitto. All’opposto ci sono studiosi come Riccardo Bellofiore, docente all’Università di Bergamo, e Vladimiro Giacché, economista, presidente del Centro Europa ricerche e partner di Sator (azionista di questo giornale online): «Per alcuni studiosi la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto e la teoria del valore lavoro sono concetti da superare. Io credo che proprio la crisi del 2008 abbia dimostrato invece la loro centralità perché ci permettono di spiegare quanto successo senza riportare ogni cosa, in maniera semplicistica e infine sbagliata, alla rapacità della finanza, fino a ieri formidabile creatrice di valore e oggi casa di spietati affamatori. Quanto è accaduto segnala semmai la crisi strutturale, a mio giudizio irreversibile, di un modello di crescita basato sulla finanza e sul debito quali strumenti di contrasto alla caduta del saggio di profitto». La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, per riassumere, dice che la redditività del capitale e la sua capacità di generare ricchezza è destinata a diminuire minando il capitalismo alle radici.

MARXISMO CHE SCIVOLA A DESTRA. L’idea secondo cui non sono le storture del capitalismo, ma il capitalismo stesso per come è fatto ad andare verso la crisi percorre, per esempio, tutto il libro di Raffaele Ventura. «Il marxismo lo possiamo immaginare», ci spiega, «come una linea tesa tra la dimensione economicista-determinista e quella idealista, la quale tuttavia, rinunciando al confronto con le ferree leggi del capitalismo, finisce per assomigliare al vecchio socialismo pre-scientifico contro cui si scagliava Marx». Ventura si pone all’estremo economicista-determinista, «forse persino un po’ oltre». All’altro estremo, sostiene, c’è un marxismo che, svuotato della sua parte scientifica, «scivola facilmente verso i socialismi di tipo nazionalista, il cosiddetto universo rosso-bruno».

CONSENSI NEL PIANETA POPULISTA. Vecchi echi di una polemica che aveva contrapposto Ventura a Diego Fusaro. Quest’ultimo, autore di Bentornato Marx! (Bompiani, 2009), filosofo-pop e presenza fissa nel dibattito tivù, si definisce «marxiano, allievo indipendente di Marx» e delle critiche che gli muove Ventura poco vuole parlare, riducendo tutto a una questione di «invidia», gelosie accademiche. Eppure non è possibile ignorare le ondate di applausi che ogni nuova sparata di Fusaro - contro il mondo omosessuale, contro l’immigrazione, contro le politiche di parità di genere - riscuote nella galassia populista che si muove tra il movimento di Grillo e la Lega di Salvini, per lambire l’estrema destra extraparlamentare. «Io», dice Fusaro, «non guardo a destra né a sinistra, ma ai diagrammi di forza. E oggi i principali alleati del capitale sono le forze che si dicono di sinistra, è un fatto». Per quanto criticabile, Fusaro su una cosa ha ragione: il pensiero di Marx sul conflitto tra capitale e lavoro e sulle tare del capitalismo oggi non ha più cittadinanza nella sinistra politica italiana, mentre in parte è riecheggiato nella campagna americana di Bernie Sanders, nel Labour britannico di Corbyn, nella candidatura alle presidenziali francesi di Melenchon.

SEMPLIFICAZIONI COSPIRAZIONISTE. Come nota Giacché, «30 anni fa avrei potuto darle decine di nomi di intellettuali marxisti o marxiani impegnati in politica, oggi non me ne viene in mente nemmeno uno». Ne ha invece, in una versione paradossale, iper semplificata e infine falsa, in una destra populista e in un universo cospirazionista che parla di banche contro i l popolo, di euroburocrati al servizio del capitale, di una finanza parassitaria (alla Soros, per intenderci) nemica dei lavoratori. Una ideologia che va a braccetto con l’antiglobalismo e che accoglie tra gli applausi Fusaro quando sostiene, per esempio, che lo ius soli è «l’arma con cui il capitalismo globalizzato mira a distruggere la cittadinanza degli Stati nazionali». Sembra così paradossale, ma rientra invece nella complessità del pensiero marxista e nella “esplosione” di un mondo dove c’è tutto e il suo contrario, che altri studiosi partano proprio da Marx per una critica della società contemporanea in quanto razzista e discriminatoria, secondo una linea internazionale che ha uno dei suoi pilastri in un testo del 2010 di Kevin Anderson, Marx at the Margins (University of Chicago Press).

TRA MIGRAZIONI, RAZZE E DESTRA. L’italiana Lucia Pradella, ricercatrice al King’s College di Londra, è tra questi. «Marx», spiega, «diversamente da quanto si pensa ha dedicato molta attenzione nella sua opera alle società non europee. La teoria dell’impoverimento della classe lavoratrice già comprendeva un discorso sulle migrazioni e sulle ristrutturazioni produttive a livello globale. L’analisi marxiana può aiutarci a capire il rapporto tra classe e razza, l’emergere della destra neo-fascista».

IL LAVORO È ANCORA CENTRALE? C’è molto altro, per esempio un filone che ragiona su «quanto la classe lavoratrice sia ancora centrale nel movimento anticapitalista», o se invece «i nodi del conflitto non siano da cercare intorno ad altri temi, come la lotta per la casa, gli spazi urbani, il lavoro riproduttivo. Il conflitto rimane, ma il lavoro salariato è ancora centrale?». Marxismi diversi, a volte opposti per conclusioni, ma dove riaffiora un’idea della crisi e della lotta tra classi che, a 10 anni dal crac di Lehman Brothers, torna patrimonio comune. In fondo, sostiene Ventura, «Marx fa parte della storie delle idee, come Platone. Per certi versi non possiamo non dirci marxisti». Solo che ce n’eravamo dimenticati. Questo è un aggiornamento di un articolo uscito su pagina99 il 10 novembre 2017

Fusaro scrive sul Primato Nazionale. E la sinistra rosica, scrive il 4 maggio 2018 "Il Primato Nazionale". Non c’è niente da fare: più la sinistra cerca di apparire “giovane”, e più si sente invece quella insopprimibile puzza di vecchio. Prendiamo il caso più recente, che ha mandato nel pallone tutto il compagnume fighetto del web. Diego Fusaro, filosofo e volto noto della televisione, pur essendo di formazione marxista, ha iniziato ieri la sua collaborazione settimanale con il Primato Nazionale, inaugurando la sua rubrica dagli echi kantiani La ragion populista. Questa scelta era stata spiegata in questi termini dalla redazione del nostro quotidiano: «Abbiamo [noi del Primato e Fusaro] origini differenti e visioni non sempre convergenti, ma la stessa volontà di uscire dalla gabbia del mondialismo». Insomma, l’obiettivo era chiaro: superiamo gli ormai logori steccati ideologici e iniziamo a parlare del nostro comune nemico (il globalismo capitalista e livellatore) e del nostro comune referente (il popolo).

Dal momento, però, che la sinistra mainstream ha ormai mandato in soffitta qualsiasi velleità rivoluzionaria per appecoronarsi al pensiero dominante, ecco che arriva subito Sua Fighettosità Chistian Raimo, direttore dello chicchettosissimo Internazionale, che così commenta la collaborazione di Fusaro al Primato: «È una notizia importante, per tutti coloro che pensano che il fascismo non sia una cultura politica, che bastano due norme tipo legge Fiano per togliere i gagliardetti di Predappio, che CasaPound è folklore, etc. I fascisti del terzo millennio intanto fondano case editrici e giornali, scrivono, elaborano pensiero, vanno in cerca di un’egemonia culturale, a forza di grandi sostituzioni, populismi di destra, nazionalismi retrotopici. Fa ridere? Sempre meno. Essere antifascisti oggi vuol dire contrastare questo pensiero, combatterlo nella pratica politica, né liquidarlo né minimizzarlo. Fusaro è un avversario reale. Ributtante dal punto di vista intellettuale, ma reale. […] Lo strumentario contro il pensiero di destra di Furio Jesi va aggiornato, non basta più». Tutto molto interessante, ma c’è un problema: Raimo, nel suo sfogo facebookiano, linka un suo vecchio articolo che vorrebbe fornire un “ritratto del neofascista da giovane”. Si tratta in realtà dell’ennesima ricerchina rabberciata sulle “nuove destre”, condita qua e là da basso dossieraggio antifascista. Il confronto con il pensiero del “fascismo del terzo millennio”, invece, praticamente non c’è, perché Raimo si limita a presentare – banalizzato – questo pensiero per poi meglio liquidarlo con i soliti luoghi comuni da liberal semicolto. Fine.

Marx due secoli dopo: trascurato a sinistra, potrebbe essere riscoperto a destra, scrive Annalisa Terranova sabato 5 maggio 2018 su "Il Secolo d’Italia". Karl Marx nasceva duecento anni fa, il 5 maggio 1818, a Treviri. Se la politica italiana non fosse interamente assorbita dalle polemiche sui social, questo bicentenario avrebbe potuto fornire occasione utile per una “riscoperta”. Ma riscoprire cosa, esattamente? Bè, il Marx depurato dalle interpretazioni che condussero al totalitarismo comunista. Il Marx che mette al centro del suo pensiero lo sfruttamento del lavoro e che ci obbliga a pensare al capitalismo anche come problema e non solo come unica prospettiva della storia. Un compito che dovrebbe spettare alla sinistra, se la sinistra non avesse spostato il suo asse ideologico sulla difesa dei diritti delle minoranze dimenticando il disagio delle maggioranze. Potrebbe provarci allora la destra e non sarebbe operazione così eretica come a prima vista potrebbe sembrare: da Marx infatti partì anche Giovanni Gentile, pubblicando nel 1899 il libro La filosofia di Marx, apprezzato da Lenin, cui si deve l’interpretazione del filosofo di Treviri come “filosofo della prassi”. Ma non basta: nell’ormai lontano 1992 fece scalpore l’affermazione di Rosario Villari, uno dei protagonisti della cultura comunista del dopoguerra, secondo il quale la storiografia marxista in Italia è stata poco più di un’etichetta mentre furono storici e pensatori non comunisti come Benedetto Croce e Gioacchino Volpe a utilizzare al meglio Marx. In particolare Volpe si attenne nei suoi studi alla regola di non separare la storia politica dalla storia sociale. Esiste allora un Marx nascosto, trascurato, diverso da quello solitamente accostato a una vulgata politica usurata, che è quello più utile oggi per capire i problemi del presente. Su questo punto insisteva non a caso in un libro apparso un anno fa Bruno Pinchard, parlando di un “Marx a rovescio” (Marx a rovescio, Mimesis). Ma con quale approccio ci si può accostare a Marx? Egli è certamente il «seduttore dei giorni di crisi»: è il primo stadio che ci conduce a vedere nel Capitale il libro che denuncia i vizi del sistema che sentiamo come ostile o oppressore. Ma c’è anche il Marx incardinato nella storia del pensiero filosofico occidentale. Non un filosofo che rompe con chi lo ha preceduto, ma un pensatore che integra e trasforma le filosofie anteriori al Capitale. Marx è aristotelico per quanto concerne l’idea di praxis, è colui che più di altri sfida e supera Hegel, è anche colui che riprende da Vico l’imperativo di guardare al vero come fatto storico e non come fatto contemplativo. Ancora «in relazione all’oro e alla moneta, al feticismo della merce e all’impersonalità del capitale, Marx ritrova quelle prospettive eredi delle forme simboliche che guidano Shakespeare o Rabelais quando si tratta dell’oro». Ecco allora che secondo Pinchard «tutte le sfere della fantasmagoria dell’Occidente sono coinvolte in una lettura matura di Marx». Persino i grandi del Rinascimento affiorano tra quelle pagine: «Seguendo l’esempio di Leonardo da Vinci che dipinge vortici e disegna rocce per trovare la legge del mondo, Marx predice la morfologia degli scambi sociali nella vita della materia». Se ci fermassimo a questo, resteremmo in ogni caso lontani dalla comprensione della forza rivoluzionaria di un’opera come Il Capitale. Ciò che la caratterizza, infatti, è la sua capacità di pensare il capitale come struttura totale, come sostanza che non ha altra causa e altro fine al di fuori di se stessa e che per queste sue peculiarità appare come il nuovo Dio dell’Occidente, al punto che Pinchard può parlare del libro come di un libro teologico e mitologico – oltre la dimensione della scienza economica – che per importanza sostituisce la Bibbia, che diviene di fatto la Bibbia del proletariato, e che non è privo di un’atmosfera mistica nel momento in cui Marx ci fa balenare dinanzi la prospettiva della catastrofe. Di Marx come autore indispensabile dinanzi all’attuale forza regressiva del capitalismo, sul piano della distruzione ambientale e su quello dell’insoddisfazione dei bisogni, aveva già parlato Costanzo Preve, proponendone un recupero come pensatore capace di fondare un comunitarismo alternativo all’attuale individualismo atomistico. Secondo Preve, dunque, con Marx era possibile tornare a dare senso alle relazioni tra gli uomini. Di certo la ricchezza della sua opera si presta non solo a molteplici interpretazioni, ma anche a molteplici utilizzi, purché non si sfruttino ancora una volta le sue intuizioni per imbellettare ideologie già sconfitte dalla storia e ormai improponibili. Sono dunque le pagine marxiane, più che quelle marxiste, a tornare utili per ennesime prese di coscienza dinanzi ad un’attualità che sfugge ad ogni tentativo di sistematizzazione.  Presa di coscienza, allora, che è anche cammino verso una nuova identità, come singoli e come insieme di uomini e donne. Conoscenza, identità, consapevolezza. Non al servizio di un astratto classismo ma al servizio delle persone. Non potrebbe esserci riscatto migliore per un filosofo lordato dalla bruttezza del totalitarismo comunista.

Corridoni eroe e sindacalista. Un libro spiega perché la destra non può farne a meno, scrive lunedì 7 maggio 2018 "Il Secolo d’Italia". Filippo Corridoni (1887-1915) è il primo personaggio col quale viene inaugurata la collana “Profili” dell’editore Fergen. Un investimento in cui crede il fondatore della casa editrice, il giornalista Federico Gennaccari, e che è stato possibile grazie all’impegno del direttore Gennaro Malgieri il quale, dopo quello su Corridoni di cui è autore, ha in preparazione altri due volumetti: “L’ultimo Sorel” di Mario Missiroli e “Alfredo Rocco” di F.Coppola e M.Maraviglia. L’idea ricorda da vicino la collana Architrave del compianto editore Giovanni Volpe, anch’essa dedicata ad autori ritenuti veri e propri pilastri di una cultura rivoluzionario-conservatrice. Il libro di Malgieri su Corridoni, benché si esaurisca in sole cento pagine, è utilissimo per sfrondare il personaggio da ogni aureola mitologica e per mettere a fuoco e a nudo i temi centrali di un pensiero che si interruppe bruscamente con la morte nella Trincea delle Frasche nei pressi di San Martino del Carso, avvenuta il 23 ottobre del 1915. Corridoni resta il simbolo di un sindacalismo eroico, nel quale davvero Marx e Nietzsche “si danno la mano”: “Esso – scrive Malgieri – era il risultato della contemperanza tra l’elemento volontaristico-spirituale -mutuato dal pensiero di Friedrich Nietzsche – e delle ragioni preminentemente materiali del proletariato italiano su cui si era a lungo esercitato frequentando la scolastica marxista”. Il suo obiettivo era un sindacato capace di frenare e rovesciare la potenza corruttrice del capitalismo. Un’idea che, unita alla lezione di Sorel, lo condusse a concepire lo sciopero come continuazione nella lotta di classe delle guerre nazionali risorgimentali. Da ultimo, la Grande Guerra gli apparve come l’occasione irripetibile da cogliere per una rivoluzione materiale e spirituale del proletariato. Idee interessanti per l’Ugl, che ha ospitato nel suo salone delle conferenze la presentazione del libro di Malgieri, con Giuseppe Del Ninno e il segretario Paolo Capone. Quest’ultimo ha tenuto a sottolineare, tra l’altro, che dopo i disorientamenti del recente passato, figure come quella di Corridoni tornano a essere punto di riferimento imprescindibile per quel cammino di riappropriazione di identità che l’Ugl intende compiere.

Marx? Uno di destra. Per i filosofi starebbe con la Lega e lascerebbe la Fiom, scrive Bruno Giurato su "Lettera 43" il 25 gennaio 2011. Tra crisi economica e caduta delle ideologie torna lui. Se Marx non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non è una battuta. Karl Marx (1818-1883), il filosofo di Treviri, colui che ha traghettato la visione del materialismo antico in chiave di analisi economica e disincanto ontologico (ed è stato usato e abusato per navigare tra i marosi del secolo breve) allo stato attuale serve tanto a destra quanto a sinistra. Anzi, forse più a destra che a sinistra.

UNA FIORITURA DI TESTI. L'ultima interessante ripresa è un'intervista allo storico Eric Hobsbawm uscita il 16 gennaio 2011 sull'Observer, in occasione dell'ultimo libro del grande vecchio del marxismo europeo, How to change the world. Tales of Marx and Marxism. Dal libro di Hobsbawm, 93 anni, viene fuori un Marx liberato dagli eccessi ideologici dei decenni precedenti, analista lucido del mondo globalizzato (merito accordatogli anche da papa Benedetto XVI), fortemente anti-utopista. Il cui pensiero sarebbe un correttivo agli eccessi del capitalismo che avrebbero portato alla crisi economica. Il libro ha provocato reazioni e dibattito, in particolare una polemica recensione di James Purnell su Prospect Magazine. Ma anche in Italia il rinascimento marxiano è un dato di fatto, da qualche anno. Tra gli ultimi testi editi ricordiamo il volume di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (Laterza), la traduzione di Francis Wheen, Karl Marx. Una vita (Isbn edizioni); Karl Marx di Stefano Petrucciani (Carocci), e Karl Marx. Il capitalismo e la crisi, curato da Vladimiro Giacchè (Derive Approdi). E su un versante quasi pop-philosophie ricordiamo anche Bentornato Marx! Del giovanissimo Diego Fusaro (Bompiani).

Marx serve anche alla destra. Uno dei primi attori dell'ondata marxiana è Corrado Ocone, filosofo socialista liberale, crociano, docente all'università Luiss di Roma e autore di Marx visto da Corrado Ocone (Luiss University press), fortunato testo del 2007. Ocone è anche l'organizzatore del Seminario permanente di studi marxiani, sempre nell'ambito dell'ateneo confindustriale. A Ocone abbiamo chiesto il motivo delle riprese marxiane di questi anni. «Marx è semplicemente un autore classico da cui non si può prescindere, i suoi sono insegnamenti universalmente umani. Ha pensato in profondità, anche se, come diceva Hegel, «grande pensatore, grande errore». Ha dato gli strumenti fondamentali per capire «il modo di produzione capitalistico» (Marx non ha mai usato il sostantivo capitalismo). I presupposti e i meccanismi della società attuale sono stati messi in luce per la prima volta da lui. Da questo non può prescindere anche chi marxista non è».

IL MONDO RIDOTTO A MERCE. Secondo Ocone, Marx oggi è necessario anche a destra. Storicamente i pensatori liberali si sono da sempre confrontati con il loro 'miglior nemico', e lo ha fatto in maniera approfondita lo stesso Benedetto Croce, ma oggi le analisi disincantate di Marx sono un ingrediente essenziale per capire l'economia e la società. «Il mondo di produzione di oggi assume caratteristiche di globalizzazione, con il predominio totale della finanza, il predominio del capitale per il capitale. È un mondo ridotto a merce, come ne il Manifesto. Quello che Jacques Derrida, che è stato un grande studioso di Marx, definisce 'il mondo degli spettri'», continua Ocone. In questa prospettiva Marx è un ottimo correttivo rispetto al capitalismo puro: «Marx ha capito che il modo di produzione capitalistico è il migliore finora conosciuto (e infatti nessuno come lui ha messo in luce l'aspetto positivo della borghesia), ma tende, se lasciato libero, a occupare spazi non suoi e infine a contraddire le sue premesse. Il compito della politica è proprio limitare le conseguenza negative del capitalismo: un compito di regolazione e controllo, dunque. La politica da sempre è un mix di rapporti di forze e idealità», conclude il docente della Luiss.

Umberto Curi: La Lega? È marxista. Umberto Curi, ordinario di storia della filosofia contemporanea all'università di Padova, e storico interprete di Marx, mette in luce un paradosso produttivo nella reinassance marxiana: «La ragione di fondo del ritorno di Marx», ha dichiarato a Lettera43.it «è la caduta del marxismo stesso, che ha fatto emergere l'intrinseco rilievo teorico del suo pensiero. Marx è stato maltrattato perché travisato dalle ideologie. Uno dei non molti aspetti positivi della caduta del muro di Berlino è stato sottrarre Marx all'identificazione con le ideologie di partito». Secondo Curi bisogna anche chiarire i legami tra Marx e la filosofia antica: «Nello scritto giovanile sugli atomisti sono significative le ultime frasi, quelle che parlano di Prometeo come “grande santo e martire del calendario filosofico”. Quindi non è tanto importante la sua vicinanza al materialismo antico, quanto il riconoscimento della grandezza di Prometeo, figura tutta umana, simbolo di affrancamento della ragione da qualsiasi tutela. Marx resta un indisciplinato. È un aspetto che oggi i giovani sanno cogliere benissimo: il tratto distintivo dell'antidogmatismo. Nella corrispondenza con Engels, per esempio, si vede bene l'aspetto corrosivo, caustico, di Marx». Ma quali sono, secondo Curi, i testi da cui partire? «Forse il testo chiave è il primo libro del Capitale, in particolare la IV sezione, in cui riesce a svelare il meccanismo oggettivo del funzionamento del capitalismo. È un momento di grandiosa tragicità prometeica. C'è un punto, proprio nel carteggio con Engels, in cui Marx indica i meriti del lavoro fatto (cosa strana in lui, che andava ripetendo: 'io non sono un marxista'). Secondo lui il meglio del suo lavoro era la scoperta del lavoro come valore concreto/astratto e la scoperta dell'origine del plusvalore».

CONTRO LA RETORICA PACIFISTA. Ma, un secolo e passa di distanza e dopo intere biblioteche scritte su di lui, può un pensatore come Marx essere usato come profeta politico per gli anni a venire? Secondo Curi «è impossibile tirare Marx per la giacca come profeta di scenari futuri. Proprio questa tendenza ha portato prima ad osannarlo e poi a dimenticarlo. Ma lui l'aveva detto: “Mi rifiuto di fornire ricette per le osterie dell'avvenire”. Fu un maestro dell'analisi. Non tanto nelle dispute astratte sul metodo, quanto nella capacità di usare gli strumenti necessari (filosofici, sociologici, economici, letterari) e di individuare le linee di tendenza. Da questo punto di vista è un nostro contemporaneo, non un profeta». E il primo merito di Marx, secondo Curi è quello di aver riconosciuto la base conflittuale della politica: «Quella di Eraclito-Platone-Karl Schmitt è la linea filosofica secondo cui Polemos, il Conflitto, è il re di tutte le cose, e questo vale contro ogni retorica fiaccamente pacifista. Il vero problema politico è come disciplinare il conflitto. Già Platone riconosce la “strutturalità” e l'ineluttabilità del conflitto. Infatti i teorici comunisti dicevano che la rivoluzione e l'affrancamento delle classi oppresse sarebbero avvenute in concomitanza con una guerra mondiale. Non a caso la rivoluzione russa avvenne durante la prima guerra mondiale. Alla base, quindi c'è la consapevolezza dell'incancellabilità della guerra, della crisi, dall'orizzonte umano. D'altra parte il compito della politica è proprio questo, quello di incanalare le energie del polemos». Oggi, secondo Curi, la forza politica che in Italia incarna meglio una politica basata sui reali rapporti di forza e non solo sulle idealità potrebbe essere la Lega: «Oggi il leghista è marxiano nel senso della difesa degli interessi. La Lega è marxista sia perché è rimasta l'ultima organizzazione politica leninista, sia perché i militanti sono mossi da un forte afflato ideale. Ma c'è qualcosa di più. Il tema del federalismo trova fondamento concettuale nel fatto che è il tentativo di valorizzare i poteri originari, quelli del territorio. Il radicamento territoriale. Gianfranco Miglio, il principale teorico leghista, sosteneva posizioni di questa natura».

Karl avrebbe scaricato la Fiom. Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, filosofo formatosi con l'operaismo e approdato a una rilettura sentita della filosofia dell'esistenza e della krisis, è una federalista convinto, da tempo. Notevoli le sue discussioni sul federalismo con Gianfranco Miglio. Cacciari precisa la differenza tra il suo concetto di federalismo e quello attuale della Lega bossiana. «Il federalismo di Miglio andava oltre lo stato, mirava e presupponeva una riorganizzazione federalistica dell'Unione Europea», ha detto Cacciari a Lettera43.it, «quello della Lega attuale è anacronistico, fatto di una serie di piccoli staterelli che si tengono stretto il loro capitale, che rassicurano cittadini malati di xenofobia». Anche per Cacciari la forza di Marx è avere scoperto lo stato di perenne conflittualità, strutturale all'economia, anzi all'uomo. Di più: la forza marxiana è sempre il riferimento alla dialettica di Hegel, cioè la scoperta della "produttività del negativo". E ovviamente, secondo Cacciari, non si tratta di una produttività semplicemente analitica. «L'importanza di M.», ha spiegato Cacciari, «è sia nella forza analitica, sia nel discorso politico. Se fosse stato solo un economista politico non si ricorderebbe. La sua forza è proprio nel fatto che, in base all'analisi scientifica si possono prevedere crisi e fine del capitalismo. Dal punto di vista dell'economia ha compreso che per il sistema capitalistico è in crisi fisiologica. È pieno di salti, rotture, mutamenti di stato legati a cambiamenti tecnologici. Ora ci troviamo proprio a quel punto, a partire dal grande salto tecnologico degli anni 80/90: un eccesso di danaro che non si riesce a trasformare in merce. Un'invasione di beni che immobilizza il mercato».

I CONTRATTI SONO SUPERATI. E come conciliare, quindi, il fatto che il mercato si evolve con la salvaguardia dei diritti dei lavoratori? Il conflitto è in corso e un esempio anche drammatico è nella vicenda del referendum di Mirafiori, che ha contrapposto la dirigenza Fiat alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. «Anche Marx aveva chiaro che il capitalismo mondiale sarebbe fuoriuscito da ogni forma di contrattazione nazionale. Queste ormai sono forme luddistiche», sostiene Cacciari, «le regole di contrattazione nazionale possono sognarsele solo il vecchio sindacalista della Fiom ed Emma Marcegaglia. Bisogna prendere atto dell'impotenza di certe battaglie. È legittimo che l'operaio si difenda, ma è ovvio che a questo punto non c'è niente da fare», conclude. E a questo punto sorge spontanea, per restare in tema, la domanda di Lenin: «Che fare?» di fronte alla crisi economica globale? Cacciari ha una risposta che andrebbe oltre: «L'unica novità che Marx non aveva previsto è la possibilità che l'intervento pubblico internazionale potesse salvare il sistema. Aveva ben chiaro, come del resto gli economisti liberisti, il carattere globale del capitalismo, ma non poteva prevedere la possibilità di un intervento pubblico coordinato, a livello sovranazionale. A mio parere è l'unica strada attualmente percorribile».

Sorpresa, Ratzinger è un fan di Karl Marx. Benedetto XVI, teologo fine, non è certo marxista. Ma il pensiero del padre del comunismo è stato oggetto di interesse da parte di Ratzinger nell'enciclica del 2007 Spe Salvi dove, prima di criticarlo in modo inequivocabile, l'ex Papa riconosce la grande lucidità analitica del pensiero di Marx, scrive Samuele Maccolini il 17 Febbraio 2018 su "L’Inkiesta”. Correva l’anno 2007 e sul trono pontificio sedeva Benedetto XVI, Joseph Aloisius Ratzinger. A novembre il papa emerito fece uscire un’enciclica denominata Spe Salvi, la seconda da quando era salito in cattedra. Possiamo dire che il Papa con questo testo intende porre l’attenzione sul tema della fede vista come speranza che trasforma e sorregge la vita dei credenti. Ratzinger spiega che il messaggio cristiano non è solo «informativo», ma «performativo»; il Vangelo non è quindi soltanto una comunicazione di conoscenza, ma è una comunicazione che produce fattualità. Benedetto XVI inizia così il suo percorso partendo dagli albori del mondo cristiano, rileggendo la storia, la società e i costumi dei tempi che furono per spiegare l’evoluzione della fede e il tema onnipresente della speranza. Quello che è uno dei più grandi teologi della storia recente non si risparmia in citazioni, e si misura con grandi uomini di pensiero: da Bacone, a Kant, ai grandi pensatori della scuola di Francoforte. Un afflato laico che forse non ci saremmo mai aspettati da un Papa che, a differenza di Francesco, trasmette molta meno empatia. Ma, a parte la lettura scorrevole e di grande interesse del testo, è impossibile rinunciare a lasciarsi coinvolgere quando si raggiunge uno dei punti più interessanti di tutta l’enciclica, ovvero quando Benedetto XVI rende conto del pensiero di Karl Marx, dandone la sua personale interpretazione. Il ragionamento di Ratzinger risiede nel capitoletto denominato La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno, che inizia con una domanda: “Come ha potuto svilupparsi l'idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo?”. Ragionando con Bacone sulla vittoria dell’arte sulla natura, passando per l’idea centrale di progresso che si basa su ragione e libertà, il papa emerito giunge alla feroce denuncia di Engels, che nel 1845 illustrò in modo sconvolgente le terribili condizioni di vita del proletariato industriale. “Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza – verso quello che Kant aveva qualificato come il «regno di Dio». Essendosi dileguata la verità dell'aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell'aldiquà”. Con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. E ancora: “con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo”. Ricapitolando, papa Benedetto XVI elogia a carte scoperte il pensiero di Marx, che è: vigoroso; preciso e puntuale; di grande capacità analitica; di grande acutezza di analisi; e chiaro nell’indicazione degli strumenti. Certo, forse mai ci saremmo aspettati un elogio del genere nei confronti del padre del comunismo, ma ovviamente Ratzinger non è marxista, e la condanna infatti non tarda ad arrivare. Il Papa emerito spiega che se le idee erano chiare, non lo erano le indicazioni su cosa fare dopo il rovesciamento della società. “Così, dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun'indicazione sul come procedere”. Per Ratzinger l’errore di Marx si trova in profondità. È la concezione materialistica della storia, che nega la libertà di scegliere il bene, quanto il male. “Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli.” Così si conclude il personale ragionamento di Benedetto XVI sul comunismo. L’analisi del pensiero di Marx contenuta in Spe Salvi adirò perfino Cacciari, che commentò dicendo: “è una critica poco fondata, una riduzione di quel pensiero a materialismo economicista. Ma questo lo si sa da più di cent'anni, da quando Giovanni Gentile pubblicò “La filosofia di Marx” , nel 1899''. Comunque il legame tra il pensiero di Marx e quello Ratzinger risale a tempi più lontani. Infatti dalla biografia di Benedetto XVI scopriamo che: «nel mio corso di cristologia avevo cercato di reagire alla riduzione esistenzialistica e avevo persino cercato di porre a essa dei contrappesi desunti dal pensiero marxista, che, proprio per le sue origini giudaico-messianiche conservava ancora degli elementi cristiani». Insomma, sebbene la critica nei confronti del marxismo sia evidente e totale, è inutile negare che il pensiero del padre del comunismo sia stato oggetto di forte interesse da parte di Ratzinger. Due grandi pensatori a confronto. Anche se a debita distanza.

Bergoglio con Ratzinger sul marxismo: "Sbaglia: dipendiamo da Dio". Bergoglio con Ratzinger sul marxismo e sull'antitotalitarismo. Una prefazione del Santo Padre svela il pensiero dell'argentino sulla politica, scrive Francesco Boezi, Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Papa Bergoglio sul marxismo la pensa come Joseph Ratzinger. La prefazione che il Santo Padre ha scritto per il libro che raccoglie le riflessioni del Papa emerito sul rapporto tra fede e politica non lascia spazio a interpretazioni. Il testo sarà presentato venerdì prossimo al Senato. I relatori saranno d'eccezione: monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia, Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo, il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e l'arcivescovo emerito di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi. Il testo introduttivo del pontefice argentino è stato pubblicato in anteprima da La Stampa. La raccolta in questione è edita da Cantagalli. Bergoglio, attraverso la prefazione, smentisce quanti ritengono che egli sia un malcelato sostenitore dell'ideologia marxista. Il pontefice argentino evidenzia l'errore di fondo del marxismo: credere che la redenzione possa avvenire per mezzo di un'idea falsa di libertà. Sottolinea infatti l'ex arcivescovo di Buenos Aires citando il teologo tedesco: "Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece – e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà – dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: "La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?". Anche per Papa Bergoglio, allora, diviene evidente come Karl Marx abbia sbagliato nel non riconoscere all'uomo l'unica dipendenza utile alla salvezza individuale: quella da Dio. Una considerazione simile vale per tutti gli stati totalitari, da quello sorto con l'impero romano a quello nazista. Emerge così che Papa Francesco, come Benedetto XVI, ritiene che Dio sia l'unica "totalità" possibile per l'essere umano. Qualunque elevazione dello stato a totalità assoluta rappresenta una distorsione del piano della realtà. Viene affrontato anche il tema dell'obbedienza: per entrambi i pontefici è necessario che vengano posti dei limiti nei confronti delle entità statali. L'assolutezza dell'obbedienza deve essere riservata solo a Dio. Il Santo Padre, ancora una volta, ribadisce l'esistenza di una sorta di inganno perpetrato con la promozione di presunti "diritti" umani. Così come evidenziato più volte nei confronti dell'ideologia gender, Bergoglio scrive che:" questi apparenti "diritti...hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua...". Sembra chiaro il riferimento a quella "colonizzazione ideologica" contro cui Papa Francesco si è scagliato in tempi non sospetti in relazione alla dissoluzione della famiglia tradizionale. Il bene di quest'ultima è considerato "decisivo per il futuro del mondo". Riflessioni che la politica è chiamata a tenere in considerazione. Quella di Papa Francesco è una prefazione "ratzingeriana", che chiarisce, forse in modo definitivo, l'infondatezza delle teorie che lo rappresentano come un "Papa di sinistra".

Bertinotti si confessa a "Libero Quotidiano": "Non sono più comunista e vi spiego perché ho scelto". Intervista di Luca Telese del 26 Aprile 2016.

Presidente Bertinotti, lei ha stupito tutti con l’intervista al Corsera in cui ha rivelato la sua apertura verso Comunione e Liberazione. 

«Su questo punto non ho da aggiungere nulla, ho già detto».

Sembra seccato. 

«Ho raccontato di aver trovato in Cl molto di più e di diverso di quel che mi aspettavo, in primo luogo il suo popolo».

L’ha stupita il popolo di Cielle? 

«Guardi, non aggiungo altro: ho subito un’offensiva mediatica e una campagna di strumentalizzazione. Sono abituato. Ho ricordato che per Gramsci l’intellettuale può rappresentare il popolo solo se ha con lui “una connessione sentimentale”. Questo sentimento, tra loro, l’ho trovato».

Però la sento arrabbiata.

«Anche lo scontro politico più duro dovrebbe partire dai fatti, e non dalle invettive. Ma lasciamo perdere. Io dico cose sgradevoli per la destra e per la sinistra, ne sono consapevole».

Ad esempio? 

«Sostengo che la storia politica nata col movimento operaio del Novecento si è esaurita».

E a chi dà fastidio?

«A molti: è un terreno di lotta politica a sinistra».

Ma perché ci tiene così tanto a sottolinearlo proprio lei che ha lavorato per venti anni alla Rifondazione del comunismo?

«Mi interessa costruire. Se non si prende atto dolorosamente di una sconfitta irrevocabile della sinistra storica non si può riprendere il cammino, in nessuna direzione».

E chi altro scontenta?

«Ovviamente la sinistra liberista. Ormai, a tenere alto il livello di criticità contro la dittatura del mercato è rimasta, praticamente sola, la Chiesa di Papa Francesco».

È un Fausto Bertinotti che stupisce. L’ex presidente della Camera non ha mai smesso il suo lavoro di riflessione sulla sua rivista, Alternative per il Socialismo. Però un conto è il passo del saggista, un altro sono le sue opinioni contundenti, spesso spiazzanti, e le sue uscite pubbliche. Oggi Bertinotti si dedica soltanto alla ricerca intellettuale, ma le sue posizioni sono più radicali di quando - una vita fa - era un leader politico. «La democrazia rappresentativa, in Occidente - sostiene oggi - non esiste più. È stata disarticolata, svuotata di ogni significato».

Bertinotti, se un compagno di Rifondazione la sentisse elogiare Cielle, dichiarare esaurita la storia del movimento operaio, o che la democrazia è finita dubiterebbe di lei. 

«Io dico che a sinistra le piste sono esaurite: le due anime che conosciamo non hanno più nulla da dire».

Quali piste?

«Sia l’anima nuovista che quella che si rifugia nella tutela identitaria come se nulla fosse accaduto».

I “nuovisti” sono i socialdemocratici e i renziani del Pd?

«Sono quelli che io considero letteralmente trascinati - nel mio linguaggio - dal nuovo capitalismo».

Ci sono esperienze che lei trova molto interessanti, in Europa? 

«Sì: quelle di chi si mette sul terreno del nuovo, senza rapporti con la storia del Novecento: Siryza e Podemos sono esperienze estranee alla storia del movimento operaio».

Podemos non è di sinistra?

«Non la definisco una formazione di sinistra. Vale quello che dice il suo leader Pablo Iglesias: “Io sono gramsciano, di sinistra. Il mio partito no”».

Cosa vede di nuovo in Europa?

«Sono vive solo le formazioni politiche che interpretano il conflitto fra l’alto e il basso».

I populismi?

«I cosiddetti populismi nascono dalla contesa tra alto e basso, poveri e ricchi. Ci sono anche quelli di tipo trasversale, come Grillo. Ma sia a destra che a sinistra il nodo è questo. Podemos e Syriza sono un esempio clamoroso di popolo contro le élite».

Lei considera élite, indistintamente, sia la Merkel che Hollande? 

«Sì. Le élite di sinistra sono più inclusive di quelle liberiste, ma entrambe individuano la critica al mercato come una critica alla modernità».

Da qui il suo avvicinamento alle correnti critiche che nascono all’interno della Chiesa?

«“Laudato sii” è una lettura preziosa per capire questo tempo, riconoscendo al Pontefice la sua autonomia dalla politica e il suo carisma».

Qual è il discrimine, per lei, se non è più quello tra destra e sinistra tradizionale? 

«Semplice: tra chi è per l’inclusione e per l’eguaglianza e chi invece è per l’esclusione e per la disuguaglianza».

In questo campo lei mette tutte le sinistre socialdemocratiche?

«In Europa si è strutturato un soggetto nuovo e sovranazionale che ha come obiettivo la conservazione degli attuali rapporti di forza, l’idea di far pagare la crisi ai più poveri».

Chi fa parte di questo soggetto?

«Un soggetto che chiamo, molto semplicemente, governo. Non importano le facce, i leader: quelle passano. Il governo resta e persegue i suoi obiettivi di stabilizzazione del sistema».

E come fa? 

«Questi tempi hanno partorito una filosofia politica - la “governamentabilità” - e una pratica politica, la “governabilità”. Parliamo dell’Italia e delle politiche economiche: non vedo sostanziali differenze tra Monti, Letta e Renzi».

Se fosse così votare sarebbe inutile!

«E infatti si inventano parole complesse per definire un fenomeno semplice. Si parla di “democrazia funzionale” o “democrazia autoritaria”. Ma l’essenza è che non c’è più democrazia, possibilità di cambiare direzione alle politiche dei governi per effetto della volontà popolare».

Mi faccia un esempio. 

«Io le ho parlato di élite, ma potremmo dire: oligarchie. Prenda Renzi, Monti, Valls, Hollande e Merkel, le istituzioni europee, il fondo monetario. Fanno tutti, in modo diverso, una cosa sola: austerità».

Cos’è? Bilderberg? La Spectre?

«Nulla di misterioso, complottistico o segreto: è sotto gli occhi dei cittadini. Questi leader fanno parte di un sovragoverno: banche centrali, esecutivi, istituzioni internazionali».

Ma sono paesi diversissimi fra di loro, spesso in conflitto!

«Oggi Le Monde parla del ministro del tesoro francese che ha come idea cardine il superamento della differenza tra gauche e droite. Non lo sentiamo in Italia da dieci anni?».

Anche in altri paesi.

«La Merkel infatti c’è riuscita a tal punto che governa con i socialdemocratici che per molti versi sono alla sua destra».

Addirittura. 

«Sulla vicenda greca è stato così. Nella sostanza il governo dell’Europa è questo: Verdini e il Partito della Nazione sono variabili nazionali pittoresche e quasi trascurabili».

Facciamo un altro esempio. 

«In Francia i socialisti godono di un monocolore in parlamento e non hanno bisogno nemmeno di escamotage come Ncd o Ala».

Già. 

«Ma dopo tre anni precipitano dal 49% al 12% e Hollande non arriva al ballottaggio. Quello che determina il corso della politica è la governabilità. Se si sostituisce Hollande si cerca di fare in modo che nulla cambi negli equilibri e nelle politiche».

Facciamo un altro esempio. 

«Nessuno ha dissentito quando si è trattato di strangolare il governo greco. I presunti leader di sinistra, se possibile, sono stati i più subalterni e feroci. Oggi, che si prepara un nuovo giro di vite, nessuno protesta.

Perché?

«Semplice: perché l’austerità mina il consenso, lo divora. Annichilisce i sorrisi e l’ottimismo dei premier. Dopo un anno o due sono già da buttare, e si prepara una nuova operazione di camuffamento».

Così è sicuro che la governabilità tenga?

«Per nulla. Infatti si procede verso una progressiva riforma delle istituzioni, una democrazia neo autoritaria».

Riesce?

«L’altro escamotage è questo: determinare e accentuare un conflitto politico con forze che non possono governare.

Così connotate in senso radicale che nel momento della sfida per il governo è impossibile che vincano».

Esempio?

«In Italia è facile, Grillo. Ma anche Farage in Gran Bretagna».

Lei non cita la Le Pen.

«È un fenomeno di populismo più complesso, più strutturato, viene da una tradizione politica solida».

È uno scenario apocalittico. 

«Il flusso della governabilità è stabile, ma le società sono impoverite ed instabili: i banchieri centrali tengono le redini perché sono i sacerdoti di questa economia perdente, ma ancora capace di incantare i credenti».

La governabilità, come la chiama lei, non si può battere?

«Non lo penso. Ma dopo sette anni di crisi, non è accaduto. La nuova Conventio ad escludendum, come accadeva per il Pci degli anni Settanta, dice che non può esserci un governo diverso. Se cade questo ce n’è sempre un altro, e magari un presidente che nel momento di crisi non fa votare».

 Lei pensa che ci sia un leader in cui questa politica si identifica?

«Il vecchio Marx diceva: se guardi il singolo capitalista, non capisci il capitalismo. Guarda l’intero fenomeno, in modo scientifico, e lo vedrai».

Noto quasi ammirazione in lei.

«Non ammirazione, ma osservo: nessun altro sistema di consenso avrebbe retto ad un crollo così drastico di ricchezza. Ad una sottrazione di risorse così ampia per i popoli».

C’è ancora speranza di cambiare. 

«Ricordo una storica citazione di uno dei miei maestri, Riccardo Lombardi: “Guardate l’indice di disoccupazione. Se finisce sopra il 10% la democrazia è a rischio”».

Bella, ma siamo oltre il 10%. 

«Nella prima repubblica era così. Ma la profezia di Lombardi si è avverata. Infatti le regole di gioco sono cambiate».

Quali?

«Quelle fondamentali. La democrazia l’hanno già uccisa. Ne discutiamo come se esistesse ancora».

Cosa cambia?

«Nel tempo della governabilità la coppia giusto-sbagliato viene sostituita da funzionale-non funzionale».

Cosa conta ora? 

«Se le regole danno noia ai manovratori cambia le regole. Non a caso il dibattito ci dice che serve un ministro delle Finanze unico, un ministro della Difesa unico, un governo dei governi unico. C’è chi teorizza di non votare per periodi di emergenza economica. Il sistema attuale è irriformabile».

Questo è nichilismo cosmico! 

«La speranza di riforma può arrivare solo da fuori dal recinto. Solo dai barbari oggi esclusi!».

Ha simpatia per i barbari, ora? 

«Oh, certo. Machiavelli considerava Roma superiore alle altre civiltà perché ammetteva la rivolta e si rigenerava attraverso di essa. La rivolta reintroduceva nel sistema le forze escluse».

Dove le vede queste possibili rivolte?

«Nelle forme inedite dei movimenti sociali. Lei sorride: ma gli Indignandos spagnoli hanno partorito Podemos e Occupy Wall street: Bernie Sanders».

Ma non sono forme vincenti. 

«Per ora. Oggi studio le esperienze di auto-produzioni, di mutuo soccorso. Quello che chiamo il sottobosco».

Facciamo un altro esempio. 

«Leggo su Repubblica che i vaucher aiutano il sommerso. Il vaucher è lo strumento di un nuovo caporalato. Di nuovo le regole stravolte: la legge legalizza l’illegalità. In Francia la nuova legge sul lavoro è una fotocopia del Jobs act».

Sa già da dove arriveranno i barbari?

«La nuova sinistra non nascerà da una costola della vecchia: finché vive il movimento operaio il nuovo nasce sempre per “spirito di scissione”. Ovvero: tornare alle ragioni originarie per sanare un tradimento».

E oggi?

«Non c'è più nulla da cui scindersi. Tu sei un’altra storia, non hai più una casa dove tornare».

Bertinotti, lei cosa vota?

«Riconosco che risponderò con un trucco: “Sono un militante comunista. Non ho nulla da dichiarare”».

Non vota più?

«Voto per scegliere il meno peggio. Per governare la città. Ma non credo che la rinascita della sinistra passi per una campagna elettorale».

Senza Marx siamo come gattini ciechi. Ma per farlo vivere va superato. 200 anni fa nasceva il pensatore politico che avrebbe sconvolto il 900. Oggi è ancora attuale? Scrive Fausto Bertinotti il 6 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Uno spettro si aggira per l’Europa. Se non è lo spettro del comunismo, come suggeriva Il Manifesto del Partito comunista, lo è però il suo autore. Marx dopo Marx. Non è questa l’occasione per una riflessione su Marx e i marxismi tra teoria e storia. Ma qualsiasi pensiero sul grande vecchio non può che partire da una constatazione gigantesca. Un intero secolo, il 900, è stato caratterizzato da ciò che Louis Althusser ha chiamato “l’unione del movimento operaio e della teoria marxista”, “la fusione” secondo Lenin. Se ci sono tanti Marx in uno, quell’uno, allora, può essere definito il teorico della Rivoluzione. Credo si possa dire che il suo stesso lavoro teorico di critica della società fondata sulla generalizzazione della produzione per il mercato è preparatoria alla messa in evidenza, in essa, del suo becchino ed erede, il proletariato. La critica di Marx al modo di produzione capitalistico, al cui centro c’è lo sfruttamento e l’alienazione del lavoro salariato, non avrebbe segnato la storia della lotta di classe senza l’individuazione, in esso e contro di esso, del soggetto della trasformazione e senza la messa in luce della leva che fa la storia. L’apertura del Manifesto è rivelatrice: «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi… Una lotta che finì sempre con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società con la rovina comune delle classi in lotta». Altro che determinismo! Nella lotta per la liberazione dell’uomo si vince e si perde, drammaticamente. Nella storia reale, nel conflitto questo è ciò che accade. Dopo il crollo dei regimi post- rivoluzionari dell’Est e la sconfitta del movimento operaio a Ovest, dopo l’avvento del vincitore della contesa, il nuovo capitalismo, Marx è stato dato per morto e sepolto. Ma proprio la nuova realtà capitalistica (la globalizzazione capitalistica e la sua crisi) ha falsificato la tesi. Il pensiero economico egemone non riesce a padroneggiare la crisi. Ritorna perciò sulla scena il capitalismo come problema e questo non si può affrontare senza Marx. Il campo delle idee ne vede una conferma clamorosa. In Germania in un anno si è venduta l’opera di Marx quanto la Bibbia. In questi ultimi mesi si è accorsi nelle sale cinematografiche a vedere un film sulla sua vita. Ma più significativamente, in questi ultimi anni, è nato e si è affermato un fenomeno culturale che ha invaso il mondo degli studi, si è chiamato “Marx renaissance”. Esso vede la produzione, la pubblicazione e la diffusione di un amplissimo materiale di ricerca e di pensiero critico tra teoria e storia, indagando Marx e i marxismi. L’onda partita nelle università ha investito persino un luogo come la Biennale di Venezia e l’arte del nostro tempo. C’è chi limita il senso politico della “Marx renaissance” sostenendo che si tratta di un’operazione essenzialmente filologica. Non credo che il fenomeno possa essere rinchiuso solo in questa dimensione. Ma questo ci dice anche altro. È stato detto autorevolmente che il marxismo, se ha un valore conoscitivo, è perché si situa su un complesso di forme concrete (da quelle storico politiche a quelle più legate alla critica dell’economia politica). È la grande questione del rapporto tra teoria e prassi nella trasformazione. Marx aveva provato a indicare la via per rovesciare un mondo, che sembra camminare sulla testa, e rimetterlo sui piedi. Anche il compito della filosofia veniva così ridefinito al fine di trasformare la società. Basti una celebre frase dell’Ideologia tedesca per darci conto della radicalità della rottura marxiana e della natura della fondazione in essa della rivoluzione. «L’esistenza di un’idea rivoluzionaria in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria». È il Marx che entra direttamente nella lotta di classe e i termini che vi introduce diventeranno la lingua stessa di quest’ultima: modo di produzione, rapporti di produzione, forze produttive, classi sociali, ideologia dominante, lotta di classe. E ora? Il fantasma è qui tra noi e ci obbliga a considerare quel gigantesco problema per l’umanità che ancora si chiama capitalismo. Ci dice che non si può farlo senza di lui, ma ci dice, contemporaneamente, che egli va oltrepassato perché il teorico della rivoluzione possa vivere in un altro corpo. Esso può vivere davvero, infatti, solo nell’attualità del comunismo, del movimento che abbatte l’ordine delle cose esistenti quale che sia l’interpretazione che si voglia dare alla teoria del valore. Non è un caso che da noi la grande faccia di Marx sia apparsa così per l’ultima volta, in una gigantografia sulla porta della Fiat di Mirafiori durante i 35 giorni della dura lotta operaia. È la chiusura di un ciclo che, aperto dal ’ 68-’ 69 dall’irruzione sulla scena di un nuovo soggetto sociale, aveva riproposto l’attualità dell’una, la trasformazione, attraverso il livello del conflitto, e dell’altro, il pensiero rivoluzionario. Quel ciclo concludeva a sua volta il secolo che, avviato dalla vittoriosa rivoluzione bolscevica del ’ 17 in Russia, aveva vissuto guerre e rivoluzioni sotto il segno del movimento operaio e della sua alleanza con la teoria marxista. Era, quella avviata dal biennio rosso, una fine e avrebbe potuto essere un nuovo inizio. Nella lotta di classe si può vincere e perdere. Credo sia utile per l’oggi e per il domani ricordare che lo straordinario ritorno di un nuovo Marx connotò di sé, in quel biennio, l’avvio di un nuovo e diverso conflitto sociale. Ancora una volta si era affacciato, nella storia, l’imprevisto. Un’opera di Marx fino ad allora sconosciuta, i Grundrisse, ne aveva rinnovato dagli inizi degli anni 60 la lettura e l’aveva riconnessa con la concreta lotta di classe. È il 1964 quando Raniero Panzieri pubblica sui Quaderni Rossi “Il frammento sulle macchine”. È forse quella l’ultima stagione in cui Marx riguadagna l’attualità, tanto che con il pensiero entrano in contatto tutti i nuovi marxsismi eretici, tutte le nuove prassi critiche da quella di Francoforte, a Foucault, a Marcuse. Due lezioni di questo passato che ci hanno riportato a Marx ci conducono anche ora a immaginare chissà quanti possibili suoi ritorni. La prima è che con i Grundrisse l’analisi teorica è diventata essa stessa costitutiva delle pratiche rivoluzionarie. La seconda risiede direttamente nel corpo del pensiero di Marx che porta al cuore della rivoluzione capitalistica. Vediamo, solo per fare un esempio, come Marx legge le metamorfosi che la sussunzione del lavoro nel processo di produzione del capitale realizza: «Un SISTEMA AUTOMATICO di macchinari … azionato da un automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa è costituito da numerosi organi meccanici e intellettuali, cosicchè gli operai stessi sono determinati soltanto come sue braccia coscienti». Marx continua a parlarci del “lavoro astratto” e del lavoro vivo, dello sfruttamento e dell’alienazione del lavoro proprio dentro la rivoluzione capitalistica in corso. La scienza, la tecnica, l’algoritmo e l’intelligenza artificiale ci stanno conducendo al sistema artificiale, ci stanno conducendo al sistema automatico di macchinari nel governo pieno, per quanto precario e a rischio persino di autodistruzione, del capitale. Cosa resta fuori? Cos’è oggi il “residuo”? Da quali ordini di contraddizioni può rinascere, se può rinascere, la lotta per la liberazione del e dal lavoro salariato? E chi è il soggetto della critica e della nuova e inedita lotta di classe? Da qui la necessità di Marx e, insieme, del suo oltrepassamento. Senza di lui si finirebbe per essere solo dei gattini ciechi. Ma Marx non basta né a formare il pensiero critico del nuovo capitalismo né a scorgere ormai il nuovo (plurale) soggetto della liberazione. Non è un caso tuttavia che ogni ritualizzazione della grande questione (critica e soggetto della lotta di classe) ha visto i nuovi protagonisti ricorrere a un’eredità del Marx politico, l’inchiesta operaia. La ragione c’è. Il fantasma vorrebbe che non ci distraessimo proprio, così da poter ritornare tra noi. La consegna è tanto semplice quanto enorme e l’egualianza è la meta e con essa la liberazione dell’uomo da ogni forma di alienazione. Se dovessi dire perché Marx, direi perché ci ha detto che la liberazione dei lavoratori e delle lavoratrici non può che essere opera dei lavoratori stessi. Ieri, come oggi, come domani, ma mai allo stesso modo e mai con la sicurezza di vincere. Piuttosto andando, quando accade, verso un aut- aut. Ha scritto Franco Rodano che, con la categoria della rivoluzione, la politica ha raggiunto il suo punto più alto. Ma con la lettura proposta da Marx si può dire che la rivoluzione ha proposto, nello stesso tempo, la critica più radicale alla separatezza della politica. Karl Marx, lunga vita, allora.

Non ero marxista ma grazie a Marx ho capito il lavoro. Un sindacalista cattolico racconta la sua vita nel movimento operaio, scrive Savino Pezzotta il 6 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non sono mai stato marxista ma certamente attento al suo pensiero. Nella mia gioventù lessi diversi suoi testi: Il manifesto, Critica dell’economia politica e Il Capitale. Nonostante tutte le difficoltà di comprensione, rimasi sorpreso di come Marx fosse attento alla “vita reale” dei lavoratori, ma questo non bastò a convincermi che quella, parzialmente delineata, fosse la prospettiva. Nonostante i dubbi sono stato molto attento al pensiero di Carlo Marx e ne sono stato indirettamente influenzato come del resto, per adesione o contrasto, tutti coloro che hanno militato nel movimento operaio e sindacale. Ho dovuto fare i conti con lui. Da questo punto di vista il suo pensiero continua a aggirarsi tra noi. Sebbene il comunismo bolscevico sia fallito, Marx rimane presente nel nostro linguaggio e nel nostro modo di pensare. Anzi penso che il fallimento disastroso del bolscevismo sovietico ci consenta oggi di discuterne con maggiore libertà e fuori da ogni dogmatismo e di poter assumere il marxismo alla stregua di altre ipotesi politiche e sociali, così come il movimento operaio non può essere pensato solo come marxista. Il movimento operaio è stato un fenomeno sociale molto importante e certamente con la sua esistenza ha segnato in profondità l’evolversi delle società industriali e della democrazia. Va però tenuto presente che è stato un movimento plurale in cui hanno convissuto, scontrate e organizzate diverse componenti culturali ed ideali dando vita a forme organizzative estremamente diversificate con mezzi e finalità con sempre conciliabili. Personalmente anche se non ero marxista mi sono sempre sentito parte di questo movimento. Lo sono stato principalmente ed esclusivamente da sindacalista. Parlare oggi di soldi, lavoro, classe o di governo molte volte significa ricorrere, utilizzare, dialogare o entrare in dialettica con il linguaggio di Marx. Le nostre menti sono state disciplinate e addestrate dal sistema in cui viviamo, e sicuramente Marx e stato uno, anche se non l’unico, che ha contribuito a darci i mezzi per pensare, valutare e analizzare il sistema economico nato con la rivoluzione industriale. Ci aiutato a definire il capitalismo come modello e sistema economico e sociale, e ha ricercare gli strumenti per esaminarlo. Sono anche convinto che Marx, senza volerlo, abbia contribuito a renderci compatibili con il capitalismo. A 15 anni, quando sono stato assunto dalla grande fabbrica tessile, le condizioni di lavoro erano pesanti e non solo sul piano della fatica fisica e psicologica, ma sul terreno della libertà. Dominava un regime autoritario e di completa subordinazione. Ero un ragazzino che era entrato in fabbrica con un certo entusiasmo, ma presto aveva dovuto fare i conti con un sistema organizzativo fortemente gerarchico che non lasciava nessun spazio per la libertà individuale. Il senso di insoddisfazione mi ha facilitato l’incontrarmi con i compagni comunisti, poiché in fabbrica le tensioni della competizione ideologica perdevano di consistenza dovendo tutti fare i conti con la durezza della realtà: obbligati a lavorare in ambienti malsani, a fare turni di 12 ore al giorno, ad essere costantemente sottoposti ai capi e capetti di vario tipo e umore. Oggi si parla molto di Adriano Olivetti, ma non tutti abbiamo lavorato ad Ivrea. Sono state queste condizioni che mi hanno spinto sulla strada dell’impegno sindacale. Non ho incontrato marxisti ma persone che aderivano al Pci o alla Cgil, la cui adesione al partito più che fondarsi sulla teoria marxista era l’espressione di un forte desiderio di giustizia e di libertà. Eravamo poco interessati ad immaginare le alternative possibili al capitalismo, ma volevamo individuare strade e azioni per migliorare i salari, le condizioni di lavoro e riformare in senso solidale e di giustizia sociale la società. Ho sempre avuto l’impressione che più il comunismo predominasse in tutti noi una forma di laburismo. Ed era questo clima che consentiva al sottoscritto di essere democristiano e nello stesso di avere profondi rapporti di amicizia, di collaborazione, di lotta e negoziazione con i “compagni”. Certamente sulla formazione del mio pensiero sociale e sindacale ha fortemente influito il dibattito interno alla Cisl che vede, negli anni 60 del secolo scorso, il passaggio, non senza duri contrasti interni, da un sostanziale moderatismo anticomunista a una visione aperta e progressista con tratti di critica al capitalismo o, come si diceva allora, al neo- capitalismo. Ciò che più convinceva era l’idea dell’autonomia sindacale e delle incompatibilità tra incarichi politici e sindacali. Militare nel sindacato non ci richiedeva di passare attraverso un processo rigido di acquisizioni ideologiche e di conseguenti declinazioni organizzative (cinghia di trasmissione) che legavano il sindacato al partito. La nostra non era una via al socialismo, ma il ricercare una democrazia radicale che dalla politica potesse estendersi anche verso l’economia, il lavoro, l’autogestione e la partecipazione. Questa libertà culturale e la lezione della dottrina sociale cristiana, mi hanno spinto alla scoperta di uno spazio libero da ogni integralismo e competitivo e messo nella condizione di poter avere una particolare attenzione verso il marxismo che non consideravo, pur avendo delle profonde riserve sul comunismo e in particolar modo verso la versione sovietica, un idea nemica ma come una diversità con la quale, chi militava dentro il movimento operaio anche di ispirazione cristiana, dovesse necessariamente fare i conti. Così divenni lettore di Franco Rodano e poi di Giulio Ghirardi e molte delle loro analisi e riflessioni mi chiarirono molte cose sul marxismo. Ho sempre avuto l’impressione che Marx non fosse un visionario, ma piuttosto un analista, un critico, un classificatore delle contraddizioni che vedeva e studiava nella vita reale dello svolgersi della società industriale. Non sono mai riuscito a capire ciò che secondo lui dovesse essere il comunismo, mentre invece lo vedevo concentrato sull’analisi e la critica del sistema capitalista che sentiva avanzare ovunque e che stava penetrando nella vita e nei pensieri delle persone, oltre che nel mondo reale. Nel marxismo si è posta molta enfasi sulle “forze produttive”, ma resto convinto che se la storia camminasse solo in virtù di queste forze potrebbe a una totalizzazione della tecnica, che finirebbe per sottomettere tutti gli ambiti della società, svalorizzare il lavoro e le relazioni umane. Da Marx ho imparato a comprendere che il sistema capitalista industriale sarebbe stato onnipresente e per molti versi la sua affermazione come modello sociale oltre che economico, ineluttabile. Da qui la convinzione che bisogna cercare di contenere la sua onnipotenza attraverso un sindacato capace di lotta e di contrattazione e far vivere ed estendere al suo interno spazi di libertà sociale in grado di condizionarne l’estensione di potere. La lettura delle opere di Marx mi ha insegnato che il primo passo per cambiare le cose è quello di comprendere il mondo in cui viviamo, coglierne le contraddizioni e le evoluzioni e impegnarsi a trasformarle. Oggi ci rendiamo conto di come il capitalismo ha forgiato il mondo che ci circonda, ma anche il mondo dentro di noi. Molti dei nostri pensieri, delle azioni e iniziative che interferiscono quotidianamente nella vita sono condizionati dal capitalismo e come, a loro volta, vengono capitalizzati dal capitalismo. Oggi, è l’intelligenza artificiale e l’automazione che incombono e ci pongono molte domande e che si propongono di rendere tutto flessibile e di mutare tutte le relazioni stabili e consolidate. Non si deve avere paura dell’innovazione poiché essa può contribuire a migliorare la vita delle persone. Mentre celebriamo i successi della tecnica non possiamo ignorare gli elementi di dominio e di subordinazione che possono introdurre ecco perché non è inutile tenere sempre presente la differenza tra coloro che possiedono e impiegano le nuove tecnologie, quelli che le progettano e le sviluppano e coloro che devono operare e lavorare con loro. Il cambiamento tecnologico costringe a pensare in modo critico proprio perché incide sui rapporti sociali, sull’organizzazione del lavoro, sulla distribuzione della ricchezza e del potere e tende a far emergere un nuovo modello sociale. Economisti, sociologi, giornalisti e politici ci spiegano, non senza ragioni, che la globalizzazione ha spostato milioni di persone dalla povertà estrema alla povertà relativa, ma poco ci dicono del crescere delle disuguaglianze, dell’avidità degli azionisti e dei finanzieri, del cambiamento climatico e dell’avanzare nelle nostre democrazie di forme autoritarie Liberato dalle catene del sovietismo, dal dogmatismo e secolarizzato come tutti i grandi pensatori, Marx può dire ancora molte cose, anche a chi come il sottoscritto non è mai stato marxista. Soprattutto può essere un invito a non abbandonare mai l’esercizio critico del pensiero.

Il pensiero di Marx è tramontato, la vulgata, purtroppo, no. Marx e i marxisti visti da un liberale…, scrive Gaetano Quagliariello il 6 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il marxismo è stato la religione secolare di una delle parti che nel corso del Secolo breve – dalla rivoluzione di ottobre del 1917 fino all’implosione dell’impero sovietico – hanno animato quella che è stata efficacemente definita “la guerra civile europea”. E a Karl Marx, suo principale ideatore, poco prima che la storia s’incaricasse di notificarne la sconfitta, l’onore delle armi fu reso proprio dal filosofo che più di ogni altro nel XX secolo si era impegnato nell’opera di falsificazione e confutazione del pensiero marxista. Karl Raimund Popper, infatti, nella sua fondamentale opera La società aperta e i suoi nemici II. Hegel e Marx falsi profeti, mentre liquida Hegel come «un clown divenuto creatore di storia», contestando sia i suoi fondamentali dottrinali sia la miseria umana dalla quale essi sarebbero scaturiti, esprime una sincera ammirazione per Marx: per il suo umanesimo innanzi tutto, ma anche per l’onestà dei suoi intenti e per la profondità del suo pensiero. «Ci ha aperto gli occhi e ce li ha resi più acuti – scrive Popper -. Un ritorno alla scienza pre- marxiana è inconcepibile. Tutti gli autori contemporanei hanno un debito nei confronti di Marx, anche se non lo sanno». Eppure non si può certo negare la derivazione hegeliana del pensiero marxista. Quest’ultimo adotta infatti appieno il modello della dialettica di Hegel, ovvero l’assunto che postula lo sviluppo triadico dei processi storici secondo lo schema tesiantitesi e sintesi. Lo storicismo marxista tuttavia, a differenza di quello hegeliano, è di natura economica e non ideale, giacché individua nell’organizzazione dei processi di produzione e scambio economico i fattori fondamentali dello sviluppo storico. Questa differenza finisce col complicare ulteriormente le cose: se infatti lo schema triadico appare già di per sé problematico e improbabile in ambito ideale, applicato a un approccio materialistico ed economico assume caratteri quasi fideistici. In tal senso, l’assunto secondo il quale alla tesi “sistema feudale” si contrapporrebbe l’antitesi “capitalismo” per giungere in fine alla sintesi “socialismo” caposaldo del materialismo dialettico di Marx – appare più come un dogma da accettare che come una spiegazione razionale del processo storico. Non è comunque qui che risiede la parte meno caduca del pensiero di Marx: quella, per intenderci, che ha spinto Popper a dichiarare il debito imperituro della scienza sociale nei confronti del padre del comunismo. Il nocciolo duro della sua elaborazione, piuttosto, è il tentativo (riuscito) di liberare il pensiero socialista da un impianto moralistico e sentimentale, per ancorarlo a una solida base scientifica. Quello delineato da Marx, dunque, non è innanzitutto un programma e nemmeno una dottrina politica. E’ in primis un metodo di analisi della società, che gli fa ritenere che il moto verso l’approdo socialista non sia rimesso a un’opzione dipendente dalla volontà degli uomini quanto, piuttosto, alla ‘ inevitabile’ deriva dell’evoluzione del sistema sociale. In altri termini, per Marx l’affermazione di una società socialista è inscritta nell’evoluzione della storia e gli uomini non possono certo saltare questa fase o impedire che si realizzi. Essi, al più, potrebbero «abbreviare e attenuare le doglie del parto». Sotto tale profilo il pensiero marxiano è rigidamente determinista, ma proprio questo suo carattere appare ai nostri occhi come uno dei suoi punti di maggior debolezza: all’applicazione di un metodo deterministico Marx aveva affidato la pretesa scientificità delle sue tesi, ma la moderna filosofia della scienza ha ormai inequivocabilmente sancito che l’equivalenza fra metodo scientifico e determinismo è priva di fondamento. Eppure, se chiudessimo qui la partita – se ci limitassimo, cioè, a constatare con gli occhi dei contemporanei quanto infondata sia la pretesa scientificità del pensiero marxista -, rischieremmo di compiere due errori: innanzi tutto ci sfuggirebbe la cognizione dell’evoluzione impressa da Marx allo sviluppo delle scienze sociali; in secondo luogo perderemmo di vista la distanza che lo separa dalla maggior parte dei presunti emuli che, nel corso del XX secolo, hanno cercato di tradurre in pratica il suo insegnamento ( per tacere di quanti, nel tentativo, si attardano ancora oggi). Il fatto è che, all’atto della sua elaborazione, il socialismo “presunto” scientifico di Marx non si è presentato come una tecnologia sociale che indicasse modi e mezzi per costruire una società socialista quanto, piuttosto, come una teoria “presunta” scientifica che individuasse i meccanismi evolutivi del sistema sociale e ne prevedesse gli esiti. Marx, infatti, rigetta ogni forma di ingegneria sociale: la declassa al rango di “sovrastruttura” che, a suo avviso, risulterebbe del tutto impotente in assenza di un’evoluzione profonda dei rapporti economici sottostanti. Sotto questo aspetto – e solo sotto questo aspetto – si potrebbe persino notare una paradossale assonanza fra Marx e uno dei padri del pensiero liberale contemporaneo, Hayek, che ha fatto del rifiuto del costruttivismo istituzionale uno dei suoi cavalli di battaglia. Marx dunque, adottando un approccio puramente storicista, contesta radicalmente lo psicologismo che aveva dominato nelle scienze sociali fino al XVIII secolo e, foss’anche solo per questo, rappresenta una pietra miliare della moderna sociologia. Nel suo pensiero il ruolo fondamentale è occupato dalle classi sociali: «La storia di ogni società sinora esistita – scrive – è storia di lotte di classi». Egli individua nella lotta fra la classe capitalistica e la classe proletaria il motore fondamentale dell’evoluzione storica del XIX secolo. E in particolare scorge una tendenza verso la contrazione della classe borghese e la corrispondente espansione del proletariato, destinata a determinare le condizioni per il crollo del capitalismo e l’avvento del socialismo. Già Von Mises, nella sua magistrale opera Socialismo, si era incaricato di dimostrare, dal punto di vista del calcolo economico, quanto infondata fosse questa previsione. I successivi sviluppi storici sono stati ancora più persuasivi, al punto che già nel XX e ancor più nel XXI secolo, nelle società occidentali, abbiamo assistito al processo diametralmente opposto: la progressiva borghesizzazione di sempre più ampi settori del proletariato. Lo storicismo economico marxiano si articola essenzialmente in tre fasi. La prima, il processo di espansione e crollo del capitalismo; la seconda, la rivoluzione sociale che ne consegue; la terza, la costruzione di una società socialista senza classi. Mentre nelle sue opere principali si concentra molto sulla prima fase, Marx lascia del tutto indeterminate le altre due. In particolare il terzo stadio appare completamente nebuloso: non vengono in alcun modo approfondite le ragioni del presunto nesso causale tra la rivoluzione socialista e una società senza classi. Questo aiuta a comprendere le difficoltà storiche alle quali andarono incontro quanti provarono a mettere in pratica i suoi insegnamenti. In particolare, la totale indeterminatezza delle modalità di costruzione della società socialista fu evidente già quando, dopo la rivoluzione di Ottobre, Lenin si misurò con l’arduo compito di edificare un nuovo modello sociale sulle ceneri del comunismo di guerra: in assenza di qualunque strategia preordinata, nel 1921 si risolse ad adottare la Nuova Politica Economica, che riprendeva alcune opzioni tipiche del capitalismo. Ancor più emblematico, a tale riguardo, appare lo scontro finale che dopo il tramonto di Lenin andò in scena tra Trotsky, Stalin e Bukharin su come sviluppare la rivoluzione socialista su scala mondiale. Se tuttavia alcune delle difficoltà storiche dei seguaci trovano spiegazione nelle carenze e nei limiti del pensiero marxiano, altre si devono invece a un deficit di comprensione e alla conseguente riduzione a “vulgata” ideologica. In particolare – lo si è già accennato – nell’analisi di Marx non trovano alcuno spazio elementi riconducibili alla volontà degli attori sociali, quali il desiderio di profitto, la cupidigia, la brama di potere. Per Marx non è la volontà dei capitalisti ad aver creato il sistema capitalistico, ma la logica stessa del sistema sviluppatosi quando i progressi e l’evoluzione tecnologica hanno determinato il tramonto del feudalesimo. In tal senso, in conclusione, non si può fare a meno di notare la distanza siderale che corre tra il rigore del pensiero marxiano e la vulgata dei movimenti “volgarmarxisti” (la definizione è di Popper) che vedono in fenomeni come le guerre, la fame, la disoccupazione una sorta di cospirazione delle classi capitalistiche contro il proletariato oppresso. Viviamo in un’epoca nella quale il pensiero marxista è tramontato, la vulgata no. Purtroppo.

Ecco la bella vita del giovane Karl Marx prima di scrivere il manuale comunista. Il film di Peck sugli anni «scatenati» del filosofo insieme con Engels, scrive Cinzia Romani, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Mentre la sinistra italiana subisce una Caporetto epocale e rischia di sparire, ecco Il giovane Karl Marx (dal 5, distribuisce Wanted), film drammatico dell'haitiano Raoul Peck, ex-ministro della cultura nella Haiti post-regime e autore noto per il documentario I'm not your Negro (2016), biopic antirazzista sull'intellettuale afroamericano James Baldwin: premio Bafta e Oscar 2017 come miglior documentario. Alle vicende storicizzanti, che richiamano l'attualità, Peck è allenato. Stavolta, intanto che in Europa libertà, uguaglianza e diritti dei cittadini non sono più bandiere dei partiti comunisti, è di Karl Marx che egli tratta. Del Marx ventenne, in particolare, ritratto come un ragazzo pieno di vita, che fa l'amore a Parigi, beve birra a Londra e si scapiglia come si deve insieme all'amico Friedrich Engels, lui pure sexy quanto basta per parlare al cuore delle platee non bacucche. «Voglio mostrare alle giovani generazioni la forza del pensiero rivoluzionario: oggi ci manca il modo di pensare di Karl Marx», spiega il regista, che ha ingaggiato August Diehl, uno degli attori tedeschi contemporanei più famosi al mondo, per incarnare il filosofo di Treviri. E se siamo abituati a pensare a Marx come lo raffigura l'unica foto che gira di lui, con la lunga barba bianca da vecchio, dovremo ricrederci. L'economista che nell'Ottocento ha profetizzato quanto si avvera nel mondo globalizzato («i poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi»), ha viaggiato come un hippy on the road, ha patito la fame, ha accettato ogni lavoro pur di sostentare la sua famiglia. E' stato ragazzo nel periodo 1844-1848, quando, non ancora trentenne, doveva ancora affermarsi come punto di riferimento di sinistra dell'epoca. Per quanto singolare sembri, finora nessuno aveva pensato a un film sugli anni prima che Marx scrivesse il Manifesto del Partito Comunista, pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848, in tedesco e in forma di opuscolo. Una pubblicazione che, nei Settanta, campeggiava nelle biblioteche degli studenti «Revoluzzer» e degli studiosi impegnati, con la traduzione di Palmiro Togliatti (Edizioni Rinascita), poi caduta nel dimenticatoio, fino alla recente riproposizione nell'Economica Laterza. Del giovane Marx, in Italia, soltanto Croce e Gentile, alla fine dell'Ottocento, avevano parlato via epistolario. E se Andy Warhol ha capito il lato pop di Marx, nato nel 1818 e morto a Londra il 14 marzo 1883, riproducendone serialmente l'icona barbuta, quale impatto avrà Il giovane Marx sui giovani ai quali è indirizzato? «Sarebbe bello poter guardare il mondo di oggi attraverso gli occhi di Marx», si è augurato il direttore della Berlinale Dieter Kosslick, quando, l'anno scorso tale cineromanzo di formazione di due ore, è passato al festival dividendo la critica. Troppo cerebrale per lo Hollywood Reporter, il film auspica una «Marx Renaissance», nel peggior momento delle sinistre europee. Non a caso finisce sulle note di Like a Rolling Stone, cantata da Bob Dylan.

Karl Marx il giovane favoloso. Lontanissimo dall’agiografia il biopic di Raoul Peck sul padre del comunismo è un film emozionante e riuscito, scrive Gilda Policastro il 14 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Forse per l’assonanza del titolo col film di Martone su Leopardi- giovane favoloso, vado al cinema a vedere Il giovane Karl Marx aspettandomi il biopic classico per le scolaresche, con l’agiografia del “barbuto profeta di Treviri”, come lo chiamò il tale. Invece, sorpresa, il film di Raoul Peck non è (o forse non è solo) un film che piacerà agli insegnanti, grazie al ripasso agevolato del periodo storico di incubazione del comunismo, gli anni Quaranta dell’Ottocento, un ripasso più che mai necessario all’indomani del centenario della rivoluzione d’ottobre. C’è anche, indubbiamente, un aspetto didascalico, su cui il regista insiste soprattutto nella prima parte, attraverso la messa in scena del conflitto con l’anarchismo di Bakunin e, soprattutto, con la confusa definizione di “proprietà” da parte di Proudhon, quel Proudhon cui tra l’altro di lì a pochissimo Marx si opporrà frontalmente rovesciando il suo Filosofia della miseria in Miseria della Filosofia. Uno dei momenti topici del film è proprio quello in cui Marx comincia a chiarire anche a sé stesso la propria posizione critica, dopo la notte di bagordi con il nuovo amico Engels in cui avrà modo di riflettere su quanto sia storicamente attardato un pensiero privo di fondamento economico e di intento rivoluzionario: «i filosofi finora si sono preoccupati di interpretare il mondo: adesso è tempo di cambiarlo». È il momento di svolta, nella biografia romanzata del giovane Marx, perché è anche il momento in cui si definisce il sodalizio con il co- autore del Manifesto: sodalizio non solo intellettuale, teorico, ma la premessa del futuro impegno politico. E, soprattutto, un’amicizia elettiva, vitale, fertile e profondissima, che terrà insieme i due pensatori fino alla fine dei giorni di Marx, morto per primo. La parte meno in evidenza, ma anche la più coinvolgente del film, è la focalizzazione di un’identità che non si definisce attraverso il lavoro manuale ma attraverso il pensiero: ossia, propriamente, la dimensione intellettuale, con tutte le contraddizioni annesse. Marx fa fatica a mantenere la famiglia, mentre scrive i suoi primi articoli per gli Annali franco- tedeschi di Ruge, ed è costretto ad avvalersi del sostegno economico di Engels, figlio di un proprietario industriale, cioè di un “padrone”, ovvero del “nemico”, nella nascente teoria del capitale. L’aporia su cui forse tuttora deve dibattersi il pensiero comunista o quel che ne resta: l’affrancamento dalla schiavitù del lavoro coatto e insieme la sua necessità materiale, per i più. Nel film la diffidenza nei confronti del puro pensiero da parte dei lavoratori è resa sin dal primo scontro della tessitrice che diventerà la moglie di Engels col padrone della fabbrica e poi direttamente col figlio, Friedrich, che si propone di approfondire le condizioni dei lavoratori di Manchester: «Il signorino borghese utilizza i bassifondi come passatempo», è il modo brutale con cui viene liquidato dagli operai irlandesi il futuro amico di Marx. Un secondo momento emblematico è l’ingresso dei due amici nella Lega dei Giusti, che poi diventerà la Lega dei Comunisti nel congresso del ’ 47, proprio grazie al loro intervento. Di fronte ai suoi rappresentanti, all’esame delle credenziali, Marx e Engels fanno dapprima la figura dei giovani velleitari e degli idealisti, di coloro che non hanno sperimentato sulla loro pelle la fatica, l’umiliazione, la schiavitù effettiva cui riduce il lavoro salariato. La frustrazione del giovane Marx a quel tavolo resta immutata e anzi più che mai approfondita nel capitalismo attuale, che ha sempre più emarginato la figura dell’intellettuale, dell’interprete delle istanze dei lavoratori incapace però di sporcarsi le mani. Non se le sporca perché la sfera entro cui agisce è la teoria, e quei lavoratori capiscono ben prima dei loro rappresentanti di aver bisogno di un “catechismo”, come lo chiama il giovane Engels del film suscitando lo sdegno di Marx stanco di comizi e interventi pubblici e bisognoso di raccoglimento intellettuale per scrivere “il suo libro”. Nel film non manca il romanticismo dell’eroe bohémien, che vive di stenti per inseguire il proprio ideale di giustizia sociale, ma soprattutto per l’ambizione di abbracciare col pensiero la storia della condizione umana, che con l’ausilio di Engels si definirà come una lotta politico- economica tra sfruttatori e sfruttati. È l’essenza del comunismo, che supera l’idealismo hegeliano con un’autentica piegatura rivoluzionaria: nel discorso alla Lega dei Giusti, che di fatto marcherà l’accelerazione verso la nascita del Partito comunista, Engels ripudia la gentilezza («i borghesi non sono gentili, i borghesi non sanno che farsene della vostra gentilezza» ) in favore del conflitto: il grande rimosso del capitalismo, che azzera differenze e distanze offrendo un simulacro di benessere per tutti. «Il profitto», dice al giovane Engels l’amico del padre, proprietario di fabbriche e reo di sfruttamento minorile, «è il motore della società, ma voi non volete una società». E l’altra contraddizione che deve fronteggiare il comunismo è proprio l’egualitarismo come rinuncia al benessere, abdicazione alla possibilità di una vita concepita come arricchimento prima di tutto materiale e dell’arricchimento come motore del benessere per tutti. Il che ovviamente si è dimostrato falso perché il benessere mondiale si è edificato sul sacrificio dei proletari, che si sono sempre più definiti come sfruttati anche se hanno connotati nuovi e magari vengono dai paesi più marginali del mondo. Se si pensa però a questo film come a una traduzione in immagini delle teorie marxiane, si coglie nel segno solo a metà, perché il film è soprattutto il racconto del montare di un’emozione che travolge le coscienze dei protagonisti e delle persone che vivono con loro ( le mogli Jenny e Mary, anzitutto), fino a diventare un’onda irresistibile: quando li vediamo radunati attorno al tavolo a scrivere le prime parole del Manifesto di un partito che ancora non c’è, si sente quel brivido sottopelle che di solito nelle storie ci provoca l’atteso incontro dell’eroe con l’amata. Dice bene Pietro Bianchi su Dinamopress: la lezione decisiva del film è il cartello finale in cui il regista ci ricorda come dopo l’esilio Marx si dedicò pienamente e totalmente all’opera che aveva sempre inseguito: Il Capitale, opera interminabile, perché, com’è evidente, ha un oggetto tutt’altro che circoscritto e anzi, talmente «in movimento» che ci siamo ancora pienamente invischiati.

Quanto è pop quel tedesco: dopo 200 anni Marx ispira ancora. Il comunismo anima dibattiti, ispira film, torna al centro di molti libri. Da Varoufakis e Piketty ai neo “marxisti immaginari”, scrive Federico Marconi il 30 aprile 2018 su "L'Espresso". C'era una volta uno spettro che si aggirava per l’Europa. Agitava sobborghi, piazze, parlamenti. Non faceva dormire sonni tranquilli a borghesi e governanti. Spronava a una rivoluzione per la giustizia sociale e l’uguaglianza economica. Faceva imbracciare le armi ai più sfortunati e impugnare le penne agli intellettuali. Era lo spettro del comunismo e aveva i capelli arruffati e la barba folta del suo teorizzatore, Karl Marx. A duecento anni dalla nascita del filosofo di Treviri e a centosettanta dalla stesura delle pagine incendiarie del Manifesto del partito comunista, questo spettro non spaventa più come una volta. Ma continua ad aleggiare, nonostante sia stato fiaccato dal crollo del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica. Dopo il crollo del socialismo reale, il pensiero di Marx è stato riposto in soffitta: i partiti di sinistra se ne distaccavano sempre più, alla lotta per i diritti sociali si sostituiva quella per i diritti civili, e il capitalismo sembrava più solido che mai. Ma con la crisi economica del 2008, Marx lascia le soffitte dove era stato nascosto e le sue idee riprendono a far discutere. È il 2013 l’anno in cui il nome del filosofo di Treviri torna a riempire le colonne dei giornali. L’occasione è l’uscita del libro dell’economista francese Thomas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”. In libreria le copie vanno a ruba e, nonostante la stampa neoliberista si impegni a screditarne la validità scientifica, Piketty è chiamato dai consiglieri economici dei presidenti di mezzo mondo per spiegare le sue ricette contro le disparità sociali. L’economista viene definito il Marx 2.0, ma lui non ci sta: «È assurdo chiamarmi marxista» risponde piccato ad ogni intervista: «Avevo 18 anni quando è crollato il muro di Berlino e ho viaggiato in Romania, Bulgaria e Russia per immunizzarmi contro ogni tentazione comunista». Se le analisi dell’accademico francese prendono le mosse dal lavoro del filosofo tedesco, in effetti le conclusioni differiscono in molti punti. Piketty però non è il solo tra gli intellettuali marxisti del terzo millennio a vedere in Marx un punto di partenza per nuove riflessioni. Tra questi studiosi c’è uno dei protagonisti della politica europea di inizio decennio, Yanis Varoufakis. «Sono un marxista irregolare» scriveva l’ex ministro delle Finanze del governo di Atene sul Guardian nel febbraio 2015, raccontando di aver sempre «ampiamente ignorato» Marx nel corso della sua carriera universitaria e politica, ma che le idee dello scrittore del Manifesto sono state per lui «un’impronta per capire il mondo». E oggi, mentre si avvicinano le celebrazioni per il bicentenario della nascita del filosofo, Varoufakis scrive sullo stesso quotidiano inglese che Marx aveva predetto l’attuale crisi «e indica la via d’uscita». C’è bisogno però di un nuovo manifesto, sostiene l’economista: «Deve parlare ai nostri cuori come un poema e infettare le menti con immagini e idee sorprendentemente nuove». Marx indica ancora la strada da seguire, ma in modo nuovo. Il mondo in cui viviamo si è radicalmente trasformato da quando venne dato alle stampe il Manifesto. E mentre nelle sale cinematografiche “Il giovane Karl Marx” di Raoul Peck racconta la genesi di quel “foglio incendiario”, tra molti circola la domanda «perché continuare a leggerlo?». Prova a rispondere una nuova edizione del volume data alle stampe da Ponte alle Grazie. Ripubblicare il Manifesto «serve a scriverne un altro», scrive Toni Negri in uno dei contributi che accompagnano il pamphlet: «Serve a mettere il discorso dei comunisti all’altezza dell’epoca che viviamo». Quello di Negri è solo uno dei saggi che fanno parte del commento curato da C17, la rete di intellettuali e attivisti che nel centenario della rivoluzione russa ha organizzato la Conferenza di Roma sul comunismo. Tra questi c’è anche Slavoj Žižek. «L’unico modo di restare fedeli a Marx, oggi, non è essere marxisti ma ripetere in modo nuovo il gesto fondativo di Marx», dice il filosofo sloveno conosciuto per il suo stile politicamente scorretto. In molti si interrogano su cosa significhi essere marxisti oggi. Una delle prime studiose ad aprire il dibattito è stata Nancy Fraser, intellettuale e femminista statunitense, con una lunga riflessione pubblicata da Micromega nel gennaio 2016. Una sovversione globale del capitalismo è possibile non solo attraverso una trasformazione economica, ragiona Fraser, ma attraverso una trasformazione del rapporto tra uomo e donna nella società. In quest’ottica il ruolo dell’intellettuale è quello di promuovere i movimenti di lotta e di opposizione alle logiche malate del capitalismo. Sembra rifarsi proprio alla denuncia di Marx in una delle tesi contro Feuerbach: «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in alcuni modi; il punto è cambiarlo». Chissà se il capofila mediatico dei marxisti italiani è d’accordo con la tesi di Fraser. «Il femminismo fa gli interessi del grande capitale», ha sostenuto più volte il filosofo Diego Fusaro. Allievo di Costanzo Preve e studioso del rivoluzionario tedesco, Fusaro si presenta in ogni salotto televisivo come un avverso oppositore del «turbocapitalismo», della globalizzazione, del femminismo e dei suoi «poliorceti». Le continue uscite provocatorie del marxista Fusaro, fatte di slogan e termini desueti, non ne hanno fatto però un’icona antisistema. Al contrario, viene spesso additato come «un intellettuale di riferimento della Terza Repubblica» (Vanity Fair), o «il filosofo perfetto per Lega e M5S» (Il Foglio). O addirittura come «un maestro per la destra radicale» (Il Secolo d’Italia): «Sogno un fronte dal Partito comunista a CasaPound» aveva dichiarato poco prima delle elezioni del 4 marzo. A due secoli dalla nascita, Marx torna ad animare gli intellettuali: chi riuscirà a unire nuovamente i proletari di tutto il mondo sotto un’unica bandiera?

Karl Marx, ieri e oggi, pubblicato da Oneuro su "Eunewsit" il 4 novembre 2016 e scritto da Louis Menand. Le idee del filosofo del diciannovesimo secolo possono aiutarci a capire l’inuguaglianza economica e politica del nostro tempo. Il 24 febbraio 1848, a Londra, venne pubblicato un pamphlet di 23 pagine. Vi veniva affermato che l’industria moderna aveva rivoluzionato il mondo. Aveva superato, nel suo compimento, tutte le grandi civiltà del passato – le piramidi egizie, gli acquedotti romani, le cattedrali gotiche. Le sue innovazioni – le ferrovie, le navi a vapore, il telegrafo – avevano liberato fantastiche forze produttive. Nel nome del libero mercato, essa aveva abbattuto i confini nazionali, abbassato i prezzi, reso il pianeta interdipendente e cosmopolita. I beni e le idee circolavano ormai ovunque. Allo stesso modo, aveva spazzato via tutte le vecchie gerarchie e mistificazioni. La gente non credeva più che erano la tradizione o la religione a determinare la loro condizione di vita. Ciascuno era, rispetto a chiunque altro, uguale. Per la prima volta nella storia, gli uomini e le donne potevano vedere, senza illusioni, la loro posizione in relazione agli altri. I nuovi modi di produzione, comunicazione e distribuzione avevano anche creato un enorme ricchezza. Ma c’era un problema. La ricchezza non veniva distribuita equamente. Il 10% della popolazione possedeva praticamente tutta la proprietà; il restante 90% non possedeva nulla. Come le città si industrializzavano, così la ricchezza veniva a concentrarsi, e come il ricco diveniva più ricco, la classe media cominciava a scivolare al livello della classe lavoratrice. Di fatto, presto ci sarebbero stati solo due tipi di persone nel mondo: quelli che detenevano proprietà e quelli che vendevano a questi il loro lavoro. Con lo scomparire delle ideologie che facevano apparire l’inuguaglianza naturale e ordinata, era inevitabile che i lavoratori avrebbero ovunque visto il sistema per ciò che era e si sarebbero levati per rovesciarlo. Lo scrittore che fece tale previsione fu, naturalmente, Karl Marx, e il pamphlet era Il Manifesto del Partito Comunista. Tale previsione è ancora valida oggi. In considerazione della sua rilevanza, piuttosto folgorante, per la politica di oggi, sorprende che due importanti libri su Marx tentino invece di ricacciarlo nel suo secolo. «Marx non è stato nostro contemporaneo», dice Jonathan Sperber in Karl Marx: A Nineteenth-Century Life, uscito nel 2013; è più «una figura del passato che un profeta del presente». E Gareth Stedman Jones spiega che l’obiettivo del suo nuovo libro, Karl Marx: Greatness and Illusion, è «collocare Marx nell’ambito del diciannovesimo secolo». Il compito ha una sua valenza. Storicizzare – correggere la tendenza ad attualizzare il passato – è ciò che fanno gli studiosi. Sperber, che insegna all’università del Missouri, e Stedman Jones, che insegna all’università Queen Mary di Londra ed è co-direttore del Centro di storia ed economia all’università di Cambridge, fanno entrambi un lavoro eccezionale nel radicare Marx nella vita politica e intellettuale europea del diciannovesimo secolo. Marx è stato uno dei più grandi polemisti di sempre: molti dei suoi scritti riguardano personaggi ed eventi marginali e per lo più dimenticati. Sperber e Stedman Jones mostrano entrambi che se si legge Marx in quel contesto, come un uomo impegnato in una guerra politica e filosofica senza fine, l’importanza dei passi più conosciuti dei suoi scritti può risentirne. La posta in gioco sembra più ristretta. In fondo, il loro Marx non è molto diverso dal Marx conosciuto, ma è più vittoriano. L’aspetto interessante è che, data la similitudine dei loro approcci, non c’è fra loro molta distanza. Inoltre, Marx è stato anche ciò che Michel Focault chiamò l’iniziatore di un discorso. Un enorme corrente di pensiero è chiamata col suo nome. «Non sono un marxista», si dice che abbia detto, ed è importante distinguere ciò che egli voleva dire dall’uso che altri hanno fatto dei suoi scritti. In effetti, molto del significato del suo lavoro si trova nei suoi effetti. Comunque egli abbia gestito la situazione, e nonostante il fatto che, come dimostrano Sperber and Stedman Jones, egli possa sembrare, in qualche modo, come l’ennesimo teorizzatore di sistemi novecentesco, Marx produsse lavori che hanno conservato nel tempo la loro potenza di fuoco. Ancora oggi, il Manifesto comunista è come una bomba che può sfuggire di mano. E, diversamente da molti critici del capitalismo industriale del diciannovesimo secolo – e ce n’erano tanti – Marx era un vero rivoluzionario. Tutto il suo lavoro è stato scritto per servire la rivoluzione che aveva predetto nel Manifesto comunista e che era certo sarebbe giunta. Dopo la sua morte, ci sono state rivoluzioni comuniste – anche se non dove e come egli aveva immaginato, ma comunque nel suo nome. Alla metà del ventesimo secolo oltre un terzo della gente nel mondo viveva sotto regimi che si chiamavano, e veramente credevano di essere, marxisti. Questo è importante, perché uno dei principi chiave di Marx era che la teoria deve essere sempre unita alla pratica. È questo il punto della famosa undicesima tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in alcuni modi; il punto è cambiarlo». Marx non stava dicendo che la filosofia è irrilevante; stava dicendo che i problemi filosofici emergono dalle condizioni di vita reale, e possono essere risolti solo cambiando quelle condizioni – rifacendo il mondo. E le idee di Marx furono impiegate per rifare il mondo, o una gran parte di esso. Anche se nessuno lo può considerare responsabile, in senso giuridico, per il risultato, in base al principio stesso di Marx il risultato ci dice qualcosa circa le sue idee. In breve, si può ricollocare Marx nel diciannovesimo secolo, ma non lo si può lasciare lì. Egli perse un sacco di tempo a litigare con i rivali e ad accendere la miccia di fuochi settari, senza nemmeno finire il lavoro che considerava il suo magnum opus, Il Capitale. Ma, nel bene o nel male, non si può ritenere obsoleto il suo pensiero. Vide che le economie di libero mercato, lasciate ai loro meccanismi, producono grandi ineguaglianze, e trasformò un metodo di analisi che risaliva a Socrate – capovolgendo concetti che crediamo di comprendere e diamo per scontati – in una risorsa per afferrare le condizioni sociali ed economiche delle nostre vite. Eccettuato il suo, per tutta la vita, fedele collaboratore, Friedrich Engels, quasi nessuno aveva indovinato, nel 1883, l’anno della sua morte a 64 anni, quale sarebbe stata la sua influenza. Al funerale andarono undici persone. Per quasi tutta la sua carriera, Marx fu una stella in una piccola costellazione di esiliati radicali e rivoluzionari falliti (con spie della polizia e la censura a tenerli d’occhio) ma quasi sconosciuto al di fuori di essa. I libri per cui è famoso non furono proprio dei best sellers. Il Manifesto comunista sparì quasi subito dopo la pubblicazione e non fu quasi mai ristampato per 24 anni; quando il primo volume del Capitale uscì, nel 1867, fu praticamente ignorato. Dopo quattro anni, aveva venduto un migliaio di copie, e non venne tradotto in inglese fino al 1886. Il secondo e il terzo volume del Capitale furono pubblicati dopo la morte di Marx, riuniti da Engels fra centinaia di pagine di bozze (Marx scriveva incredibilmente male; Engels era uno dei pochi al di fuori della famiglia in grado di decifrarlo). Le Tesi su Feuerbach, che Marx scrisse nel 1845, furono scoperte solo nel 1888, quando Engels le pubblicò, e alcuni dei testi più importanti per i marxisti del ventesimo secolo – il volume collettaneo noto come L’ideologia tedesca, i cosiddetti manoscritti parigini del 1844 e il libro intitolato I Gundrisse, edito dai sovietici – rimasero sconosciuti fino al 1920 e oltre. Sembra che Marx non abbia considerato tale materiale come pubblicabile. In tutta la vita di Marx, il lavoro che portò finalmente l’attenzione fuori dalla sua cerchia ristretta fu un articolo di 35 pagine chiamato “La guerra civile in Francia”, uscito nel 1871, nel quale salutò la breve e violentemente soppressa Comune di Parigi come «la gloriosa precorritrice di una nuova – cioè, comunista – società». Non si tratta di un testo molto citato al giorno d’oggi. Una ragione per cui Marx rimase relativamente in ombra è che solo verso la fine della sua vita i movimenti per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori cominciarono a ottenere qualcosa in Europa e negli USA. Nella misura in cui quei movimenti erano riformisti piuttosto che rivoluzionari, non erano marxisti (anche se Marx, in tarda età, contemplò la possibilità di una transizione pacifica al comunismo). Con la crescita del movimento dei lavoratori crebbe l’attenzione verso il pensiero socialista e, con ciò, l’interesse per Marx. Eppure, come Alan Ryan scrive nella sua caratteristicamente lucida e concisa introduzione al pensiero politico di Marx, Karl Marx: Revolutionary and Utopian, se Vladimir Lenin non fosse giunto a Pietrogrado nel 1917 e non avesse preso la guida della rivoluzione russa, Marx sarebbe oggi probabilmente conosciuto come «un filosofo, sociologo, economista e teorico politico minore del diciannovesimo secolo». La rivoluzione russa fece prendere al mondo sul serio la critica di Marx al capitalismo. Dopo il 1917, il comunismo non era più una fantasia utopica. Marx è un monito di ciò che può accadere quando si sfidano i genitori e si ottiene un dottorato in filosofia. Il padre di Marx, un avvocato della cittadina di Treviri, nella Germania occidentale, aveva cercato di farlo iscrivere a legge, ma Marx scelse filosofia. Studiò all’università Friedrich-Wilhelms, dove aveva insegnato Hegel, e diventò membro di un gruppo di intellettuali, i giovani hegeliani. Hegel era cauto riguardo alla critica verso la religione e lo Stato prussiano; i giovani hegeliani non lo erano, e, proprio quando Marx si laureò, nel 1841, ci fu una repressione nei loro confronti. Il mentore di Marx fu licenziato, e i giovani hegeliani diventarono i paria dell’accademia. Così Marx fece ciò che fanno molti disoccupati laureati in filosofia: si diede al giornalismo. A parte qualche breve libro, il giornalismo era per Marx la sola fonte di reddito. Una storiella, secondo Sperber infondata, dice che una volta, per la disperazione, trovò un lavoro come impiegato alle ferrovie, ma lo perse per la pessima calligrafia. Nel decennio del 1840, Marx collaborò con vari giornali politici europei; fra il 1852 e il 1862, scrisse per il New York Daily Tribune, il giornale all’epoca più diffuso nel mondo. Quando il lavoro di giornalista venne a mancare, fu in difficoltà. Dipendeva spesso dall’aiuto di Engels e da anticipi sull’eredità. Talvolta rimase senza cibo; a un certo punto, non poté uscire di casa perché aveva impegnato l’unico cappotto. L’affermazione che fosse incapace di gestire le finanze, e che lui e sua moglie sperperavano i pochi soldi nei lussi della classe media come la musica o le lezioni private per i figli, divenne una tipica “contraddizione” riportata nelle biografie su Marx. Sperber non è d’accordo. Marx aveva meno soldi da sprecare di quanto riportato dagli storici, e si rassegnò alla povertà quale prezzo per la sua attività politica. Avrebbe anche vissuto in un sobborgo, ma non volle che la sua famiglia soffrisse. Tre dei figli morirono giovani e un quarto nacque morto; la povertà e le condizioni di vita potrebbero esserne state le cause. L’attività giornalistica di Marx ne fece sempre un esule. Scrisse e pubblicò articoli offensivi per le autorità, e, nel 1843, venne espulso da Colonia, dove stava partecipando alla diffusione del Rheinische Zeitung (La gazzetta renana). Andò a Parigi, dove vi era un’ampia comunità tedesca, e dove fece amicizia con Engels. Avevano avuto un primo incontro a Colonia, ma quando si rincontrarono al Café de la Régence, nel 1844, passarono dieci giorni senza smettere di parlare. Engels, di due anni più giovane, aveva le stesse idee politiche di Marx. Ben presto, dopo il loro incontro, scrisse il suo classico La condizione della classe operaia in Inghilterra, che terminava con la predizione di una rivoluzione comunista. Il padre di Engels era un industriale tedesco del settore tessile, con fabbriche a Barmen, Brema e Manchester, in Inghilterra, e anche se disapprovava le idee politiche del figlio e le sue compagnie, gli diede un posto nella fabbrica di Manchester. Engels odiava quel lavoro anche se lo sapeva fare, così come era capace in molte altre cose. Andava a caccia di volpi con gente che disprezzava e si divertiva quando Marx cercava di cavalcare. Alla fine Engels divenne un socio della società, e con il suo reddito aiutò Marx a sopravvivere. Nel 1845 Marx fu espulso dalla Francia. Andò a Bruxelles. Tre anni dopo, accadde qualcosa che quasi nessuno aveva previsto: scoppiarono diverse rivoluzioni in giro per l’Europa, incluso in Francia, Italia, Germania e nell’impero austriaco. Marx scrisse il Manifesto comunista nel pieno delle sollevazioni. I moti arrivarono a Bruxelles ed egli, sospettato di fomentare rivolte armate, fu espulso dal Belgio, ma tornò a Parigi. Lì i rivoltosi avevano invaso le Tuileries e dato fuoco al trono di Francia. Verso la fine dell’anno, la maggior parte dei moti erano stati soffocati dalle forze monarchiche. Molti personaggi che erano o sarebbero diventati figure importanti dell’arte e della letteratura – Wagner, Dostoevskij, Baudelaire, Turgenev, Berlioz, Delacroix, Liszt, George Sand – erano rimasti coinvolti nel sentimento rivoluzionario, e il risultato fu una crisi di fiducia nella politica (l’argomento della novella L’educazione sentimentale di Flaubert). Il fallimento delle rivoluzioni del 1848 fece dire a Marx la frase «la prima volta come tragedia, la seconda come farsa» (che sentì da Engels). La tragedia era stato il destino della rivoluzione francese sotto Napoleone; la farsa fu l’elezione del nipote, Luigi Napoleone Bonaparte, che Marx considerava un inetto, alla presidenza della Francia, nel dicembre 1848. Bonaparte arrivò a dichiararsi imperatore e regnò fino al 1870, quando la Francia perse la guerra con la Prussia. La Comune di Parigi fu una conseguenza della guerra. Così, nel 1849, Marx fu costretto all’esilio ancora una volta. Portò la sua famiglia a Londra. Pensava di restarci temporaneamente, ma ci visse per il resto dei suoi giorni. È lì che, giorno dopo giorno, nella sala di lettura del British Museum, compì la ricerca per Il Capitale, ed è lì che è sepolto, al cimitero di Highgate. Il busto di bronzo che tuttora si trova sulla sua lapide fu installato nel 1956 dal Partito Comunista della Gran Bretagna. Che sembianze aveva Marx? Non ci sono molti resoconti, ma essi tendono a convergere. Era, in un certo senso, una caricatura dell’accademico tedesco (il che una volta aveva sperato di diventare): un imperioso “so tutto”, con i capelli arruffati, in un lungo cappotto sbottonato. Una volta si descrisse a suo figlio come «una macchina condannata a divorare libri per rigettarli, in un’altra forma, nel letamaio della storia». Scriveva tutta la notte fra le nuvole di fumo del tabacco, circondato da pile di libri e giornali. «Sono i miei schiavi», disse, «e mi servono all’occorrenza». Dal lato professionale, era da evitare. Parlava senza sosta ma balbettava e non era un buon oratore; lo sapeva, e di rado si presentava in pubblico. Quando scriveva era spietato, si fece nemici molti amici e alleati, e non sopportava gli stupidi – che erano poi quasi tutti quelli che conosceva, dal suo punto di vista. Un esule tedesco lo descrisse come «un intellettuale che ingaggia agenti e guardie di confine, per preservare la sua autorità». Eppure incuteva rispetto. Un collega, ricordando Marx a 28 anni, lo descrisse come «un leader di popolo nato». Sapeva tenere la scena – come editore, e, più avanti, come la figura dominante della Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima Internazionale. Aveva i capelli e gli occhi neri; la carnagione scura. Engels lo chiamava il nero di Treviri; la moglie e i figli lo chiamavano il moro. Nel privato, era modesto e gentile. Quando non stava male – aveva il fegato malandato, soffriva di bronchite e gli erano venuti dei grossi foruncoli, che Sperber pensa fossero causati da un disordine autoimmunitario, forse sintomo della malattia al fegato – era giocoso e affettuoso. Amava Shakespeare, inventava storie per le tre figlie, e si godeva i sigari economici e il vino rosso. La moglie e le figlie lo adoravano. Un agente del governo prussiano che andò nel 1852 a casa di Marx rimase sorpreso di trovare «il più gentile e mite degli uomini». A diciotto anni si era fidanzato con la ventiduenne Jenny von Westphalen, anch’ella di Treviri. Sperber crede che sia sorta una favola intorno al matrimonio, con Jenny eccezionalmente bella e devota a Karl. Lui le scriveva poesie d’amore appassionato. Il fidanzamento durò sette anni, durante i quali lui finì gli studi e raramente si videro. La relazione fu prevalentemente epistolare (Sperber pensa che ci siano stati rapporti prematrimoniali). Nelle sue lettere, Jenny chiama Karl il suo «piccolo cinghiale selvaggio». L’unico possibile neo nell’idillio domestico riguarda la bambina avuta dalla loro serva, Helene Demuth. Helene era un dono ai Marx ricevuto dalla madre di Jenny e viveva con la famiglia (nel diciannovesimo secolo in Inghilterra era una consuetudine per quasi tutte le donne che potevano permettersela. Persino Miss Bates, nell’Emma di Jane Austen, che viveva della carità dei vicini, aveva una serva). La bambina di Helene, Frederick, chiamata Freddy, nacque nel 1851 e fu allevata da genitori adottivi. La figlia di Marx non lo vide fino alla sua morte. Engels ne rivendicò la paternità. Ciò non è implausibile. Engels non era sposato e le piacevano le donne della classe lavoratrice; la sua amante, Mary Burns, lavorava in una fabbrica di Manchester. Pare tuttavia che, 44 anni dopo, sul letto di morte, abbia detto che Marx era il vero padre di Freddy, un informazione poi giunta nei circoli comunisti ma resa pubblica solo nel 1962. Sperber e Stedman Jones accettano la storia, come aveva fatto il biografo David Mc Lellan, anche se un biografo di Engels, Terrell Carver, pensa che le prove non siano univoche. La Demuth rimase con la famiglia; dopo la morte di Marx, andò a lavorare per Engels. E il matrimonio di Marx sopravvisse. È la loro comprensione di Marx che spinge Sperber e Stedman Jones a insistere per una sua lettura relativa al contesto del diciannovesimo secolo, perché essi cercano di distinguerlo dall’interpretazione del suo lavoro fattane dopo la morte da persone come Karl Kautsky, che ne fu il massimo esponente di lingua tedesca; Georgi Plekhanov, il massimo esponente di lingua russa; e, fra tutti il più influente, Engels. È stato soprattutto grazie a questi scrittori che la gente ha cominciato a riferirsi al marxismo come al “socialismo scientifico”, una frase che compendia ciò che era più temuto del comunismo nel ventesimo secolo: l’idea che gli esseri umani possano essere ripensati secondo una teoria che si presenta come una legge della storia. Così, nel 1939, quando il filosofo Britannico Isaiah Berlin pubblicò il suo ampiamente letto e non completamente apprezzato studio Karl Marx: His Life and Environment (ancora in stampa), poté descrivere Marx come «uno dei grandi e autorevoli fondatori di nuove fedi, spietato sovvertitore e innovatore che interpretò il mondo in termini di un solo chiaro, appassionato e solido principio, denunciando e distruggendo tutto ciò che con esso confligge. La sua fede… era di quelle senza limiti, di un tipo assoluto che mette fine a tutte le domande e a tutte le difficoltà». Questo divenne il Marx della guerra fredda. È vero che Marx era molto dottrinario, qualcosa che non si sposava con i suoi compatrioti del diciannovesimo secolo, e che non di certo non si sposa bene col pensiero di oggi, dopo che l’esperienza dei regimi concepiti in suo nome. Sembra perciò sbagliato dire che la filosofia di Marx era rivolta alla libertà dell’umanità. Eppure lo era. Marx era un pensatore illuminato: voleva un mondo razionale e trasparente, nel quale gli esseri umani fossero liberati dal controllo di forze esterne. Era l’essenza dell’hegelismo di Marx. Hegel aveva argomentato che la storia è il progresso dell’umanità verso la vera libertà, che intendeva come autocontrollo e autocomprensione, visione del mondo senza illusioni – illusioni che noi stessi creiamo. L’esempio controverso di questo era, per i giovani hegeliani, il Dio cristiano (è ciò che scrisse Feuerbach). Abbiamo creato Dio, e poi crediamo che Dio ci abbia creati. Abbiamo ipostatizzato il concetto di noi stessi e lo abbiamo trasformato in qualcosa “là fuori” i cui comandamenti (fatti da noi) ci sforziamo di capire per obbedirvi. Siamo supplicanti della nostra stessa finzione. Concetti come Dio non sono errori. La storia è razionale: c’è una ragione per cui creiamo il mondo in un certo modo. Abbiamo inventato Dio perché Dio ci risolvesse certi problemi. Ma, una volta che un concetto comincia a impedirci il progresso verso l’autocontrollo, deve essere criticato e messo da parte. Altrimenti, come i membri dell’odierno Stato Islamico, diventiamo strumento del nostro Strumento. Quello che rende difficile mettere via gli strumenti che abbiamo oggettivato è la persistenza delle ideologie che li giustificano, e che fanno apparire un’invenzione dell’uomo come “lo stato delle cose”. Il compito della filosofia è disfare le ideologie. Marx era un filosofo. Il sottotitolo del Capitale è “Critica dell’economia politica”. Il libro, rimasto incompleto, era inteso come una critica ai concetti economici che facevano sembrare le relazioni sociali in un’economia di libero mercato naturali e inevitabili, così come concetti quali la grande catena dell’essere e il diritto divino dei re facevano una volta sembrare le relazioni sociali del feudalesimo naturali e inevitabili. La ragione per la quale Il Capitale sembra più un lavoro di economia che un lavoro di filosofia – la ragione per cui è pieno di tabelle e grafici anziché di sillogismi – è la stessa data dalle undici tesi su Feuerbach: lo scopo della filosofia è capire le condizioni per cambiarle. Marx diceva che quando aveva letto Hegel aveva trovato che la sua filosofia si poggiava sulla testa, così l’aveva capovolta e posizionata perché poggiasse sui piedi. La vita è azione, non pensiero. Non basta essere padroni della nostra poltrona. Marx credeva anche che il capitalismo industriale fosse stato creato per una buona ragione: aumentare la ricchezza economica – un qualcosa che Il Manifesto comunista vede favorevolmente. Tuttavia, il costo è un sistema in cui una classe di esseri umani, i proprietari (la borghesia, nei termini di Marx) sfrutta un’altra classe, i lavoratori (il proletariato). I capitalisti non si comportano così perché sono avidi o crudeli (anche se possono essere descritti in tal modo, come Marx fece quasi sempre). Si comportano così perché è la competizione a richiederlo. È così che funziona il sistema. Il capitalismo industriale è un mostro di Frankenstein che minaccia il suo creatore, un sistema costruito per i nostri scopi e che ora ci controlla. Marx era un umanista. Credeva che siamo esseri che trasformano il mondo che ci circonda per la produzione di oggetti a beneficio di tutti. Il che è la nostra essenza come specie. Un sistema che trasforma questa attività in “lavoro” che viene comprato e usato per arricchire altri è un ostacolo alla piena realizzazione della nostra umanità. Il capitalismo è destinato all’autodistruzione, proprio come i sistemi economici che l’hanno preceduto. La rivoluzione della classe lavoratrice condurrà allo stadio finale della storia: il comunismo, che, come scritto da Marx, «è la soluzione all’enigma della storia e si riconosce come tale soluzione». Marx fu fanaticamente impegnato nel trovare una corroborazione empirica a questa teoria. È questo che intendeva con posizionare la filosofia in modo che essa poggi sui piedi. Ed ecco perché passò tutte quelle ore, solo, al British Museum, a studiare rapporti sui fattori di produzione, dati sulla produzione industriale, statistiche sul commercio internazionale. Era un eroico tentativo di mostrare che la realtà è allineata alla teoria. Non importa se non riuscì a finire il libro. Marx ebbe poco da dire sulla conduzione dell’economia in una società comunista, e questo diventò un serio problema per i regimi che hanno cercato di mettere il comunismo in pratica. Aveva diverse ragioni per restare vago. Credeva che i nostri concetti, valori e credenze emergessero dalle condizioni del nostro tempo, il che vuol dire che è difficile conoscere cosa c’è dietro un mutamento storico. In teoria, dopo la rivoluzione, tutto si sarebbe potuto “afferrare” – il che è diventato da allora il grande sogno del radicalismo di sinistra. Marx è stato chiaro circa le cose che una società comunista non dovrebbe avere. Non ci dovrebbe essere un sistema di classi, niente proprietà privata, niente diritti individuali (che, secondo Marx, sono confezionati per proteggere il diritto dei proprietari del capitale a mantenerlo) e niente Stato (che definiva come «un comitato per la gestione degli affari della borghesia»). Lo Stato, sotto forma di partito, si è dimostrato un concetto borghese dal quale i regimi comunisti del ventesimo secolo non hanno potuto trascendere. Il comunismo non è una religione; è in realtà, come solevano dire gli anticomunisti, senza Dio. Ma il partito funziona nel modo in cui Feuerbach diceva che Dio funziona nel cristianesimo: come un misterioso e implacabile potere esterno. Marx non predispose, comunque, una guida per come dovrebbe operare una società senza classi o senza Stato. Un buon esempio del problema è la sua critica alla divisione del lavoro. Nel primo capitolo della Ricchezza delle nazioni, nel 1776, Adam Smith identificò la divisione del lavoro – cioè la specializzazione – come la chiave della crescita economica. L’esempio di Smith era la fabbricazione degli spilli. Piuttosto che far fare a un singolo lavoratore uno spillo alla volta, diceva Smith, in una fabbrica si può dividere il lavoro in diciotto operazioni distinte, dal filo fino al confezionamento, e incrementare la produzione di un fattore di migliaia. A noi ciò sembra un ovvio sistema per organizzare efficientemente il lavoro, dalle catene di montaggio delle automobili fino alla “produzione di conoscenza” nelle università. Ma Marx considerò la divisione del lavoro uno dei mali della vita moderna (come aveva fatto Hegel). Essa fa dei lavoratori ingranaggi di una macchina e li priva di qualsiasi collegamento con il prodotto del loro lavoro. «L’azione dell’uomo diventa una forza aliena ad egli opposta, che lo rende schiavo invece di essere da egli controllata», come Marx ebbe a dire. In una società comunista, scrisse, «nessuno ha una sfera esclusiva di attività ma ciascuno può realizzarsi in ogni campo che desidera». «Sarà possibile andare a caccia la mattina, pescare il pomeriggio, badare al bestiame la sera, fare il critico dopo cena… senza essere necessariamente cacciatore, pescatore, mandriano o critico». Questa frase, spesso citata, sembra superficiale, ma va al cuore del pensiero di Marx. Gli esseri umani sono, per natura, creativi e socievoli. Un sistema che li tratta come monadi meccaniche è inumano. Ma la domanda è: come potrebbe una società senza divisione del lavoro produrre una quantità sufficiente di beni per vivere? Nessuno vorrà badare al bestiame (o pulire il granaio); ognuno vorrà essere un critico (credetemi). Come Marx ammise, il capitalismo, con tutti i suoi mali, ha creato l’abbondanza. Sembra che egli abbia immaginato, in qualche modo, che tutte le caratteristiche del modo di produzione capitalistico potrebbero essere messe da parte e l’abbondanza persistere magicamente. Nel 1980, il filosofo Peter Singer pubblicò un breve libro su Marx nel quale elencò alcune delle profezie di quest’ultimo: la differenza di reddito fra i lavoratori e i proprietari sarebbe cresciuta, i produttori indipendenti sarebbero stati assorbiti nei ranghi del proletariato, i salari sarebbero rimasti a livelli di sussistenza, il tasso di profitto sarebbe crollato, il capitalismo sarebbe collassato, e allora vi sarebbe stata la rivoluzione nei paesi avanzati. Singer pensò che la maggior parte di tali predizioni fossero «così palesemente errate» che era difficile capire come qualcuno potesse difenderle. Ma, nel 2016, è più difficile liberarsene così sbrigativamente. «Gli economisti di oggi farebbero bene a trarre ispirazione dal suo esempio», Thomas Piketty dice di Marx, nel suo best-seller del 2013 Il capitale del ventunesimo secolo. Il libro fa per molti lettori del ventunesimo secolo ciò che Marx sperava che Il Capitale avrebbe fatto per quelli del diciannovesimo secolo. Usa i dati per mostrare la vera natura delle relazioni sociali e, così facendo, ci costringe a ripensare concetti che erano arrivati a sembrare naturali e inevitabili. Uno di questi è il concetto che il mercato, spesso immaginato come un meccanismo auto-ottimizzante con cui è sbagliato interferire, è, di fatto, lasciato a se stesso, un sistema che accresce in continuazione le inuguaglianze. Un altro concetto, strettamente connesso, è la meritocrazia, che è spesso vista come una garanzia della mobilità sociale ma che, Piketty dimostra, è utile principalmente ai vincitori della competizione economica per sentirsi virtuosi. Piketty dice che per trent’anni, dopo il 1945, un elevato tasso di crescita nelle economie avanzate è stato accompagnato da una crescita dei redditi della quale hanno beneficiato tutte le classi. Gravi ineguaglianze di ricchezza erano arrivate a sembrare qualcosa del passato (il che spiega perché, nel 1980, la gente poteva con una certa ragionevolezza dire che le predizioni di Marx erano errate). Oggi pare che quei trent’anni siano stati una fase anomala. La Depressione e le due guerre mondiali avevano effettivamente messo fuori gioco i proprietari della ricchezza, ma i trent’anni dopo il 1945 hanno resettato l’ordine economico. «Il livello molto elevato della ricchezza privata che è stato raggiunto a cominciare dagli anni ottanta e novanta del ’900 nei paesi più ricchi d’Europa e in Giappone», dice Piketty, «riflette direttamente la logica marxiana». Marx era nel giusto quando diceva che non esiste alcun egualitarismo naturale nelle moderne economie lasciate a se stesse. Come scrive Piketty, «non c’è alcun processo naturale o spontaneo che impedisca alle destabilizzanti forze inegualitarie di prevalere permanentemente». La tendenza del sistema ad accrescere le ineguaglianze era certamente vera nel secolo di Marx. Nel 1900, l’un per cento più ricco della popolazione in Gran Bretagna e Francia possedeva più del 50% della ricchezza; il 10% più ricco ne possedeva il 90%. Oggi ci stiamo riavvicinando a quegli stessi livelli. Secondo la Federal Reserve, il 10% più ricco della popolazione possiede il 72% della ricchezza, e il 50% della popolazione più povera ha il 2% del totale. Circa il 10% del reddito nazionale va alle 247.000 persone più ricche (un millesimo della popolazione adulta). Non è un problema limitato alle nazioni ricche. Anche la ricchezza globale è distribuita in modo iniquo, e nelle stesse proporzioni se non peggio. Piketty non predice una rivoluzione mondiale della classe lavoratrice; sottolinea l’insostenibilità di questo livello di ineguaglianza. Prevede un mondo dove la maggior parte del pianeta è posseduto dai miliardari. Marx non sbagliava neppure riguardo alla tendenza dei salari dei lavoratori a ristagnare mentre il reddito dei proprietari di capitale aumenta. Nei primi 60 anni del diciannovesimo secolo – il periodo durante il quale cominciò a scrivere Il Capitale – le retribuzioni dei lavoratori in Gran Bretagna e Francia rimasero più o meno fermi a livelli di sussistenza. Può essere difficile, ora, concepire il grado di miseria presente nell’economia del diciannovesimo secolo. Nel 1862, l’orario di lavoro medio settimanale in una fabbrica di Manchester era di 84 ore. La stagnazione dei salari sembra tornata. Dopo il 1945, i salari aumentarono insieme al reddito nazionale, ma il reddito dei percettori di livello più basso raggiunse il picco nel 1969, quando il salario minimo orario negli USA era $1,60. Ciò equivale a $10,49 di oggi, quando il salario minimo è $7,25. E, mentre i salari nel settore dei servizi diminuiscono, l’orario di lavoro settimanale aumenta, perché la gente è obbligata a fare più di un lavoro. La retorica del nostro tempo, il tempo di Bernie Sanders e Donald Trump, la Brexit e le tensioni in Europa, sembra avere un cast marxista. Sanders che propone di ridurre l’ineguaglianza, così come Piketty, tassando la ricchezza e garantendo più accesso all’istruzione. Trump, che ammira personalità autoritarie e che potrebbe essere lieto di sapere che Marx appoggiava il libero commercio sulla base della teoria che abbassando i salari, il libero commercio incrementa la povertà della classe lavoratrice e conduce più velocemente alla rivoluzione. Nei termini odierni, usati a sinistra, a destra e sui giornali: il sistema è “truccato” per favorire “le élite”. Marx la chiamava classe dominante.

Quanto può essere utile Marx per comprendere la bolla di fermento nelle economie avanzate? Credo che ancora non si conosca il preciso profilo demografico di coloro che hanno votato per la Brexit e dei sostenitori di Trump e Sanders – se si tratti di persone danneggiate effettivamente dal libero commercio o di persone ostili allo status quo per altri motivi. Che siano fondamentalmente del primo tipo può rivelarsi una conferma per chi crede che si può più facilmente capire il perché la gente che ha patito un danno economico sia adirata, rispetto al perché la gente che non ha di che lamentarsi sotto l’aspetto finanziario vorrebbe semplicemente mandare tutto all’aria. Eppure, nella confusione politica, si può avvertire che ci troviamo davanti a qualcosa che non si vedeva in paesi come la Gran Bretagna e gli USA dal 1945: la gente che discute di ciò che Marx chiamava la vera natura delle relazioni sociali. Il terreno politico è in qualche modo terra bruciata. E, man mano che la politica continua a mostrare i suoi tradizionali limiti, dando un pessimo spettacolo, possiamo avvicinarci a capire la sostanza di tali relazioni. Non è detto che esse siano solo economiche. Il tema principale del libro di Stedman Jones è che Marx e Engels, ossessionati dalle classi, ignorarono la forza di altre forme di identità. Una di esse è il nazionalismo. Per Marx e Engels, il movimento dei lavoratori era internazionale. Ma oggi pare di vedere, fra chi ha votato per la Brexit, per esempio, un ritorno al nazionalismo e, negli USA, un impeto di nativismo. Stedman Jones aggiunge che Marx e Engels non hanno saputo valutare il fatto che le agitazioni dei lavoratori del diciannovesimo secolo avevano per scopo, con l’ammissione al voto, l’inclusione politica, non la proprietà dei mezzi di produzione. Quando quello scopo venne conseguito, le tensioni calarono. Ma il voto non è più una prova di inclusione. Quello che avviene nelle ricche democrazie potrebbe non tanto essere una guerra fra chi ha e chi non ha, cioè una guerra fra i socialmente avvantaggiati e i rimasti indietro. Nessuno, in condizioni di povertà, non scambierebbe la propria vita con una migliore, ma ciò che la maggior parte delle persone probabilmente vuole è la vita che ha. Oggi si ha più paura di perdere quella, piuttosto che desiderarne una diversa, anche se probabilmente molti sperano che i loro figli siano in grado di condurre una vita diversa se ne avranno la possibilità. Fra le caratteristiche della società moderna che esacerbano la paura e minacciano la speranza, la distribuzione della ricchezza potrebbe non essere la più importante. Alla gente interessa il denaro, ma anche, e perfino di più, lo status, proprio perché lo status non si compra. Lo status è rapportato all’identità proprio come è rapportato al reddito. Purtroppo, è anche un gioco a somma zero. Le lotte per lo status sono socialmente divisive, e somigliano alla lotta di classe. Ryan, nel suo libro su Marx, fa un’osservazione che lo stesso Marx avrebbe potuto fare. «La repubblica moderna», dice, «che cerca di porre l’uguaglianza politica al di sopra dell’ineguaglianza economica non è di alcun sollievo». È un problema relativamente recente, dato che l’ascesa del capitalismo moderno è coincisa con quella delle moderne democrazie, rendendo l’ineguaglianza del benessere slegata dall’eguaglianza politica. Ma la distribuzione iniqua delle risorse sociali non è nuova. Uno dei punti più chiari che Piketty descrive, è che «in tutte le società conosciute, in ogni tempo, almeno metà della popolazione non ha praticamente posseduto nulla», mentre il 10% più ricco possedeva «quasi tutto ciò che c’era da possedere». Probabilmente ciò non è valido per le società tribali, e forse non lo è neanche per i primi Stati democratici, come la Atene di Pericle (perlomeno, non per i cittadini). Ma l’ineguaglianza è stata fra noi per moltissimo tempo. Ciò non è stato invertito dal capitalismo industriale del diciannovesimo secolo, e lo stesso può dirsi del capitalismo finanziario del ventunesimo secolo. Il solo fattore in grado di invertire la tendenza è un’azione politica mirata a cambiare sistemi che, a troppa gente, sembrano essere semplicemente lo stato di cose naturale. Abbiamo inventato i nostri sistemi sociali; possiamo alterarli quando essi operano contro di noi. Non ci sono dei che ci fulminano a morte se lo facciamo. Pubblicato sul New Yorker il 10 ottobre 2016. Traduzione di Sergio Farris rivista da Thomas Fazi. 

Un dio chiamato Capitale. Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo, scrive Massimo Cacciari il 30 aprile 2018 su "L'Espresso". Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico -filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destinodell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero. Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche. La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo. Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza. Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva fino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la  religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema. Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti. Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere. È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomorispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile. Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica fin dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa. È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzantedell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni. Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore. L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato? Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà. Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”. La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.

Il fallimento marxista e la sua eredità nell'epoca della tecnologia, scrive Francesco Lamendola il 07/02/2006 su Arianna Editrice. Fonte: filosofiatv.org. Il marxismo. Il suo fallimento, la sua eredità nell’epoca della tecnologia. Questi gli argomenti di questa sera. Mica poco! Sarei un pazzo se pensassi di poter esaurire una triplice problematica così impegnativa nel breve spazio di un’ora o poco più. Come fare per non cadere nella banalità, nella genericità di una paginetta di Bignami? L’argomento è sin troppo serio. La caduta del muro di Berlino nel novembre '89, le immagini dei corpi di Nicolae ed Elena Ceausescu, fucilati in dicembre, Gorbaciov che annuncia in televisione lo scioglimento dell’URSS, il giorno di Natale 1991. Tutto ciò ha rappresentato un trauma generazionale di portata incalcolabile. Un’intera generazione ha visto crollare i suoi sogni, anche se il crollo, naturalmente, era cominciato molto, ma molto prima di quel triste Natale del '91. Ma quanti avevano avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà? C’è un racconto di Leonardo Sciascia, La morte di Stalin, nel libro Gli zii di Sicilia, che parla di un ciabattino siciliano, Calogero Schirò, militante comunista, e perciò perseguitato durante il fascismo, che ha per Stalin un culto quasi mistico. Stalin è buono; Stalin vuol bene ai lavoratori di tutto il mondo; Stalin è furbo, ha un cervello che pensa per mille; Stalin è la speranza del futuro, il riscatto per tutti gli oppressi e i derelitti. I bruschi «contrordine, compagni» del PCI di allora, e del PCUS, lo mettono in crisi, perché ha una profonda coscienza morale - ma per poco. Stalin pensa sempre a tutto. Lui sa bene quello che sta facendo. Per esempio, quando il prete lo va a trovare in bottega, nel settembre 1939, e lo sfida a trarre le conclusioni dal Patto Molotov – Ribbentrop (cioè che i nazisti e i sovietici sono della stessa pasta) per Calogero Schirò è un’ora di passione. Ma poi Stalin gli appare in sogno, benevolo, paziente, sorridente, lo consola e gli spiega tutto, chiarisce ogni dubbio: «Fu così che Calogero Schirò sognò Stalin, e Stalin, in confidenza, gli disse: “Calì – abbreviativo di Calogero – dobbiamo schiacciarlo questo serpe velenoso (Hitler). Quando sarà il momento, vedrai che stoccata gli caccio”. E Calogero si sentì sereno. Era ormai chiaro come il sole che il colpo dritto Hitler lo avrebbe avuto da Stalin, e al momento giusto». Quanti milioni di Calogero Schirò ci furono nel mondo tra il 1917 e il 1991? Per non parlare di quelli che sopravvivono ancora oggi – come i soldati giapponesi nella giungla, che rifiutarono di arrendersi. Ecco, questa domanda ci porta direttamente al cuore di uno dei due aspetti del problema che vorrei mettere a fuoco questa sera.  Il marxismo è stato una religione, o un potente surrogato della religione e, più precisamente una religione soteriologica (dal greco soter = salvatore), cioè una religione di salvezza, religione tipica delle società in crisi, delle epoche di trapasso, quando prevale l’angoscia esistenziale (per la categoria storiografica dell’angoscia esistenziale si veda, per esempio, il bellissimo saggio di Eric Dodds: Pagani e Cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, edito dalla Nuova Italia, 1970, e, originariamente, a Cambridge nel 1963). A questo punto mi sento in dovere, di dare, sia pure approssimativamente, una mia definizione di religione. La definirei così: un sistema di credenze, esaustivo e coerente, che svolge la funzione di raccogliere e incanalare l’eterna aspirazione umana al trascendente, all’assoluto. Si noti che il concetto di divinità, contrariamente a quello che potrebbe sembrare di primo acchito, non è essenziale alla religione. Il caso del Buddhismo in modo particolare, ma anche in parte del Confucianesimo e, soprattutto, del Taoismo, lo dimostrano. Naturalmente bisognerebbe distinguere tra filosofia buddhista e religione buddhista, ma la distinzione ci porterebbe troppo lontano. L’altra direzione di ricerca, sulla quale vorrei riflettere con voi, è l’interpretazione del marxismo come subcultura del liberalismo, come fratello minore, come ideologia complementare al liberalismo. Queste, naturalmente, sono solo due delle infinite possibili chiavi di lettura del marxismo e del suo esito fallimentare. Perché ho scelto queste? Ho scelto queste due semplicemente per circoscrivere il campo dell’indagine entro limiti ragionevoli e perché, personalmente, le ritengo feconde di ulteriori sviluppi e suscettibili di spiegare molti aspetti del marxismo come fenomeno storico. Certo non esauriscono il campo della ricerca. Ritengo che lo storico, e specialmente lo storico della filosofia, dovrebbe acquisire in parte la metodologia di approccio del fisico. Per spiegare la natura della luce, ad esempio, né la teoria corpuscolare, né quella ondulatoria appaiono, prese separatamente, del tutto soddisfacenti perché non riescono a spiegare determinate classi di fenomeni. Ma le due teorie, integrate l’una con l’altra, offrono una coerente interpretazione del fenomeno luminoso. Le nostre due chiavi interpretative del fenomeno marxista sono ben suscettibili di integrazioni, non pretendono assolutamente di essere esaustive; soprattutto, è necessario accingersi al lavoro senza amore e senza odio, accogliendo l’invito spinoziano del prof. Cutuli, in una sua precedente conferenza di questo stesso ciclo: nec ridere nec lugere, perché, giusta l’ipotesi religiosa del marxismo, questo argomento si presenta carico di pathos, di emotività, di coinvolgimento viscerale. Partiamo allora dalla prima delle due chiavi di lettura. Abbiamo detto che il marxismo è stato il surrogato di una religione soteriologica, con una propria etica, una propria escatologia, ecc., e questo non solo nella sua tarda fase della vulgata staliniana, come per Calogero Schirò, ma subito, fin dall’inizio; e non solo per le vecchiette, cioè per le masse poco istruite, ma  anche per generazioni di intellettuali, più o meno dogmatici (Togliatti ), più  o meno gesuiti (come è stato definito Lukács), più o meno eretici o in odore di eresia (Gramsci), più o meno scomunicati (Trotzkij). E’ chiaro, comunque, che il processo si è accentuato dopo il passaggio da fede a religione, e dopo la nascita di una chiesa universale, il Comintern. Ora desideriamo approfondire il concetto e precisare che tipo di pseudo religione è stato il marxismo. A me pare che esso sia stato un’eresia del Cristianesimo. Diciamo meglio: un’eresia secolarizzata del Cristianesimo tardo. In questo senso esso presenta tratti non secondari di millenarismo che riconducono alle sue origini liberali e, precisamente, alla sinistra hegeliana, e che lo riaccostano ai movimenti utopici ed egualitari che attraversano la storia dell’Occidente, venati di messianismo apocalittico: i Montanisti, i Patarini, i Catari, i Dolciniani, i Lollardi, gli Hussiti, gli Anabattisti, i Puritani, ecc…Si noti il fatto che il marxismo, che si è autodefinito “comunismo scientifico” proprio per rimarcare la distanza dalle varie forme, a dire di Marx, di comunismo utopistico, tradisce un’origine comune con l’aspettazione millenaristica della liberazione escatologica: per Hegel il trionfo finale dello Spirito Assoluto, per Marx la società senza classi e senza stato  del comunismo realizzato. Una parentesi: molti storici, poco dotati di spirito critico, hanno accertato tout court l’autoreferenzialità insita nella definizione di socialismo scientifico, così come geografi un po’ servi hanno accettato per buona la categoria sovietico per definire il cittadino dell’Unione Sovietica, avallando un’inconcepibile confusione tra il concetto di popolo, in questo caso russo, ucraino, armeno, uzbeco, lituano, e quello di forma di governo. Ma neanche Hitler era arrivato al punto di pretendere che i cittadini del Terzo Reich fossero definiti nazisti, piuttosto che tedeschi… Ora cerchiamo di motivare le nostre affermazioni, in particolare che il marxismo è stato un’eresia secolarizzata del tardo cristianesimo. Tutta la storia del cristianesimo, dal primo diffondersi su su, lungo tutta la sua evoluzione, fino al lazzarettismo del monte Amiata – non so se avete presente la figura del riformatore Davide Lazzaretti, che predicava un cristianesimo comunista e che fu ucciso a freddo dalla forza pubblica, dai carabinieri, nel 1878; oppure nel caso degli Stati Uniti d’America dove si hanno le numerose sette fondamentaliste e apocalittiche tipo i Davidiani; ricorderete i Davidiani perché il loro nome è legato a tragici, sanguinosi fatti di cronaca  abbastanza recenti negli Stati Uniti d’America – si intreccia con quella delle eresie che rampollano dal suo seno, come il monofisismo, o che si ricollegano sincretisticamente con culti già esistenti – Manicheismo, Gnosticismo. Tutte, più o meno, a volte anche in maniera quasi esplicita, come nel caso dei Donatisti e dei Circumcellioni nel Nord Africa del tardo impero romano, sono innervate di istanze sociali, per lo più a sfondo egualitario, pauperistico e comunistico; e questo tanto più quanto più la Chiesa, diciamo ufficiale, tende ad allontanarsi dal messaggio evangelico originario. Anzi, possiamo considerare la maggior parte dei movimenti ereticali del passato come la mascheratura religiosa di proteste sociali ed economiche che, per esempio nel Dolcinianesimo, il movimento di Fra Dolcino ai primi del Trecento, nel Nord Italia, raggiunsero il culmine della coerenza e della forza eversiva. Viceversa, in alcuni aspetti della rivoluzione contadina in Germania del 1525 si possono cogliere aspetti di protesta religiosa, ad esempio nel movimento sudtirolese di Michael Gaismayr, ma anche nel pensiero dello stesso Thomas Müntzer. Dietro i contadini in rivolta si intravede la libera interpretazione luterana del Vangelo. Sicché nella storia dell’Occidente, talvolta è la rivolta sociale che si ammanta di una vernice religiosa, altre volte è la religione che parla il linguaggio della protesta politico-sociale. Comunque, fino al secolo XVIII il cristianesimo è sempre riuscito a riassorbire i movimenti potenzialmente ereticali (pensiamo al movimento francescano) o a reprimere, con l’aiuto del braccio secolare, le eresie non recuperabili. Nel Settecento, sotto la duplice sfida da un lato della rivoluzione industriale e dei suoi devastanti contraccolpi sul tessuto sociale – la nascita del proletariato moderno – e, dall’altro, del venir meno dell’aiuto del potere statale, per la prima volta nella sua storia quasi bimillenaria, il cristianesimo appare spiazzato rispetto all’evoluzione economico sociale e palesemente in difficoltà nel generare risposte in grado di riassorbire le spinte centrifughe. (Uso qui il concetto di sfida/risposta, challenge/response nel senso che gli dà lo storico inglese A. J. Toynbee, autore di un classico della filosofia della storia, Civiltà al paragone; Toynbee è un po’ l’anti-Spengler: laddove Spengler sostiene, ne Il tramonto dell’Occidente, che la civiltà occidentale è destinata a un tramonto irrimediabile, Toynbee, dopo aver esaminato tutte le civiltà della storia del mondo, giunto alla civiltà occidentale, sostiene che ci sono ancora motivi di speranza). Nel 1700 si hanno i sintomi di un’incapacità del cristianesimo e delle chiese cristiane di far fronte a una sfida di carattere sociale senza precedenti. Si hanno le prime avvisaglie di ciò, nel continente europeo, con la Rivoluzione Francese, all’interno della quale gli Enragés, l’estrema sinistra del movimento sanculotto, operano il primo radicale tentativo di scristianizzazione. Robespierre, che non condivide la politica scristianizzatrice, perché vi vede l’anticamera dell’ateismo (e Robespierre, da buon discepolo di Rosseau, è un convinto deista), cerca di correre ai ripari inventando una nuova religione: il culto dell’Essere Supremo, ragione forse non ultima della sua caduta. Egli afferma testualmente, davanti alla Convenzione: «Del resto, colui che potesse trovare nel sistema sociale un surrogato alla divinità mi apparirebbe un prodigio di genio». Ebbene, giusta l’interpretazione di Romolo Gobbi nel suo libro Figli dell’apocalisse, Rizzoli, 1993, questo genio fu Karl Marx, con l’aiuto di F.Engels. Egli vide che in quel momento all’enormità e alla drammaticità della questione operaia nessuna forza istituzionale sapeva o poteva dare una risposta adeguata. Non lo stato, che identificava i suoi interessi con quelli della classe capitalista, non le varie chiese, che dai tempi di San Paolo, (quelle cattoliche) e di Lutero (quelle protestanti) predicavano la rassegnazione davanti ai legittimi poteri costituiti. Ricordiamo, ad esempio, la posizione di Lutero in occasione della grande guerra contadina del 1525, una posizione di condanna spietata, senza appello, al punto da esortare i principi tedeschi a massacrare, a sterminare i contadini ribelli. Si badi che Marx in gioventù, non che essere un comunista scientifico, non era neppure un comunista; anzi, per dirla tutta, era francamente un anticomunista. Nel 1842, quand’era direttore della Gazzetta Renana, quindi sei anni prima di firmare con l’amico Engels il Manifesto del Partito comunista, scriveva senza troppi preamboli: «La Rheinische Zeitung, che non può concedere alle idee comuniste nella loro forma attuale neppure una realtà teorica, e, quindi, ancor meno può desiderare o anche, soltanto, ritenere possibile la loro pratica attuazione, sottoporrà queste idee ad una critica radicale. Noi siamo fermamente convinti – dice Marx – che non il tentativo pratico ma l’elaborazione teorica delle idee comuniste costituisce il vero pericolo, poiché ai tentativi pratici si può rispondere coi cannoni, appena divengono pericolosi; mentre le idee, raggiunte dalla nostra intelligenza, conquistate dal nostro costume morale, idee sulle quali l’intelletto ha temprato la nostra coscienza,  sono catene da cui non è possibile strapparsi senza lacerarsi il cuore, sono demoni che l’uomo può vincere solo a patto di sottomettersi». Brano significativo, perché da esso si evince che Marx lamenta il fatto che con le cannonate, purtroppo, non si possa distruggere il comunismo perché esso è qualcosa di molto più pericoloso, qualcosa che inquina la mente. Teniamo da conto questo concetto dell’intolleranza militaresca insita nella mentalità di Marx ancora prima che diventasse marxista e andiamo avanti, riservandoci di tornare a riflettere su questo punto. Ho citato questo brano, comunque, non per il puerile piacere di screditare la coerenza del pensiero marxiano. Convertirsi è un diritto incontestabile: San Paolo, il grande convertito, ha trasformato il cristianesimo in una religione universale di salvezza, fermandosi, però, davanti al passo estremo, ma logicamente inevitabile, di negare la Legge a favore della Grazia, l’antico Testamento a favore del Nuovo. Coraggio concettuale che ebbe, invece, Marcione, per il quale il Dio misericordioso del Vangelo cancellava per sempre il terribile, «giusto» e, perciò, vendicativo Javhè. San Paolo non ebbe il coraggio di rompere con l’Antico Testamento. E questo spiega il carattere misto, ibrido, irrisolto del cristianesimo come religione storica, sospeso a metà strada tra particolarismo giudaico e apertura universalistica. Tornando a Marx, Marx ebbe il coraggio dell’eresia marcionita. In che senso? Abolì il Vecchio Testamento comunista dei Fourier, dei Saint Simon, dei Proudhon – e il suo astio cresce in misura proporzionale alla loro contiguità temporale, è massimo nei confronti di Proudhon (l’astio di Marx per Proudhon! Le parole cattive, velenose con cui si scaglia contro questo autore!) – e proclamò che il capitale è via necessaria e sufficiente alla salvezza, cioè alla vittoria finale del proletariato. Quando, con la Rivoluzione di Ottobre, nasce la chiesa mondiale comunista, il Comintern, qualche altro fra i testi sacri venne aggiunto a completare il Vangelo marxista, i testi di Lenin e di Stalin. La loro autorità, morale e «scientifica», è tale che vengono continuamente citati, stile ipse dixit, nei campi più svariati dagli autori marxisti di quegli anni, dalla morale, all’economia, alla storia antica; dal diritto all’antropologia, alla filosofia, perfino alla biologia. Mi viene in mente il caso dello storico russo Kovaliov che, nella sua Storia di Roma (è uno studioso di storia antica, per altro uno storico di un certo valore) cita con la massima indifferenza ora Tacito ora Stalin, ora un brano di Tito Livio, ora un discorso di Stalin nel tale congresso del partito comunista russo: e questo con la massima naturalezza, come una cosa storiograficamente corretta e normale.  Con Stalin il processo di formazione del Nuovo Testamento marxista è completato. E, come per tutti i libri sacri, qualunque ulteriore aggiunta viene respinta in quanto apocrifa, perché la rivelazione è terminata. Viceversa, alcuni testi prima ritenuti canonici cadono in sospetto e scivolano al ruolo di deuterocanonici. La loro validità diventa sostanzialmente questione marginale. In questo limbo finiscono Rosa Luxemburg, Anton Pannekoek e molti altri. Alcuni autori, potenzialmente destabilizzanti, vengono recuperati mediante la leggenda agiografica e possibilmente mediante il martirologio. In questo senso Che Guevara sta a San Francesco come Innocenzo III sta a Fidel Castro, si intende mutatis mutandis. Cosa voglio dire? Che come Che Guevara  ha permesso al castrismo di dare a credere ancora per molti anni di essere un regime progressista e non una chiusa dittatura – perché la figura bella, generosa, eroica di Che Guevara ha avuto una presa enorme, come sappiamo, soprattutto tra i giovani, una figura di un idealista, indubbiamente – così San Francesco ha permesso alla Chiesa gerarchica, corrotta, prepotente di Innocenzo III di farsi una bella foglia di fico di verginità, di pseudorinnovamento e poter dare a intendere di essere ancora  qualcosa di fresco e di adeguato ai tempi. Ma le eresie nel marxismo hanno sempre avuto una forza dirompente. Pur di stroncare l’eresia anarchica, Marx non aveva esitato a trasferire a New York la sede della Prima Internazionale, decretandone di fatto la morte. Lui si è limitato a questo. I suoi successori, Lenin e Stalin non si sono limitati a questo nei confronti degli anarchici. Li hanno imprigionati e fucilati a migliaia. Ricordiamo un caso per tutti, un episodio abbastanza celebre. Barcellona, 1937: durante la Guerra Civile spagnola, per ordine di Stalin, vengono arrestati e fucilati centinaia di anarchici spagnoli. Ciò è raccontato, tra l’altro, dallo scrittore Orwell, quello di 1984, nel suo bel libro Omaggio alla Catalogna. Del resto, per uno come Stalin, che ha decretato la morte di circa otto milioni di suoi connazionali, qualche centinaio di anarchici spagnoli non è che cambiassero molto le cose. Stavo dicendo che Marx non aveva esitato a trasferire a New York la sede della Prima Internazionale pur di eliminare l’eresia anarchica. Pensava, giustamente, che una fede può rinascere dalle proprie ceneri, ma nulla potrà salvarla dalla contaminazione ideologica. Si noti che ideologia per Marx (non per Lenin) ha sempre un’accezione emozionale negativa. Diverso è il caso dell’eresia trotzkista della rivoluzione permanente. Alla chiesa stalinista, col suo papa, coi suoi dogmi, con la sua santa Inquisizione, l’esistenza di quell’eresia, del trotzkismo cioè, faceva più che comodo: si sarebbe dovuta inventare, diciamo, se non ci fosse stata, perché grazie ad essa era possibile scaricare sul trotzkismo tutte le responsabilità del malfunzionamento dell’URSS. Ogni volta che un piano quinquennale non funzionava, ogni volta che si notavano pesantezze burocratiche, sprechi e altri fenomeni negativi nell’economia e nell’amministrazione dell’URSS, la colpa era di Trotzkij; le sue spie, alleate dei nazisti, vogliono sabotare la patria dei lavoratori. Si rifletta, a questo proposito, che Stalin fece assassinare Trotzkij solo nel 1940, cioè alla vigilia della resa dei conti con la Germania nazista, cioè nel momento in cui era necessario un fronte unico patriottico religioso – Stalin fece appello perfino ai pope della Chiesa ortodossa russa, quando nel 1941 l’URSS fu aggredita dai nazisti –, mentre prima il fatto che all’estero ci fosse un Trotzkij era più che comodo ai piani di Stalin. Anche qui si veda Orwell, La fattoria degli animali in cui descrive molto bene la maniera in cui Stalin mise in minoranza Trotzkij e lo costrinse all’esilio, facendosi avanti da una posizione del tutto secondaria, del tutto marginale. Ma Stalin commise l’errore di forzare a tal segno il culto della personalità da rendere impensabile la distinzione tra contenuto e contenitore, tra il sistema e la figura del suo leader. Con ciò Stalin ha in qualche modo scavato la fossa al marxismo non meno che al regime sovietico. Come si poteva ancora credere, dopo l’avvento di Krusciov, – in quel famoso congresso del partito comunista sovietico in cui Krusciov denunciò, tra lo sbalordimento generale, i crimini di Stalin – in un dio che aveva fallito tanto vistosamente? Che aveva commesso tali e tanti delitti? La storia dell’Unione Sovietica, da allora, non è stata che una lenta agonia. Quanto al marxismo, è sopravvissuto ancora per qualche decennio, come forza morale, solo grazie alle generose iniezioni di terzomondismo e, in particolare, di maoismo e di guevarismo. Accanto alle ragioni economiche, comunque, del resto importantissime, il fallimento del marxismo ha a che fare con la sua dimensione religiosa ed escatologica. Il Cristianesimo delle prime generazioni aveva saputo superare il trauma della mancata parusia (parousia = ritorno di Cristo, fine della storia, che era considerata imminente nella prima generazione cristiana) spostando la realizzazione del Regno dei Cieli da questo mondo all’altro e, al tempo stesso, dal mondo esterno al mondo interiore delle coscienze. Ma il marxismo aveva predicato imminente, certa e inevitabile la sua parusia, la rivoluzione proletaria, l’avvento della società senza classi, in questo mondo, e non nell’altro, nel mondo naturale e non nel mondo spirituale. Con ciò si era condannato da se stesso, fin da quando nel 1921, sotto le mura di Varsavia, durante la guerra russo-polacca, l’Armata Rossa fu sconfitta e in questo modo fallì nel compito di esportare nel resto d’Europa, nel resto del mondo, la Rivoluzione di Ottobre.  Non sempre una religione giovane e irruenta riesce a sostituirne una vecchia e stanca. In questo caso il sorpasso (chiamiamolo così) rispetto al cristianesimo, da parte del marxismo, è stato effimero. Verso gli anni '70, cioè dopo il Sessantotto, che è stato comunque più libertario che marxista, si andava profilando l’inevitabile riassorbimento del marxismo da parte del cristianesimo. Credo che tutti quelli della mia età ricordino che negli anni '60 si aveva questa sensazione, nel mondo della cultura, degli intellettuali di un’avanzata inarrestabile del marxismo e di un’inarrestabile decadenza, disgregamento del cristianesimo. Nei primi anni '70 uomini come Pasolini, come Thomas Merton – l’autore di La montagna dalle sette balze – cercavano ancora una conciliazione fra Cristo e Marx. E, perfino negli anni Ottanta, nel Nicaragua di Ernesto Cardenal e del sandinismo, si tentava la stessa operazione. Poi, inevitabilmente, pian piano, Marx è stato messo in soffitta ed è rimasto Cristo. Cosa è successo? Papa Wojtyla, tramite il punto d’appoggio di Solidarnosc, ha tolto il primo mattone che ha prodotto il crollo definitivo, attraverso una reazione a catena, del sistema sovietico. Il vecchio capobranco, come tra i cervi, o gli elefanti marini, più abile ed esperto, ha sconfitto ed azzannato a morte il giovane rivale. Il biologismo insito in questo paragone, in questa similitudine è voluto, perché ritengo che la storia della filosofia sia afflitta da troppo tempo da una sindrome spiritualistica contro la quale è necessaria qualche robusta, qualche sacrosanta iniezione di solido materialismo. Cioè a dire che nella storia dello Spirito, nella storia della filosofia non bisogna affatto pensare per forza che vigano dei meccanismi, delle leggi sostanzialmente diversi da quelli del mondo naturale. Anzi, si potrebbe perfino affermare (metà per celia, e metà seriamente) che la stessa filosofia non è altro che – come direbbe uno scienziato naturalista – una “secrezione” dei filosofi, proprio come la scienza è una secrezione degli scienziati o la religione stessa, una secrezione degli spiriti credenti. Ma il marxismo non è stato solo un’eresia secolarizzata del tardo cristianesimo. E’ stato anche il fratello siamese del liberalismo. Secondo I. Wallerstein, quella fra USA e URSS, fra capitalismo e marxismo, è stata una contrapposizione puramente formale. (Per questi concetti rimando e consiglio la lettura di un libro che io ho trovato molto stimolante: Mauro Di Meglio, Lo sviluppo senza fondamenti, Editore Asteria). I due sistemi, entrambi imperialisti, si erano effettivamente divisi i compiti sulla base della rinuncia a qualsiasi interferenza nelle rispettive sfere di influenza. E ciò, nel contesto di un’economia mondiale dominata comunque dalla Borsa di New York, faceva dell’URSS, indubbiamente, una potenza subimperialista degli USA. A livello ideologico, marxismo e  liberalismo  condividono  tutta una serie di valori profondamente occidentali, nel senso etnocentrico della parola: l’ottimismo di matrice illuministica e positivistica; la concezione evolutiva e progressiva della storia umana; la fiducia nel progresso materiale ininterrotto, inteso soprattutto come progresso nella tecnologia e la fiducia nei suoi effetti; la fede nella scienza come bene puro; la cosificazione del mondo extraumano – l’ambiente, le risorse naturali, le creature viventi. Secondo Wallerstein, il sistema globale della struttura – mondo, nei due secoli che vanno dal 1789 e il 1989, cioè tra la Rivoluzione Francese e il crollo del muro di Berlino, è stato dominato da un’unica ideologia effettiva: il liberalismo, di cui il marxismo era solo una variante subalterna. Secondo Wallerstein, è solo dal 1968 che comincia ad affermarsi un’ideologia realmente alternativa al liberalismo e che passa attraverso il rifiuto della occidentalizzazione del mondo – concetto caro a Latouche – attraverso il rifiuto delle vie nazionali al progresso e al benessere. Del resto si rifletta che Marx, un pensatore tutt’altro che originale, per sua stessa ammissione, non aveva fatto altro che capovolgere la dialettica hegeliana, facendola camminare sui piedi anziché sulla testa. E la filosofia della storia di Hegel, che è intimamente contraddittoria perché nega la sua stessa impostazione dialettica laddove sfocia nella palingenesi dello Spirito Assoluto, riprende dal liberalismo la fiducia illuministica nella ragione, la concezione evolutiva della storia, e della storia del pensiero, la fede nel progresso inevitabile, eccetera. Ora, anche per questa via si giunge alle stesse conclusioni dell’interpretazione del marxismo in chiave salvifica e religiosa e cioè: la lotta di classe come lotta del bene contro il male, del giusto contro l’ingiusto, del nuovo contro il vecchio – là dove il nuovo è un valore di per sé positivo e il vecchio è un valore di per sé negativo –, e la società comunista (attenzione: la società scientificamente comunista) è vista come l’avvento del regno di Dio. Qui però si coglie anche l’intima debolezza del marxismo come ideologia di salvezza. Non basta prendere l’ideologia dell’avversario e capovolgerla per creare valori nuovi. I valori che nasceranno avranno la vernice del nuovo ma tutta la stanchezza e tutta l’ipocrisia del vecchio. In particolare vorrei far notare che Marx come filosofo viene direttamente dal più tristo pensatore che ci fosse sul mercato delle idee a quell’epoca: Hegel, il più giustificazionista (“Tutto ciò che è reale è razionale”), il più borioso (la filosofia è il culmine dello Spirito, e la filosofia di Hegel, modestamente, è il culmine dei culmini), il più razzista (vi risparmio le pagine delle Lezioni di filosofia della storia di Hegel in cui parla, per esempio, degli Africani, definiti come barbari, come selvaggi), il più statolatra (lo Stato è tutto, è l’eticità assoluta, l’individuo non è niente fuori dallo Stato), il più guerrafondaio  (l’etica della guerra, come valore assoluto): insomma, il più tristo dei filosofi dell’epoca, la cui celebrità nasceva dal delirio autocelebrativo della Prussia militarista e reazionaria. Erano gli anni della battaglia di Lipsia, della vittoria della Prussia e di altri stati tedeschi su Napoleone; c’era questo delirio nazionalista e militarista, donde la celebrità di Hegel, delle sue lezioni, mentre le lezioni di Schopenhauer, nella porta accanto, andavano deserte. A questo proposito vorrei aprire una brevissima parentesi citandovi due righe del filosofo Giovanni Gentile. Cosa c’entra Gentile? Lo vediamo subito. Gentile dice, scrivendo subito dopo la prima guerra mondiale: «Dalla guerra – del 15-18 – con più matura coscienza dei bisogni nazionali siamo tornati alla più alta, alla più italiana concezione della libertà, che è valore, selezione, gerarchia, che immedesima stato e cittadini in una sola coscienza, in una sola volontà». Donde si evince non solo la strana concezione della libertà di Gentile, secondo il quale la libertà è gerarchia, secondo il quale la libertà è selezione, ma, soprattutto, da questo brano si nota la rabbiosa statolatria di Gentile, secondo il quale tutto è nello Stato e nulla ha senso, nulla ha valore fuori dello Stato. Ebbene, mi pare evidente la parentela ideologica tra questo passo di Gentile e le posizioni dello stalinismo. Intendo affermare che sia nell’attualismo gentiliano, che è la versione italiana dell’idealismo di matrice hegeliana, sia nel marxismo stalinista vi è sempre il comune denominatore di Hegel, cui spetta il tristo primato di poter essere considerato il capostipite delle due cose più brutte che la storia, credo, del mondo abbia prodotto: lo stalinismo e il nazifascismo. Dicevamo del concetto di Natura. La Natura, è stato osservato che per Hegel è la “pattumiera” del suo sistema. Notiamo che Hegel è un filosofo decisamente “fuori tempo massimo” dal punto di vista della concezione della filosofia come sistema. Per grazia del cielo, da secoli non si concepiva più la filosofia come sistema chiuso, onnicomprensivo, completo, definitivo. Con Hegel, invece, si torna a questo. Nel suo sistema che cos’è la Natura? La Natura è lo Spirito fuori di sé. E’ stata definita la “pattumiera” del suo sistema nel senso che è tutto ciò che non rientra nello Spirito, tutto ciò che, non essendo di natura spirituale, è di qualità inferiore, scadente. Tra l’altro, lui non giustifica neanche teoreticamente il passaggio dall’Idea in sé all’Idea fuori di sé, dal Logos alla Natura. Stavamo dicendo che torna d’attualità, direi, la critica al marxismo di Proudhon, di Bakunin, di Kropotkin, di Malatesta, ma anche di Tolstoj, ma anche di una Simone Weil, ma anche di un Bookchin. Insomma, non basta prendere il potere e ridipingerlo di rosso. Il nuovo conserverà i peggiori difetti del vecchio. La Ceka non sarà migliore dell’Ochrana, la polizia segreta sovietica non sarà migliore di quella zarista, i gulag staliniani non saranno meglio delle deportazioni zariste. Pol Pot non è in nessun modo meglio di Hitler. E, a proposito del mettere in guardia contro le degenerazioni di un pensiero  positivista misticamente ottimista sulle magnifiche sorti e progressive, mi viene in mente che, quello che secondo me è un grande filosofo oltre che un sommo poeta, Giacomo Leopardi, ancora nel 1835, nella Palinodia al Marchese Gino Capponi, metteva in guardia contro l’ottimismo progressista, e in particolare, metteva in luce la mistificazione su cui esso si regge: l’idea che il progresso instaurerà una specie di Età dell’Oro – idea che è tutta in Marx oltre che in Hegel –, facendo scomparire, grazie all’uso delle macchine, la fatica del lavoro e cancellando nell’uomo l’avidità del denaro. In secondo luogo lui afferma che la promessa che il progresso porterà alla pace e all’amore universale, come anche faceva notare Horkheimer, nella sua critica a Marx, cioè l’attesa di un mondo più libero, più felice, più giusto, è andata completamente delusa. Ancora, nella Palinodia al Marchese Gino Capponi Leopardi ha degli squarci potenti, geniali, quasi profetici, laddove presagisce che vi sarà uno scontro per le materie prime e per i mercati; vi sarà il colonialismo, l’imperialismo, la guerra. Si scaglia contro il mito della felicità derivante dall’abbondanza dei beni materiali – quello che oggi noi chiamiamo in soldoni consumismo – e, infine, si scaglia contro la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i media (le gazzette) dei suoi tempi. Già nella Ginestra Leopardi aveva ironizzato sulle “magnifiche sorti e progressive” anche, io credo, con riferimento allo Spiritualismo idealista. Qualcuno obietterà che l’interpretazione del marxismo come subideologia del liberalismo, impregnato di valori razionalistici e scientisti, non si accorda con l’interpretazione del marxismo come religione di salvezza. In realtà, secondo me, la contraddizione è solo apparente. Basti osservare con quanta disinvoltura gli scientisti e i super razionalisti di oggi assumono un atteggiamento fideistico nei confronti dei loro stessi dogmi, con quanta naturalezza mettono scienza e ragione sul trono di Dio, addirittura con quanta stupefacente semplicità sposano la fede scientista e la fede religiosa. A questo proposito c’è un passo di un libro del professor Antonino Zichichi, Perché io credo in colui che ha fatto il mondo (si noti la tautologia del titolo, perché in qualche modo si crea l’aspettazione che venga motivato un qualcosa che, invece, è già affermato nel titolo stesso). Ebbene, il professor Antonino Zichichi, a pagina 37, afferma: «Accusare la scienza di essere sorgente di guerra e di violenze politiche vuol dire attaccare i buoni per difendere i tiranni. E’ vero che la tecnologia post-galileiana discende totalmente dalle scoperte scientifiche. Se però fossero gli scienziati a dover decidere quali applicazioni permettere e quali no, saremmo in un mondo realmente giusto e veramente libero». Non è una battuta spiritosa o ironica, lui lo dice seriamente: se fossero gli scienziati a dover decidere, saremmo in un mondo realmente giusto e veramente libero, a dimostrazione del fatto che lo scientismo più sfrenato può benissimo sposarsi e andare d’accordo con la fede religiosa nel senso più tradizionale. Insomma, i due poli, lo scientismo e la fede religiosa, il polo razionalista e il polo iperfideista non sono affatto irreconciliabili, anzi, formano un tandem perfetto. E ora passiamo al terzo e ultimo punto che vorremmo trattare brevemente questa sera, cioè le prospettive per il presente, segnatamente nell’epoca della tecnologia.  Dopo i fatti del 1989-1991 – caduta dei regimi marxisti –, è sorta una scuola di pensiero, in grembo al liberalismo, che proclama più o meno esplicitamente nientedimeno che la fine della storia. Essa è stata enunciata per la prima volta, in forma completa e coerente, da F. Fukuyama, col suo saggio: The End of History?, con la foglia di fico del punto di domanda, a New York in The National Interest  nell’estate del 1989 e tradotto da Rizzoli nel 1992. La tesi di questa scuola di pensiero è che con la sconfitta del marxismo e la vittoria del “capitalismo”, è finita l’epoca delle ideologie. Quel che resta è un sistema sostanzialmente di pensiero unico, di cui si possono eventualmente discutere certi dettagli, ma non certo contestarlo nella sua globalità. Si badi alla data: nel 1989 cade il muro di Berlino. In tutto il mondo gli anticomunisti viscerali vivono un momento di euforia, di ubriacatura ideologica. Il capitalismo ha vinto, dunque il capitalismo è il migliore, anzi, è l’unico sistema degno di governare il mondo. Da questa scuola di pensiero, così rozza, così povera di contenuti speculativi, così supinamente adoratrice della forza, – ah, Hegel!… Che identifica lo Spirito assoluto con la Prussia; che arriva a dire che la forma dei tre continenti (la triade dialettica: Europa, Asia, Africa; gli altri quattro continenti, le due Americhe, l’Antartide, l’Oceania, non contano perché danno fastidio alla triade dialettica) rispecchia le tappe dell’evoluzione dello spirito, la forma tozza delle coste dell’Africa è indice della natura primitiva e inferiore dei suoi abitanti, mentre le coste articolate e frastagliate dell’Europa simboleggiano la natura evoluta e spirituale degli Europei – sono usciti tanti leader e leaderini , sia della destra liberale, come i vari Aznar, i vari Berlusconi, i vari Bush, sia della cosiddetta sinistra laburista, i vari Blair, i vari Schroeder, i vari Clinton, caratterizzati da un’arroganza intellettuale pari solo alla loro pochezza culturale, alla totale mancanza di spessore etico. Il cinismo al potere senza fronzoli e senza orpelli. Senonché la dottrina della fine della storia ha in se stessa la propria condanna e la propria sconfitta. Voglio dire che fino al 1989 il sistema capitalista poteva riversare su quello marxista il mancato raggiungimento del progresso e del benessere per l’intero sistema-mondo. Se tre quarti dell’umanità versano ancora nella miseria, la colpa era dell’impero del male, e viceversa, i marxisti dicevano: “La colpa è del capitalismo”. “Facciano come noi – diceva Reagan ai paesi del Sud della Terra, negli anni '80 – si rimbocchino le maniche, prendano esempio da noi e avranno progresso e benessere”. Ma la ricetta non poteva funzionare, non può funzionare, perché la miseria degli uni era ed è funzionale all’opulenza degli altri. E ora che è caduta la giustificazione del marxismo “cattivo”, come spiegheranno i vari Fukuyama, i vari Berlusconi, i vari Bush, che non ci sarà mai un futuro umano per quei tre quarti di umanità che versano nel sottosviluppo? Prendiamo il caso dell’Argentina. L’Argentina era considerata fino a ieri, si può dire, il paese più disciplinato, più obbediente alle direttive del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Era uno stato modello, uno scolaro modello. E guardate cosa è successo: una cosa apocalittica, senza precedenti, una società che si sta sfasciando, che si sta liquefacendo sotto i nostri occhi. Incredibile dictu, i coribanti della fine della storia (mi viene in mente il termine coribante perché è quello che Schopenhauer notoriamente applicava a Hegel. I coribanti erano i sacerdoti di certe divinità orientali; seminudi, agitavano dei tirsi, conducevano delle processioni religiose; quando Schopenhauer non definiva Hegel un cialtrone pesante e stucchevole) noi diremmo i neohegeliani di oggi, stanno propalando l’estrema, gigantesca mistificazione: affermano che progresso e benessere per tutti arriveranno con la globalizzazione. Dove chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per udire, ha compreso perfettamente che la globalizzazione, così come la stanno portando avanti i poteri forti dell’economia occidentale, non può significare altro che dividendi sempre maggiori per i ricchi e sfruttamento sempre più sistematico, sempre più scientifico per i poveri. (Questi punti sono stati approfonditi il 20 dicembre scorso durante la conferenza organizzata dall’A.F.T. presso la sede di Treviso). Concludendo, occorre riaprire varchi alla speranza, motivare i giovani a credere nel futuro. Occorre far leva sull’eredità positiva dei movimenti del 1968-69, puntando su una demistificazione radicale e impietosa della tarda ideologia liberale, mostrandone le rughe repellenti sotto l’apparenza giovanilistica del lifting estetico-ideologico. Guardiamole da vicino queste bellezze del capitalismo, nella sua versione aggiornatissima di pensiero unico e di fine della storia. Sotto il cerone e la tintura, il capitalismo odierno ha l’aspetto laido e malandrinesco del musicante girovago apparso al professor Aschenbach nel libro di Thomas Mann La Morte a Venezia. Soprattutto, occorre pensare in positivo: il rifiuto dell’occidentalizzazione del mondo deve accompagnarsi alla riscoperta e alla valorizzazione della dignità e della validità, certo non mitizzandola, delle altre culture, degli altri sistemi economici. Non dovunque e non sempre il massimo scopo della società umana è stato ed è lo sfruttamento egoistico della terra, degli animali e delle piante, degli altri esseri umani e delle altre società. Possiamo e dobbiamo immaginare un futuro diverso, basato sulla collaborazione, sulla solidarietà, sul disinteresse economico, sulla creatività e sul gioco, sulla valorizzazione del singolo individuo e delle sue infinite potenzialità. Accanto all’homo oeconomicus – altro che uomo a una dimensione, come diceva il buon Marcuse! – c’è l’uomo che sogna e che ama, che inventa e che sperimenta, che persegue la bellezza, la verità, la bontà, che è assetato di assoluto, che odia l’egoismo e l’ingiustizia, che rifiuta lo sport preferito della società competitiva, la pratica del nascondimento e della volontà di dominio, anche nei “semplici” rapporti interpersonali. Già, il singolo individuo, una categoria che Kierkegaard, il grande Kierkegaard, l’altro protagonista della rivolta antihegeliana, accanto a Schopenhauer, per molti aspetti ancora più moderno, ancora più attuale di Schopenhauer, ha avuto il merito di rivalutare contro la statolatria dilagante dell’hegelismo, contro l’avanzata disumana della società di massa (ricorderete la battaglia eroica e solitaria condotta fino alla morte, per sfinimento, da Kierkegaard contro quella che lui considerava la grande infamia del suo tempo, il dilagare della stampa scandalistica, della stampa basata sulle richieste culturali più basse, più rozze del pubblico del suo tempo). Ma, si dirà che la nostra è una società tecnologica. Ci piaccia o no, essa ha messo in movimento dei meccanismi tali per cui ogni ritorno alla centralità della persona non può che apparire come un’ideologia regressiva. Ma regressiva rispetto a che cosa? Ecco il grande equivoco, ecco il grande inganno, di derivazione hegeliana, positivista, occidentale. Chi ha stabilito che cos’è il progresso? Progresso per chi? Progresso per fare che cosa? Per produrre sempre più beni inutili, o, addirittura, dannosi alla salute, alla pace? Sempre più nevrosi, sempre più ingiustizie e sfruttamento, questo è il progresso? L’idea di progresso non può essere monopolio dei poteri forti dell’economia. Per definizione, essi badano al bene privato e non al bene pubblico. Dobbiamo pertanto rifiutare il ricatto scientista e tecnologico, quando ciò è al servizio del nascondimento e del dominio, non in nome di un impossibile ritorno al passato, un ritorno alla candela (quante volte ce lo siamo sentiti dire?), ma in nome di una società pienamente umana, dove ogni individuo sia valorizzato al massimo, in armonia con se stesso, con gli altri esseri umani, con la Natura tutta, vivente e non vivente – ammesso che questa distinzione sia possibile; alcune filosofie orientali, per esempio, lo negano – e, per chi ci crede, in armonia con Dio, o con una realtà altra. E dall’esito fallimentare del marxismo dobbiamo trarre tutti gli insegnamenti necessari affinché non si ripetano certi errori; in primo luogo, quindi, dobbiamo negare uno stato etico, o un partito, o chiunque altro pretenda di sovrapporsi alle esigenze concrete, legittime, insopprimibili del singolo essere umano – quel Singolo volle Kierkegaard sulla sua tomba, come epigrafe – e, in prospettiva, anche di qualsiasi essere non umano, come vogliono tante nobili filosofie dell’Oriente. Dobbiamo pretendere di rifiutare che le esigenze dello stato, del partito o di chiunque altro si sovrappongano a quelle del singolo qui e adesso. Vorrei concludere con due brevissime citazioni, una da Heidegger, per quello che riguarda, appunto, il problema della società della tecnica. Per essere precisi, non è neanche da Heidegger, perché è uno scrittore un po’ involuto, un po’ difficile, è da un normalissimo testo di storia della filosofia, l’Adorno-Gregori-Verra. Questo passo sintetizza la posizione di Heidegger nei confronti del problema della tecnica: «La svolta impressa da Platone al concetto di verità non è poi una questione la cui importanza, quale che sia, grande o piccola, si limita all’ambito della storia della filosofia, della cultura, del sapere. Al contrario, spiega l’intero destino dell’Occidente e, in particolare, il primato della tecnica affermatosi nel mondo moderno. Per Heidegger, infatti, la tecnica non è uno strumento neutrale che l’uomo può usare a suo piacere per il bene o per il male. – Quante volte ci siamo sentiti dire che un coltello è buono se si usa per tagliare la carne ma è cattivo se si pianta nella pancia del prossimo? – Essa è, invece, il risultato del processo per cui l’uomo, dimenticando l’essere, si è attaccato sempre di più agli enti, alla loro presenza e, mediante il pensiero come rappresentazione (render presente, portare davanti a sé), ha assunto di fronte alla realtà, rendendola mero oggetto, un atteggiamento di dominio e di sfruttamento, un atteggiamento che oggi non si ferma più neanche di fronte alle basi stesse della vita (parole quasi profetiche, allora non esisteva ancora l’idea della clonazione), alle sue condizioni biologiche e genetiche, per cui su tutto la tecnica tende a imporre il suo dominio necessariamente totalitario. La fede nella tecnica quindi non è altro che la fede in un processo di dominio che non ha più altro scopo che se stesso e tende a subordinare tutto a se stesso». Direi che sono parole sulle quali vale la pena di riflettere, mentre ci sentiamo magnificare ancora una volta le magnifiche sorti e progressive verso cui la tecnica ci sta indirizzando. Vorrei soltanto concludere con questa riflessione. Nel valorizzare quella ideologia che io considero l’unica ideologia veramente antagonista nei confronti del liberalismo, e cioè l’ideologia libertaria – ambientalista, pacifista, solidarista (e chi più ne ha più ne metta) – occidentale, credo che molta strada si possa fare insieme con la tradizione culturale dell’Oriente. Penso a filosofie come il Buddhismo, in particolare Zen, come il Taoismo, ma anche come lo Yoga, come il Vedãnta (il Vedãnta stesso che pure è così squisitamente spiritualistico). Sono tradizioni filosofiche di una validità sconvolgente, se pensiamo che sono antiche 2000-3000 anni, tuttora attuali e pienamente vitali: c’è un punto importantissimo, fondamentale, di convergenza  che esse hanno con l’ideologia libertaria che rifiuta il marxismo non in nome di un viscerale anticomunismo ma in nome di quei valori di libertà – e libertà a partire dal singolo, perché se non si parte dal singolo la libertà è un’astrazione – che il marxismo, invece, aveva violentemente negato, con tanto di gulag e di plotone d’esecuzione. Questo punto di convergenza è il rifiuto dell’attaccamento avido ai frutti del lavoro, e del desiderio di dominio sulla natura e del desiderio di sfruttamento della vita stessa come processo sostanzialmente economicistico. Il rifiuto di questa visione è tipico delle filosofie orientali che citavo prima. Uno studioso italiano, Carlo Patrian, di yoga in particolare, scrive: «Tutto l’universo è in moto, tutto è alacremente all’opera, ma tutto lavora per il lavoro in se stesso e non per qualche eventuale beneficio che ne possa derivare. Soltanto l’uomo lavora per il desiderio di ricompensa, agisce per ottenere qualcosa, aspira sempre a un profitto personale». – How much? (Quanto costa?). Oppure: Cosa posso ricavarne? Quanto mi può dare questa cosa (anche nei rapporti umani: questa amicizia, questo legame)? Mi conviene? Mi serve? Può essere un trampolino per i miei scopi? – «Operando ed agendo con questo intento, l’uomo diviene sempre più soggetto e schiavo di ciò che desidera». Questo è un concetto che le nobilissime filosofie dell’Oriente, come lo Yoga, hanno ben chiaro da migliaia di anni ma che l’uomo occidentale, specialmente oggi, ubriacato dai fasti del capitalismo che si crede vittorioso, decisamente non ha introiettato e, con suo danno, non ha ancora capito quanto sia importante. Vi ringrazio.

RILEGGERE IL CAPITALE. L’UTOPIA. Prima la realtà e poi l’utopia, scrive Biagio Carrubba il 15/01/2014. Ci sono tre grandi libri che, col passare del tempo, sono divenuti totalmente obsoleti e utopistici. Questi tre libri sono:

1. “I Vangeli” dei quattro evangelisti del Nuovo Testamento;

2. “Canto di Natale” di Charles Dickens;

3. “Il Capitale” di Karl Marx.

Credo che oggi questi tre grandi ed affascinanti libri, per motivi diversi, siano divenuti libri da museo, perché non fanno più presa nei giovani di oggi occupati da altri problemi e rattristati dalla mancanza di lavoro. Questi tre grandi libri, fascinosi e bellissimi, purtroppo non riescono più ad affascinare nessuno, perché il loro contenuto è ormai datato e superato dall’attuale società capitalistica e perché il loro messaggio spinge a credere nell’amore universale e nella filantropia, che sono sentimenti e forze deboli per affrontare e risolvere i gravi problemi delle attuali società post-moderne. Oggi, infatti, le società capitalistiche sono basate sulla più cruda realtà del mercato e del lavoro e non lasciano niente all’immaginazione al potere, né all’utopia. Sembra che soltanto le società capitalistiche riescano a far funzionare il mondo complesso e feroce degli uomini, la cui natura è ancora più vicina alla lotta per la sopravvivenza del mondo naturale che ad un mondo di pace e di prosperità fra gli uomini.

Il famoso libro “Lire le Capital” di Louis Althusser pubblicato nel 1965 esprimeva la tesi e l’esigenza di fondo di rilanciare e riproporre il neomarxismo di Karl Marx. Gli anni ’60 erano proprio gli anni della speranza e della rinascita del marxismo in tutta l’Europa.

Io, Biagio Carrubba, nel 2014 con questo articolo prendo atto con mio sommo dispiacere del fallimento e della morte del marxismo in tutto il mondo. Credo,inoltre, che sia venuto il momento di dare una giusta e degna sepoltura alla teoria economica proposta e presentata come scientifica da Karl Marx ed esposta chiaramente ne “Il Capitale” del 1867. Mentre “Lire le Capitale” veniva dopo la seconda guerra mondiale e dopo il grande revisionismo socialista degli anni ’20 e ’30 di Kautsky e di A. Labriola e F. Turati in Italia, questo libro voleva essere una grande svolta per tutta la sinistra europea in contrapposizione ed in alternativa al comunismo reale dell’Unione Sovietica. Oggi io, Biagio Carrubba, invece purtroppo affermo che non si può fare altro che dire addio al marxismo come teoria scientifica e ciò vuol dire che di scientifico la teoria marxista non aveva niente perché il comunismo scientifico di Marx non ha superato la prova della storia. Ciò che rimane di esso è soltanto l’utopia di una società che non si realizzerà sul pianeta Terra. Infatti, ormai, non esiste più né il proletariato né tanto meno la dittatura del proletariato che sono fenomeni completamente superati nell’attuale globalizzazione capitalistica. Basterebbe già la mancanza di questi due fattori per dichiarare fallita e non-scientifica la teoria di Marx. Insomma, oggi a distanza di 150 anni dal marxismo, io, B.C., constato e metto in rilievo le seguenti aporie del materialismo storico di Karl Marx:

· il marxismo non si può considerare la palingenesi delle masse sfruttate e dei proletari;

· il lavoro non può essere considerato come lo sfruttamento dei capitalisti sul proletariato;

· il proletariato non è stato in grado di fare nessuna rivoluzione, né sociale, né politica, né tanto meno è riuscito ad instaurare la dittatura del proletariato;

· la globalizzazione del capitalismo è talmente forte che ha vinto sul lavoro organizzato e sui partiti politici che ancora lo rappresentano;

· il valore del lavoro così come lo aveva descritto Marx e cioé il plusvalore, che il capitalista ricava dal lavoro non pagato agli operai, è una teoria sballata e non-scientifica perché esistono tanti tipi di lavoro e non soltanto quello delle fabbriche. Il capitalismo non trae la sua ricchezza dal plusvalore ma dall’organizzazione mondiale del mercato e dalla produzione mondiale dei suoi prodotti industriali;

· la teoria marxista sulla lotta di classe tra capitalisti e proletariato risulta semplicistica perché la lotta per la sopravvivenza é una lotta che si svolge in tutti i campi, dal lavoro all’amore, per cui esiste una lotta continua tra gli individui, di tutti contro tutti, e non soltanto tra classi sociali come teorizzato da Karl Marx.

Oltre a queste aporie riporto altre cinque prove fondamentali che dimostrano la fine del comunismo scientifico di Karl Marx, desunte dal corso della storia europea e mondiale che decretano e constatano, a mio giudizio personale, il fallimento e la morte del comunismo scientifico di Marx.

La prima grande prova storica è stata il crollo del comunismo in U.R.S.S. nel 1990/91, quando la Rivoluzione sociale e civile del popolo di Mosca provocò la caduta del comunismo di Gorbaciov, portando alla C.S.I., il cui primo presidente fu Boris Etsin;

La seconda grande prova storica è stata il trasformismo che dalla rivoluzione sociale di Mao Tse-Tungche si è trasformato nell’attuale regime dittatoriale comunista, dove manca qualsiasi forma di democrazia e di libertà personale e politica, come la libertà di stampa e di mercato, che sono diritti inalienabili dell’individuo;

La terza grande prova storica è la nascita della filosofia del post-moderno in Europa che ha elaborato una filosofia in cui l’elemento fondamentale è il riconoscimento del pluralismo di ogni voce e di ogni democrazia parlamentare, cosa che viene automaticamente negata in ogni regime totalitario sia di destra che di sinistra;

La quarta grande opera storica è stata un pensiero di Mario Luzi, il quale afferma che: “la ragione non può essere asservita all’ideologia”: con altre parole: “non può esserci un solo modo di pensare in tutto il mondo”. Ciò significa che il comunismo non può essere l’unica filosofia politica valida per tutti i popoli del mondo, anzi l’ideologia comunista risulta oggigiorno l’unica teoria politica negata ed abiurata da tutti i popoli del mondo;

La quinta grande prova storica è stata data dalle scienze che affermano l’inesistenza di un unico modello di sviluppo epistemologico e filosofico valido per tutti gli esseri del mondo, sia nel mondo naturale che in quello umano.

Poiché il comunismo di Karl Marx non ha superato tutte queste prove, credo che esso abbia fallito miseramente. Quindi l’unica cosa che mi resta da fare, per chi ha ancora un barlume di speranza per creare una società comunista ed egualitaria, è quello di auspicare tante società democratiche dove vengano garantite sia una maggiore democrazia parlamentare e politica e sia le libertà personali e civili di tutti i cittadini.

Io, B.C, credo che il marxismo di Marx possa venire riposto in un museo tra le cose impossibili e utopistiche, mentre l’auspicio più forte che possa fare è quello che venga rafforzata la difesa di ogni democrazia parlamentare e la difesa delle libertà di ogni individuo. Ma se il marxismo esce dalla ragione e dalla filosofia rimane comunque nel cuore, tra i desideri impossibili più belli ed utopistici che hanno mai attraversato il cuore e la mente di milioni di persone che hanno sognato, combattuto, sperato e sono morti per la difesa del comunismo come ideologia praticabile. Mi riferisco ai soldati russi che morirono, durante la seconda guerra mondiale, per difendere non soltanto il comunismo sovietico ma anche per salvare e liberare le libertà democratiche delle società capitalistiche dall’offensiva brutale ed annientatrice delle armate del nazismo e del fascismo. In conclusione per tutti questi motivi sopra esposti prendo congedo dal marxismo come teoria utopistica, e aderisco ad un capitalismo dal volto umano che sia veramente garante e difensore della democrazia parlamentare e tutore irreprensibile delle libertà personali, civili e sociali di ogni cittadino del mondo.

E Pareto segnalò l'errore "capitale" di Karl Marx, scrive Nicola Porro, Domenica 11/06/2017, su "Il Giornale". Alla fine dell'Ottocento Karl Marx è una star. È un Saviano, si parva licet, su scala globale: è la cosa giusta, scritta nel momento giusto, e appoggiata dai salotti giusti. Sono in pochi a contestarlo. Il socialismo è agli inizi, ma gode di grande fama. Il Capitale (1867) è già stato pubblicato in Italia, ma Vilfredo Pareto si mette di buona lena e legge il complicato e un po' confuso testo. Ne esce un piccolo saggio magnifico. Pubblicato prima in Francia per Guillamin e poi in Italia per la casa editrice palermitana Sandron. Una chicca ripubblicata oggi da Aragno (Vilfredo Pareto, Il Capitale) con una premessa di Michele Bonsarto. A differenza del prefattore, mi sembra che Pareto non salvi alcunché del testo del filosofo di Treviri. Parte duro: «L'esame di un'opera può farsi seguendo due metodi. Il primo, che è specialmente polemico, non si preoccupa punto di separare la verità dall'errore. E condanna in blocco una teoria, applicandosi soprattutto a metterne in rilievo i difetti, che esso stesso esagera. Il secondo metodo non ha al contrario altro scopo che quello di sceverare la verità dall'errore». Marx, sostiene Pareto, ha adoperato il primo metodo parlando dell'economia liberale. L'economista italiano, chiosando il Capitale, si preoccupa di adottare invece il secondo metodo, che poi è quello scientifico. Pareto dice che Marx avrebbe dovuto titolare il suo libro Capitalisti, più che Capitale, poiché è contro di loro che rivolge il suo sguardo. E poi critica (cosa che oggi è diventata generalmente accettata) la cosiddetta teoria del valore marxiana. «Marx cade nell'errore di non fare abbastanza attenzione a ciò che il valore d'uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica, ma è al contrario un semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini. Questo errore è ancora più manifesto per il valore di scambio, ed è una delle cause principali del sofisma che si trova nella teoria del plus-valore». Pareto con semplicità spiega come il valore di una merce sia il valore che ad essa viene attribuita dallo scambio e dalla posizione relativa di che intende scambiare. Un bicchiere d'acqua non ha un valore d'uso intrinseco, basti pensare quanto vale per un assetato nel deserto rispetto a quanto sia apprezzato da un cittadino davanti a una fontanella. Anche l'economia borghese su questi termini - ammonisce però Pareto - ha spesso fatto confusione, come ad esempio quando attribuisce al valore di scambio il costo di produzione. Non vi preoccupate il testo non è così complicato. Certo, è una lettura per chi abbia un minimo di infarinatura microeconomica. È favoloso vedere la lucidità di Pareto e scorgere in alcune sue critiche al marxismo, alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi.

Dal dogma al brand Marx? Mai stato così pop, oggi vale un Capitale. La crisi globale ha rilanciato il suo pensiero: le teorie restano zoppicanti, ma l'icona svetta, scrive Luigi Mascheroni, Giovedì 19/04/2018, su "Il Giornale". Il marxismo, dopo Marx, è stato un fallimento progressivo. Ogni volta che le sue teorie sono passate alla pratica hanno avuto conseguenze rovinose, spesso sanguinarie. Ma Marx, dopo il marxismo, sta benissimo. Togli dal filosofo le incrostazioni pragmatiche, e resta l'icona. Karl Marx renaissance. Il successo mediatico del rivoluzionario pensatore tedesco è un'onda lunga gonfiatasi già da anni, almeno dall'inizio della crisi finanziaria globale nel 2008, e non si è ancora infranta. Più l'economia occidentale cala, più l'economista di Treviri svetta. A suo modo, Karl Marx aveva previsto l'impasse odierna del capitalismo attuale. E se non avesse del tutto torto? È una buona ragione per rilanciarlo. Il padre del Comunismo, a duecento anni esatti dalla morte, 5 maggio 1818 (auguri), è più vivo che mai. Ma più che un dogma, è un brand. La sua filosofia mostra il passare del tempo, ma la sua immagine pop è luccicante.

La Repubblica popolare cinese il Paese attualmente più influenzato dal marxismo, con tutto il corollario comunista di sfruttamento inumano della classe operaia, povertà diffusa, ateismo di Stato e corsa sfrenata agli armamenti proprio ieri ha donato una monumentale statua di bronzo di Karl Marx, alta 6 metri, alla città di Treviri, città di nascita del filosofo, opera dello scultore Wu Weishan. Intanto, l'autore del Capitale è star assoluta di favole per bambini, canzoni pop (il rap Marx è uno degli anni 90 della band cinese Parfum), serie tv, film, oltre che convitato fantasma di convegni, festival, tributi... Da quando gli spettri della crisi, della disoccupazione e della recessione hanno (ri)cominciato ad aggirarsi per l'Occidente, ridando per converso corpo alle profezie marxiste sulle degenerazioni di un capitalismo senza regole, il vecchio Karl sembra tornato giovanissimo. La versione manga del Capitale è stato un bestseller in Giappone. Poi il regista He Nian ha trasformato vita e opere del filosofo in un musical per il Centro di arte drammatica di Shanghai. Non si contano le copertine dedicategli dalla grande stampa (celebre, gennaio 2017, quella del settimanale tedesco Zeit: «Hatte Marx doch recht?», «Marx quindi aveva ragione?». Strillo: «Uomini avidi, ingiustizie e l'insurrezione dei dimenticati: Karl Marx ha visto tutto. Cosa possiamo imparare da lui, nonostante il marxismo»; e qualche tempo prima Der Spiegel disegnò un Marx con le dita a «V» sotto il titolo «Uno spettro ritorna»).

Marx multimediale e multitasking. Anni indietro il programma radiofonico della BBc In Our Time lo incoronò il più grande filosofo della Storia. Pochi giorni fa, il 14 aprile, Linda Terziroli e Silvio Raffo hanno portato in scena per la prima volta a Gallarate, al Teatro del Popolo... - la piéce di Guido Morselli Marx: rottura verso l'uomo, testo, ancora inedito in volume, scritto nel 1968 dall'autore del romanzo Il comunista. E sul palco ecco un Karl Marx (che Morselli sognava interpretato da Gassman) altissimo e in vestaglia da camera e pantofole, che ha problemi di salute, che viaggia «nel continente» con una famiglia allargata. È un po' imborghesito, lontano dalla politica militante e capace di battute da antologia (mentre sta annegando in un «maelstrom di carte», bozze da correggere e articoli, di fronte a un povero operaio, sbotta: «Mi toccherà lavorare anche la domenica»).

Filosofo così complesso e contraddittorio, Marx è diventato un personaggio così pop da essere a portata di tutti. Per dire: è al centro di ben due serie tv. La prima, in fieri, di cui ancora non si conosce titolo né data di messa in onda, è l'adattamento televisivo della biografia Love and Capital, scritta da Mary Gabriel nel 2011, sceneggiata da Alice Birch, e si concentra sulle vicende familiari di Marx e della moglie Jenny, con incursioni nella vita dell'amico Friedrich Engels: idee rivoluzionarie, esilio e povertà in primo piano e sullo sfondo i pesanti cambiamenti del XIX secolo dovuti al suo pensiero filosofico. La seconda, che ha già avuto i suoi successi, è una fiction in quattro puntate, solo per YouTube, Marx ha vuelto (Marx è tornato, guarda caso...), liberamente ispirata al Manifesto del Partito comunista, ed è una produzione argentina (come Jorge Mario Bergoglio, il Papa più marxista della storia della Chiesa). Da The Young Pope a Le jeune Karl Marx. Arrivato nei cinema italiani da una decina di giorni (con 214mila euro di incassi finora), ecco il biopic Il giovane Karl Marx del regista haitiano Raoul Peck (ex-ministro della cultura nella Haiti post-regime) con August Diehl nel ruolo eponimo. Presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2017, è un filmone romantico, parlatissimo, bohémien, anche avventuroso, scritto e recitato bene. Dal quale si capiscono due cose: che Karl Marx senza la moglie Jenny, che lo sostenne oltre ogni amore possibile, forse non sarebbe neppure partito; e senza Friedrich Engels, che gli è fu accanto oltre ogni amicizia possibile, non sarebbe neppure arrivato. Dove?

Ad essere ancora studiatissimo, dentro e fuori le accademie, ristampato (nota a pie pagina: l'Accademia delle scienze di Berlino sta lavorando a una monumentale edizione critica dei suoi scritti, e la pubblicazione completa, da qui al 2020, conta 114 tomi) e soprattutto venduto: in Germania negli ultimi dieci anni Il Capitale, a detta della storica casa editrice Karl Dietz di Berlino è tornato di moda, non solo fra gli studenti che devono sostenere gli esami in Università. Solo l'editoria italiana, nei primi mesi del 2018, in occasione del duecentenario dalla nascita, ha fatto uscire 15 titoli di e su Karl Marx (più una decina di edizioni diverse del Manifesto del Partito comunista), fra i quali, molto critico, Il marxismo dopo Marx (Castelvecchi) di Giuseppe Bedeschi, Karl Marx. Vivo o morto? (in arrivo dalla nuova casa editrice Solferino), una raccolta di saggi curata da Antonio Carioti per capire se davvero le attuali difficoltà dell'economia di mercato e l'aumento delle diseguaglianze confermano la validità dell'analisi di Marx, e poi la ristampa di un piccolo bestseller «a tema» (e dalla copertina Bompiani molto pop...), il Bentornato Marx! di Diego Fusaro, giovane e mediaticissimo filosofo che non può non dirsi allievo di Marx. «Perché è diventato così pop? Perché è il modo perfetto per anestetizzare e depotenziare un pensatore altrimenti irricevibile oggi dalla società di mercato», risponde al Giornale. «Portare Marx in tv e al cinema è come stampare Che Guevara sulle T-shirt: si addomestica la portata rivoluzionaria di un pensiero incompatibile con la società contemporanea turbocapitalista e sfruttatrice delle masse».

Già, le masse. La classe lavoratrice è sparita. Il socialismo reale è naufragato. Il sogno di Marx mandato in soffitta. Resiste il suo mezzo busto - barba imponente e cipiglio - dai colori acidi e sgargianti. Nostalgia di un'icona. Secondo l'ultima classifica stilata da Forbes, le duemila persone più ricche del mondo hanno un patrimonio che è pari alla metà di tutto il reddito prodotto negli Stati Uniti in un anno. Non solo. La loro ricchezza aumenta sempre di più, e sempre più velocemente. La dittatura non è del proletariato. Il vecchio motto «Proletarier aller Länder, vereinigt euch!» ha una nuova declinazione. Miliardari di tutti i Paesi, unitevi. E i proletari, diventati precari, quelli consumano film, serie tv, musica pop. Brandizzata Karl Marx.

Quel genio di Karl. A 200 anni dalla nascita cinque motivi per riscoprire Marx, scrive Antonio Carioti il 5 maggio 2018 su ""Il Corriere della Sera".

Lo slancio utopistico. Anche se estraneo alla tradizione ebraica dei suoi antenati rabbini (era battezzato e già suo padre si era convertito al cristianesimo), Marx è uno spirito profetico. Il suo pensiero è dominato dall’intento di dare una risposta sul piano materiale e concreto all’eterna aspirazione umana all’eguaglianza, che prima di lui si era espressa soprattutto nel messianismo religioso. Questa componente dà una forza enorme al suo messaggio, che parla ai cuori di milioni di poveri e sfruttati. Ma ha anche un aspetto pericoloso: la fede nell’avvento di una società senza classi, predicata da Marx, si presta ad essere trasformata in un’ideologia di Stato intollerante e dogmatica, come è avvenuto in Unione Sovietica e negli altri Paesi comunisti.

L’influenza storica. Secondo Marx i filosofi non potevano limitarsi a interpretare il mondo, dovevano cambiarlo. Quindi agisce da intellettuale impegnato: diventa l’ideologo della Lega dei comunisti nel 1847, poi il capo più influente della Prima Internazionale dei lavoratori dal 1864 al 1872. In Europa il movimento operaio riceve un impulso enorme dalle sue idee. Però il pensiero di Marx presenta un’ambiguità di fondo: da una parte invoca la rivoluzione, dall’altra non esclude che la classe operaia possa arrivare al potere gradualmente, attraverso l’evoluzione pacifica della società. Quindi hanno potuto dirsi marxisti sia i socialdemocratici, cui si deve una forte azione riformatrice in Europa, sia i comunisti di Lenin, artefice della rivoluzione sovietica che ha aperto la strada ai regimi totalitari comunisti. In entrambi i sensi il riflesso storico dell’opera di Marx è stato immenso.

Sbagli da cui imparare. Marx reclama l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro socializzazione. Non si rende conto che il mercato e l’impresa capitalista, lungi dall’essere un intralcio allo sviluppo, ne sono il motore principale. È convinto che, tolta di mezzo la borghesia sfruttatrice, i lavoratori potranno gestire le industrie, ne aumenteranno l’efficienza e potranno distribuire equamente la ricchezza prodotta, assicurando a tutti una libertà sostanziale negata ai più poveri dal capitalismo. L’esperienza storica dimostra invece che negare l’iniziativa economica privata porta alla burocratizzazione e alla penuria, oltre che al soffocamento di ogni libertà. È una lezione che ha imparato non solo la socialdemocrazia, che si è ben guardata dal sopprimere il mercato, ma anche il regime comunista cinese, che lo ha restaurato con riforme incisive e così ha evitato di fare la fine di quello sovietico.

Una vita da ribelle (non sempre coerente). Marx era una mente geniale. Se si fosse messo al servizio del suo sovrano, il re di Prussia, avrebbe potuto fare una splendida carriera come professore di filosofia. E anche nel giornalismo dimostrò grande talento, solo che i giornali da lui diretti vennero chiusi dalla censura. La moglie Jenny era figlia di un ricco barone. I coniugi Marx potevano vivere da gran signori, invece condussero un’esistenza precaria da eterni profughi, spesso nella miseria più nera, a causa della sete di giustizia e degli ideali rivoluzionari di Karl. Per via dei luoghi malsani in cui abitarono a Londra, persero tre dei loro sei bambini in tenera età (sopravvissero tre ragazze). Il paradosso è che a salvare Marx dal lastrico fu l’amico Engels, benestante perché figlio di uno degli industriali borghesi che Karl voleva espropriare. E gli vennero in soccorso anche le eredità ricevute da lui e dalla moglie, mentre nel suo Manifesto del partito comunista si chiede di abolire il diritto di successione.

Il capitalismo muore senza Marx, scrive il 5 maggio 2018 Sergio Noto, Professore di Storia economica presso l’Università di Verona, su "Il Fatto Quotidiano". Starà anche tornando di moda, ma per il momento il già bisecolare Herr Dr. Karl Marx non se lo ricordava più nessuno. Fino a pochi anni fa, anche il più disinteressato tra gli studenti universitari avrebbe saputo darvi uno straccio di definizione del plusvalore, tutti sapevano cosa fosse il materialismo storico. Oggi non è più così. Tra gli studenti di economia (e temo anche tra i docenti) pochissimi si sono piegati sui ponderosi tomi del Capitale per conoscere la ricchezza e la varietà delle sue teorie, alla faccia del bicentenario. Abbiamo dovuto attendere le spaventose crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni, dopo che il (finto) capitalismo ha mostrato la sua faccia più disgustosa e caricaturale – quella che appunto piaceva a Marx – per veder crescere la popolarità delle teorie marxiane (Thomas Piketty). Ma purtroppo non bastano le storture del turbocapitalismo alla Gordon Gekko per incentivare gli studi seri, per recuperare teorie che hanno sentito fortemente il peso degli anni e la cui maggiore validità – più che nelle conclusioni (che lo stesso Marx faticò a tirare) – consiste nel metodo e nei principi ispiratori, che già hanno aiutato il capitalismo a risolvere problemi non molto differenti dai nostri. Peccato che, come diceva Joseph Schumpeter (che era un grande conoscitore del marxismo, oltre che un amante del capitalismo imprenditoriale): “il capitalismo non morirà per mano dei suoi nemici” e il marxismo è certamente tra questi “ma scomparirà grazie ai Mellon, ai Carnegie, ai Rockfeller”, cioè per mano degli stessi capitalisti. A parte la necessaria distinzione tra marxismo e comunismo, non c’è dubbio che il lascito più grande delle idee di Karl Marx fu quello di uno spirito radicalmente critico, oserei dire rivoluzionario, all’interno della cultura occidentale. La critica radicale di Marx al capitalismo, oggi come ieri, ci dice che l’accettazione supina e conformista del pensiero egemone è lo strumento più sicuro per fermare lo sviluppo, per impedire il progresso. Marx (come su un altro versante lo stesso Schumpeter dopo di lui) aveva compreso che senza rivoluzioni la società muore. Là dove ci si rifiuta di misurarsi seriamente con modelli e prospettive radicalmente differenti lì, oltre alla noia mortale, si annidano i rischi maggiori per tutta l’umanità di retrocedere da conquiste per le quali ci siamo battuti e che nessuno oggi vorrebbe perdere. Questo vale nel campo delle strutture sociali come in quello dei modelli di sviluppo economico e altrettanto in ambito imprenditoriale. In questo senso l’eredità marxiana è come una specie di veleno del pensiero; assumerlo integralmente non è possibile, troppa fantasia, troppa escatologia. Ma non possiamo farne a meno – come per certe medicine salvavita, prese in dosi adeguate – per salvare le sorti di un’umanità sotto le spinte conservatrici di quanti hanno già raggiunto la ricchezza, il benessere e il potere sociale. Le teorie marxiane – se restano riflessione teorica, punto di riferimento intellettuale e non ambiscono a diventare integralmente programma politico – dovrebbero essere ben presenti a politici e intellettuali. Friedrich von Hayek – il maggiore economista liberale del XX secolo -, mentre spregiava fin nelle radici il comunismo come soluzione sociale, aveva un grande rispetto per Marx come intellettuale e in molti punti possiamo perfino ritenere che gli sia debitore di aspetti non secondari delle sue teorie, come ad esempio nell’utilizzo di una metodologia storica applicata all’economia, nell’attenzione alla realtà reale dell’economia e non alle sue apparenze formali, etc. Il pensiero liberale (lo ha dimenticato?) quindi deve molto al marxismo, anzi come molti hanno sostenuto è probabilmente l’altra faccia, non contrapposta di quest’ultimo. In ogni caso, oggi a 200 anni dalla nascita del fondatore del marxismo, dobbiamo continuare a sentirci debitori nei confronti di questo intellettuale tedesco, che così grandemente ha influenzato la storia occidentale. La tradizione liberale e democratica farebbe bene a non dimenticare che – da molteplici prospettive – il socialismo marxista è sempre stato un alleato dialettico della “società aperta”. Già abbiamo visto all’inizio del secolo, l’antitesi al mondo liberale e democratico non è il mondo che si ispira al marxismo. È infatti la società fondata su postulati etici e morali l’opposto della società liberale. La società liberale se non affronta e risolve molti dei problemi posti da Marx 200 anni fa rischia di farci rimpiangere il passato, con tutto ciò che ne consegue.

200 anni di Karl Marx: dove ha sbagliato. Perché il pensatore è stato una catastrofe per il movimento operaio e sindacale. Oggi, più del politico o dell'economista, resta il filosofo, scrive Stefano Cingolani il 5 maggio 2018 su "Panorama". Il 5 maggio di duecento anni fa Karl Marx nasceva a Trier (Treviri) in una casa borghese oggi trasformata in museo. Una messe di rievocazioni tutto sommato benevole se non compiacenti riempiono oggi librerie, televisioni, giornali, cinema (è nelle sale il film sul giovane Marx). E non solo in Italia. Il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker ha inaugurato una gigantesca statua inviata dalla Cina nella città natale di Marx. Il Financial Times ha recensito in modo entusiasta una biografia molto simpatetica scritta dallo studioso svedese Sven-Eric Liedman. Il quotidiano della city intitola l’articolo: “Perché Marx è più rilevante che mai”. Rilevante lo è stato, senza dubbio, che lo sia ancora è quanto meno discutibile, soprattutto la sua rilevanza è nell’insieme negativa. 

Qualche riflessione. Il tentativo di riverniciare la critica del capitalismo alla luce della crisi dell’ultimo decennio è mistificante e impedisce di ammettere che Marx è stato una catastrofe per il movimento operaio e sindacale. Quel movimento è sopravvissuto, si è rafforzato e ha dato un grande impulso alla modernizzazione della società, nonostante il marxismo, perché è stata la democrazia liberale non la dittatura del proletariato ad offrire l’infrastruttura, l’intelaiatura legale, ideale e politica che ha consentito alla classe operaia di crescere, strappare nuove conquiste, acquisire nuovi diritti. Marx aveva capito che la classe sociale forgiata dal capitalismo e contrapposta alla borghesia aveva bisogno non solo di una proiezione organizzativa, ma di idee forti, anche semplificate, così come erano state quelle di Adam Smith per i partiti liberali. Non che il movimento operaio, nato nelle fabbriche, non avesse propri riferimenti culturali, per esempio in quello che lo stesso Marx chiamava “il socialismo utopistico” o nel riformismo laburista fiorito soprattutto in Inghilterra. Tuttavia l’ideologia marxista nata in origine per distruggere l’ideologia borghese e con essa tutte le altre manifestazioni ideologiche tra le quali era compresa la religione, si è dimostrata fallace. 

Gli errori di Marx. Gli errori sono cominciati con l’economia dove Marx mise in piedi una versione complicata e faticosa della teoria classica del valore. È vero, ha visto chiaramente gli sviluppi della grande impresa industriale, soprattutto nel terzo volume del Capitale rimasto incompiuto, ha capito (anche se non è stato il solo) che il capitalismo alterna crisi e sviluppo, o che l’utilizzo massiccio delle macchine riduce “il tempo di lavoro necessario”, però è rimasto intrappolato nelle proprie contraddizioni. Marx sosteneva che i prezzi e il saggio di profitto sono incomprensibili e indeterminabili se non si parte dal valore-lavoro. In sostanza il profitto nasce dalla differenza tra il tempo di lavoro necessario a ricostituire i costi di produzione e il pluslavoro sottratto all’operaio (è questa la base teorica dello sfruttamento come pilastro del capitalismo). Ma il fatto è che prezzi e profitti possono benissimo essere determinati senza alcun riferimento ai valori. E dopo il lavoro teorico di Piero Sraffa dovrebbe riconoscerlo anche chi non accetta che l’unica misura sia l’incontro tra domanda e offerta. L’applicazione della scienza e della tecnica, la concentrazione, il primato della finanza, il consumo opulento, l’aumento del saggio di profitto invece della sua “caduta tendenziale”, tutto ciò relega definitivamente in soffitta la teoria marxista.

Il pensiero politico. Quanto al pensatore politico, ha fallito non solo per colpa di Lenin, di Stalin, di Mao, o del fatto che la rivoluzione non sia scoppiata nelle economie industriali avanzate, in Inghilterra o in Germania, ma in paesi preindustriali e tutto sommato precapitalistici (la “rivoluzione contro il Capitale” così Gramsci, che sarebbe divenuto comunista, giudicò la rivoluzione d’ottobre sul giornale della sinistra socialista, l’Ordine Nuovo). No, le origini del totalitarismo comunista sono nella idea marxiana di una “dittatura del proletariato” che sostituisse la “dittatura della borghesia” della quale la democrazia liberale sarebbe solo una maschera vuota. La pensavano diversamente i socialisti tedeschi che scelsero di combattere la lotta di classe seguendo le vie legali, grazie alla conquista del diritto di voto e del diritto di sciopero, con somma irritazione di Marx che si scagliò contro il programma adottato nel 1875 al congresso di Gotha dai socialisti i quali “osavano” chiedere aumenti salariali e il suffragio universale invece di fare la rivoluzione. Anche quando nel 1891 con il programma di Erfurt accolse il marxismo, annunciando la caduta del capitalismo grazie alle proprie contraddizioni, il partito socialdemocratico (SPD) restò fedele alla originaria impostazione. Le pagine più belle e profetiche riguardano la funzione storica del capitalismo contenute nel “Manifesto del partito comunista” scritto nel 1848, l’anno delle rivoluzioni liberali in tutta Europa. C’è non solo il riconoscimento della funzione rivoluzionaria della borghesia, ma un vero e proprio elogio della globalizzazione. “Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi”. E ancora: “Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare”. Una frase che oggi i farisei di una pseudo-sinistra giudicherebbero politicamente scorretta.

Cosa resta oggi. Più del Marx economico e di quello politico, duecento anni dopo resta il Marx filosofo, quello che analizza l’alienazione come condizione dell’uomo moderno espropriato della propria essenza. La potenza della merce e la sua capacità di sussumere in sé e stravolgere le componenti più autentiche e profonde dell’umanità, è qualcosa che parla anche a noi, purché non banalizziamo l’analisi in slogan tipo No Logo. La stessa potenza perversa, infatti, può essere applicata alle istituzioni, allo stato, al Leviatano, alla nazione e a tutto ciò che ha in sé il rischio di diventare un modello totalizzante e totalitario. C’è un giovane Marx umanista e libertario, dunque, che il Marx maturo ha soffocato. E c’è un Marx capace di capire che il capitalismo è un Proteo in continua mutazione, sia per proprie virtù intrinseche sia perché il suo involucro, la sovrastruttura ideale, giuridica, politica, ha consentito quelle trasformazioni. Il pensatore di Treviri, purtroppo, viene ricordato per i suoi fallimenti, è un paradosso o, direbbe lui, una eterogenesi dei fini.

E il fantasma di Marx si aggira ancora per il mondo… Seppellito dai “vincitori”, rimosso dall’inconscio collettivo, il suo spettro riaffiora a lampi e intermittenze. Come un chiassoso “poltergeist” si rivolge alla nostra cattiva coscienza, scrive Daniele Zaccaria il 14 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Come scriveva Jacques Derrida in Spectre de Marx all’indomani della caduta del Muro di Berlino, non sarà affatto facile liberarsi di Lui. Soprattutto per i “vincitori”, i suoi giubilanti nemici che, per dirla con Freud, «vivono la fase oscena e trionfante del lutto» e «fanno decomporre il cadavere in un luogo sicuro perché esso non ritorni più». Certo, ti puoi liberare di un cadavere, ma non puoi seppellire quello che è stato, puoi organizzare un funerale ma non puoi cancellare i ricordi degli invitati. Così lui, il filosofo di Treviri, il giornalista, il militante rivoluzionario, continua ad aggirarsi per il mondo, quasi a mimare quel comunismo annunciato nel folgorante incipit del Manifesto. E lo fa sotto forma di spettro, un chiassoso poltergeist rimosso e annidato nell’inconscio collettivo dal quale però affiora a lampi, a intermittenze. Derrida ha anche coniato una disciplina immaginaria per descrivere questa presenza spettrale: la hantologie, termine che si potrebbe tradurre in modo grossolano con “scienza dell’incombenza” di cui voleva comporre, per l’appunto, un’ “antologia” da integrare a una «psicoanalisi del campo politico». Perché il marxismo è qualcosa che incombe, che volteggia minaccioso sulla testa dei suoi avversari ma anche su quelle dei “pentiti” e prende corpo nelle disuguaglianze, nell’immutata dialettica dominati- dominanti, nell’incapacità del sistema economico di garantire ricchezza e benessere a tutti, nei limiti del capitalismo, delle sue contraddizioni permanenti, certificate proprio dallo spettro marxiano. Un pensiero così potente e decisivo nella storia dell’umanità, al pari di Newton, Darwin e Freud, che la stessa tragedia del Socialismo reale non è riuscita a macchiare di sangue. Se esiste un incolpevole nel vortice di idealismo, passioni, ferocia e potere che è stata la storia del comunismo quello è sicuramente il suo fondatore. Anche perché la “Fine della Storia” evocata da Francis Fukuyama era poco più che una sciocchezza new age, una puerile autocelebrazione smentita dalla crisi acuta della globalizzazione, dall’insorgere del populismo in tutto l’Occidente, dale nuove guerre, dal terrorismo, dalla povertà tutt’altro che debellata. Per questo il fantasma di Marx può continuare ad aggirarsi per il mondo leggero come una farfalla e pungente come un ape. Simile a uno spirito hegeliano della Rivoluzione o a quello del padre di Amleto, il re avvelenato nei giardini di Elsinora che gli appare con addosso l’armatura che aveva quando era ancora in guerra, chiedendogli di compiere la vendetta. E Amleto, che a differenza degli eroi delle tragedie greche è un uomo moderno e scisso, si danna e si macera per quella fastidiosa ingiunzione, per il gravoso compito di rimettere le cose nel verso giusto, di ristabilire la giustizia. La stessa ingiunzione marxista che è «un’eredità senza testamento» rivolta alla cattiva coscienza di tutti gli umani; Derrida sceglie Amleto e non Edipo, la coscienza colpevole al posto della coscienza tragica e imbrigliata nell’ineluttabilità del fato (superiore anche agli Dei) e, come Shaekspeare con il principe di Danimarca, fa della psicanalisi uno strumento di conoscenza politica la cui verità affiora proprio dalle sembianze oscure e inquietanti di uno spettro.

Lo spettro di Marx si incarna nei suoi figli.

Lula si è consegnato: “Vado in galera, non ho paura”. L’ex presidente brasiliano è stato condannato a 12 anni, scrive l'8 Aprile 2018 "Il Dubbio". L’ex presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva, si è consegnato alla polizia. Lo ha riferito Globo Tv. L’ex leader sindacalista deve scontare una pena a 12 anni e un mese per corruzione e riciclaggio di denaro. Il tribunale gli aveva chiesto di consegnarsi venerdì, ma Lula non si era presentato. Sabato mattina aveva partecipato a una messa in ricordo della moglie e in un comizio improvvisato aveva promesso che si sarebbe consegnato, ribadendo però la sua innocenza: “Mi sottoporrò al mandato” di arresto, aveva detto parlando davanti alla folla che si era radunata di fronte la sede del sindacato dei metalmeccanici di San Paolo, dove era rimasto asserragliato durante il suo braccio di ferro con le autorità. Sul palco, insieme a Lula, c’era anche l’ex presidente Dilma Rousseff, rimossa dal suo incarico dopo una procedura di impeachment. E quando l’ex presidente è uscito per consegnarsi, una folla di sostenitori ha bloccato la sua automobile. A quel punto è intervenuto un convoglio di macchine della polizia che lo ha scortato fino al carcere. E intanto la Fiom annuncia: “Siamo con Lula Presidente metalmeccanico, con la Cut (Confederazione sindacale brasiliana), con i lavoratori e il popolo brasiliano; contro la volontà di fermare con azioni giudiziarie il candidato più popolare per le prossime elezioni presidenziali. La Fiom sosterrà le iniziative di mobilitazione nazionali e internazionali con l’obiettivo di ristabilire una legalità democratica”.

«Lula libero!»: la sinistra italiana torna garantista. L’appello di D’Alema e della Cigl a favore dell’ex presidente brasiliano, scrive l'11 Aprile 2018 "Il Dubbio". La prima notizia arriva dal Brasile, dalla segreteria del Partito dei lavoratori che ha deciso che Luiz Inacio Lula da Silva, nonostante l’arresto, è ancora il candidato alle prossime elezioni di ottobre: «E’ il nostro candidato a prescindere dalle circostanze», ha ripetuto il leader del partito, Gleisi Hoffmann, fuori dalla stazione di polizia a Curitiba dove Lula è detenuto. Il Pt punta su un su possibile rilascio prima di agosto quando ci sarà la sentenza d’appello sulla sua condanna. Lula, ha aggiunto il suo avvocato Cristiano Zanin «si vede come un prigioniero politico ma ha fiducia che la corte presto capovolgerà non solo l’ordine di carcerazione ma anche la condanna che gli è stata inflitta in modo ingiusto e illegale». La seconda notizia, invece, arriva dall’Italia: tra flash mob, appelli di ex premier e capi sindacali, e l’immancabile mobilitazione social, la sinistra italiana sembra aver riscoperto la sua distratta anima garantista. E, forse perché tutto sta accadendo a migliaia di chilometri di distanza dalle nostre procure, si è mobilitata in massa contro l’arresto di Lula. E i toni delle “proteste” sono tutt’altro che formali: «C’è il rischio che la competizione elettorale democratica in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie», scrivono Romano Prodi, Massimo D’Alema e Susanna Camusso. «Quello che sta accadendo in Brasile ai danni dell’ex Presidente Lula e di una gravità inaudita. Si sta impedendo con ogni mezzo la partecipazione di Lula alle elezioni presidenziali in spregio alle garanzie dello stato di diritto», rincara il presidente del Pd Orfini. E su Lula intervengono anche i metalmeccanici della Cisl: «La vicenda giudiziaria che lo ha coinvolto è costellata da una lunga serie di abusi di potere della magistratura nei suoi confronti, all’interno di una campagna orchestrata mediaticamente da oligarchi, militari e forze politiche reazionarie», scrive il segretario della Fim, Marco Bentivogli. Stessi toni dalla Fiom: «Siamo con Lula Presidensi, metalmeccanico, con la Cut (Confederazione sindacale brasiliana), con i lavoratori e il popolo brasiliano; contro la volontà di fermare con azioni giudiziarie il candidato più popolare per le prossime elezioni presidenziali e colpire il suo impegno per la giustizia sociale e lo sviluppo sostenibile per l’ambiente e gli esseri umani». E dopo quella della segretaria della Cgil, Susanna Camusso, la solidarietà arriva anche dalla segretaria della Cisl Annamaria Furlan che comunica la propria adesione al documento “Garantire elezioni giuste e libere in Brasile”. Secondo la leader della Cisl ed i firmatari del documento – tra cui Luigi Ferraioli, Piero Fassino e Pier Luigi Bersani, oltre che dei già citati Prodi, D’Alema e Camusso – «in nome della lotta alla corruzione non si può rischiare di mettere in crisi uno dei principi irrinunciabili della democrazia che risiede nella necessità di mantenere una distinzione ed un chiaro equilibrio tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Nel documento la leader della Cisl e gli altri esponenti firmatari ricordano di aver conosciuto a vario titolo l’esperienza del Governo Lula e di aver apprezzato i cambiamenti impressi in quegli anni. «Per convinzioni ideali e politiche siamo vicini al popolo brasiliano e a tutte le forze che in quel Paese si battono per la giustizia sociale, contro la povertà, per lo sviluppo sostenibile e il progresso anche delle aree e dei ceti più deboli». E ancora: «Per tutte queste ragioni vogliamo esprimere un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie».

Il compagno Grillo difende Lula "In Brasile un colpo di Stato". Dopo la petizione della solita sinistra di casa nostra, anche Grillo si accoda a difendere l'ex presidente condannato per corruzione e riciclaggio: "È vittima di una persecuzione politica alla luce del giorno", scrive Andrea Indini, Martedì 10/04/2018, su "Il Giornale". "Che differenza c'è tra quello che è accaduto e un colpo di Stato?". Anche il compagno Beppe Grillo si schiera accanto a Luiz Inàcio Lula da Silva, l'ex presidente del Brasile finito in carcere per un brutto affare di corruzione e riciclaggio. Dovrà scontare una dozzina di anni in carcere, in attesa che altri sei processi si abbattano sulla sua testa. E, proprio alle stessa stregua di Romano Prodi e Massimo D'Alema, che nei giorni scorsi hanno sottoscritto una petizione per chiederne la libertà, il comico genovese ha preso posizione dalle colonne del suo blog. "È simbolo di speranza, coraggio e onestà - scrive - arrestato per non aver commesso alcun reato". Tutti "innamorati" di Lula. La sinistra nostrana, ma anche i grillini che guardano ai governi sudamericani con una certa ammirazione. Niente di nuovo sotto il solo, per carità. Nel 2016, in un'intervista al Corriere della Sera, Davide Casaleggio aveva indicato il Venezuela come "un esempio riuscito di democrazia diretta". E qualche anno più tardi un manipolo di pentastellati, capitanati da Manlio Di Stefano, se ne erano andati in pellegrinaggio sulla tomba del Comandante Hugo Chávez in occasione dell'ultimo anniversario della sua morte. Oggi, dopo che alle spalle di Lula si sono chiuse le sbarre del carcere, Grillo fa la sua parte difendendo l'ex pregiudicato per corruzione e riciclaggio accodandosi alla solita bella sinistra (oltre a Prodi e D'Alema, anche gli immancabili Susanna Camusso, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, tanto per fare il nome di qualche firmatario). Grillo non si abbassa a firmare la petizione della sinistra. Butta giù post sul blog: "Lula vale a luta, ancor di più gridiamolo adesso - scrive - Lula vale la pena combattere, come dimostrazione di solidarietà nei riguardi di questo grandissimo uomo, dallo sguardo buono, le mani forti da metalmeccanico, e il cuore di chi si è battuto sempre per i più deboli - continua - fortemente amato dal suo popolo e per questo fortemente ostacolato dalle lobby di potere, vittima di una persecuzione politica alla luce del giorno". Il comico genovese si beve completamente la difesa dell'ex presidente brasiliano e attacca i giudici accusandoli di averlo condannato per ostacolarne la corsa alle presidenziali che si terranno in ottobre. "Avrebbe dato una speranza nella lotta alle disuguaglianze per il popolo brasiliano - continua Grillo - Lula rappresenta quella enorme parte della popolazione povera che non ha voce, né diritti, né visibilità, in conflitto perenne con i poteri forti". Un post perfettamente in linea con la sinistra di casa nostra che ancora oggi ha nostalgia del comunismo e che si straccia le vesti per quei leader che in nome del comunismo calpestano i diritti del popolo e ingrassano alle loro spalle.

Alla faccia dell'uguaglianza.

Lula in cella tra i fantasmi dei traditori. La prima notte (insonne) nella sua "suite" di 15 metri priva di sbarre, scrive Paolo Manzo, Lunedì 09/04/2018, su "Il Giornale". San Paolo - Pane imburrato e tostato e caffè latte. Questa la parca colazione domenicale che ieri è stata servita al detenuto più importante di sempre del Brasile, quel Luiz Inácio Lula da Silva. La stessa di tutti gli altri detenuti a differenza della cella, visto che la sua è un'ampia camera da 15 metri quadrati con tanto di tavolo di lavoro, televisione, bagno privato, doccia con acqua calda separato dalla sezione notte col letto e, dulcis in fundo, nessuna grata alle finestre. Non fosse che siamo al quarto ed ultimo piano dell'edificio che ospita la sede della Polizia federale di Curitiba, nel sud del Brasile, la cella in cui è entrato Lula ieri quando in Italia erano da poco passate le 3 e mezza del mattino sarebbe definita «un'ampia suite». Ciò non toglie che l'ex presidente tornato al lessico radicale d'inizio carriera quando perse tre elezioni proprio per questo seppellendo la sua immagine di «Lula pace e amore» che lo fece trionfare al quarto tentativo (nel 2002), ieri avesse una faccia molto cupa quando ha salutato tutti i poliziotti prima di andarsene a letto. Ha però dormito poco Lula la prima notte in carcere, a causa dei tanti pensieri e dei tanti volti che gli affollavano la mente. A cominciare da quello di Michel Temer, l'attuale presidente, il traditore di Dilma Rousseff, scelto proprio da lui per fare il vice della sua delfina «per le sue indubbie capacità organizzative e di dialogo», come disse Lula stesso, nell'ormai lontano 2010. «Che vita assurda, io sono qui per un semplice attico su tre piani con piscina vista mare, neanche a Rio ma a Gaurujá, mentre Temer con le sue due denunce penali, sta fuori», deve aver pensato Lula, mentre tentava di prendere sonno. Inutilmente perché poi gli appariva in sogno, facendolo sobbalzare, quel Leo Pinheiro, l'ex presidente della OAS, l'impresa che era riuscita ad ottenere dalla Petrobras lulista appalti per 2,9 miliardi di reais (circa un miliardo di euro) in cambio di 87,6 milioni di tangenti, usate per fare donazioni ai partiti di governo e regalare ristrutturato e sotto prestanome l'attico di cui sopra. «Pinheiro (è lui che ha confermato ai giudici che la tangente sotto forma di attico era per la famiglia Lula, ndr) quel giuda è anche lui qui in carcere, da anni». Così come Antonio Palocci, un altro degli incubi che hanno tolto il sonno a Lula nella sua prima notte da galeotto, «il coordinatore della mia prima campagna elettorale dopo la morte di Celso Daniel e di quella di Dilma sta appena tre piani sotto» la «suite» di Lula. Si gira nel letto l'ex presidente cercando di dormire ma altri volti del suo passato fanno capolino nel suo inconscio. Compreso «quell'italiano Cesare Battisti, perseguitato politico come me ma per merito mio lui sta fuori mentre io sto dentro» per di più a causa «di quel suo ex avvocato, Luis Roberto Barroso, che diventato ministro della Corte Suprema ha votato contro la mia libertà». Sono tante, troppe le maschere del passato che da ieri notte tormentano Lula.

Inglesi a caccia di antifascisti? Nessuno fino all'8 settembre. Gli inglesi cercarono di fomentare la resistenza al fascismo e al nazismo in tutta Europa. Ma fino all'8 settembre in Italia non trovarono molti partigiani, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Un libro di Olivier Wieviorka, intitolato "Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945", riscrive le vicende della Resistenza al nazifascimo. Una analisi che rimodula la narrazione sulla grande opera dei movimenti partigiani in Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia e - soprattutto - Italia. Secondo lo studioso, come riporta Paolo Mieli in una precisa recensione apparsa sul Corriere, per analizzare i movimenti della resistenza occorre evitare quattro semplificazioni in cui spesso siamo caduti. Innanzitutto, non è vero che "gli Alleati onnipotenti tirassero le fila delle resistenze locali". Secondo, è sbagliato "ritenere che queste ultime potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni". Terzo: non bisogna "immaginare che la necessità di abbattere il nazismo abbia fatto scomparire d’un sol colpo le logiche di interesse". Ma soprattutto, non bisogna "sopravvalutare il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune". Tradotto: a sconfiggere il nazismo non è stato, come spesso raccontato, la Resistenza francese o quella italiana. Ma soprattutto gli Alleati inglesi e soprattutto americani. A formulare per la prima volta l'idea di una resistenza organizzata in Europa fu il ministro dell’Economia di guerra degli inglesi, il laburista Hugh Dalton: "Dobbiamo organizzare nei territori occupati dal nemico movimenti paragonabili al Sinn Fein irlandese, alle guerriglie cinesi attualmente operative contro il Giappone, agli irregolari spagnoli che tanto peso hanno avuto nella campagna di Wellington (contro Napoleone, 1808-13) o ancora — si può ben ammetterlo — alle organizzazioni che gli stessi nazisti hanno sviluppato in modo così degno di nota in quasi tutti i paesi del mondo", scrisse in una lettera a Churchill. E così nel 1940 venne istituito il Soe (Special Operations Executive) per "incendiare l’Europa". Ma in Italia le cose non andarono come nel resto del Vecchio Continente. Nel 1941 il capo del Soe si lamentava di quanto accadeva nel Belpaese: "Non abbiamo nessun italiano in addestramento. Non abbiamo linee in Italia (a parte due vaghi contatti con base in Svizzera); e abbiamo assolutamente fallito nel reclutamento di persone che potessero servire al Regno Unito, al Medio Oriente o a Malta". Fino all'8 settembre del 1943, insomma, gli italiani sono "vittime" di quella che gli inglesi chiamarono "apatia politica" non riscontrata negli altri Paesi, nonostante l'alleanza di ferro tra Mussolini e Hitler. "La Gran Bretagna - scrive Wieviorka - passò di delusione in delusione". Inizialmente provarono a far guidare il Comitato dell'Italia Libera a Carlo Petrone, rifugiato in Inghilterra dal 1939, ma il progetto naufragò con poche adesioni. Poi provarono a reclutare ribelli nelle carcere in India e Africa del Nord. Anche qui un completo fallimento. "I soldati italiani catturati - si legge nel rapporto - sono perlopiù assolutamente felici di restare prigionieri e non mostrano alcun desiderio, mosso dal denaro o da altri motivi di rientrare nel loro Paese alla ventura". Infine cercarono un "de Gaulle italiano", pensando di trovarlo (erroneamente) nel generale Annibale Bergonzoli. Quello che riconosce alla fine l'autore del libro, sebbene sottolinei che "con o senza Resistenza, l’Europa occidentale sarebbe stata liberata dalle forze angloamericane", è che i partigiani favorirono in qualche modo l'accelerarsi dell'operazione di conquista degli Alleati. Andando poi a riempire il vuoto di potere dopo il crollo dei vari governi collaborazionisti.

Olivier Wieviorka. Storia della Resistenza nell'Europa occidentale 1940-1945. 2018. Traduzione di Duccio Sacchi. Il passaggio da una storia nazionale a una storia transnazionale della Resistenza europea: un cambiamento profondo nell'interpretazione di un fenomeno chiave del Novecento. Altre edizioni: Storia della Resistenza nell'Europa occidentale. 2018. Einaudi Storia. La Resistenza nell'Europa occidentale è stata considerata a lungo come un fenomeno nazionale e per molti anni è stata analizzata come tale. Eppure, se i fattori interni giocarono un ruolo centrale nella nascita della Resistenza, la parte degli angloamericani nella sua crescita fu molto significativa. In Norvegia, in Danimarca, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Francia e in Italia, le bande partigiane non avrebbero potuto crescere senza il sostegno di Londra all'inizio, di Washington in seguito. Conviene dunque abbattere le frontiere per offrire la prima storia transnazionale della Resistenza nell'Europa occidentale. Per fare questo Olivier Wieviorka ha studiato l'organizzazione e l'azione delle forze clandestine e dei governi in esilio di sei Paesi occupati tra il 1940 e il 1945. Scrutando il ruolo della propaganda, del sabotaggio e della guerriglia nell'Europa occidentale, Wieviorka ci invita a riconsiderare senza tabú l'azione della Resistenza, cosí come le sue relazioni talora cordiali, talora conflittuali, con gli Alleati e i governi installati a Londra. Per molto tempo la Resistenza nell'Europa occidentale è stata ritenuta un fenomeno nazionale capace di offrire, tanto sul piano politico quanto su quello militare, un notevole contributo alla disfatta nazista. Sulla stessa falsariga, la cooperazione tra angloamericani e forze nazionali - resistenze e poteri in esilio - è stata giudicata esemplare. Nata sotto gli auspici dell'intesa piú che del conflitto, dell'amicizia piú che della rivalità, del rispetto piú che dell'ostilità, questa collaborazione avrebbe reso piú efficace la guerra sovversiva scoppiata nel 1940 nell'Europa prigioniera. Questa visione idilliaca, tuttavia, corrisponde ben poco ai fatti, quantomeno a quelli colti dagli storici. L'immagine dorata degli Alleati che lottano concordi contro il Terzo Reich nasconde un principio inesorabile: pur mirando alla sconfitta della Germania nazista, Gran Bretagna, Stati Uniti e relativi alleati difendevano anche i propri interessi nazionali. La coalizione risentí degli aspri rancori del periodo tra le due guerre e portò con sé concezioni divergenti, quando non opposte, dell'avvenire dell'umanità. Grande merito di questo libro di Olivier Wieviorka, rispetto a buona parte della storiografia sul tema, sta nell'aver elaborato, finalmente, una storia transnazionale della Resistenza europea, che mette in luce i contrasti e le contraddizioni che le singole storie nazionali, agiograficamente, tendono a nascondere.

Ha ancora senso parlare di Comunismo? La risposta di Paolo Baroni. "Non è nostra intenzione portare acqua al mulino di qualsiasi formazione politica o fare propaganda elettorale per conto terzi. Il nostro non è un anticomunismo becero, né tanto meno atlantista e filo-NATO. La nostra opposizione al marxismo è di natura eminentemente filosofica e dottrinale, e si fonda sulla legge naturale e sul Magistero perenne della Chiesa cattolica, e in particolare sulla Lettera Enciclica di Pio XI (1857-1939) Divini Redemptoris, contro il comunismo ateo (del 19 marzo 1937) e sulla successiva scomunica ipso facto comminata ai comunisti e ai loro sostenitori dal Sant'uffizio con decreto del 1º luglio 1949, sotto il regno di Pio XII (1876-1958). Detto questo, passiamo ai motivi di questa nostra scelta. A partire dalla caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989), il regime sovietico, guida e modello del comunismo mondiale, è andato rapidamente implodendo fino alla sua totale dissoluzione 1. In seguito a questo grande naufragio, i vari partiti comunisti europei, che già negli anni Settanta avevano iniziato a prendere timidamente le distanze dalle rigide direttive di Mosca, hanno dato via ad un processo di trasformazione in senso social-democratico teso a liberarsi della vecchia immagine convenzionale. La falce e il martello, Bandiera Rossa e i busti di Marx e di Lenin sono stati rimossi e, come in tutti i partiti, anche all'interno dell'ex Partito Comunista italiano sono nate le correnti.

Ma allora il comunismo è finito?

Militarmente e politicamente parlando, almeno a livello europeo, sì. Scomparendo il Komintern - l'ufficio creato dai soviet per esportare il comunismo in tutto il mondo - non esiste più una guida centrale che coordini le forze politiche che si riconoscevano nell'ideologia marxista. Persino la Russia attuale, pur essendo capitanata da un ex ufficiale del KGB (Vladimir Putin), e sebbene sembri voler riacquistare il prestigio di un tempo, si è liberata del marxismo e ha abbandonato qualsiasi velleità di conquista.

Se le cose stanno così che senso ha parlare ancora di comunismo?

La ragioni sono molteplici. Vediamole: Se si prende in esame solo l'Occidente e si accetta il 1917 come data di nascita del comunismo, questa ideologia ha regnato in Russia per oltre settant'anni. Secondo gli accordi presi dalle potenze vincitrici a Jalta nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le nazioni limitrofe alla Russia (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, ecc...) sono finite nell'orbita sovietica e vi sono rimaste fino al 1989. Negli altri Paesi al di qua della Cortina di Ferro (Italia, Francia, Spagna, ecc...), il comunismo non è mai salito al potere sia con la forza che per via democratica 2. Ciò nonostante, fin dai primi anni '20, il marxismo-leninismo ha esercitato un'influenza enorme sulla civiltà occidentale. Guidato e sostenuto (anche economicamente) dal Kremlino, il Partito Comunista Italiano ha messo in pratica dal dopoguerra in poi una strategia di conquista senza precedenti. Strutturato in maniera monolitica, il Partito è riuscito a creare un efficientissimo apparato di quadri dirigenti che è penetrato ovunque, grazie anche all'inerzia e alla complicità colpevole di chi avrebbe dovuto e potuto fermarlo 3. Seguendo la teoria gramsciana relativa all'egemonia culturale, i comunisti italiani si sono infiltrati dappertutto e hanno preso letteralmente possesso di alcuni gangli vitali della società come l'educazione, la scuola, le Università, i sindacati, la magistratura, l'informazione, lo spettacolo, ecc... La lenta penetrazione degli ideali marxisti, soprattutto presso le giovani generazioni e particolarmente a partire dagli anni Sessanta (sull'onda della controcultura d'oltre Oceano), ha prodotto un cambiamento di mentalità di vastissime proporzioni. Com'è nella logica dei fatti, le rivendicazioni libertarie e la promessa utopistica di un mondo nuovo senza classi predicati ai quattro venti hanno prodotto anche un grande mutamento di costumi. Il concetto di sessualità «liberata» completamente staccata dal matrimonio, dalla procreazione e dalla responsabilità, ha introdotto nelle società l'idea della necessità di leggi che regolassero il divorzio e l'aborto libero, pratiche, fino agli anni Settanta, estranee alla cultura italiana. Il dilagante relativismo morale e l'odio viscerale non solo per i Comandamenti di Dio, ma persino per la legge naturale, sono all'origine di altre rivendicazioni come il femminismo, la liberalizzazione delle droghe dette «leggere», i diritti delle coppie omosessuali, l'eutanasia, che una volte accettati lasceranno così aperta la porta alle legalizzazione di mostruosità come l'incesto o la pedofilia.

Che cos'è cambiato dopo la caduta del Muro di Berlino?

Come abbiamo già visto, il crollo dell'impero sovietico e la conseguente fine del suo ruolo di guida mondiale, hanno segnato l'inizio di un processo di trasformazione della sinistra europea. A parte i nostalgici e irriducibili vetero-comunisti, sempre più minoritari e in via di estinzione, la sinistra attuale post-comunista appare molto più frammentata e dispersa rispetto al monolitico Partito Comunista di un tempo. E tuttavia, nonostante le divergenze, gli attuali eredi del vecchio PCI continuano a servirsi per la lettura dei fatti della miope analisi marxista e si riconoscono a pieno titolo gli eredi legittimi di chi prima di loro si è battuto per portare a compimento le varie conquiste sociali in favore del «Progresso» e della «Civiltà»... Come un figlio possiede i caratteri ereditari dei genitori, così i comunisti attuali possiedono in buona parte lo stesso DNA dei loro predecessori. Ne consegue che anch'essi, anche se in modo più discreto, continuano a spingere sulla necessità di riforme sempre più permissiviste. Un'altra osservazione sembra necessaria: se negli anni della Cortina di Ferro si poteva parlare di comunismo consapevole come espressione di chi aveva aderito consciamente e liberamente al marxismo-leninismo, oggi possiamo parlare di un comunismo diffuso, ossia di un etat d'esprit, di uno stato d'animo che pervade anche chi non si riconosce necessariamente nei valori di sinistra. Dopo decenni di ininterrotto martellamento ideologico e di propaganda marxista (soprattutto nelle scuole) concetti tipicamente marxisti come l'egualitarismo o la libertà di autodeterminazione hanno fatto breccia nella mentalità corrente penetrando perfino nelle menti di coloro che non si interessano alla politica. Il virus si è liberato del suo involucro e oggi scorrazza liberamente nel corpo sociale. L'epidemia è quasi scomparsa, ma le sue conseguenze più estreme continuano ad essere devastanti. Questo è la sfida che oggi ci troviamo a dover affrontare.

Comunismo e Alta Finanza.

Pur riconoscendo i terribili mali causati da questo flagello in tutto il pianeta, non dobbiamo assolutamente dimenticare che il comunismo è una creazione del capitalismo selvaggio, un docile strumento dei potentati dell'oro all'interno di un piano di sovversione molto più vasto. Come hanno riconosciuto tutti i più grandi esperti di guerra occulta (primo fra tutti, il grande Léon de Poncins), senza l'enorme apporto economico proveniente dai potentissimi gruppi bancari di Wall Street, la Rivoluzione bolscevica non sarebbe nemmeno iniziata. Per sradicare l'antico ordine della civitas christiana, un'élite di banchieri (che in questo sito chiameremo Illuminati e che sono la cupola della Massoneria) si è avvalsa del comunismo come ci si servirebbe di un boia. Una volta terminato il grosso del lavoro sporco, il flusso di denaro si è interrotto e l'esperimento (fallimentare) del socialismo reale è miseramente naufragato. Paradossalmente, oggi vediamo realizzarsi gli obiettivi perseguiti dal marxismo trent'anni fa all'interno della società consumistica. E tuttavia, nonostante l'enorme quantità di veleno messo in circolo nel tessuto sociale, la civiltà occidentale appare ancora aggrappata alle sue radici cristiane, che sono la sua vera identità, quell'identità che oggi si cerca di distruggere in tutti i modi (soprattutto mediante l'immigrazione selvaggia). A dispetto delle loro attese, gli Illuminati non sono ancora riusciti ad instaurare il loro Nuovo Ordine Mondiale e comunque non vinceranno mai, perché la vittoria è già stata assegnata da tutta l'eternità a Colui che gli empi hanno osato sfidare, Gesù Cristo, il Verbo incarnato, che con la Sua Santa Madre schiaccia senza sosta la testa del Serpente infernale.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby. 

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

I partigiani uccisero suo padre. Ora i pm gli negano giustizia. La battaglia di un ottantenne di Ravenna: scopre dopo 70 anni chi ha ammazzato il papà e si rivolge alla procura. Ma gli assassini sono eroi rossi. E nessuno risponde, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale" Martedì 29/09/2015.  La ferita di Tomaso Argelli in 70 anni non si è mai rimarginata. All'alba del 7 febbraio 1945 - di anni ne aveva 10 - dormiva nel lettone con il papà Giuseppe detto Scuscèn, unico vigile urbano di Alfonsine, paese del Ravennate che nel dopoguerra regalò valanghe di voti al Pci. Due uomini bussarono al portone di casa, due partigiani, Argelli ne ricorda ancora i nomi: Annibale Manzoli detto Nèbal e Mario Cassani detto Marii, poi diventato sindaco di Alfonsine e, fino alla pensione, tesoriere della federazione del Pci di Ravenna. I due intimarono al vigile di saltare in bicicletta e correre a Ferrara per recuperare medicinali che servivano all'ospedale. Argelli era un fascista convinto che però collaborava con il Cln quando si trattava di fare il bene del paese. Gli era già capitata una missione simile insieme con il fratello Anselmo: «Mio zio aveva sposato una comunista ed ebbero salva la vita», sospetta il figlio di Scuscèn. Ma quel giorno Anselmo era malato e Giuseppe fu accompagnato da una donna partigiana. Ricevette un lasciapassare del Cln di Alfonsine. «Mio babbo era molto triste - rievoca Tomaso Argelli -. Mentre vestiva la divisa disse alla mamma, incinta di pochi mesi, che aveva un brutto presentimento. Lei lo scongiurò di non partire ma lui fu irremovibile, disse che aveva dato la sua parola e che i medicinali erano indispensabili. La salutò, poi mi abbracciò e mi strinse a lungo. Non l'ho più visto. E mio fratello Giancarlo, nato qualche mese dopo, non l'ha mai conosciuto». Verso sera, non vedendolo tornare, i familiari si allarmarono. «La mamma capì subito che cos'era successo. I responsabili della missione non si fecero trovare: le sorti delle medicine non interessavano più. Riuscirono a parlarci soltanto i carabinieri, ma delle indagini e degli interrogatori non c'è traccia negli archivi dell'Arma di Alfonsine e poi di Cervia. Qualche giorno dopo qualcuno venne a riferirci di aver sentito un urlo lacerante, forse mio babbo che veniva scannato». Un conoscente disse loro di aver visto Scuscèn immobilizzato al posto di blocco partigiano sul ponte della Bastia, che scavalca il fiume Senio alle porte del paese. I suoi documenti vennero ritrovati qualche tempo dopo lungo l'argine. Non c'erano più dubbi sulla sua sorte, ma nessuno fece sapere com'era morto il vigile urbano, e dov'era sepolto. «La voce ricorrente era che fu pestato a sangue e stritolato in un torchio per fare il vino». La ferita è tornata a sanguinare la primavera scorsa. A casa di Tomaso Argelli, alla periferia di Cervia, arriva una telefonata: «Hai letto il libro di Gianfranco Stella? Racconta per filo e per segno la fine del tuo babbo». Stella è un saggista che con i suoi scritti ha fatto luce su alcuni eccidi dei partigiani, tra cui la strage di Codevigo compiuta dalla 28ma brigata comandata da Bulow, cioè Arrigo Boldrini. L'ultimo volume pubblicato (in proprio) da Stella s'intitola «I grandi killer della liberazione». Un saggio storico di quasi 600 pagine su decine di atrocità partigiane finora sconosciute. Alle pagine 71-74 Stella ricostruisce la fine di Scuscèn grazie a «un'informazione giunta nelle more delle pubblicazioni, e ritenuta seria». Una soffiata attendibile che rivela nomi e cognomi dei congiurati. Giuseppe Argelli sarebbe stato ucciso da due partigiani di Alfonsine, un certo Cicognani detto È Cavaler, poi messo a capo di una coop locale, e Novello Maioli detto Califfo. Il mandante sarebbe stato il capo partigiano di Alfonsine, Dino Bedeschi detto e' Faturèn, in seguito presidente della locale coop braccianti. I resti del vigile urbano sarebbero stati gettati in uno dei due pozzi della scuola elementare di Borgo Fratti presso Alfonsine, proprio a ridosso dell'argine del Senio. Un edificio basso che sorge in piena campagna, abbandonato da tempo, cadente, circondato da un prato incolto coperto di frammenti di vetri e tegole sbrecciate. In un angolo si trova un pozzo chiuso da un disco di cemento che lascia però un'apertura. Argelli ne è sicuro: «È stato manomesso di recente, dopo l'uscita del libro». La delazione sul destino di Scuscèn è giunta a Gianfranco Stella soltanto dopo la morte di tutti i protagonisti. Il più noto, Cassani, amico fraterno di Boldrini, si è spento nel gennaio 2013 a 96 anni dopo essere stato sindaco di Alfonsine, consigliere provinciale Pci, vice presidente della Federazione delle cooperative e tesoriere del Pci di Ravenna. L'autore di «I grandi killer della liberazione» fa intendere che chi sapeva ha parlato soltanto quando le rivelazioni non avrebbero più potuto nuocere alle persone coinvolte. Non molla invece il quasi ottantunenne Tomaso Argelli, sottufficiale di Marina in pensione. Appena saputo che dopo 70 anni di rabbia impotente si poteva fare luce sulla fine di suo padre, ha incaricato l'avvocato Federica Zaccarini di depositare alla procura della Repubblica di Ravenna una denuncia di omicidio volontario contro ignoti con un'istanza di recintare l'area dove si troverebbero i resti di Scuscèn. Ma la procura ha taciuto, così come l'opinione pubblica cittadina. «Mio babbo fa più paura da morto che da vivo - sibila Argelli - per le conseguenze politiche che comporterebbe il ritrovamento del suo corpo. Verrebbe demolito il mito che circonda una delle persone coinvolte, Mario Cassani, per decenni cassiere ufficiale del Pci di Ravenna che ancora lo venera come un eroe». All'inizio dell'estate l'avvocato Zaccarini ha depositato una seconda istanza: Argelli è disposto a cercare il cadavere del padre a spese sue, e non dello Stato, se il terreno delle ex scuole elementari di Alfonsine gli fosse messo a disposizione. Ma dalla magistratura è venuto un secondo assordante silenzio. Il sangue dei vinti resta un tabù. E la fine del vigile urbano Giuseppe Argelli detto Scuscèn sembra destinata a restare sepolta nell'omertà.

La guerra civile e i crimini partigiani, scrive Emma Moriconi il 25/04/2017 su "Il Giornale d’Italia". La storia non si cambia: le generazioni future hanno il diritto di sapere la verità. E il dovere di cercarla. "La Storia, insegnava Hegel, quando la si dissotterra, salta fuori come un cane rabbioso". Così Gianfranco Stella saluta i suoi lettori prima di cominciare un lungo e doloroso percorso nelle vicende del 1945. Qua, cari lettori, non è questione di ideologia, l'ideologia non c'entra niente, basta con questa faccenda che quando si parla di fascismo e antifascismo si debba ricominciare con la solfa ideologica, basta perché non se ne può davvero più. Qua si parla di storia, e di vicende che hanno segnato la vicenda patria delle generazioni che ci hanno preceduto. Perché "festeggiare" il 25 aprile? Si parla di "liberazione", non si capisce da cosa. Dalla dittatura, forse? E chi sarebbero i "liberatori"? I partigiani assassini o gli americani dominatori? Quanto agli americani, basta davvero con questa storia che sono venuti a portare "libertà e democrazia", pretendono di farlo ovunque, ancora oggi, ma troppo spesso quella bandiera a stelle e strisce gronda sangue di popoli interi, a cominciare dai nativi americani di due secoli fa. Quanto ai partigiani, ai quali oggi sono intitolate vie e piazze, che girano per scuole a "insegnare" la storia secondo loro, per una questione di giustizia storica e sociale bisognerebbe che una volta per tutte venisse fatta chiarezza. Le cose le aveva messe in chiaro già per benino il buon Giorgio Pisanò: lo fece in tempi difficili, subito successivi a quel 1945 di sangue e di guerra civile, quando con coraggio e determinazione se ne andò in giro nel triangolo rosso a parlare con la gente e a farsi raccontare le atrocità di cui costoro si erano resi protagonisti. E quando Giampaolo Pansa capì che le vicende trattate da Pisanò erano di una attualità cocente e tragica, fece una epocale rivoluzione culturale andandole a raccontare su volumi che hanno fatto storia, con la sua penna avvincente e sincera: è il coraggio della verità. Oggi non c'è proprio niente da festeggiare, non c'è da bearsi nell'andare a deporre corone ai caduti con il Tricolore bagnato di sangue sulle corone al ritmo di "Bella ciao" o di "Fischia il vento". Oggi dovrebbe essere il giorno del silenzio e della vergogna. E quando questo Paese sarà maturo e scevro da condizionamenti ideologici lo capirà. Perché al movimento cosiddetto resistenziale partecipò anche tanta gente in buona fede, ci mancherebbe altro.  Ma di esso si potrebbero dire tante cose: i punti chiave ben li riassume Gianfranco Stella nel suo "I grandi killer della liberazione" quando li elenca in questo modo: "Questi punti fermi sul piano strategico - dice - consistevano: a) nella provocazione delle rappresaglie; b) nell'eliminazione di partigiani ostili o non allineati; c) negli atti di resa non rispettati; d) nella nomina a sindaco di spietati capi partigiani. Sul piano tattico consistevano: a) nel sistematico ricorso all'uso dell'uniforme nemica; b) nella istituzione della cosiddetta polizia partigiana; c) nella cattura di persone considerate spie; d) nell'estorsione. Sul piano comportamentale consistevano: a) nel prelevamento di fascisti o presunti tali; b) nello stupro collettivo; c) nell'infliggere al prigioniero le peggiori sofferenze; d) nell'imporre alla vittima lo scavo della fossa; e) nel furto". Tutti questi punti vengono nel libro esaminati con precisione, prima di passare all'esame delle vicende vere e proprie, ai fatti specifici, seguendo un criterio geografico e cominciando dal Lazio per poi salire verso l'Emilia Romagna, la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, il Friuli. Chi ha visto il film di Antonello Belluco "Il segreto di Italia" sa già di cosa parliamo se citiamo Codevigo. Per chi non lo avesse visto: lo faccia, perché potrebbe essere un modo, intanto, per non dimenticare l'eccidio di 235 innocenti. Ma tante, tantissime sono le vicende che Stella ripercorre in questo testo che consigliamo di leggere solo a chi si sente abbastanza forte per sopportare le atrocità che vi sono riferite. A mero titolo di esempio forse basterà ricordare la storia del vigile urbano di Alfonsine che venne pestato a sangue e probabilmente stritolato in un torchio per fare il vino, le cui ossa non vennero mai ritrovate. O il caso del bambino di Montefiorino, un tredicenne usato prima come staffetta partigiana e poi ucciso a tradimento con un colpo alla testa perché non rivelasse a nessuno le informazioni di cui era, suo malgrado, in possesso. E ancora la tragica vicenda del seminarista Rolando Rivi, di cui spesso abbiamo parlato su queste colonne. Di vicende come questa Stella ne racconta a centinaia, e ci torneremo, perché la verità non va sottaciuta, anzi va ricercata e poi diffusa: ecco di cosa si dovrebbe parlare, nelle scuole... ma per chiudere questa tragica seppur breve, per ora, carrellata forse vale la pena citare ancora almeno la vicenda di Cadelbosco, quel comune il cui il Sindaco lo scorso anno ebbe a fare le sue rimostranze per la presentazione del libro dedicato a donna Rachele che scrissi con Edda Negri Mussolini, dicendo che lo avrebbe fatto mettere nella "sezione degli orrori" della biblioteca comunale... Signor Sindaco, nella sezione degli orrori metta piuttosto la storia del povero Oreste Bergomi, prelevato da Abelardo e Rico Marmiroli, ucciso da una raffica esplosa dal partigiano Destino Davoli, che restituì ai familiari un cadavere orrendamente seviziato, con la gola squarciata, un occhio sfondato e sei colpi di mitra nella schiena. 25 aprile... non c'è proprio niente da festeggiare.  

“I partigiani? Uccidevano vestiti da nazisti”, scrive il 24 gennaio 2018 "Il Giornale di Monza". La Resistenza raccontata a Destra. Intervista allo scrittore Gianfranco Stella, autore del controverso libro "I grandi killer della Liberazione". «I partigiani? Uccidevano indossando le divise dei nazisti. Le loro imboscate? Sparavano e fuggivano. Mordevano e si ritraevano. Un paragone? Agivano come i serpenti».

Il convegno. Era piena la sala dell’Urban center affittata da «Carcano 91» e «Ordine Futuro» per la presentazione del libro «I grandi killer della Liberazione», scritto da Gianfranco Stella. Un libro controverso, dibattuto, che da tempo fa discutere. Anche a Monza, come ben noto, non sono mancate le polemiche. Tra i presenti, anche Xenia Marinoni, ex consigliere comunale del Pd, e gli scrittori Franco Isman e Paolo Cadorin.

La storia raccontata a Destra. L’autore ha rivendicato i contenuti del suo libro e ha osservato con orgoglio: «Senza il mio lavoro, Giampaolo Pansa non avrebbe mai scritto “Il sangue dei vinti”. E infatti mi ha citato nella sua opera». Dall’azione dei partigiani (appunto i «killer» secondo l’autore), alla fase conclusiva della guerra, tra episodi efferati, imboscate e «trattative di riappacificazione» saltate («In città strategiche, Mussolini aveva “piazzato” esponenti moderati del Fascismo, ma furono tutti uccisi misteriosamente»). Fino alla Liberazione e a pagine di storia che probabilmente mancano ancora di qualche capitolo: «C’erano partigiani che volevano girare armati e sparare anche a guerra finita. Quei pochi che volevano andare in quella direzione, morirono poco dopo un vertice con Togliatti a Milano». Riscrivere dunque capitoli inediti: l’obiettivo che si è dato l’autore in questi anni, passando giornate intere nelle biblioteche di tutta Italia. «E’ tutto documentato, recuperare documenti e materiali dagli archivi mi è costato non poco tempo. E pure una certa fatica».

Gianfranco Stella, nato nel 1946, è saggista della destra cattolica. I suoi lavori più importanti si riferiscono alla storia contemporanea e precisamente alle vicende più o meno esaltanti del post-liberazione. Nelle sue pubblicazioni, iniziate nel 1990, il filo conduttore comune è la strategia rivoluzionaria seguita dai partigiani delle brigate Garibaldi. Il suo libro più discusso che determinò la denuncia da parte dei vertici nazionali dell’ANPI (Ettore Gallo, Arrigo Boldrini, ecc.), racconta la strage di Codevigo, compiuta dai partigiani della 28° brigata comandata da Bulow (A.Boldrini), nel maggio 1945. La messe di nomi e di fatti precisi che caratterizzano questo libro portavano Gianfranco Stella sul banco degli imputati per i reati di diffamazione (dei partigiani) e vilipendio (alle forze amate). Si trattava d’un processo che nessun tribunale voleva affrontare: da Ravenna a Forli, quindi a Rimini ove il libro era stato stampato. Fu la cassazione a definirne la competenza e a Rimini (avv. Accremann parte civile e avv. Benini per la difesa) si celebrò il processo alle soglie della prescrizione. La sentenza fu di doppia assoluzione per avere applicato i giudici l’esimente dell’opera scientifica. L’appello confermò. La causa civile che il Boldrini aveva nel frattempo intentato a Gianfranco Stella fu ritirata. La strage di Codevigo si può definire   sul piano storico il primo atto di accusa contro le disposizioni del comando generale delle brigate Garibaldi che prevedevano per i prigionieri arresisi l’immediata soppressione. E anche la sentenza costituì il primo caso di giurisprudenza in cui un autore veniva assolto quantunque avesse accusato di assassinio in fatti specifici determinate persone.

A questa pubblicazione seguì L’ECCIDIO DEI CONTI MANZONI: ricostruzione non propriamente storica, basata tuttavia sugli atti processuali di uno dei più eclatanti episodi di criminalità partigiana. Gianfranco Stella ha dato poi alle stampe RIFUGIATI A PRAGA, il primo saggio su un argomento quasi sconosciuto: l’espatrio in Cecoslovacchia di partigiani comunisti ricercati dalle procure d’Italia. Per scriverlo, considerate le reticenti testimonianze e le scarsissime notizie sull’argomento, l’autore riuscì ad avere colloqui con alcuni ex partigiani che erano rientrati in Italia grazie alle ultime amnistie. Riuscì comunque ad ascoltare gli ex partigiani della Bassa bolognese che massacrarono i sette fratelli Govoni. Due volte laureato, i suoi libri sono nella bibliografia di numerosi testi di storia contemporanea, ed il suo nome è citato nelle fortunate opere del giornalista Giampaolo Pansa, del giornalista Bruno Vespa e di storici non compresi nella storiografia encomiastica di sinistra. Le ragioni per cui Gianfranco Stella ha voluto dedicare gran parte della sua attività intellettuale alle vicende del dopo liberazione, risalgono alla convinzione, oggi sempre più diffusa, che il movimento partigiano fu un mito e non altro, e che la verità storica mal s’addiceva alla trionfalistica vulgata resistenziale.

Altre sue opere:

– IL CASO MARINO PASCOLI- (partigiano repubblicano ucciso dai comunisti nel’48);

– PARTIGIANI ANONIMI E PERSONE SCOMPARSE;

- I LUNGHI MESI DEL ’45;

- CRIMINI PARTIGIANI;

I grandi killer della liberazione, ad Arezzo la presentazione del libro di Gianfranco Stella, scrive Giovedì 28 Settembre 2017 Arezzo Tv. Sabato 30 settembre ore 17.30, alla libreria Mondadori si terrà la presentazione su iniziativa dell’Associazione culturale La Fortezza del libro di Gianfranco Stella “I grandi killer della liberazione. Saggio storico sulle atrocità partigiane”. Lo storico ravennate Gianfranco Stella – che vinse nel 1998 un processo per diffamazione contro il famoso capo partigiano Arrigo Boldrini Bulow – racconta, in questo volume che nessun editore ha voluto pubblicare, alcuni pesantissimi reati commessi con inaudita ferocia, che, più che politici, andrebbero considerati di diritto comune. 600 pagine necessarie, al momento, per raccontare ciniche figure criminali che, studiate sulle carte giudiziarie senza i retorici filtri della vulgata resistenziale, ci appariranno in tutta la loro antieroica crudezza. Le persone uccise anche dopo il 25 aprile e comunque dal giorno della Liberazione dei singoli territori non furono meno di 20.000. Dal Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli hanno dato un tributo di sangue altissimo. L’autore attraverso concreti dati storiografici ne ripercorre l’inquietante scia oltre a pubblicare per la prima volta i volti degli esecutori materiali. Gino Tartari detto Pazzarella, sanguinario killer seriale di Porotto; Remo Bonzagni, “responsabile d’un impressionante numero di omicidi”; Sergio Dal Piai; Claudio De Fenu capitano Gravelli; il partigiano Primo Ghini detto Manaza, di Argenta; Elia Marinelli, organizzatore dell’eccidio di undici ex fascisti prigionieri, a Comacchio; e quel Sesto Rizzati Sergio, commissario politico della 35ª Brigata ferrarese ‘Bruno Rizzieri’ e “spietato killer comunista”: fu autore di un raccapricciante memoriale con nomi e cognomi di suoi compagni (tra i quali un futuro sindaco di Ferrara) che, nell’ambito di una rivoluzionaria epurazione locale, in quell’estate di sangue ‘45 compilavano le liste dei concittadini da eliminare.

Gianfranco Stella e “I grandi killer della Liberazione”, scrive lunedì28 Settembre 2015 "Estense". In biblioteca Ariostea la presentazione del libro dello storico ravennate. Martedì 29 settembre, nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea (ore 17), la rassegna letteraria estiva “Faust & Friends”, ideata dall’editore e promotore culturale ferrarese Fausto Bassini – il quale, a coronamento dei successi di molti suoi titoli divenuti bestseller del territorio, ha invitato nella ‘città pentagona’ scrittori di fama nazionale e internazionale – organizza la presentazione del libro di Gianfranco Stella (con proiezione di immagini) “I grandi killer della liberazione. Saggio storico sulle atrocità partigiane” (Ravenna, 2015, 2ª ed.), che contiene un corposo capitolo dedicato all’Emilia Romagna nel quale è protagonista anche la nostra città. Lo storico ravennate Gianfranco Stella – balzato agli onori della cronaca per aver vinto, nel 1998, un processo per diffamazione contro il famoso capo partigiano Arrigo Boldrini Bulow – ci racconta, in questo minuzioso e scomodo volume che nessun editore ha voluto pubblicare, alcuni pesantissimi reati commessi con inaudita ferocia nel Ferrarese, i quali, più che politici, andrebbero considerati di diritto comune: la strage dell’8 giugno 1945 di numerosi ex fascisti, prigionieri nelle carceri di via Piangipane, sotto le raffiche di mitra dei partigiani comunisti (si contarono quasi 200 bossoli); le “imprese” dell’ex barista e gappista ferrarese Italo Scalambra ‘colonnello Gino’ (a Ferrara gli è stata dedicata una strada) e quelle del suo luogotenente Umberto Bisi ‘capitano Omar’, il cui quartier generale era al numero 5 di via Mascheraio nella casa del medico Arturo Sani e che una volta, minacciando la figlia d’una sua vittima, affermò di aver ucciso 400 volte. Ciniche figure criminali che, studiate sulle carte giudiziarie senza i retorici filtri della vulgata resistenziale, ci appariranno in tutta la loro antieroica crudezza: Gino Tartari detto Pazzarella, sanguinario killer seriale di Porotto; Remo Bonzagni, “responsabile d’un impressionante numero di omicidi”; Sergio Dal Piai; Claudio De Fenu capitano Gravelli; il partigiano Primo Ghini detto Manaza, di Argenta; Elia Marinelli, organizzatore dell’eccidio di undici ex fascisti prigionieri, a Comacchio; e quel Sesto Rizzati Sergio, commissario politico della 35ª Brigata ferrarese ‘Bruno Rizzieri’ e “spietato killer comunista”: fu autore di un raccapricciante memoriale con nomi e cognomi di suoi compagni (tra i quali un futuro sindaco di Ferrara) che, nell’ambito di una rivoluzionaria epurazione locale, in quell’estate di sangue ‘45 compilavano le liste dei concittadini da eliminare. Gianfranco Stella nasce in una famiglia profondamente cattolica. Poco più che adolescente è delegato parrocchiale di Azione Cattolica. Dopo gli studi classici si laurea in lettere con una tesi di storia contemporanea sulle leggi razziali del ‘38. Avanti negli anni si laurea alla Pontificia Università in filosofia con una tesi sull’antistoricismo dei fratelli Sturzo. Da cattolico s’avvicina allo studio della Resistenza scoprendone le due anime che l’hanno caratterizzata: quella patriottica, cattolica, liberale e anche attendista, e quella massimalista, classista, rivoluzionaria. Dopo aver pubblicato diversi volumi di storia comune giunge al 2015 con I grandi killer della liberazione un’opera che farebbe luce, nelle intenzioni dell’autore, a discriminare i diciotto mesi della lotta di liberazione tra l’attendismo delle formazioni moderate e il determinismo di quelle social-comuniste, volto alla recrudescenza del conflitto e all’esasperazione della popolazione coinvolta nel vortice delle rappresaglie. Il libro è indubbiamente opera storiografica complessa, ricca di nozioni e valutazioni articolate, molto vicina alla recente produzione letteraria di Giampaolo Pansa, col quale l’autore ha avuto contatti in occasione del celebre Il sangue dei vinti. Tra le sue pubblicazioni riferite alla guerra civile ricordiamo: Ravennati contro – La strage di Codevigo; Rifugiati a Praga; Il caso Marino Pascoli; Partigiani anonimi e persone scomparse; I lunghi mesi del ’45.

I grandi killer della liberazione: Sassuolo, una strage inedita, scrive mercoledì, 23 novembre 2016 "Imola Oggi". Durante il restauro del Palazzo Ducale di Sassuolo (allora sede distaccata dell’Accademia di Modena) avvenuto nell’anno 1998/99, consistenti in scavi e rifacimento degli impianti elettrici all’interno della Corte del Palazzo, nel sottosuolo del cortile, sono stati rinvenuti gli scheletri di circa 50 salme di adulti e anche bambini, massacrati barbaramente dai partigiani a fine guerra. Sassuolo fu liberata dalle truppe alleate il 23 aprile 1945 da un Reggimento brasiliano. Le indagini dell’epoca furono effettuate dal Cap. Biagio Stoniolo della Compagnia Carabinieri di Sassuolo. Trattasi di una delle tante stragi effettuate dai partigiani a guerra finita e censurata dalle Istituzioni e dalle organizzazioni partigiane. In seguito a mie ricerche ho appurato che Giuseppe Ferrari, nome di battaglia “Achille”, nato il 23 maggio 1919 a Bebbio di Carpineti (RE), era residente a Bagnolo in Piano (RE) dove ricopriva la carica di presidente dell’Anpi di quel Comune (è deceduto il 25 febbraio 2013 e il funerale si è svolto a Toano – RE). Ma soprattutto ho la conferma che, Giuseppe Ferrari “Achille”, è lo stesso citato nel capitolo “SASSUOLO UNA STRAGE INEDITA”! Infatti, dal sito Anpi di Reggio Emilia si legge tra l’altro: ….”Dal 9 settembre al 13 novembre (Giuseppe Ferrari, ndA) sottotenente e guida 35 uomini; dal 14 novembre fino alla Liberazione, promosso capitano, comanda un battaglione di oltre duecento unità. Il 25 aprile 1945 lo trascorre a Sassuolo, ove il suo battaglione si occupa in quei giorni dello smistamento dei prigionieri”…

SASSUOLO UNA STRAGE INEDITA. A Sassuolo, nel tardo pomeriggio del 23 aprile 1945 cessavano gli ultimi combattimenti tra tedeschi, che s’andavano addossando sulla sponda del Secchia nel tentativo di attraversarlo, e Alleati che premevano da Sud. I partigiani, moltiplicatisi negli ultimi mesi, si cimentavano alla caccia di tedeschi in fuga e lo testimonierà Ermanno Gorrieri, il partigiano Claudio: “Parte di coloro che impugnavano le armi contro i tedeschi in fuga, erano persone che non avevano praticamente mai fatto niente o quasi niente nel movimento di Resistenza. Non a caso la gente, più tardi li chiamerà ‘i partigiani della domenica’ o ‘del lunedì’ – a seconda della zona – cioè i partigiani entrati in azione solo il giorno della liberazione”. Ma il comandante Claudio dirà anche che “sarebbero esplosi odii e vendette, insanguinando ancora una volta la terra emiliana”. Accadde che quello che restava di un Reparto della Divisione San Marco, arresosi in quel 23 aprile, fu eliminato in modo atroce a Sassuolo, nel cortile del Palazzo Ducale. Una cinquantina di questi prigionieri, fra i quali v’era qualche tedesco, subì una fine raccapricciante, venuta alla luce attraverso la testimonianza d’un ufficiale dell’esercito brasiliano, tra i primi contingenti entrati a Sassuolo e non dal parroco che pure vi assistette, don Zelindo Pellati. Da parte degli esecutori non trapelò, ovviamente, mai nulla e ufficialmente quelle estreme sevizie, non sarebbero mai avvenute. Quei prigionieri furono torturati anche con enucleazione degli occhi e poi uccisi per strangolamento. L’ufficiale in questione era Agostino Josè Rodrigues e la testimonianza è nel suo libro Terzo battaglione (Terceiro batalhao), edito nel 1985, quattordici anni prima che le salme di quegl’infelici fossero scoperte nello stesso luogo da lui indicato: “La piazza dove c’è la chiesa”. Ecco il brano: “Sassuolo segna il nostro primo incontro con la guerriglia partigiana del Nord Italia, uomini coraggiosi ma spietati. Hanno aiutato la causa degli Alleati durante gli anni dell’occupazione tedesca nella regione. Ed ora sono ancor più decisi nell’attaccare senza pietà il nemico. Come Castelvetro, Sassuolo è una pulita piccola città, un piacere per i nostri occhi. La piazza principale, dove è situata la chiesa, segna anche la nostra prima visione di esecuzioni sommarie. Ne avevamo già sentito parlare. Uomini uccisi con delle corde strette intorno al collo. E’ la vendetta imposta ai fasciste dai partigiani. Ci sono molti comunisti tra i partigiani. Ho visto un gruppo di questi con delle bandiere rosse. Dovunque essi vadano compiono esecuzioni sommarie. I partigiani si giustificano dicendo che si tratta di ‘traditori del popolo’. Ecco perché le camicie nere e i soldati tedeschi iniziano ad arrendersi a noi brasiliani. Sono terrorizzati dalla furia omicida di questi implacabili cacciatori”. Non solo le prime truppe brasiliane entrate a Sassuolo, ma anche il parroco della chiesa di San Giorgio, don Pellati, assistettero alla strage; il sacerdote aveva raccolto i documenti e gli effetti personali di quei disgraziati. Unico testimone di parte neutra egli preferì tuttavia, e fu pusillanime, non divulgare lo scempio cui assistette, né trascriverlo, come avrebbe dovuto, sul libro delle anime, cosicchè esso rimase sconosciuto e inedito fino al 1998, allorquando, durante gli scavi nel cortile del Palazzo Ducale, emersero quei resti. Il giorno del massacro può essere indicato nella settimana compresa tra il 24 aprile ed il primo maggio ’45. I partigiani che entrarono a Sassuolo discendevano dalle località di Casalgrande, Fiorano, Castellarano e Magrete e facevano parte tutti di formazioni comuniste. Il 25 aprile entrò a Sassuolo anche la formazione comandata da Achille, al secolo Giuseppe Ferrari (1919–2013) che con l’incarico di ‘occuparsi’ dei prigionieri, vi rimase almeno una settimana. Lo stesso Palazzo Ducale era divenuto sede di distaccamenti partigiani tra i quali risulta anche la Brigata Stoppa. Nel ’49 la Questura di Modena arrestò l’ex partigiano comunista Domenico Cavalli di Sassuolo: si voleva che rivelasse qualcosa, ma non parlò e fu rimesso in libertà. Nel ’98, all’indomani della scoperta della fossa comune, l’Associazione dei reduci della Divisione Fanteria San Marco presentò denuncia contro ignoti per il reato di strage. La strage di Sassuolo andrà a far parte dell’aneddotica resistenziale di revisione, la quale chiarendo fatti marginali darà rilievo alla storiografia, passo obbligato per raggiungere la Storia. Scriveva Renzo de Felice, l’autorevole storico di sinistra: “tutto quanto detto e scritto sul fascismo è falso, perché la sinistra politica ha nascosto tante verità, tanti delitti, tante vergogne partigiane”. In alcune pagine del citato libro di Bocca, Il Provinciale, si coglie il clima che regnava a Sassuolo nei primi mesi della liberazione. In un imprecisato giorno di maggio egli giunse a Sassuolo e andò alla Camera del lavoro ove trovò riuniti diversi partigiani. Gli dicono – “Di ben so giurnalesta, ma il tuo giornale è un po’ fazista. Quando la finite di menarla con il triangolo della morte”? Qualcuno mi guarda duro, ma mi lasciano andare. Esco da Sassuolo diretto a Formigine e sento dietro il rombo d’una motocicletta. E’ uno di quelli che mi sfottevano, ma adesso mi guarda da amico: – “Scolta me – dice – non passare per Formigine, ti aspettano all’uscita del paese”. (Tratto dal saggio storico sulle atrocità partigiane: “I GRANDI KILLER DELLA LIBERAZIONE” del Prof. Gianfranco Stella).

Partigiani assassini: il caso di Jaures Cavalieri, "stupratore seriale, scrive Emma Moriconi l'11/10/2017 su "Il Giornale d’Italia". Dal libro di Gianfranco Stella "I grandi killer della liberazione - Saggio storico sulle atrocità partigiane". Condannato più volte per i suoi omicidi, l'Anpi quando morì ne fece invece addirittura un baluardo di libertà e di coraggio. Accade, quando si è curiosi, di imbattersi in volumi che ti lasciano il segno. Sfogli quelle pagine e senti lo stomaco rivoltarsi, man mano che procedi nella lettura. Ogni pagina è un colpo sferrato in pieno petto, roba che fa male e che però fa anche riflettere. Fa riflettere sulla giustizia dell'uomo, che - lo sappiamo dai tempi di Antigone - è cosa diversa da quella suprema di Dio. Succede di indignarsi, di chiedersi perché l'uomo possa essere capace di certe bassezze, e di domandarsi se ci sarà mai una giustizia. Che poi non si pretende ormai più la giustizia dei tribunali, perché i reati cadono in prescrizione e anche perché ormai oggi molte di quelle persone che dovrebbero finire dietro le sbarre sono già morte per conto loro, visto che di tempo dai crimini commessi ne è passato un bel po'. Ma in questo caso per "giustizia" si intende niente altro che "verità". Che invece tarda ad affermarsi universalmente, restando appannaggio di pochi. Quelli curiosi, quelli come noi, insomma, che non ci stanchiamo di scriverne su queste colonne. Le pagine che oggi proponiamo ai nostri lettori sono quelle in cui Gianfranco Stella racconta di Jaures Cavalieri, definito "stupratore seriale"; noto "per gli stupri seriali ai quali sottoponeva le sue vittime prima di sopprimerle", scrive Stella nel suo "I grandi killer della liberazione", già sottoposto all'attenzione dei nostri lettori. "Il Cavalieri - scrive l'autore - sconfinò in Jugoslavia da dove nel '48, dopo la crisi del Cominform, riuscì a fuggire, e a Vienna, pronto a valicare la frontiera con la Cecoslovacchia, fu arrestato dall'Interpol. Tradotto in Italia e condannato da più corti d'assise, rimase in carcere fino al 1957". Appunto, la "giustizia"... Cavalieri era nato nel 1923 e delle sue imprese compiute durante la resistenza - scrive ancora Stella - "si sono perse le testimonianze, ma di quelle del dopo liberazione ne sono piene le carte giudiziarie". Ed ecco il racconto delle atrocità commesse da costui: "A Medolla violentò ed uccise diverse donne: Rosalia Paltrinieri, di 32 anni; Jolanda Pignatti, di anni 39; Eva Greco di 19 anni. A Cavezzo violentò ed uccise Prima Stefanini in Cattabriga di anni 38, la figlia di lei Paolina, di 18 anni, Tina Morselli di 42". Non basta: "Uccise Angelo e Sante Greco, ed il partigiano comunista Alfio Calzolari, suo complice nell'assassinio Missere. Seviziò riducendolo in fin di vita Angiolino Cattabriga di 11 anni, deceduto poi a Mirandola. Emilio Missere era un giovane democristiano, membro del comitato di liberazione di Medolla. Accadde che nel pomeriggio del 13 giugno '45 Missere fu visto per l'ultima volta a bordo d'una Topolino targata MO 8992, lungo la strada che da Medolla va a Modena, sulla quale c'erano i partigiani Jaures Cavalieri e Alfio Calzolari. Quest'ultimo era un partigiano comunista noto per i numerosi omicidi, rapine e stupri compiuti, tra i quali l'omicidio dell'ingegner Gino Falzoni di Finale Emilia, perpetrato il 17 giugno '45. Missere s'era messo in urto con gli altri componenti del Comitato di liberazione per gli abusi che taluni ex partigiani andavano commettendo e anche per una serie di omicidi di ex fascisti o presunti tali perpetrati in quei mesi del dopo liberazione, tra i quali quelli di Eva, Angelo e Santina Greco, Renato Neri e Pasquale Germi. S'era messo ad indagare, assicurando apertis verbis che i responsabili non l'avrebbero fatta franca. Da qui la decisione della sua morte, della quale risultarono coinvolti il presidente del Comitato di liberazione di Medolla, l'ex partigiano comunista Ennio Bertoli, trentunenne nativo di Concordia, mandante assieme all'altro componente del Comitato Alfredo Barbieri, ed esecutori Jaures Cavalieri, Alfio Calzolari e Marino Malvezzi. Bertoli, Malvezzi e Barbieri furono arrestati tra il '46 ed il '47, il Cavalieri nel '49 e il Calzolari dichiarato latitante, era deceduto, ucciso dai suoi compagni. Al processo furono confermati i capi d'accusa, grazie anche alla testimonianza dell'ex partigiano Canzio Costantini che dichiarò d'aver trovato rifugio, dopo la fuga dal carcere, presso l'abitazione del Cavalieri dal quale apprese che Missere era stato ucciso sulle rive del Secchia con un colpo di pistola alla testa e che successivamente, attirato dallo stesso Cavalieri, per timore che potesse cedere durante gli interrogatori dei carabinieri era stato soppresso il killer Alfio Calzolari. Per l'omicidio Missere il Cavalieri fu condannato a trent'anni e a ventiquattro per quello della Morselli [...] che risultò portato a compimento assieme al partigiano comunista Egidio Sighinolfi, Fulmine. Jaures Cavalieri, detenuto nell'ergastolo di Fossombrone, negli anni '60 fu liberato per effetto di amnistie e condoni poiché i suoi crimini furono ritenuti commessi 'in lotta contro il fascismo ed il tedesco invasore'. L'Anpi lo protesse, come protesse tutti gli altri killer della liberazione, ad eccezione di pochi ex partigiani che per le loro estreme atrocità furono abbandonati in quanto ritenuti indifendibili. I crimini di Jaures Cavalieri non furono ritenuti estremamente atroci. Morì in odore di santità ideologica nel 1998 e la sezione Anpi di San Faustino Modenese nella quale da ultimo fu attivista ne tesse le lodi con queste parole: indomito combattente della libertà, dopo la liberazione è stato vittima delle persecuzioni antipartigiane, senza mai attenuare il proprio impegno in difesa dei valori della Resistenza e dell'antifascismo [Resistenza Oggi, n. 2, 1998]". Le conclusioni, e le debite riflessioni, sono lasciate al sempre attento lettore. 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

LE SETTE IDEOLOGICHE FIGLIE DEL SOCIALISMO: FASCISMO, COMUNISMO, LEGHISMO E GRILLISMO.

Programmi zero. Ideologia cento. E quindi la differenza, in politica, la fa solo la capacità di governare, scrive Piero Sansonetti il 18 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Pare che Di Maio abbia cambiato il programma del suo movimento. Cioè che abbia sostituito quello che era stato approvato dal piccolo “esercito rousseau” – la cosiddetta base del partito – con un programma più compatibile con quello del Pd ma anche con quello della Lega. Del resto di Maio aveva già detto che per lui Lega e Pd pari sono, e che allearsi con l’una o con l’altro avrebbe cambiato poco. Si possono usare queste informazioni per costruire nuove polemiche oppure per ragionare. Proviamo a ragionare. Come mai i programmi contano sempre di meno nella politica italiana di oggi? Qualcuno dice: perché destra e sinistra non ci sono più, non ci sono più le ideologie. Se i programmi valgono zero quel che conta è l’ideologia. E quindi la differenza, in politica, la fa solo la capacità di governare. Non è così. Per due ragioni. La prima è che i risultati elettorali degli ultimi anni, non solo in Italia, dimostrano che a venir premiato non è mai chi governa ( a prescindere dai risultati del suo governo), persino in Germania, dove la Merkel resiste, chi governa perde voti e il potere logora chi ce l’ha, a differenza da quello che succedeva venticinque anni fa. E poi c’è la seconda ragione, che è quella fondamentale: non è vero che destra e sinistra non ci sono più e non è vero che le ideologie sono morte. Destra e sinistra continuano ad esistere, e come in passato si caratterizzano per il giudizio diverso che danno sul capitalismo e sulla necessità – o no – di riformarlo. Continua ad esistere – anche se è molto debole in questa fase – un’idea e uno spazio riformista che esprime la necessità di riformare il capitalismo e di ridurre il potere del mercato. E questa è la sinistra. Così come continua ad esistere una destra, che invece pensa che il capitalismo possa prevedere delle riforme, ma non possa essere riformato esso stesso, perché è un recipiente che contiene tutto: modernità, democrazia, diritto, sviluppo. E che tutto questo tutto possa vivere solo se accetta di essere subordinato al mercato e alle sue regole. A me qui non interessa dire se sia meglio l’idea della destra o quella della sinistra (magari un pochino si possono indovinare le mie simpatie, ma questo non conta nulla) solo vorrei provare a spiegare che dare per morte destra e sinistra è una moda, e talvolta può anche essere uno strumento utile per rafforzare il dialogo, e superare vecchi pregiudizi, ma non è la verità delle cose. E’ la verità, invece, che destra e sinistra non sono più ideologie ma semplici programmi politici. Tuttavia le ideologie non sono morte: sono trsmigrate. Ecco qui sta il punto: proclamare la fine di destra e sinistra è utile e necessario – per azzerare l’importanza dei programmi, ma in questo modo si azzera anche la politica, e in ultima analisi la democrazia. E si trasforma il tutto in pura e semplice lotta per il potere. Siccome però una pura e semplice lotta per il potere ha le gambe corte, se non ci sono idee, emozioni, sentimenti, allora vengono resuscitate le ideologie. Ma non più quella antiche, fondate su ipotesi, studi, teorie, conoscenze. Per esempio il comunismo, o il fascismo, o il patriottismo o l’internazionalismo. Le ideologie si trasformano in semplici aspirazioni di comportamento. L’ideologia diventa, ad esempio, la xenofobia, che è un surrogato del patriottismo. Un surrogato rovesciato al negativo. Ideologia è l’odio, l’ostilità, intesa come prova di fedeltà e di forza. Ideologia è l’onestismo, se posso inventare questa parola, che è una forma di giustizialismo appena un po’ meno cruenta. Prendete 5 Stelle e Lega. Sui programmi magari sono lontani. Ma quelli, appunto, contano poco. Sulle ideologie invece si incontrano, si assomigliano. Anche se c’è sempre un solco, che non sarà facile colmare: la Lega resta una forza politica assolutamente devota alla democrazia e alle sue regole. I 5 Stelle no. Non sarà facile risolvere questo problema. E’ il macigno che blocca la politica italiana.

La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle. Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un'eredità. Per adesso o per sempre? Scrivono S. Borghese, V. Fabbrini, L. Newman il 18 aprile 2018 su "L'Espresso". Dopo l'intervento di Paola Natalicchio della scorsa settimana, prosegue il dibattito sul destino della sinistra. Gli autori sono tre giovani ricercatori.

Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e di policy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da CasaPound. Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante. Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi. A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica. Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018. L’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è quindi rimasto sostanzialmente immutato in quest’ultimo quarto di secolo. L’elettorato, invece, no. I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra. I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città. Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24. Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti. Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramente non a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso. Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso. Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile, di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà. Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica, gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti. I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi. È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento.

La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi. I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment. Si tratta di idee tipiche della sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx, attuato poi attraverso la Comune di Parigi del 1871, nei primi Soviet e nei kibbutz israeliani. Alcune scelte lessicali adoperate dai Cinque Stelle – direttorio, Rousseau – sembrano voler ricondurre idealmente i processi di governance del Movimento allo spirito della rivoluzione francese. Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici. Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverlo ascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano. Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico. Tutto ciò è vero non solo a livello partitico ma di classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanza propria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin. Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione è stato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo. Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista. Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista.

Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra. I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra, stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo. La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero. Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico. Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair. E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia. La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo. Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un Nicola Zingaretti o un Carlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e una base giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi. Gli autori:

Lorenzo Newman è Principal Consultant di Learn More, una società di consulenza. Ha scritto su istruzione, politica nazionale ed internazionale per Slate, Aspenia, Pagina99, Linkiesta e altri. Nel 2017 ha pubblicato il suo primo libro, Paura e Rischio in Italia, edito da Castelvecchi.

Salvatore Borghese è caporedattore di Youtrended è stato tra i fondatori di Quorum, un istituto di ricerca demoscopica. I suoi pezzi di analisi elettorale sono apparsi su Slate, Il Fatto Quotidiano, Il Mattino, La Stampa, e altri. Commenta spesso gli ultimi sondaggi su Rai 3 e La7.

Valeria Fabbrini è una ricercatrice economica specializzata nel monitoraggio e valutazione degli investimenti e della spesa pubblica. Su questi temi ha collaborato per sei anni la Presidenza del Consiglio dei Ministri e pubblicato numerosi articoli, saggi e una monografia.

SETTARI E TOTALITARI. PERCHÉ AIUTARLI A PRENDERE IL POTERE? Scrive l'8 Marzo 2018 Stefano Maturin su "Stradeonline". Il successo del Movimento 5 stelle pone un bel problema alle forze politiche tradizionali, o a quel che ne rimane, e a tutto l'establishment che forma la classe dirigente italiana, che forse è utile evidenziare. Sostenere un esecutivo grillino significa appoggiare un'organizzazione settaria portatrice di un'ideologia eversiva e totalitaria, incompatibile con le istituzioni della democrazia rappresentativa, con lo stato di diritto e con i valori della libertà e della responsabilità personale. Il Movimento 5 Stelle non si presenta infatti come una forza politica che propone ricette concrete e politiche pubbliche, in base alle quali contendere ad altri partiti i voti degli elettori, e quindi la gestione del potere. Si pone invece come una setta portatrice di un messaggio salvifico astratto di purificazione della società dal male, dai vizi, dalle illegalità. L'obiettivo di purificazione sociale è il tratto distintivo di tutte le ideologie totalitarie: a cambiare sono solo le narrazioni - i nazisti volevano creare una società fondata sulla purezza razziale, il comunismo voleva la "società senza classi" perfetta, l'islamismo vuole istituire la società islamica regolata nei minimi comportamenti dalla Sharia, il grillismo vuole realizzare la società integerrima degli onesti - ma in tutte queste esperienze ideologiche le proposte effettive tendono a essere irrilevanti, rispetto all'obiettivo salvifico collettivo. Nella logica settaria, inoltre, non vi può essere spazio per il pluralismo democratico: altri partiti, altre proposte, diventano necessariamente i "fattori inquinanti" che il progetto purificatore deve contrastare e possibilmente eliminare del tutto. Sul piano organizzativo, queste "sette ideologiche" sono obbligate a sopprimere qualsiasi dibattito e democrazia interna, e a strutturarsi secondo gerarchie e discipline rigidissime, in cui i capi della setta - nel caso del M5S sorprendentemente un imprenditore milanese, Davide Casaleggio, e la sua società di comunicazione - stabiliscono obiettivi e direttive, a cui tutti gli aderenti sono tenuti tassativamente ad attenersi. La legittimazione di dissensi e critiche interne, l'accettazione di un dibattito trasparente e l'adozione di un metodo "a maggioranza" nel formulare gli obiettivi politici dell'organizzazione significherebbero, infatti, rinunciare alla vocazione salvifica di purificazione sociale collettiva di tutta l'esperienza, e riconoscere che gli obiettivi politici sono il prodotto delle idee di alcuni individui, che sono riusciti a farle prevalere su quelle di altri. Per questa ragione, nel Movimento 5 stelle, non è possibile una "democrazia interna", e i dissidenti non possono che subire il destino dell'espulsione, dopo il rito farlocco del voto sulla piattaforma web della Casaleggio Associati.

Il vantaggio delle ideologie settarie, tuttavia, è che sono impermeabili al fallimento, e, se il disagio economico e lo smarrimento psicologico degli individui raggiungono livelli tali da creare un terreno fertile, il loro messaggio salvifico attecchisce in modo virulento. Gli esponenti del Movimento 5 Stelle - così come tutti gli altri capi di altre esperienze totalitarie - possono essere protagonisti di qualsiasi scandalo, dimostrarsi del tutto incapaci di governare, trascinare le comunità nel tracollo economico e fomentare odio e violenza sociale, eppure potranno sempre negare le proprie responsabilità, attribuendole a ipotetici nemici del progetto salvifico ed evocando oscuri complotti di poteri forti contro i "cittadini". Dopo la vittoria del 4 marzo si fanno sempre più forti, nel mondo tramortito dell'establishment tradizionale - dai vecchi notabili del Partito Democratico a quelli dei "corpi intermedi" come Confindustria, agli esponenti del giornalismo, delle accademie e dei think tank di palazzo - le voci che addirittura spingono per appoggiare un esecutivo 5 stelle, che cercano di esorcizzarne la vocazione totalitaria descrivendolo con toni concilianti come un partito di giovani ingenui e con qualche bizzarria populista. Forse è il tentativo di una classe dirigente storicamente garante dello status quo di un Paese paralizzato e tenuto ostaggio da un debito schiacciante, da inefficienze patologiche, e da una miriade di sistemi di potere clientelari pubblici e privati, di comprarsi ancora un po' di tranquillità nei prossimi mesi o anni. È facile intuire come un Casaleggio titolare di un successo travolgente ma non sufficiente ad ottenere i numeri parlamentari per governare abbia tutto l'interesse ad adescare queste classi, incaricando Luigi Di Maio di lanciare messaggi di apertura al dialogo, ma sembra improbabile che questi gesti rappresentino una mutazione in senso democratico della natura settaria del M5s. È fin troppo facile e scontato, per contro (e forse un po' troppo catastrofista, dopotutto siamo nel 2018, e saldamente imbrigliati nei trattati e nell'economia interconnessa dell'Unione Europea) far paragoni con eventi verificatisi qualche decennio fa, in circostanze molto simili, in Italia, e in Germania.

Vademecum del populista, scrive Piero Sansonetti l'8 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Cos’è il populismo? Non sono uno studioso di politologia per dare una spiegazione teorica. Posso provare a “nominare” alcune caratteristiche che tornano sempre e che sono elementi fissi nella fisionomia populista. A me ne vengono in mente quattro.

Il giustizialismo. Tutti i movimenti populisti hanno questa impronta. Non esistono movimenti populisti garantisti, e neppure libertari. L’idea di fondo che sorregge il populismo è quella dell’uso della macchina della giustizia per creare equità sociale. Vademecum del perfetto populista. Di conseguenza la giustizia non coincide più con lo Stato di diritto. La giustizia assume una struttura e una finalità diversa: è una mescolanza tra la sua natura giuridica e la sua natura sociale. Non c’è più distinzione tra diritto e giustizia sociale. E la macchina della giustizia è chiamata al compito di fondere queste due categorie. Così la giustizia non deve occuparsi più di perseguire il reato, e di accertarlo, ma ha il compito di appianare l’ingiustizia. Dal punto di vista lessicale questa idea è anche sensata. E’ logico che giustizia e ingiustizia si contrappongono. E’ chiaro però che per arrivare a questa contrapposizione, e alla fusione tra giustizia giuridica e giustizia sociale, occorre mettere tra parentesi lo Stato di diritto. Il giustizialismo prevede che sia perseguita l’ingiustizia al di là del codice penale. E prevede che la ricerca della prova sia utile ma non essenziale. Il giustizialismo considera la rinuncia allo stato di diritto, e dunque anche alla presunzione di innocenza e al pieno diritto alla difesa, come rinuncia dolorosa ma indispensabile per dare una scossa alla società e per ricostruire una forma di Stato che abbia al suo centro l’etica, e tenga solo in secondo piano il diritto. Il giustizialismo ha come obiettivo lo Stato etico. Non necessariamente violento e dittatoriale, come in genere si configura lo Stato etico, o, almeno, come sempre si è presentato in passato. Il sogno del giustizialismo è uno stato etico dal volto umano, che conservi in gran parte la forma democratica, ma senza considerare la democrazia una conditio sine qua non.

La guerra dei penultimi. Il populismo è fondato su un’idea molto precisa di popolo. Il popolo non è tutto, mai, in nessuna dottrina politica. Nel marxismo il popolo viene fatto spesso coincidere con la classe operaia, oppure con i lavoratori. Con l’esclusione della plebe, del sottoproletariato, e talvolta anche della piccola borghesia. “Piccolo borghese”, nel gergo marxista, è sempre stato qualcosa di molto vicino a un insulto. Nella dottrina populista invece il piccolo borghese è il dna del popolo. E l’operazione sociale populista è quella di unificare la piccola borghesia e il proletariato, e di creare un popolo dei penultimi che lotti contro gli ultimi e contro i primi, cioè l’establishment, l’alta borghesia e le classi dirigenti. Chi sono gli ultimi? Tutti gli emarginati, e in particolare, naturalmente, gli illegali e soprattutto gli illegali stranieri. La xenofobia non è un risvolto ideologico e astratto del populismo, ma è il suo risvolto sociale. Lo straniero visto come ultimo, e dunque come nemico del popolo al pari degli illegali poveri, e del vertice della società. Ho scritto “illegali poveri”, per distinguerli da quelli meno poveri. Il populismo condanna rigorosissimamente i piccoli reati del sottoproletariato, o dei giovani, e i reati economici dei ricchi; è disposto invece a tollerare le piccole evasioni o i reati economici “difensivi” del ceto medio.

L’odio al posto della lotta. Il populismo, come tutti i movimenti che suscitano un ampio consenso, si basa su una ideologia. L’ideologia populista però non è costruita su un progetto politico ma su un sentimento: l’odio. L’odio di classe era un sentimento previsto e diffuso nell’immaginario marxista. Ma era concepito come supporto alla lotta. Il marxismo puntava tutte le sue carte sulla lotta di massa: gli scioperi, i cortei, l’occupazione delle fabbriche o delle università, talvolta addirittura il luddismo, la battaglia parlamentare condotta anche con mezzi estremi, come l’ostruzionismo. L’odio era solo uno strumento. In che senso? La “bibbia” era la lotta di classe, l’odio di classe era il carburante per spingere la lotta di classe. Nel populismo invece l’odio diventa qualcosa più di uno strumento. Diventa, appunto, ideologia. Tu sei tanto più coerente con le finalità del movimento quanto più riesci a odiare e ad esprimere il tuo odio pubblicamente. L’odio ti è richiesto e viene usato come strumento di proselitismo, di propaganda. E anche di unificazione del popolo. L’odio è l’identità. L’odio è un valore, anzi: il valore. La lotta politica è una categoria che quasi sparisce, interamente surrogata dall’odio.

Il rifiuto della politica. La conseguenza dell’ideologia dell’odio è il disprezzo per la politica. Quando si dice che il movimento populista è l’espressione della antipolitica, non si sostiene che il movimento non ha un peso sulla politica. Semplicemente che rifiuta e denuncia gli strumenti tradizionali della politica: la strategia, il programma, la ricerca dell’intesa, la delega. E – appunto – la lotta di massa. Il movimento populista condanna queste pratiche. Propone la democrazia diretta ma spesso indica un modello di democrazia diretta del tutto platonico, e in questo modo, mentre combatte la politica e i suoi metodi, avvia un percorso di abolizione della democrazia delegata e cioè – in ultima istanza – della democrazia. Mi fermo qui. E pongo una domanda. Su quali di questi punti si differenziano Movimento Cinque Stelle e Lega? A me sembra che la Lega sia più moderata, i 5 Stelle più radicali, ma non vedo differenze sostanziali (forse ci sono differenze solo sull’ultimo punto, perché la Lega è favorevole alla democrazia politica). Per questo non capisco perché non dovrebbero trovare il modo per governare insieme.

Spotify nel paese degli onesti, scrive Mauro Munafò l'8 marzo 2018 su "L'Espresso". La popolare app musicale Spotify, che permette di ascoltare musica in streaming, è finita negli ultimi giorni protagonista della cronaca per un fatto piuttosto curioso. In prossimità della sua quotazione in borsa (e con qualche guaio nei conti), i gestori dell'applicazione hanno deciso di "bannare", cioè impedire l'uso del servizio, tutti gli utenti che stavano utilizzando applicazioni non ufficiali per evitare di pagare ma ottenendo lo stesso alcune funzionalità riservate agli abbonati paganti. Non mi dilungo nelle tecnicalità della questione, anzi cerco di riassumere il tutto nel modo più semplice possibile: chi usa Spotify gratis deve sorbirsi delle pubblicità e delle grosse limitazioni nell'ascolto della musica (tipo non poter saltare canzoni, non poter scegliere un brano specifico ecc). Chi paga l'abbonamento di 10 euro al mese invece ha delle funzioni in più. È il modello di business "freemium": alcune cose sono gratis perché almeno in parte finanziate dalla pubblicità, altre se le vuoi le paghi perché la pubblicità da sola non basterebbe a coprirne i costi (Spotify deve pagare alle major discografiche un tot per ogni ascolto). L'esistenza di app non ufficiali permetteva agli utenti di avere molte opzioni della parte a pagamento senza tirar fuori un euro e l'obiettivo di Spotify è chiaramente quello di portare almeno una parte di questi utenti verso la versione a pagamento della sua applicazione. Ma la parte divertente della storia non è questa. Come scoperto dalla pagina Social media epic fail, i tanti utenti che sono stati cacciati dal servizio non l'hanno presa bene e hanno deciso di vendicarsi. Negli ultimi giorni gli store digitali di Apple e Android sono pieni di recensioni con una stellina e pesanti critiche (una selezione la trovate in testa a questo post). "Come vi permettete voi di impedirmi di rubare un vostro servizio e addirittura di chiedermi dei soldi?". Ora, è difficile trovare qualcuno che non abbia mai scaricato una canzone o un film pirata o masterizzato un cd illegalmente: inutile fare i moralisti. Il fenomeno che trovo interessante è invece la pretesa da parte di chi è chiaramente nel torto di avere ragione: io pretendo di rubarti il tuo servizio e guai a te se mi chiedi pure un compenso. Anzi, visto che lo hai fatto, ti punisco mettendoti una stellina e criticando il tuo lavoro per cui non ti ho mai pagato. In un paese in cui tutti, ma proprio tutti, si lamentano della poca onestà dei politici o dell'arroganza dei potenti, questi piccoli esempi ci ricordano quanto la classe dirigente rappresenti il suo popolo.

Il Comunista Benito Mussolini ucciso dai comunisti. Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti. Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra. La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente nel panorama internazionale; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica. Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo. Castro doveva scegliere: o di qua o di là. L'hanno costretto a scegliere l'Unione Sovietica. Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016).  Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Le due Sinistre: contro il popolo e senza il popolo, scrive Paolo Ercolani l'8 marzo 2018 su "L'Espresso". Una poltrona per due...Sarebbe riduttivo affermare che Matteo Renzi è lo sconfitto di queste elezioni. È riduttivo. Significa non voler vedere che a uscire sconfitta è la Sinistra nel suo insieme. Infatti se anche fosse vero, come pur molti hanno detto, che la colpa del segretario del Pd è stata quella di aver abbandonato il popolo della Sinistra, allora non si capirebbe perché questo popolo non ha fatto convogliare il proprio voto sulle tante altre formazioni che, a diverso titolo e con differenti estremismi verbali e simbolici, si sono richiamati ai valori e alle bandiere tradizionali del socialismo e della socialdemocrazia. Quello che emerge da queste elezioni, piuttosto, sono ben due sinistre. E non sembri ironica, la cosa, visto che ci si è trovati di fronte a una disfatta tale da far piuttosto immaginare una sparizione della Sinistra in quanto tale.

La prima Sinistra, quella del Pd, ha mostrato con le sue politiche di essere contro il popolo, contro la difesa dei più deboli e delle tante persone duramente colpite dalla crisi economica e da una disuguaglianza sociale che ormai si è fatta intollerabile. In compenso a favore delle banche e delle classi sociali più ricche e tutelate. È la sinistra del Pd ma anche quella di Liberi e Uguali, i cui dirigenti, oltre ad essersi accaparrati i (pochi) posti in Parlamento, con logiche non dissimili da quelle utilizzate da Renzi e dalla sua cricca, non sono risultati convincenti e neppure credibili. Visto che avevano precedentemente appoggiato tutte le misure più impopolari del governo Monti, per esempio, come anche quelle dello stesso governo Renzi, ma considerato anche che hanno costruito una compagine politica attraverso logiche elitarie, irrispettose dei territori, e nella totale assenza di un programma politico pensato e credibile.

Alla Sinistra contro il popolo messa in atto dal Pd, si è aggiunta la Sinistra senza popolo di tutti coloro che, a sinistra dei democratici, non hanno saputo catalizzare la fiducia della gente, ricorrendo a simboli superati, a slogan buoni per il secolo scorso, a proposte ritenute scarsamente efficaci e credibili per una popolazione che non ne può più di una lunga serie di cose. Si è fatto presto, troppo presto a prendersela con gli “altri”, a tirare fuori l’epiteto fastidioso e borioso di “populismo”. Troppo semplicisti e arroganti quelli del Pd, a ironizzare sui limiti culturali del Movimento Cinque Stelle e a bagatellare la Lega di Salvini come razzista (non che le due cose non siano in parte vere…) , poco credibili e sterili quelli a sinistra del Partito Democratico a scaricare tutte le colpe su Matteo Renzi, che fra le tante cose è stato il prodotto finale proprio di quella Sinistra, che a partire dal 1989 non ha saputo far altro che dividersi fra coloro che si sono genuflessi davanti all’ideologia neoliberale, e coloro che hanno ben visto di tornare indietro di almeno un secolo, senza riguardo per la Storia né per il ridicolo. Ma è bene essere intellettualmente onesti e chiari: sarebbe troppo facile anche sparare contro la Sinistra limitandosi alle sue evidenti inadeguatezze da un trentennio a questa parte. Sì, perché qui il discorso è più complesso, e proverò a semplificarlo con una domanda: si può veramente, in questo contesto storico e geopolitico in cui l’ideologia neoliberista ha preso il sopravvento, pensare e soprattutto attuare delle politiche veramente di sinistra, cioè a tutela della giustizia sociale, del riequilibrio dei diritti e della difesa dei lavoratori? Chi ci ha provato, pensiamo a Tsipras in Grecia, ha fatto una fine a tutti nota. E questo malgrado l’ampissimo consenso popolare ottenuto. Lo strapotere della teologia finanziaria, e delle istituzioni sovranazionali (e non democratiche) ad essa collegate, è tale da rendere estremamente ardua l’esecuzione di politiche di Sinistra anche a chi ha le idee (e le intenzioni) decisamente più strutturate. Figuriamoci a una classe politica confusa, mediocre e concentrata su logiche di potere quale è la nostra sempre a partire dal fatidico post-ottantanove. Il capitalismo è in una fase molto simile a quella di cento anni fa, quando i suoi danni sfociarono in un disastro politico, con l’emergere di regimi totalitari e la tragedia di guerre sanguinose e distruttive al seguito. Quando le cose si mettono così, abbiamo visto storicamente che la Sinistra può ben poco, mentre le popolazioni esasperate si rifugiano comprensibilmente in chi promette loro vie di uscita fin troppo semplici e salvifiche. E naturalmente illusorie, perché i cosiddetti poteri forti non consentiranno neppure ai demagoghi vincenti di casa nostra di mettere in atto quasi nessuna delle promesse con cui sono arrivati al successo. La situazione è grave ed anche seria. E priva di soluzioni facilmente individuabili. Per quello che vedo, al momento, una Sinistra responsabile (anzitutto verso il Paese) e che voglia continuare a giocare un ruolo (e ad evitare il ripetersi di certe sciagure) può fare solo due cose. Nel breve termine aiutare dall’esterno (quindi senza posti di potere in cambio, né “inciuci) la parte meno negativa di coloro che hanno ottenuto il consenso popolare. Quindi quelli che non sono dichiaratamente di Destra né rischiano di portare il Paese verso quella china pericolosissima. Nel medio-lungo termine, e qui si tratta di un compito che richiederà teste pensanti nuove e molto competenti, elaborare una nuova carta dei valori, una totalmente rinnovata classe dirigente nonché un programma serio e alternativo al monoteismo finanziario, con cui ritrovare la fiducia popolare e prospettare una visione diversa del Paese e del benessere dei cittadini che lo abitano. Consapevoli che he ne va non tanto e non solo della sopravvivenza della Sinistra stessa. Ma prima di tutto, cronologicamente e per importanza, ne va del futuro dell’Italia e di milioni di italiani.

La Sinistra in crisi nelle due nuove Italie, scrive il 7 Marzo 2018 Giovanni Valentini su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Fra il Nord che s’affida all’efficienza della Lega e il Sud che si rimette alla catarsi del Movimento 5 Stelle, nelle due nuove Italie scaturite dallo “tsunami” del 4 marzo la sinistra in crisi annaspa e va alla deriva. Una parte consistente del suo elettorato tradizionale si rivolge ormai alle forze politiche percepite come fattori di alternativa e di speranza, al di là del loro radicalismo o forse proprio per questo. E non solo alla “new entry” rappresentata dai grillini di Luigi Di Maio, pur con tutti i loro limiti e difetti; ma anche a una componente storica del centrodestra come quella di Matteo Salvini che non è più il “partito territoriale” di Umberto Bossi e ha dismesso il suo radicamento settentrionale perfino nel nome e nel simbolo. La sinistra dei lavoratori, dei poveri e degli emarginati, in pratica non c’è più; è sparita dal nostro panorama politico; o quantomeno è stata messa da parte, accantonata, rimossa, come un vecchio arnese da relegare nella soffitta della storia. Quella sinistra che dovrebbe coltivare l’equità sociale, la solidarietà, l’uguaglianza o la riduzione delle disuguaglianze, ha abdicato al suo ruolo e alla sua funzione. Ma il peggio è che, nelle due nuove Italie, sono in crisi entrambe le sinistre: quella riformatrice e quella ideologica, quella del Pd e quella di “Liberi e Uguali”, quella di Matteo Renzi e quella di Grasso, Bersani, D’Alema & compagni. È una débâcle generale che colpisce un patrimonio intellettuale e politico del nostro Paese, senza fare troppe distinzioni tra riformisti e massimalisti, ex comunisti e post-comunisti, ex e neo-socialisti. Al fondo, c’è innanzitutto l’incapacità di elaborare una moderna cultura di governo, all’interno di un progetto e di una visione della società contemporanea, in sintonia con una tradizione storica ricca di valori, di ideali e anche di utopie. Ma, ancor più che nei contenuti, il renzismo ha fallito nel suo stile di gestione, fondato sul personalismo, sull’egocentrismo e sull’arroganza del potere, mancando l’obiettivo fondamentale delle riforme: da quella costituzionale a quella del sistema bancario e fiscale a quella della Rai. Per finire con la scelta di candidature imposte o paracadutate dall’alto, senza un effettivo rapporto di appartenenza e di condivisione. È stata, l’esperienza del giovane segretario del Partito democratico, una delusione o meglio una disillusione. Un disinganno progressivo che, dopo la sconfitta nel referendum del 4 dicembre 2016, gli ha alienato le simpatie di molti che pure avevano investito sulla sua leadership e soprattutto sulla sua capacità di rinnovare il metodo di governo. L’ex rottamatore ha commesso errori di tattica e di strategia, ma anche di comunicazione e d’immagine. E purtroppo i danni che ne derivano non riguardano soltanto lui e la sua quadra di fedelissimi, bensì tutti noi, semplici cittadini di questo Paese. Ora l’annuncio delle dimissioni “a data da destinarsi” non fa che esasperare gli animi in un partito scosso dal crollo elettorale, alimentando malumori e sospetti di basse manovre in vista del futuro governo. Se Renzi avesse sbagliato soltanto sul programma, considerato da più parti troppo liberale e moderato, verosimilmente ne avrebbero tratto giovamento i “Liberi e Uguali”, quella pattuglia di combattenti e reduci o di nostalgici, guidati dagli ex presidenti delle Camere. Due simboli, loro stessi, di quell’establishment politico e istituzionale contro cui s’è pronunciato inequivocabilmente il popolo grillino e leghista. L’immagine di Pierluigi Bersani che va al seggio e depone la scheda direttamente nell’urna, violando così le regole della nuova legge elettorale, documenta da sola il distacco fra questo ceto politico e la realtà. Il fatto è che troppo spesso e troppo a lungo la sinistra ha confuso il popolo con il populismo, la difesa dei più svantaggiati con la strumentalizzazione dei loro interessi e delle loro aspettative. A cominciare dai cittadini meridionali, dai giovani e dalle giovani donne del Mezzogiorno, che non trovano lavoro o lo trovano saltuario e precario, o addirittura non lo cercano neppure più. E così ha tradito le attese di tanti elettori sfiduciati, smarriti, depressi. È un malcontento che viene da lontano, un malessere profondo, quello che alimenta la rabbia sociale dei “terroni”, dalla Puglia alla Sicilia. E fortunatamente, il Movimento 5 Stelle ha fatto in qualche modo da valvola di sfogo per un ribellismo che cova sotto le ceneri, evitando per ora l’assalto ai forni. Ma anche questa non sarà una cambiale in bianco: i meridionali reclamano parità di condizioni rispetto al resto del Paese; sollecitano programmi di rilancio e di crescita; esigono interventi concreti e immediati per ridurre il “gap” rispetto al Centro-Nord. Altrimenti, a farne le spese la prossima volta saranno proprio le forze nuove a cui hanno affidato oggi la speranza di un’alternativa.

«Terremoto storico, i delusi dalla sinistra verso Lega e grillini». La riflessione sul voto emiliano di Valbruzzi del Cattaneo: «Questo voto segna la fine della rendita di posizione della sinistra», scrive Daniela Corneo il 6 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera”.  «Un terremoto storico. Il 4 marzo 2018 ha segnato la fine definitiva di una rendita di posizione che la sinistra si porta dietro dal ‘48». Non lascia molto spazio ai dubbi l’analisi del voto in Emilia-Romagna e a Bologna di Marco Valbruzzi, ricercatore dell’Istituto Cattaneo e della facoltà di Scienze politiche di Unibo.

Valbruzzi, quindi si può dire senza timore di smentite che queste elezioni politiche hanno sancito la fine dell’Emilia «rossa»?

«Con il voto del 4 marzo l’Emilia-Romagna è cambiata storicamente. La nostra regione si sta normalizzando: una volta era una regione monopolistica, adesso è una regione normale ad alta contendibilità. Il mercato elettorale adesso è aperto, mentre dal 1948 al 2018 la sinistra ha vissuto di una rendita di posizione che con questo voto si è interrotta».

E a contendersi il mercato elettorale emiliano-romagnolo adesso ci sono il Movimento 5 stelle e la Lega. Che panorama intravede all’orizzonte?

«Ci sarà sicuramente una fibrillazione all’interno del centrosinistra: molte frizioni si ripercuoteranno nelle amministrazioni di centrosinistra. Ma ci aspetta anche una riorganizzazione del centrodestra che tornerà competitivo. Ci sarà un panorama nuovo per l’Emilia-Romagna che prevede una competizione a tre. O il centrosinistra si riorganizza o è destinato a entrare in un mercato politico che si pone alla stregua di altri mercati elettorali».

Eppure, per quanto il centrosinistra sia stato sconfitto a livello regionale — dove ha vinto il centrodestra e si è verificato il sorpasso storico da parte dell’M5S —, la coalizione di sinistra ha tenuto a Bologna, dove anche il Pd si è salvato. Un dato simile si nota anche nel confronto tra Bologna città e la provincia: i dem perdono punti man mano che si esce dalla Cerchia del Mille.

«La chiave interpretativa di tutto il voto nazionale, non solo di quello emiliano, sta in questa frattura tra centro e periferia, dove il Pd ha enormi difficoltà, pagate in termini elettorali con la crescita di M5S e Lega in particolare. Il Pd è rimasto il partito dei diversi centri geografici: Bologna centro città rispetto alle periferie, Bologna capoluogo rispetto all’hinterland, l’Emilia rispetto al Paese. Al di fuori dei centri il centrosinistra fa fatica e non a caso le aree di competizione vera sono diventate quelle periferiche».

Si può ancora parlare di voto di protesta?

«Questo è stato un voto di cambiamento radicale che va oltre la protesta. Questo spiega l’andamento dei flussi elettorali: non ci sono stati spostamenti verso le componenti minoritarie nelle coalizioni. Il vero flusso significativo in Emilia-Romagna è quello che dal Partito democratico esce verso il Movimento 5 stelle: sta qui l’elemento interessante di queste elezioni».

I delusi di sinistra cos’hanno votato? I partiti di coalizione, i grillini o la Lega Nord di Salvini?

«Solo in piccola parte i delusi del Pd hanno sfumato la loro delusione votando un partito coalizzato a sinistra. L’alternativa più netta per loro era il Movimento 5 stelle. La Lega Nord e la sua espansione, invece, non sono certo una novità, da tempo la segnalavamo noi dell’Istituto Cattaneo. Oggi ci accorgiamo che ormai la Lega è diventata un partito rilevante in Emilia-Romagna, ha fatto un balzo enorme».

Quanto hanno inciso le tematiche sulla sicurezza in queste elezioni?

«Moltissimo, è stata questa la tematica che Salvini è riuscito a veicolare nell’opinione pubblica. Ma un altro dato interessante è che una componente dell’M5s ha deciso di uscire dal movimento e di dare il proprio voto alla Lega, perché i grillini non avevano una posizione definita sul tema dell’immigrazione».

Gli elettori tradizionalmente di centrosinistra invece perché sono passati al Movimento 5 stelle?

«C’è una questione economica: la ripresa in Emilia-Romagna è stata asimmetrica e una parte della società non l’ha sentita sulla propria pelle. E poi c’è stato, forte, l’elemento della critica alla classe politica del centrosinistra: c’è stata una sorta di “punizione” per l’establishment. Alcuni voti potrebbero anche tornare al Pd, anche se è difficile una volta che si è passati all’M5s».

Chi hanno votato gli astensionisti del 2013?

«Chi si è astenuto dal voto nel 2013, a Bologna è andato verso il Movimento 5 stelle».

Gigi Conte: “voterò Movimento 5 stelle”, scrive mercoledì 14 febbraio 2018 "La Voce di Manduria". In piena campagna elettorale per le politiche, l’ex sindaco di Avetrana e storico personaggio della sinistra di questo versante jonico, lancia un preziosissimo assist ai pentastellati annunciando una sua adesione al movimento di Beppe Grillo. «Mai visto un accanimento così violento e feroce da parte dei vecchi partiti e di un sistema mediatico ad essi asservito contro un movimento politico! Bene, credo proprio che voterò Movimento 5 stelle», scrive Conte sul suo profilo Facebook, forse provocatoriamente, dove si è aperto un lungo dibattito tra chi condivide e chi è invece contrario alla sua scelta. Nel suo post Conte si riferisce alle recenti polemiche nate dalla diffusione del servizio delle Iene in cui emergerebbe un sistema truffaldino da parte di alcuni deputati grillini per non decurtarsi lo stipendio come promesso.

Mauro Corona: "Sono di sinistra ma ora voto M5s". Lo scrittore collegato da Erto commenta il successo del Movimento Cinque Stelle alle Elezioni 2018 e incolpa l'antipatia personale di Renzi.

Marescotti vota 5 stelle: "Però si alleino con altri. Io? Resto comunista". Ha fatto molto discutere l'endorsement fatto tramite un post su Facebook da Ivano Marescotti, che lunedì ha annunciato pubblicamente che alle elezioni del 4 marzo voterà per il Movimento 5 stelle, scrive Chiara Tadini il 9 gennaio 2018 su "RavennaToday". L'"outing elettorale" di Ivano Marescotti: "Voterò Movimento 5 stelle, ecco perchè". Ha fatto molto discutere l'endorsement fatto tramite un post su Facebook da Ivano Marescotti, che lunedì ha annunciato pubblicamente che alle elezioni del 4 marzo voterà per il Movimento 5 stelle. L'attore di Villanova di Bagnacavallo, da sempre icona della sinistra - nel 2007 fu fondatore del Pd e nel 2014 si candidò alle europee con la lista Tsipras - ha ricevuto critiche ma anche complimenti da parte di amici, fan e conoscenti. Marescotti, dice che la sinistra non la rappresenta più, ma è da molto tempo che i sostenitori della sinistra italiana si trovano in difficoltà al momento del voto.

Come mai proprio ora questa scelta?

«Perché le ho provate tutte, ma la sinistra in Italia non esiste più. Ha fallito sul piano politico, sociale, addirittura su quello sindacale grazie al Pd e anche alla destra, che ha contribuito alla distruzione della sinistra e delle sue conquiste. E sia chiaro, i problemi non sono iniziati con Renzi: io sono stato tra i fondatori nel Pd ma me ne sono andato già nel 2009, a poco più di un anno dalla sua nascita, molto prima che arrivasse Renzi».

Liberi e Uguali non la convince?

«I componenti di Liberi e Uguali sono usciti dal Pd avendo votato prima tutte le leggi fatte votare dallo stesso Partito democratico, arrivando perfino a distruggere la Costituzione, senza un minimo di autocritica e mettendo a capo del partito addirittura il Presidente del Senato. È un'operazione verticistica per mettere a posto le sedie per i loro culi. Liberi e Uguali è semplicemente un Pd senza Renzi, e alla prima occasione farà come Sel e si alleerà con il Partito democratico, come sta già facendo nelle province e nelle regioni. Se guardiamo al programma è certamente bellissimo, così come quello di Potere al popolo o di tutti gli altri partitini di sinistra: allora cosa fa uno di sinistra, la conta per decidere quale votare? Ma chi è che rappresenta davvero la sinistra in Italia oggi? Ve lo dico io: nessuno».

Quindi diciamo che il Movimento 5 stelle rappresenta un po' il "meno peggio"?

«Esatto, di alternative migliori non ce ne sono. Se non vinceranno loro, vincerà la destra fascistoide e razzista di Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d'Italia, e tra i due preferisco affrontare i problemi di un governo a 5 stelle rispetto a quelli della destra pura. Sia chiaro: io sono e resto comunista, ma abbiamo sbagliato tutto, dobbiamo ripartire da capo. Quello del Movimento è un terreno malleabile in cui ci sono delle incognite: c'è una componente destrorsa e una di sinistra al suo interno, e pare che quest'ultima rappresenti la maggioranza».

E non votare o lasciare la scheda in bianco invece?

«Non votare non è una lezione, pensi che gliene freghi qualcosa ai politici? Non gliene frega nulla. Io voto il Movimento 5 stelle e spero che vinca».

Ha pensato all'eventualità di candidarsi per il Movimento 5 stelle?

«Ma per carità! Ci mancherebbe altro. Io non aderisco ai 5 stelle: molti pensano che io sia diventato grillino, mentre resto critico nei loro confronti; voglio solo rovesciare il tavolo politico e usare il mio voto per mandare tutti a casa. I 5 stelle sono un po' un mistero: sono sconosciuti, inesperti, ma gli altri? Gli altri sono molto esperti, purtroppo, lo sappiamo bene. E' una vergogna che Berlusconi si proponga di nuovo come dirigente politico. Sì, non conosciamo bene i 5 stelle, ma al contrario i delinquenti che hanno governato per anni li conosciamo benissimo».

Cosa si aspetta come prima cosa da un governo a 5 stelle?

«Intanto che si possano guardare attorno per vedere chi c'è e facciano qualcosa di politico. Sono molto contrario alla loro forma di politica patronale, ma non sono fascisti come certi dicono. Stanno maturando e non diffidano più come una volta di fare alleanze, cosa assolutamente necessaria: la politica senza alleanze non è politica, ma dittatura».

E con chi potrebbero allearsi secondo lei?

«A mio avviso è più probabile - e auspicabile - un'alleanza con la sinistra: certamente non con il Pd, se non per determinate battaglie, ma proprio con Liberi e Uguali ad esempio, sempre che quest'ultimo si liberi della fissazione di allearsi sempre e comunque con il Pd, che ormai è diventato un partito di destra».

Su Facebook ha ricevuto dissensi e critiche, ma anche complimenti: le ha ricevute anche in privato da colleghi, amici o politici?

«La componente maggiore è formata da quelli che approvano e si ritrovano nel mio pensiero. Molti critici non hanno capito, pensano che io sia diventato grillino».

Crede che il suo annuncio elettorale sposterà dei voti o almeno farà riflettere qualche suo fan o qualche indeciso?

«Chissà, magari sì. Io sono politico da quando sono nato, per questo ho fatto questo annuncio: cerco di usare la mia posizione per dare una scossa».

I delusi del Pd votano M5S, così il Movimento 5 Stelle si colora di sinistra. Il Partito di Renzi segna la fine delle Regioni Rosse. Per i dem tracollo senza precedenti: persi 2,5 milioni di voti. Valbruzzi (Cattaneo): "Pd è riferimento privilegiato nei centri urbani. Al Sud exploit dei grillini non solo per la disoccupazione", scrive il 05/03/2018 Claudio Paudice, Giornalista politico, su L'HuffPost. I delusi Pd votano Cinque Stelle, e il Movimento si colora di sinistra. La maggior parte degli elettori che ha votato il Partito Democratico alle politiche del 2013 e che all'ultima tornata elettorale non ha confermato il suo voto ai democratici ha scelto i grillini: in numeri, parliamo di una forchetta che oscilla tra il 15 e 20% di elettori dem. Una prima analisi dei flussi fatta dall'Istituto Cattaneo fornisce un dato chiave, se visto alla luce delle scelte che i partiti faranno all'indomani del voto del 4 marzo per tentare di costruire una maggioranza in Parlamento, al netto delle strategie politiche. A chi si rivolgerà Luigi Di Maio? E chi farebbe bene a prestare orecchio alle richieste dei 5 Stelle? Domande che troveranno una risposta nei prossimi giorni nelle scelte dei leader politici, risposte che possono beneficiare dei suggerimenti nascosti nelle urne. Marco Valbruzzi dell'Istituto Cattaneo di Bologna, contattato dall'HuffPost, ragiona sul significato politico dei flussi elettorali: "Il dato varia naturalmente da città a città ma è evidente che la quota più consistente, tra il 15 e il 20%, delle perdite del Pd rispetto al voto espresso nel 2013 è confluita nel Movimento. È sicuramente il dato più rilevante di queste elezioni perché connota ideologicamente il partito di Luigi Di Maio pur trattandosi appunto di un partito post-ideologico". In altre parole, i flussi non solo fotografano il comportamento dell'elettore Pd disaffezionato a vantaggio dei 5S ma al tempo stesso forniscono anche un'indicazione ai leader quando sta per aprirsi la fase delle consultazioni.Un report dell'istituto bolognese va nel dettaglio di alcune città: a Brescia il 20% degli elettori Pd del 2013 ha scelto il M5S; a Parma poco meno del 7%; a Livorno il 26%; a Firenze circa il 13%; a Napoli circa il 30%. D'altronde, in valore assoluto, il Pd di Matteo Renzi registra su base nazionale un tracollo senza precedenti: persi in cinque anni due milioni e seicentomila voti, in percentuale il 30% in meno rispetto ai consensi raccolti da Pier Luigi Bersani. Ma come ogni voto, anche quello del 4 marzo racchiude in sé diversi significati. Uno su tutti: le ultime elezioni certificano la fine dell'esistenza delle Regioni Rosse. Se in Umbria (da tempo in orbita centrodestra anche se a livello amministrativo aveva visto arrivare l'onda grillina in alcuni centri) e nelle Marche (contese tra centrodestra e M5S) il processo di "decolorazione" era già in stato avanzato, come dimostrato dalle tornate amministrative, è il crollo dell'Emilia Romagna che attesta un dato incontrovertibile ottenuto dal Pd renziano: quelle che un tempo erano roccaforti della sinistra oggi sono territori di contesa politica. Nella Regione rossa per eccellenza il centrosinistra non è più la prima coalizione (a beneficio del centrodestra con la Lega che arriva a raccogliere fino al 20%) e il Pd non è più il primo partito (a beneficio del M5S). Il centrosinistra a guida Pd vince solo in 7 collegi uninominali su 17. Debacle totale. "La categoria delle Regioni Rosse non esiste più, si conclude così un processo esistenziale già iniziato con le elezioni amministrative. Ora sono aree aperte alla competizione politica come tutte le altre", dice Valbruzzi. Anche la Toscana, infatti, crolla sotto i colpi del centrodestra: più che rossa è ora l'ultima regione rosè, con il Pd che vince solo nel 33% dei collegi uninominali contro il 32% del centrodestra. Ma si tratta di un risultato legato non tanto alla matrice ideologica di sinistra quanto alla classe dirigente renziana. Com'è noto, è la Toscana la culla dei più alti in grado del Giglio magico, da Renzi a Maria Elena Boschi fino a Luca Lotti. Per converso, il Partito democratico assume un altro tipo di connotazione: nei collegi della Lombardia e del Lazio - ma la tendenza è riscontrabile in maniera diffusa - i dem riescono a strappare collegi solo nei centri urbani. "È la fisionomia attuale del principale partito di sinistra ed è la cifra connotativa tra le più importanti di questa tornata", afferma il ricercatore del Cattaneo: "Il Pd è diventato un riferimento nei centri urbani, regionali o nazionali. È quindi il partito di quegli elettori che si considerano "centrali" in una qualsivoglia connotazione sociale o sociologica, ma non riesce più a raccogliere consensi nei diversi centri fuori dalle zone urbane". Un dato che sconfessa quindi tutta la campagna politica adottata dai dem nei mesi scorsi sul rammendo delle periferie, che oggi guardano un po' ovunque meno che al Pd. Quanto al M5S, è ormai consolidata la sua netta affermazione nelle regioni del sud-Italia, in questo derby con il Settentrione a trazione centrodestra: in Puglia, Sicilia e Sardegna i Cinque Stelle fanno man bassa di collegi, in Calabria e in Campania sfiorano l'en plein. "Ci sono almeno tre significati da leggere nell'exploit grillino al sud: c'è sicuramente una interpretazione corretta delle tematiche socio-economiche, che è mancata agli altri partiti, in una terra dove la disoccupazione è ancora una piaga e il disagio sociale è largamente diffuso. Ma c'è molto altro. I Cinque Stelle hanno incanalato anche le istanze dell'elettorato nella crisi legata all'accoglienza e all'immigrazione e, con la loro proposta, sono riusciti a convincere proprio sul fronte della percezione della (in)sicurezza. E infine, il voto del sud va letto anche come un puro voto anti-establishment contro la classe politica meridionale, incapace oggi come non mai di interpretare la questione meridionale".

Tornando infine ai flussi elettorali, un'altra tendenza rilevante è lo scambio di voti tutto interno al centrodestra, da Forza Italia verso la Lega che si è affermata per la prima volta come primo partito della coalizione. Non solo, dice Valbruzzi: "C'è anche un altro dato, seppur meno consistente ma comunque indicativo, da riportare: una parte dei voti guadagnati dal Carroccio arriva da Cinque Stelle delusi. Emerge una componente ex M5S che ha scelto l'ala più radicale della coalizione di centrodestra, privilegiando la proposta leghista sui temi della sicurezza e immigrazione". Quanto ai flussi elettorali a sinistra, Liberi e Uguali raccoglie consensi solo da democratici delusi senza riuscire nell'intento di allargare il proprio bacino ad aree ideologicamente o politicamente esterne al "bosco" di sinistra. Un dato che spiega bene il flop del partito guidato da Pietro Grasso. È quindi un quadro molto variegato quello che le urne consegnano alla classe politica, ora chiamata a interpretarlo all'indomani di un voto che ha nei fatti sentenziato, anche in Italia, il crollo definitivo dell'establishment. La campanella è suonata.

Sotto le 5 stelle il rosso: sono uguali ai comunisti. Traditi dal programma di sinistra, dall'odio per i capitalisti al pauperismo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/11/2017, su "Il Giornale". Cinque stelle rosse si agitano nel cielo della politica italiana. E non serviva un meteorologo di grande esperienza per prevederlo. Era naturale. Perché la congiunzione astrale tra i grillini e i compagni erranti (nel senso che vagano senza meta, ma pure che sbagliano) che hanno imboccato la strada alla sinistra del Pd era logica e naturale. Non tanto per una questione umana - Bersani e soci nell'immaginario pentastellato sono pur sempre parte della casta - quanto per una questione ideologica e programmatica. Chiunque si sia avventurato nella soporifera lettura del programma dei grillini non ha dubbi: sono di sinistra. E hanno tutti i tic politici e intellettuali di quei cespugli della sinistra radicale che ora non sanno dove attecchire. Volete qualche esempio? La loro storia politica è chiarissima, il loro programma ancor di più. Il movimento muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta. Sono quelli che ancora oggi si divertono a decapitare i fantocci di Renzi e lanciare sassate alla polizia, con lo scudo dei politici grillini che ne chiedono subito la scarcerazione (vedi G7 di Venaria). Dietro il completo blu di Di Maio si nascondono eskimo e kefiah. Il programma gestato e partorito in rete è ancora più chiaro e sembra la versione 2.0 di un vecchio manifesto marxista. Le multinazionali? Delle macchine di morte da imbrigliare e sconfiggere a ogni costo, poco importa che diano lavoro a migliaia di persone. Gli Stati Uniti? Il burattinaio cattivo che gestisce di nascosto i destini universali. Il liberismo? Beh, l'ossessione dei Cinque Stelle per il liberismo è quasi patologica. Ogni stortura, ogni giustizia, ogni cosa che non va al mondo - fosse la lampadina bruciata di una periferia di Roma o la crisi idrica in Burkina - è sempre colpa del neoliberismo, madre e padre di tutti i mali. Ne consegue che la ricchezza è una colpa, un difetto di fabbrica, un peccato originale. Emendabile solo con un bel bagno (di sangue) nel lavacro fiscale. Magari con una patrimoniale. Ma i destini di grillini e sinistra radicale si incontrano più di una volta: dal giustizialismo estremo all'ecologismo più spinto, dal mito del pauperismo e della decrescita felice all'odio per il mondo della finanza, senza alcuna distinzione. Esattamente come gli ex Pci preferiscono lo Stato al singolo cittadino, il pubblico al privato. E poi il pacifismo «onirico», quello che, senza fare i conti con la geopolitica, immagina un mondo nel quale le relazioni diplomatiche si possano fare solo con pacche sulle spalle e buffetti. E forse il punto di saldatura più evidente tra grillismo e comunismo è proprio questo: il fondamentalismo ideologico, l'idea che si possa far aderire la realtà ai propri ideali; il desiderio di cambiare e non la società in cui vive. Un delirio messianico che ha seminato solo danni. D'altronde Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo visionario libro Veni Vidi Web, profetizzava un mondo di downshifter (persone che decidono volontariamente di guadagnare di meno per vivere meglio), senza Tv che distrae e costa troppo, senza centri commerciali, con una proprietà privata limitata e le grandi aziende smantellate. Questo è il mondo che sognava il fondatore dei Cinque Stelle. A lui sembrava un paradiso, ma ha più i tratti un inferno sovietico. A lui pareva una nuova ricetta per cambiare il mondo, a noi sembra la solita brodaglia rancida in salsa marxista. È il comunismo digitale.

"Nessuna ambiguità M5S mai di destra, siamo antifascisti", scrive Giovanna Vitale l'8 dicembre 2017 "La Repubblica". «C'è una recrudescenza del neofascismo che dobbiamo stroncare. Alcuni argini democratici sono caduti e ora tocca a noi ripristinarli, affinché quanto successo a Repubblica non si ripeta più». All'indomani del blitz squadrista di Forza Nuova, la sindaca Virginia Raggi ha fatto visita al nostro giornale per testimoniare la sua «solidarietà» e offrirsi di «promuovere una grande iniziativa comune che abbia per protagonisti i giovani e dia la dimensione di quel che sta accadendo».

Sindaca Raggi, che idea si è fatta di questa escalation di violenza?

«Penso che sia molto grave e che occorra fare qualcosa. Subito. Mi ha molto colpito che nel gruppo d'assalto a Repubblica ci siano dei ragazzini: mi rafforza nella convinzione che è necessario concentrarsi di più sulla scuola. Il miglior modo per combattere gli estremismi è prevenirli».

Il M5S è a volte accusato di avere una doppia natura: una che guarda alla sinistra delusa, l'altra che occhieggia alla destra arrabbiata. E davanti a fatti come quelli accaduti qui a Repubblica, viene il sospetto che i due ingredienti si separino. Lei percepisce questo dualismo?

«Assolutamente no. Noi, come credo la maggioranza degli italiani, abbiamo una forte natura antifascista. Punto. Poi noi abbiamo delle idee, che sono molto concrete, per cui quando parliamo di scuola o di sanità pubblica veniamo additati come quelli di sinistra; quando diciamo che però c'è bisogno di sicurezza siamo additati come quelli di destra. Non è così. Perché non è che una persona di sinistra non voglia una città più sicura. E non è quello che può farci definire di destra, no?».

E quindi, cosa siete?

«Ci sono dei valori comuni nei quali tutti ci dobbiamo riconoscere. Quei famosi argini entro i quali si deve sempre svolgere il dibattito democratico, più o meno aspro, ma quelli non si superano. Poi abbiamo idee concrete: a volte sono definite di sinistra, a volte di destra, ma la verità è che in quelle idee ci riconosciamo tutti. Sia chi ha un passato di destra, sia chi ha un passato di sinistra».

Avverte la sensazione che, 72 anni dopo, in Italia sia caduta la pregiudiziale antifascista? C'è il rischio della perdita di memoria?

«Eccome se c'è. Per questo noi, con le scuole romane, abbiamo ampliato i viaggi nei lager avviati dalle precedenti amministrazioni con il progetto "testimone dei testimoni": i ragazzi che fanno visita ad Auschwitz lavorano su ciò che hanno vissuto per poi trasmettere ai loro coetanei, che non sono andati, la memoria di quella tragedia. Che hanno visto coi loro occhi, insieme ai sopravvissuti».

Ma basta una gita a tramandare la memoria?

«Non è una gita, è un pugno nello stomaco che ti arriva, fa cadere le barriere, ti apre gli occhi e ti spinge a raccontarlo. Non basta insegnare ai ragazzi la Storia così come si legge sui libri, dobbiamo farli scontrare con l'orrore, dal punto di vista emotivo devono capire cos'è stato. Tra l'altro ormai la distanza temporale da quei fatti è così ampia che noi non abbiamo più neanche i nostri nonni a raccontarci cos'era la guerra, come si stava sotto il fascismo. Perciò ci dobbiamo inventare qualcosa, altrimenti la memoria rimane sulla carta e si perde, non è più qualcosa percepita come viva».

È stato difficile coniugare la nettezza di alcune idee presenti nei programmi dei 5stelle con la difficoltà pratica di governare, che significa trovare le risorse, gestire meccanismi complessi? Riuscite a tradurre quelle idealità nella concretezza del fare?

«Se cominciassimo da zero potremmo fare molto. Ma siccome spesso lavoriamo su programmi già innestati, spesso decenni prima, ci troviamo a dover riprendere ogni situazione per i capelli, studiare le soluzioni per migliorarle e portare a termine quanto iniziato da altri. Per cui la difficoltà sta nel coniugare le nostre idee sulla base di progetti che hanno, alcuni, addirittura l'età mia, specie in ambito urbanistico. Con una città che, nel frattempo, è andata altrove».

E il comunista padano riuscì dove fallirono statisti e pm…, scrive Paolo Delgado il 6 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Salvini ha avuto successo dove avevano fallito Prodi e D’Alema, ma anche Ilda Boccassini. Nell’arco di quasi 25 anni ci avevano provato in moltissimi, nemici e ancor più spesso amici, e poi magistrati, editorialisti, potenti capi di Stato. Silvio Berlusconi alla fine era sempre riuscito a spuntarla, a risorgere lasciando interdetti e indispettiti quelli che, per l’ennesima volta, l’aveva già dato per spacciato. Chi avrebbe mai immaginato che la missione impossibile nella quale avevano fallito Prodi e D’Alema, Bossi e Fini, Ilda Bocassini ed Eugenio Scalfari, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, per citare solo un drappello ridotto del plotone che ha provato di volta in volta a eliminare il Cavaliere, sareb- be riuscita a un ragazzone di 45 anni ruspante e rumoroso, a prima vista privo delle doti di grande imbonitore nelle quali l’ex sovrano della destra italiana è stato insuperabile? Eppure a seppellire la lunga era di re Silvio, ad affidare alla storia gli anni del berlusconismo, potrebbe essere stato proprio Matteo Salvini, con i suoi modi volutamente sguaiati e le sue felpe che al Cavaliere, così maniacalmente attento al decoro, devono fare ancor più orrore delle canotte che sfoggiava nel 1994 Umberto Bossi. Salvini, col suo impasto di xenofobia e populismo per una volta nel senso proprio del termine, quello di un interesse probabilmente sincero e comunque radicato nell’adolescenza per le fasce sociali più basse. Salvini il leghista-antileghista che ha salvato il Carroccio da un’estinzione che pareva inevitabile smantellando il dogma principale su cui Bossi aveva fondato il movimento, la sua nordicità, a volte declinata in termini di federalismo estremo, altre volte di aperto secessionismo, modulata a seconda delle circostanze però mai fino al punto di riconoscere l’Italia intera e non solo il suo settentrione come area da eleggere a vessillo, autonominandosi difensore dei suoi legittimi e traditi interessi. Studente un po’ svogliato, arrivato a cinque esami dalla laurea in Storia prima di mollare, giornalista professionista con all’attivo esperienze reali, a differenza di tanti altri politici- giornalisti, sia nel quotidiano La Padania che a Radio Padania Libera, il leghista uscito trionfatore dalla guerra fratricida tra Bossi e Maroni, ha capovolto e insieme confermato la politica di Bossi, dalla Padania alla Penisola. “Dal nord a “Prima gli italiani”. Di suo Salvini ha aggiunto alla tavolozza verde un tocco di rosso. A dirlo sembra assurdo, ma proprio il segreta- rio che ha portato compiutamente nella destra radicale europea la Lega, e si prepara ora a farlo con l’intera coalizione, una radice non essiccata di sinistra ce l’ha. Simile a Bossi, prima vicino alla sinistra extraparlamentare e poi, a metà anni ‘ 70, con la tessera del Pci in tasca anche in questo, del resto. Da ragazzo, prima di essere folgorato dal messaggio bossiano nel 1990, ad appena 17 anni, Salvini faceva le sue brave capatine al Leoncavallo, ma ancora nel ‘ 97, ormai leghista navigato, si presentava come capolista della corrente interna “comunisti padani”. Qualcosa di quella passione giovanile è rimasto. E’ più facile trovare allo stesso tavolo con il fiore dell’azienda il leader di un Movimento che conta moltissimi elettori di sinistra come quella a cinque stelle che non quello di una destra per la prima volta compiutamente radicale. In fondo il sorpasso di Salvini è l’elemento che più di ogni altro, persino più dell’impennata di Di Maio e del tracollo del Pd, segna il trapasso della seconda Repubblica. Quel sistema che, pur traballando è durato 25 anni, si basava in buona parte proprio sul miracolo di san Silvio: tenere insieme, caso unico in Europa, la destra moderata e quella più radicale con i timone saldamente nelle mani della prima, o meglio di Berlusconi stesso. Quella formula miracolosa da ieri non esiste. Sconfitto Berlusconi, il partito azzurro non ha nessuno con cui sostituirlo, non per ignavia ma perché Berlusconi, come leader e proprietario del suo partito, non è sostituibile. Nel processo di trasformazione da centrodestra a destra qualcosa andrà perso, qualche area si sottrarrà all’egemonia leghista, ma nel complesso una destra profondamente diversa da quella che siamo abituati a conoscere contenderà a M5S il governo dell’Italia. E’ il nuovo bipolarismo, e chi non lo apprezza farà meglio ad attrezzarsi il prima possibile.

Provenienza dei politici appartenenti alla Lega Nord. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Lega Nord si è sempre presentata come una forza politica nuova, diversa dai "partiti romani" e costituito da persone fino a prima estranee alla politica. Questo è in parte vero, ma molti ex-Leghisti della prima (anni ottanta) e della seconda generazione (primi anni novanta) hanno un passato in partiti storici. Discorso a parte va fatto per coloro che, pur non avendo mai fatto parte di un partito, hanno dichiarato cosa votavano prima di conoscere la Lega Nord.

Il fondatore della Lega Umberto Bossi fra il 1974 e 1975 fu tesserato nella sezione del Partito Comunista Italiano di Verghera, frazione di Samarate, quando per pochi mesi vendette dei quadri per raccogliere fondi a sostegno delle vittime cilene di Augusto Pinochet. In un rapporto della CIA del 12 giugno 2001 si spiega anche che «Bossi è stato attratto dalla politica fin da giovanissimo, partecipando al movimento studentesco di sinistra del 1968. In seguito ha militato in rapida successione: nel gruppo comunista de Il manifesto, nel partito di estrema sinistra PdUP, nell'associazione dei lavoratori cattolici di sinistra ACLI e nei Verdi».

Il più volte ministro Roberto Maroni fu invece prima giovanissimo marxista-leninista e poi comunista di Democrazia Proletaria fino al 1979.

Dopo il boom elettorale dal 1992 al 1996, alcuni esponenti leghisti sono tornati ai partiti di provenienza o, meglio, ai loro successori: Marco Formentini e Pierluigi Petrini, entrambi ex-PSI, hanno trovato posto in Democrazia è Libertà.

E GLI EX COMPAGNI SI RISCOPRONO LEGHISTI - COMUNISTI. Scrive Fabrizio Ravelli il 14 settembre 1997 su "La Repubblica". Qui alla festa leghista lungo il Po, mentre si aspetta il catamarano che porterà Bossi, la tenda di Ivano il cartomante padano ("Prestigioso druido celtico della Padania, per l'occasione solo lire 10 mila") è deserta. Più facile trovare gente che cerca, nel proprio futuro, un singolare abbraccio col passato di sempre. Si parla, in giro sotto i pioppi, del nascente e non ancora ufficializzato movimento dei comunisti padani. Tempo qualche giorno, e fra le liste per le prossime elezioni del 26 ottobre, ci saranno anche loro. Si sta mettendo a punto il simbolo: qualcosa che sposi secessione con falce e martello. "Perché qui ce n' è tanti, di ex compagni come me nella Lega", dice Loris Cristoni. D' altra parte, dove poteva spuntare una cosa simile se non qui, fra Giovanni Guareschi e i fratelli Cervi? Lui, Cristoni, è un po' il prototipo di questa inedita figura socio-politica. Quarantasette anni, artigiano a Spilamberto (Modena), "e venti bollini consecutivi sulla tessera del Pci, per non parlare di quella della Fgci prima ancora". Fino al '90, quando la Lega si presentò alle regionali: "Avevo deciso di dare due voti al Pci, comune e provincia, e uno alla Lega. Ma quando sono arrivato lì, nella cabina, la mano è andata dov' era abituata". Ultimo voto falce e martello, per Cristoni: "Dopo non ho più avuto pietà". Al suo paese, in pochi anni, il Pci-Pds passa dal 70 al 40 per cento. Un dieci ce l'ha Rifondazione, altrettanto la Lega. "Se ci sarà una lista dei comunisti padani io ne farò parte", promette. Perché, quello è difficile da spiegare: "L' idea che ci sia è giusta. E anche il comunismo è una cosa perfetta. Purtroppo è una cosa che va bene per i poveri. Per la Somalia, e non per la Svizzera". E qui siamo piuttosto dalle parti della Svizzera. E allora? Forse per trovare una risposta basta il naso: profumo di tortelli, di gnocco fritto, di pesce gatto e culatello. "Vada a leggere le lettere ai giornali locali - suggerisce Angelo Alessandri, segretario provinciale leghista di Reggio - Ce n' è un sacco di ex militanti comunisti, di ex dirigenti Pds: riconoscono lo stesso spirito di una volta, gli stessi valori, nelle nostre feste". Ecco di dove viene questa organizzazione ferrea e festante: non si riconoscono più nella linea del loro ex partito (anche se faticano a spiegare perché), ma li unisce la continuità dello gnocco. Non è un insulto, intendiamoci. "Lo stand" è sempre stato una bella forma di militanza. "Eh, quanti ce n' è che conosco - racconta Genesio Ferrari, segretario organizzativo della Lega in Emilia - Operai che hanno sempre lavorato agli stand, che hanno fatto le lotte. Gente come Marino Serri, che era un mio amico". Sì, proprio uno dei 'morti di Reggio Emilia' , comunisti ammazzati dalla polizia negli anni Sessanta, quelli della canzone: "Marino Serri è morto, è morto Afro Tondelli...". Da Genesio Ferrari (titolare della Akron Cosmetici, 104 donne operaie a Modena) si sono presentati in quattro, una decina di giorni fa. "Mi hanno detto: vogliamo fare il partito comunista padano. Abbiamo sempre lavorato nel Pci, a friggere nelle feste dell'Unità, a lavorare per il benessere di tutti. Pensavamo che i nostri capi fossero diversi, e abbiamo scoperto che sono come gli altri". Gente, dice Ferrari, "di una certa età: uno che è stato assessore in un'amministrazione comunista, un altro ex dirigente nelle coop, uno imprenditore con quindici operai". Loris Cristoni, lui vede solo tre poli nell' Italia politica: "Rifondazione, la Lega, e gli altri". Previsione generale, "i comunisti padani un po' di voti li prenderanno da queste parti". Roberto Maroni, presidente padano, si prepara a mettere ordine fra tutte le proposte di simboli e liste per le elezioni del 26 ottobre. Quando la Lega non ci sarà, e i leghisti dovranno scegliere fra liberali-leghisti, laburisti-leghisti, cattolici-leghisti, anarcoliberisti-leghisti, immigrati-leghisti, e appunto comunisti-leghisti. Alessandro Giunchi, studente ventunenne, forse si candida coi liberali di Gnutti. Alessandro Pradelli, studente ventisettenne, forsa vota i 'laburisti' di Formentini, ex sindaco di Milano: "Alla luce di quanto è successo in Inghilterra, dove Tony Blair ha dimostrato di essere aperto con scozzesi e gallesi". "Alla riunione del federale - racconta Ferrari - abbiamo dovuto decidere: imporre noi dei partiti o sollecitare gli impulsi della base? La Lega si è ritirata". Insomma, quasi. Ma sono arrivate "valanghe di simboli, compreso un arcobaleno copiato dal detersivo". Alla fine, "si tengono solo quelli seri". Vanno forte, oltre a gnuttiani e formentiniani, i cattolici di Giuseppe Leoni. Si segnalano gli anarcoliberisti di Guglielmo Piombini (personaggi di riferimento: Ronald Reagan e Margareth Thatcher), e gli immigrati di Faruk Ramadan, medico, nato a Damasco. E perché no, allora, i comunisti-leghisti? "Gente semplice - conclude Ferrari - Mica come quelli di Parma, con la moglie in pelliccia a maggio".

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

Per affermare la propria opinione, o essere strumento inconsapevole della volontà del leader, si arriva ad annientare il nemico, nel suo modo di pensare e di essere.

Quanti di noi hanno assistito agli atteggiamenti di prevaricazione di esagitati guastatori durante le fasi delle elezioni, sia durante la campagna elettorale Porta a Porta o nei comizi elettorali dei candidati avversi, sia nei seggi delle votazioni, invasi da rappresentanti di lista a fare propaganda ed a impedire la convalida delle schede opposte.

Quanti di noi hanno assistito alla demonizzazione mediatica degli avversari politici attraverso la stampa partigiana e quanti di noi hanno subito inconsciamente il lavaggio del cervello di un pseudo cultura fatta passare per arte nella saggistica, nel teatro, nel cinema e nei programmi e spettacoli di intrattenimento.

Le parole degli agit- prop, scrive Piero Sansonetti il 2 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Molti di voi non sapranno neanche che vuol dire quella parolina che ho scritto nel titolo: «agitprop». Era il modo nel quale, nel partito comunista, si chiamavano gli attivisti che si occupavano delle campagne elettorali e in genere dell’attività di propaganda del partito. Agit- prop era l’abbreviazione di “agitazione e propaganda”, e “agitazione e propaganda” era la denominazione di un dipartimento, molto importante, che aveva una sua struttura nazionale e poi nelle singole regioni, nei Comuni, e in tutte le sezioni di partito. Il dirigente che aveva il compito di coordinare questo dipartimento era uno dei personaggi che più contavano nel partito. I capi nazionali degli agit- prop sono stati nomi molto famosi nel Pci, a partire da Amendola e Pajetta e in tempi più recenti il giovanissimo Veltroni. Mi è venuto in mente questo termine perché mi sembra che torni attuale. Questa campagna elettorale ricorda un po’ le origini, gli anni 40 e 50. Molta agitazione e molta propaganda. E non nel senso migliore di questi due termini. Tutta la campagna elettorale si è sviluppata su due direttrici: la prima è stata quella del fango sugli avversari, azione condotta con la partecipazione attiva, o addirittura sotto la guida di alcuni giornali. La seconda, quella della presentazione di programmi, o addirittura di risultati, del tutto improbabili o forse anche impossibili. Proviamo a dare un’occhiata alle parole chiave di questa campagna elettorale.

Cinque Stelle. Il partito nuovo, o se volete il movimento, non ha dato grande importanza al suo programma elettorale. Che in buona parte, peraltro, ha copiato un po’ dal Pd, un po’ da Wikipedia, un po’ dai giornali. L’unica proposta comprensibile è stata il reddito minimo garantito, ma i 5 Stelle non hanno spiegato come renderlo possibile, anche perché il reddito minimo è immaginabile solo aumentando la pressione fiscale, e questa è una cosa che – salvo la Bonino – nessuno osa prospettare. I Cinque Stelle hanno puntato tutto sulla squadra di governo. Che hanno presentato ieri, cioè quasi alla fine della battaglia, ed è composta interamente da nomi assolutamente sconosciuti all’elettorato (e non solo) tranne un nuotatore un po’ più famoso degli altri. Il problema però non è la qualità della squadra (che nessuno, nemmeno Di Maio, è in grado di valutare) ma la assoluta certezza che nessuno, o quasi nessuno, di quei nomi farà parte del futuro governo. Per la semplice ragione che il futuro governo sarà di coalizione e dunque andrà negoziato da vari partiti e i nomi dei ministri dovranno rappresentare diversi partiti. Compresi, eventualmente, i 5 Stelle. Diciamo pure che anche questa trovata della squadra di governo è un po’ una presa in giro. La squadra di governo la si può presentare in un sistema politico presidenziale, come quello americano. Non certo in un paese dove Costituzione e legge elettorale prevedono che sia il Presidente della Repubblica a scegliere il premier e a concordare con lui una coalizione in grado di sostenerlo.

Inciucio. La seconda grande bugia. Che accomuna tutti. Tutti dicono: l’inciucio mai. Inciucio – lo abbiamo scritto qualche settimana fa – è un modo dispregiativo per indicare un’intesa politica tra forze distinte. Cioè è la base della democrazia parlamentare italiana. L’inciucio fu inaugurato nel 1943, dopo l’armistizio, da democristiani, socialisti, comunisti e liberali, e poi è proseguito senza soluzione di continuità, escluso il breve periodo del bipolarismo, nel quale un sistema elettorale maggioritario, o a premio di maggioranza, permise il governo di uno solo dei due schieramenti. La fine del sistema a premio di maggioranza, la sconfitta di Renzi al referendum, e la nascita del tripolarismo, hanno reso di nuovo indispensabile una intesa tra forze diverse, cioè l’inciucio. Tutti i partiti ne sono consapevoli, e tutti fingono di essere fieramente contrari.

Immigrazione. È stato il tema chiave della battaglia politica. I partiti del fronte populista (in particolare la Lega e Fdi, un po’ meno i 5Stelle), ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Il centrodestra moderato è stato costretto, almeno in parte, a inseguire o ad adattarsi. Il centrosinistra ha trattato il tema con più prudenza, ma comunque senza denunciare la falsità del problema. Tanto che, alla vigilia delle elezioni, si è rifiutato di approvare lo Ius Soli, e ancora in questi giorni (per le stesse ragioni, e cioè il timore della propaganda populista) ha rinviato la riforma dell’ordinamento carcerario. Il ritornello dei populisti è stato: «È in corso un’invasione, la quantità di immigrati sta aumentando in modo esponenziale, l’immigrazione porta delinquenza e questo è il motivo dell’aumento continuo della criminalità. Fermiamo l’immigrazione, cacciamo i clandestini, riprendiamoci l’Italia, impediamo la “sostituzione etnica”». Non è vero che è in corso un’invasione, visto che gli immigrati sono ancora largamente al di sotto del 10 per cento della popolazione. L’immigrazione è in aumento ma è assolutamente sotto controllo. Non è vero che la delinquenza è in aumento, anzi da quindici anni è in continua e progressiva diminuzione. Tanto che gli omicidi sono scesi, dalla fine degli anni novanta, dalla cifra di quasi 2000 a meno di 400 all’anno. E non è vero neanche che l’aumento dell’immigrazione aumenta la criminalità. I detenuti stranieri nel 2007 erano il 32 per cento della popolazione carceraria. Oggi sono ancora il 32 per cento, sebbene il numero degli immigrati sia quasi raddoppiato. L’uso della paura dell’immigrato come strumento di campagna elettorale ha prodotto una gigantesca disinformazione di massa. Giornali e Tv si sono sottomessi. Sarà difficilissimo correggere questa disinformazione.

Economia. Di economia si è parlato pochissimo. I partiti di opposizione non ne hanno voluto parlare soprattutto perché i dati ultimi sono positivi per l’economia italiana. Il partito di governo ne ha parlato di sfuggita, forse perché non ha molte proposte concrete per intervenire. Forza Italia è l’unica che si è occupata della questione, ma con la proposta della Flat Tax e cioè di una soluzione che nessun grande paese occidentale ha mai adottato, e che anzi, tutti, hanno considerato irrealizzabile.

La Giustizia. È stata la grande assente. Nessuno osa parlare di giustizia. Lega e 5Stelle hanno in serbo un programma di stretta e di riduzione drastica dello Stato di diritto. Non hanno mai nascosto di considerare lo Stato di diritto un orpello ottocentesco. Però in campagna elettorale hanno evitato di parlarne troppo. Persino Il Fatto ha messo la sordina. Forza Italia e Pd, partiti più garantisti, non hanno trovato il coraggio di porre seriamente la questione sul tappeto, perché temono di perdere voti. Mi fermo qui. Credo di avere spiegato perché questa campagna elettorale mi porta al tempo degli agit-prop. Con una differenza: allora i partiti avevano anche dei programmi politici, ed erano programmi politici alternativi e chiari. Oggi no.

La faida Renzi-D'Alema è l'omicidio-suicidio che ha ucciso gli ex Pci. La sinistra italiana è la più debole d'Europa dopo quella francese: è la vendetta di Baffino, scrive Roberto Scafuri, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Parlandone da vivi, i due s'assomigliavano come gocce d'acqua. Correva la primavera 2009 e in un'accaldata sala di militanti il presidente della Provincia fiorentina, Matteo Renzi, ancora si rivolgeva al «caro Massimo, punto di riferimento del passato, del presente e del futuro». Il caro Massimo, lì da presso, mani giunte a mo' di preghiera, era assorto come inseguendo sfuggenti presagi. Renzi è uno di quei giovani - ebbe a dire benedicendone l'approdo a Palazzo Vecchio - «dei quali ci si può chiedere solo se batterà il record della pista oppure no». Sorrisi, applausi. Ma anche cordialità pelosa: diffidenza a pelle, senza motivo, tra animali che fiutano il pericolo. Il partito (ancora) c'era, la sinistra italiana non era, come oggi, la seconda più debole d'Europa dopo quella francese (studio Cise-Luiss). Che cosa inquietava D'Alema? Gli avevano già parlato di Matteo, il fiorentino. In particolare Lapo Pistelli, che l'aveva portato a Roma come portaborse nel '99, fatto promuovere segretario provinciale e, tre anni dopo, accompagnato nella scalata alla presidenza della Provincia. Qui il capo della segreteria di Matteo sarà Marco Carrai; i suoi cugini Paolo e Leonardo pezzi grossi della ciellina Compagnia delle opere. Ce n'è quanto basta e avanza per alimentare la diffidenza di chiunque, figurarsi D'Alema. Alle primarie per sindaco, nel febbraio '09, il giovanotto ha surclassato Pistelli (40% contro 26), poi ha infierito con un foglio di sfottò lasciatogli sulla porta di casa. L'ambizione sbandierata di Matteo è ciò che stuzzica il vecchio, la mancanza di buon gusto ciò che lo repelle. L'omicidio perfetto di Renzi giungerà a maturazione qualche anno dopo; dopo gli anni buoni da sindaco, quando l'ambizione incontrollabile (più sponsor influenti) suggeriscono che il partito erede della tradizione catto-com può essere scalato. Occorre un «simbolo», il gesto eclatante e dimostrativo, il parricidio che renda dirompente il cambio di stagione. È la nascita della «rottamazione»: D'Alema si vede tirato in ballo a ogni pie' sospinto, sempre più attonito di fronte a quella rottura imprevista delle vigenti regole di bon ton. L'attacco alla classe dirigente berlingueriana è scientifico, ma si concentra molto sul togliattiano D'Alema per salvare il prodiano Veltroni («il più comunista di tutti noi», ha detto di recente Bettini). D'Alema reagisce come elefante ferito. Quando Renzi gli farà lo sgarbo definitivo, facendogli credere prima di poterlo sostenere come commissario alla politica estera Ue per poi umiliarlo nominando l'inesperta Mogherini, l'ex leader è pugnalato al cuore. La vendetta è pietanza fredda, però. Di fronte alle pulsioni suicide di Renzi, plateali durante la roulette russa del referendum, D'Alema torna ad annusare il buon sapore della vendetta. La minoranza bersaniana, dopo anni di derisioni e umiliazioni, è ormai cotta a puntino. Gianni Cuperlo, che ben conosce l'insidiosa persuasività di quel Grillo parlante che li convince uno a uno, non riesce a trattenere la diga. Ultimo dei sedotti Bersani, per il quale l'uscita dalla ditta di una vita è un evento tragico. La sgangherata parabola di Mdp e Leu è sotto i nostri occhi, quella del Pd storia che finalmente s'azzera. Ma Berlusconi dovrebbe ripartirne i meriti dando a Cesare ciò che è di Cesare. Se Renzi ha fatto fuori i comunisti, l'ultimo martire dell'orgoglio comunista non ha esitato a sacrificarsi nel vecchio bunker di Nardò pur di vedere l'usurpatore schiacciato dal macigno del 18% dei voti. Per poi cadere a sua volta trafitto da 10.552 schede pietose: il 3,9 per cento. Più che una percentuale, un epitaffio.

La sinistra cadavere, scrive il 5 marzo 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Seguire la maratona Elezioni 2018 di Enrico Mentana a volume alzato è stato superfluo. Si sarebbe rivelato sufficiente osservare i volti del ricco parterre per comprendere con vividezza l’andamento degli exit poll. Già torvi e un po’ scrofolosi per natura, si facevano tesi, poi allarmati, quindi sconsolati, infine sepolcrali. Il pensiero levogiro, antiorario al senno, testimone in diretta della propria morte. Che macabra pagina di televisione verità! E via via che i dati si facevano indiscutibili, i malcapitati sono stati chiamati a riconoscerne il cadavere. Gente che ha sempre capito nulla, per lustri e fino a pochi minuti prima dei risultati elettorali, come Annunziata, Giannini, Sorgi, Cerasa, in diretta a commentare il trapasso delle proprie stesse sentenze. Ma se il piglio di Mentana – in grandissima forma per tutta la nottata, fino a dragare la venustà della Dragotto con aria da stracciamutande emerito – si è mantenuto friccicarello malgrado il cordoglio in studio, il volume è servito per intercettare i flebili aliti dei traumatizzati ospiti. La chiacchiera tremolante di Giannini, fino a ieri sprezzante verso i populismi, intraprende l’operazione di riabilitazione dell’insulto, affrancandolo in «popolarismi»; Marco Damilano, aggrappato a una conversione pro-sistema dei 5Stelle, si dichiara sorpreso dall’avanzare della Lega nelle periferie metropolitane; Sorgi scompare inghiottito dal suo tablet, per poi riemergere con il titolo «Vince Di Maio, Italia ingovernabile». Cazzullo, dall’inflessione sua, ci ricorda dell’esistenza dei mercati, della grande Europa, mentre gli elettori italiani hanno appena risposto con meno Europa e un eloquente sticazzi! dei mercati. Per il bene della stabilità, gli scambisti non vorrebbero si votasse; malauguratamente per loro, una volta ogni tanto anche da noi si va alle urne… e può succedere che un pernacchione elettorale li destabilizzi. Irriverente Benedetto Della Vedova, intervenuto a commentare la sciagura della Bonino, che si vende come coraggioso ambasciatore anti-mainstream. Irresistibile osservare l’Annunziata che prende appunti con il lapis sull’agendina di una disfatta scolpita nella pietra con una verga di boro, e imperterrita commenta con il tono di chi la spiega. Lucia bacchetta addirittura Marine Le Pen, festante su Twitter per una consultazione italiana aculeo nel culo flaccido di Bruxelles, suggerendole di star buona perché trombata a casa propria e aggiungendo: «Ci vorrebbe un po’ di sale in zucca sulle previsioni e chi le fa». Se l’inclemente conduttrice applicasse a se stessa i parametri che riserva agli altri, oggi venderebbe carciofi e zucchine a Osci e Sanniti. Per fortuna arriva Alessandra Sardoni, in diretta dalla sede del Partito Democratico, che sembra balbettare in un regime di quarantena, coraggiosa inviata sulla scena di una terrificante pandemia. «Siamo un grande partito», «A Renzi e alla classe dirigente del PD non c’è alternativa credibile per gli italiani», erano soliti tuonare da quelle stanze e dalle testate assoldatine. Mecojoni! Il Bomba, futuro senatore del Senato che voleva abolire, dopo aver accusato gli avversari di scappare dal confronto, assorbe con il medesimo ardimento il tracollo, arrivando per commentare a caldo la sconfitta con la baldanza di un coniglio palomino. L’indispensabile, la necessaria classe dirigente – dei Gentiloni, dei Minniti, dei Gori, dei Franceschini, dei Rosato, dei Martina, dei Poletti, delle Fedeli – è stata trattata dai votanti come pattume pronto per l’inceneritore. L’eredità culturale dell’assemblea costituente ha uno scatto d’orgoglio solo nel padre nobile del partito, nell’immarcescibile campione della sinistra di governo, Pier Ferdinando Casini, che trionfa disdegnoso nella sua Bologna. Nel frattempo, la marea nera che doveva investire l’Italia, gli inquietanti rigurgiti neofascisti pronti a deflagrare, i temibilissimi blitz di Forza Nuova e Casa Pound raccontati sulla stampa dai GEDI, via radio da Vittorio Zucconi e in tv da Corrado Formigli, stanno sotto l’1%: perché “la realtà è la loro passione”. Di Stefano si vede per la prima volta in un salotto di Mentana, benché in collegamento, e si lamenta di essere stato trascurato dai media durante tutta la campagna elettorale. Risposte piccate in studio, specie da una Lucia molto indispettita. I sobillatori di mestiere che hanno tirato la volata ai propri campioncini di triciclo fino a un traguardo di paracarri, oracoleggiano ora sui futuri scenari, sugli equilibri di domani, sulla temperie a venire, smarcandosi dalla putrefazione con guizzi alla Margheritoni. E sempre indietro come la coda del maiale. In chiusura, un minuto di silenzio per Morti e uguali, come anticipato l’11 febbraio in questi quaderni. Boldrini, Bersani, D’Alema, Grasso… dal regno della pace e della serenità veglieranno sui propri cari.

D’Alema è la causa della crisi Pd. Il Dio della politica lo ha punito, scrive Sergio Carli il 5 marzo 2018 su "Blitz Quotidiano”. D’Alema è la causa principale della crisi del Pd. Il Dio della Politica, o il Dio che atterra e suscita di Manzoni, insomma proprio quel Dio là, l’ha severamente e giustamente punito. La punizione divina si è manifestata con la clamorosa sconfitta nel suo collegio di casa, in Puglia, dove non ha raccolto nemmeno il 4 per cento dei voti e è arrivato ultimo in graduatoria. Così cade chi peccò di superbia. E dire che motivò la sua candidatura come la risposta a un imperativo categorico, una richiesta che saliva dalla piazza italiana che lo voleva ancora in politica, impegnato a salvare l’Italia. Quella bella Italia di pseudo sinistra che pensa ai poveri invece che alla crescita, a ridistribuire quello che non è stato accumulato, a proteggere i privilegi della casta, di cui lui e i suoi compagni di partito sono colonna. Come nella Unione Sovietica, che lui frequentò da ragazzo come pioniere. Giusto che questa sinistra, un po’ salottiera e un po’ saccente, sia finita come è finita, sotto il 4 per cento, altro che il 10. Come l’Unione Sovietica, appunto. Fu Massimo D’Alema a fermare Matteo Renzi sulla strada delle riforme. Fu lui il grande vecchio che orchestrò la campana contro il referendum costituzionale, scatenando i suoi agit prop. È stato lui la mente della scissione a sinistra del Pd che è finita come è finita ma che, nel processo, ha trascinato quasi nel baratro il Pd stesso. Il Pd è una forma di miracolo italiana. L’unico caso al mondo di un partito comunista che, attraverso successive mutazioni nonché lo sterminio di avversari a catena (Psi, Dc, Forza Italia e Craxi e Berlusconi), è riuscito a sopravvivere alla caduto del muro di Berlino e ottenere, quasi 30 anni dopo, un bel quasi 20 per cento dei voti. Ma quel vizietto tutto comunista che consentì la vittoria di Franco grazie alla strage operata nella sinistra non comunista, alla fine ha prevalso. Così D’Alema e il suo gregario Pierluigi Bersani non hanno resistito e hanno portato al disastro. C’è una forma di perversità crudele nel Destino dell’ex Pci, manifestazione tangibile della volontà divina. Nella sua prima mutazione, il Pds guidato prima da Achille Occhetto e poi soprattutto da Massimo D’Alema, guidò la lotta a Bettino Craxi e al Psi e alla Dc. Il risultato fu che all’Italia fu riservato il regalo di essere guidata da Silvio Berlusconi. Poi il Pd, nuova mutazione, guidò la guerra senza quartiere a Berlusconi. Il risultato fu Beppe Grillo. In questi 20 anni che tanti hanno definito età Berlusconiana, in realtà l’Italia è diventata sempre più un paese di Socialismo reale. Metà di noi non pagano tasse, non perché evasori ma perché esonerati dalla legge. La propaganda pauperistica del Pd, accompagnata dai disastrosi errori di Mario Monti e l’inefficacia delle sue poche iniziative positive (pensate al ritardo biblico dei pagamenti della PA) hanno fornito argomenti e brodo di cultura alla protesta grillina. Se non sarà ripescato per qualche miracolosa procedura. D’Alema finalmente uscirà di scena. Finalmente, ma forse troppo tardi.

Agit-Prop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Agitprop è l'acronimo di отдел агитации и пропаганды (otdel agitatsii i propagandy), ossia Dipartimento per l'agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale e regionale del Partito comunista dell'Unione sovietica il quale fu in seguito rinominato «Dipartimento ideologico». Nella lingua russa il termine «propaganda» non presentava nessuna connotazione negativa, come in francese o inglese, significava «diffusione, disseminazione, d'idee ». Attività e obbiettivi dell'Agitprop erano diffondere idee del marxismo-leninismo, e spiegazioni della politica attuata dal partito unico, oltre che in differenti contesti diffondere tutti i tipi di saperi utili, come per esempio le metodologie agronome. L'«agitazione» consisteva invece nello spingere le persone ad agire conformemente alle progettualità d'azione dei dirigenti sovietici.

Forme. Durante la Guerra civile russa l'Agitprop ha assunto diverse forme:

La censura della stampa: la strategia bolscevica fin dall'inizio è stata quella di introdurre la censura nel primo mezzo di comunicazione per importanza, ovvero il giornale. Il governo provvisorio, nato dalla rivoluzione di marzo contro il regime zarista, abolì la pratica secolare della censura della stampa. Questo creò dei giornali gratuiti, che sono sopravvissuti con il loro proprio reddito.

La rete di agitazione orale: la leadership bolscevica capì che per costruire un regime che sarebbe durato, avrebbero avuto bisogno di ottenere il sostegno della popolazione russa contadina. Per farlo, Lenin organizzò una festa comunista che attirò i soldati smobilitati (tra gli altri) ad assumere un'ideologia e un comportamento bolscevico. Questa forma si sviluppò soprattutto nelle zone rurali e isolate della Russia.

L'agitazione di treni e navi: per espandere la portata della rete di agitazione orale, i bolscevichi usarono i mezzi moderni per raggiungere più in profondità la Russia. I treni e le navi effettuarono agitazioni armate di volantini, manifesti e altre varie forme di agitprop. I treni ampliarono la portata di agitazione in Europa orientale, e permisero la creazione di stazioni di agitprop, composte da librerie di materiale di propaganda. I treni furono inoltre dotati di radio e di una propria macchina da stampa, in modo da poter riferire a Mosca il clima politico di una determinata regione, e di ricevere istruzioni su come sfruttare al meglio ogni giorno la propaganda.

Campagna di alfabetizzazione: Lenin capì che, al fine di aumentare l'efficacia della sua propaganda, avrebbe dovuto aumentare il livello culturale del popolo russo, facendo scendere il tasso di analfabetismo.

L'AGIT-PROP. Questa pagina è tratta da: La Turbopolitica, sessant'anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia: 1945/2005 (riassunto) di Anna Carla Russo. L’agit-prop (Agitazione e Propaganda). I militanti costituiscono l’esercito dei partiti di massa e le caratteristiche del militante sono la spinta ideologica, dedizione alla causa, rispetto della disciplina interna, ampia disponibilità e proprio su questo si fonda l’organizzazione e la sua presenza sul territorio, vivacità e visibilità. L’attività del militante è molto preziosa, ma non ha un prezzo il militante infatti dedica la sua esistenza alla causa politica ed è sempre attivo in qualsiasi luogo, è l’anima dell’organizzazione e delle associazioni, circoli, polisportive, dopolavori, insomma tutto ciò che coinvolge la vita dell’iscritto. La campagna elettorale per le elezioni del 1948 trasforma i partiti in giganti macchine propagandistiche che coinvolgono migliaia di militanti; la Dc mobilita tutte le province giungendo a 90.  Attivisti; più estesa è la macchina propagandista dei Comitati civici che coinvolgono anche i fedeli arrivando a 300.000 volontari, anche Pci e Psi uniti nel Fronte democratico popolare nel 1948 hanno oltre due milioni di iscritti al partito di Togliatti organizzati in 10.000 sezioni che sovrintendono oltre 52.000 cellule; anche i numeri del Psi sono notevoli, il partito infatti si afferma nel 1946 con oltre quattro milioni e mezzo di voti come secondo partito italiano e primo nel Nord-Italia. Secondo il Pci la crescita politica deve procedere di pari passo con la crescita dell’individuo e con il raggiungimento di un suo maggior livello di istruzione e quindi lo sforzo educativo- organizzativo del partito richiede modalità diverse, tra il 1945 e il 1950 coinvolgono 52.713 partecipanti. Anche per i socialisti e le organizzazioni cattoliche i militanti devono crescere sia nel numero che nella preparazione; nel 1948 i Comitati civici improvvisano un corso per migliaia di volontari e dieci anni dopo nasce l’Unione Nazionale degli Attivisti Civici ossia una rete ben organizzata che nel 1958 raduna a Roma 1500 responsabili di una capillare attività di formazione svolta mediante corsi zonali e rurali. I corsi sono tenuti da Dirigenti della URA Campania che sviluppano argomenti quali: l’antimarxismo; al dottrina sociale della Chiesa: gli enti di Previdenza e Assistenza in Italia e la struttura e l’inserimento nella vita italiana del Comitato Civico. La stessa Azione cattolica intensifica l’opera di apostolato e formazione dando vita in tutta Italia a missioni religioso-sociali i cui responsabili vengono preparati in tre corsi nazionale di aggiornamento. Anche la Dc si occupa di formare i militanti organizzando 31 corsi provinciali; secondo Fanfani i contatti instaurati tramite le sezioni non erano efficaci quanto il colloquio personale, la riunione familiare o il dibattito amichevole al circolo e quindi il contatto personale e l’azione assidua dei militanti ricopriva un ruolo centrale. Alla metà degli anni ’60 i militanti dei due fronti sono coloro che dedicano tempo ed energie all’animazione del partito e aderiscono a un ideale politico applicandosi per la sua realizzazione. Le basi militanti cattolica e comunista differiscono per il significato che attribuiscono alla militanza e nel loro gradi di politicizzazione. Per gli attivisti del Pci la partecipazione militante coinvolge l’intera sfera degli interessi e delle attività individuali; per gli attivisti democristiani l’integrazione con il partito coinvolge solo in parte la vita privata del singolo; il militante comunista basa la sua azione sulla fedeltà al partito e non esistono al di fuori del partito altre autorità se non sovranazionali, mentre l’azione del militante democristiano è sostenuta dalla convinzione di essere l’unico depositario di una verità a cui gli altri si devono convertire e oltre al partito esistono altre sorgenti autoritarie a cui fare riferimento. Ci sono differenze profonde che vedono un Pci più attivo. Anna Carla Russo

Agit-Prop. Scrive Massimo Lizzi il 24 ottobre 2015. Agit-prop: Dipartimento per l’agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale del partito comunista dell’Urss. In russo, dice Wikipedia, propaganda, significa diffusione di idee e di saperi utili, senza la connotazione negativa che ha in francese, inglese e in italiano; una connotazione che credo influenzi molto la percezione di sé dei nostri propagandisti. Agit-prop definisce bene un certo modo di fare opinione e informazione al servizio di un leader, un partito, uno stato, una chiesa, una causa. Fabrizio Rondolino, nel confronto con Marco Travaglio, da Lilli Gruber, ha definito agit-prop il Fatto Quotidiano, giornale allarmista per una democrazia sempre messa in pericolo e per una politica sempre corrotta e impunita. Ha ragione. I toni del Fatto erano, secondo me, adeguati contro Silvio Berlusconi, non solo capo, ma padrone del centrodestra, non solo leader e premier, ma padrone della TV commerciale, disposto a commettere reati, ad usare la politica per tutelarsi da inchieste e processi, a delegittimare la magistratura e la stampa. Oltre e dopo Berlusconi, il Fatto si è rivelato monocorde. Stessi toni nei confronti dei leader del centrosinistra e dei successori al governo del cavaliere. Toni che consistono nel rappresentare i politici avversari come dei disonesti o degli imbecilli, o entrambi. Più la simpatia per Beppe Grillo. Agit-prop definisce bene anche il giornalismo di Fabrizio Rondolino. Poco importa che abbia cambiato riferimenti nel corso della sua carriera professionale, da D’Alema, a Mediaset, al Giornale, ad Europa e ora all’Unità a sostegno di Renzi, perché si può cambiare idea o mantenere la stessa idea e vederla di volta in volta incarnata in soggetti diversi. Conta lo stile che si mantiene uguale: l’enfasi con cui sostiene il suo leader, la violenza con cui contrasta gli avversari del suo leader. Tweet oltre il limite della provocazione contro i meridionali, perché il rapporto Svimez mette in difficoltà il governo, o contro le insegnanti, per le proteste contro la riforma della scuola; un blogper bastonare la minoranza PD; una rubrica sull’Unità per dileggiare il Fatto tutti i giorni. Anche Rondolino in fondo dice dei suoi avversari che sono dei disonesti o degli imbecilli. A me piace il conflitto, lo scontro, la polemica, però resto perplesso di fronte ad un modo di confliggere che nega alla controparte rispetto, autorevolezza, valore, e conduce una dissacrazione totale e permanente nei confronti di chiunque sia fuori linea: politici, giornalisti, magistrati, costituzionalisti, intellettuali. Lilli Gruber ha chiesto conto a Marco Travaglio di una didascalia molto evidente a lato di una foto di Maria Elena Boschi, pubblicata sul Fatto. “La scollatura di Maria Elena Boschi è sempre tollerata. Magari non il giorno della legge che porta il suo nome e stravolge la Costituzione”. Travaglio non ha saputo darne una giustificazione sensata e ha riproposto il solito ritornello, per cui non si può criticare una donna senza essere accusati di misoginia, per poi aggiungere che se una donna si veste in un certo modo, non deve lamentarsi dei commenti che riceve. Come se la critica ad una scollatura sia pertinente con la critica all’attività di una donna in politica e come se l’abbigliamento di una donna sia di certo concepito per compiacere lo sguardo maschile, sempre autorizzato a commentare, anche a sproposito. Rondolino ha paragonato Travaglio ai personaggi di Lino Banfi, che guardano nelle scollature, come a dargli dello sfigato, ma quella didascalia per la quale Lillì Gruber ha manifestato il suo fastidio, non è solo sfigata, è anche molesta e viene pubblicata su un giornale che ha nel sessismo il suo più importante punto debole.

ItaliaOggi. Numero 231 pag. 6 del 29/09/2009. Diego Gabutti: Non è il pluralismo che riesce a garantire l'obiettività. L'opinione pubblica, cara a tutti, è stata liquidata col colpo alla nuca della propaganda. Non è libertà di stampa e d'opinione, e non è neppure disinformazione (ci mancherebbe) ma pura e semplice indifferenza per la realtà, quella che ha corso da noi, nell'Italia delle risse da pollaio tra direttori di giornale, del conflitto d'interesse e di Michele Santoro che, credendosi un santo, si porta in processione da solo (i ceri li paga Pantalone). È una libertà di stampa in stile agit-prop: votata, in via esclusiva, all'agitazione e alla propaganda. Apposta è stata coniata l'espressione «pluralismo»: voce da dizionario neolinguistico se ce n'è mai stata una. Con «pluralismo», parola rotonda, non s'intende l'obiettività famosa (sempre che esista e c'è da dubitarne). Il «pluralismo dell'informazione» non garantisce l'informazione ma soltanto il «pluralismo». Vale a dire unicamente il diritto, assicurato a tutte le parti politiche, d'esprimersi liberamente e senza rete attraverso stampa e tivù. Non è in questione, col «pluralismo», la qualità dell'informazione, se cioè l'informazione sia attendibile e non manipolata, ovvero falsa o vera, ma soltanto la sua spartizione, affinché a tutte i racket politici sia riconosciuto il privilegio di lanciare messaggi a proprio vantaggio. Come in una satira illuminista, la libertà di stampa s'identifica con la libertà di dedicarsi anima e corpo alla propaganda: una specie d'otto per mille da pagare a tutte le chiese, sia a Bruno Vespa che a Marco Travaglio. È un concetto stravagante, ma più ancora grottesco e deforme: il «pluralismo» complicato e trapezistico sta alla libertà di stampa propriamente detta come la donna barbuta e l'uomo con due teste del luna park stanno a Naomi Campbell e a Brad Pitt. Non allarga il raggio delle opinioni ma è un guinzaglio corto che lascia campo libero soltanto alle idee fisse. Attraverso il «pluralismo» si stabilisce inoltre il principio dadaista che la sola informazione che conta è quella politica. Tutto il resto è pattume e tempo sprecato: l'occhio del giornalista, sempre più addomesticato e deferente, s'illumina soltanto quando il discorso finalmente cade sulle dichiarazioni del capopartito o sulle paturnie dell'opinion maker, cioè sul niente. È in onore del niente che da noi si esaltano le virtù del «pluralismo». Se ne vantano i meriti, lo si loda, e presto forse lo si canterà negli stadi sulle note dell'Inno di Mameli, o di Va' pensiero, come se davvero l'opinione pubblica fosse la somma di due o più opinioni private, utili a questo o quel potentato economico, a questa o quella segreteria di partito. Ascoltate con pazienza tutte le campane, ci dicono i maestri di «pluralismo», quindi fatevi un'opinione vostra, scegliendo l'una o l'altra tra quelle che vi abbiamo suonato tra capo e collo, nella presunzione che non ci sia altra opinione oltre a quelle scampanate per lungo e per largo dai signori della politica e dell'economia. Suprema virtù dell'informazione è diventata così l'equidistanza: l'idea, cioè, che il buon giornalismo illustri senza prendere partito tutte le opinioni lecite, e che non ne abbia mai una propria, diversa da quelle angelicate. In ciò consisterebbe, secondo chi se ne vanta interprete e campione, l'opinione pubblica famosa, il cui fantasma viene evocato ogni giorno (esclusivamente per amore della frase a effetto) proprio da chi l'ha liquidata col colpo alla nuca della propaganda e dell'agitazione di parte e di partito: gl'intellettuali snob che celebrano messa nelle diverse parrocchie ideologiche, le star miliardarie dei talk show, i fogli di destra e di sinistra che hanno preso a modello la «Pravda» (e, per non farsi mancare niente, anche la stampa scandalistica inglese).

Il falso allarme antifascismo: l'onda nera è una pozzanghera, scrive Francesco Maria Del Vigo, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Più che un'onda alla fine si è capito che era una pozzanghera. Quella nera. Vi ricordate la campagna ossessiva che per quasi un anno ci ha tambureggiato nelle orecchie? «All'armi tornano i fascisti!». Giornali e media di sinistra avevano scoperto un filone sempreverde, garanzia di perenne polemica: cioè terrorizzare l'opinione pubblica convincendola del ritorno delle squadracce di Benito Mussolini. Ora, per smontare questa fake news, sarebbe bastato un po' di buon senso. Non sembra che negli ultimi anni si siano impennate le vendite di orbace, fez, manganelli e olio di ricino. Certo, come coraggiosamente svelato da Repubblica, in Veneto c'era un bagnino che aveva tappezzato il suo stabilimento di cimeli (di pessimo gusto) del Ventennio. Ma anche in questo caso il buonsenso non è stato reperito. Fino a quando un giudice ha derubricato l'episodio all'innocua categoria del folclore. E poi, decine e decine di accorati articoli sull'irresistibile ascesa delle tartarughe di Casapound e sui camerati di Forza Nuova. Sociologi e psicologi in campo per spiegare questo ritorno al passato: disagio sociale, periferie, mancata scolarizzazione, emarginazione. Persino la stampa estera - abbindolata da quella nostrana - si era interessata allo strano morbo passatista che sembrava aver infettato lo Stivale, nella memoria del celeberrimo portatore di stivali rigorosamente neri. Ecco, ora possiamo dire che dove non è arrivato il buonsenso sono arrivate le urne. Perché se ci fosse stata una proporzione tra lo spazio mediatico concesso al «pericolo fascista» e il successo elettorale dello stesso, Casapound sarebbe dovuta essere almeno il terzo partito in Parlamento e Simone Di Stefano avrebbe dovuto stappare bottiglie di autarchico prosecco. E invece, la maiuscola deriva mussoliniana si è scoperta soffrire di nanismo. Con il suo 0,9 per cento di preferenze raccolte, Casa Pound smonta la più grande balla della campagna elettorale. Una manciata di mani tese si sono abbassate per infilare la loro scheda nell'urna. Si sgonfia e precipita l'aerostato, pompato ad arte, della marea nera. Il ritorno del fascismo era solo un maldestro tentativo di tenere insieme una sinistra fratturata e scomposta. Il babau non esiste. O, quanto meno, esiste ma non è certo una marea. Si è trattato solo di un procurato allarme. Il paradosso è che a questo giro non solo non sono entrati in Parlamento i nipotini del Duce, ma non è entrato nemmeno un partito che porti la parola sinistra nel nome e nella ragione sociale. Uno scherzo della storia. Un bello scherzo.

IL DOVERE DI UCCIDERE.

Quando il Sessantotto finì nelle ideologie, risponde Aldo Cazzullo il 7 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Caro Aldo, già cominciano le rievocazioni. Ma ha ancora senso processare il ‘68? Filiberto Piccini, Pisa.

Caro Filiberto, La discussione sul ‘68 l’hanno sempre fatta i sessantottini: spesso celebrandosi, talora abiurando. Avrebbero diritto di parola anche le generazioni precedenti e successive. In Italia com’è noto il ‘68 è durato dieci anni, sino al caso Moro. I miei ricordi di bambino sono scanditi dagli scontri di piazza e dagli omicidi di terroristi rossi e neri. Certo la rivolta non è stata solo questo; ma negare che ci sia un nesso tra il ‘68 e gli anni di piombo mi pare arduo. Più tardi ho cercato, intervistando centinaia di protagonisti, in fabbrica e in questura, ai vertici Fininvest e in galera, di trovare un senso a quel che era accaduto. Mi sono fatto questa idea. A un’esplosione libertaria, che ha portato a un sano cambiamento dei costumi, dei rapporti tra le persone, del ruolo della donna, è seguito un irrigidimento dogmatico in una parte non trascurabile del movimento. Lo slancio dei giovani finì ingabbiato nelle due ideologie del Novecento, il comunismo e il fascismo, destinate a estinguersi da lì a pochi anni. I giovani di sinistra consideravano il Pci compromesso con la democrazia borghese, e si proponevano di proseguire il compito cui Togliatti e Berlinguer avevano rinunciato: la rivoluzione, come in Cina più che come in Russia. Qualche ex di Lotta continua ha il vezzo di dire di non essere mai stato comunista. Farebbe meglio a dire di essere sempre stato contro il Pci; ma i militanti di Lotta continua erano convinti di essere loro i veri comunisti. Qualcosa del genere, su scala più ridotta, accadde a destra nei confronti del Msi di Almirante, considerato filoatlantico, filoisraeliano, mercatista. Il risultato fu una mimesi della guerra civile, che lasciò sul terreno troppo odio e troppi morti. Di quella generazione salvo una cosa: l’idea, coltivata da molti, che si potesse essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La sconfitta è stata dura: qualcuno è finito nel terrorismo, qualcuno nella droga, qualcuno è rimasto in fabbrica negli anni della restaurazione. La generazione successiva, quella del riflusso (che è poi la mia), ha creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto; e anche noi siamo andati incontro alla disillusione, con questo senso di solitudine esistenziale che ci portiamo dentro.

Perché il loro è ancora un olocausto di serie B? Scrive Giannino Della Frattina, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". È storia dolorosissima e piuttosto nota, ma mai abbastanza ricordata quella di una terribile edizione dell’Unità, il quotidiano che per decenni si è vantato già nella testata di essere stato fondato da Antonio Gramsci e che in quell’uscita in edicola del 30 novembre 1946, scriveva: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi». L'«alito di libertà», secondo i compagni dell'Unità, era quello degli aguzzini del maresciallo Tito la cui pulizia etnica veniva bonariamente definita «avanzata di eserciti liberatori», mentre «gerarchi, briganti neri» erano definiti gli italiani costretti a fuggire dalle torture e dalla morte nell'orrore delle foibe. Una terribile follia, quella dei giornalisti comunisti (che almeno allora avevano il coraggio di definirsi tali), della quale nessuno ha mai nemmeno sentito il bisogno di chiedere scusa. Una delle pagine più disgustose della sinistra italiana che fa il paio con il Treno della vergogna, quello che nel 1947 portò ad Ancona gli esuli scappati da Istria, Quarnaro e Dalmazia. Con i ferrovieri che lo ribattezzarono «treno dei fascisti» e lo presero a pietrate alla stazione di Bologna. Tanti anni sono passati, il comunismo è stato sepolto dagli stessi comunisti che oggi sono i primi a vergognarsene e agli esuli istriani e dalmati è stata dedicata per legge il Giorno del ricordo. Ma il loro rimane lo stesso un olocausto di serie B. Nessuno oggi dice più che si sono meritati quelle morti orribili e neppure che erano tutti fascisti, ma insomma un po' di pregiudizio resta. Ed è facile dimostrarlo, basta pensare alle cerimonie per ricordare il loro sacrificio e l'orrore comunista. Troppo spesso i sindaci di sinistra (come a Milano Giuliano Pisapia) non ci vanno molto volentieri o addirittura non ci vanno proprio, preferendo inviare al loro posto un delegato del Comune. Un modo per far morire di nuovo i loro cari, per rubargli un'altra volta casa, affetti e patria abbandonati in una notte per evitare lo sterminio che è toccato a tanti di loro o lo strazio delle carni che ha fatto di Norma Cossetto il simbolo eterno di quelle sevizie. Perché le parole (non dette) possono ferire quanto le pallottole. Ci pensi quest'anno il sindaco Giuseppe Sala. Questi nostri fratelli hanno giù sofferto abbastanza per il solo fatto di essere italiani. I comunisti non ci sono più, loro invece ci sono ancora. Con tutto il loro orgoglio.

Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo. Il Libro di Vittorio Strada. Perché, negato il comandamento «Non uccidere», per il terrorista vale l’imperativo «Devi uccidere»? «Coloro che si votarono alla morte gettando bombe rudimentali contro lo zar e i suoi ministri hanno anticipato i terroristi suicidi che usano ordigni ben più sofisticati contro le folle occidentali in un conflitto che è ancora più vasto di quello che dilaniò la Russia e si accompagna a un incessante movimento migratorio destinato a mutare la natura della civiltà europea». Chi è il terrorista? Qual è il suo mondo interiore? Cos’ha di diverso dal soldato e dal criminale? Per Vittorio Strada è nella Russia della seconda metà del xix e dell’inizio del xx secolo che ha avuto la sua più grande affermazione il terrorismo, prototipo delle ondate successive che avrebbero suscitato in intellettuali come Dostoevskij, Nietzsche, Mann e Camus riflessioni morali, religiose e politiche ancora di grande attualità. Dalle prime avvisaglie fino alla svolta storica dell’ottobre 1917, il libro ripercorre episodi cruciali e figure significative, analisi problematiche e illuminanti, a cui si affiancano nuove interpretazioni di opere letterarie considerate non come materiali illustrativi, ma espressioni vive di una drammatica pagina della storia russa ed europea che aiuta a capire non soltanto un recente passato ma anche il presente. Oggi che il terrorismo riappare, sia pure in tutt’altre vesti, come manifestazione aggressiva di una civiltà diversa, intrecciata a quella occidentale a cui si oppone, conoscere la vicenda russa può far emergere la segreta affinità tra nuovo e vecchio terrorismo, per provare a immaginare delle soluzioni.

Dalla Russia con terrore, scrive Roberto Brunelli il 21 gennaio 2018 su "La Repubblica". Nel suo saggio sul terrorismo, titolato provocatoriamente "Il dovere di uccidere", Vittorio Strada ci racconta le origini del fenomeno in quel burrascoso mondo a cavallo tra Europa e Asia. Affresco forte. Esaustivo. E in cui non ha paura di citare tra i cattivi maestri anche alcuni Grandi come Nietzsche, e ok: ma perfino Dostoevskij e Camus? Furono i "giacobini russi" i primi, l'anno era il 1862. Circolava un proclama, per le strade di Mosca e di San Pietroburgo, che scatenò grandi ansie nelle ariose stanze del potere zarista. Era firmato da un misterioso "Comitato centrale rivoluzionario" ed era intitolato Giovane Russia. Diceva che "il popolo è il partito da tutti offeso", ribadiva che "l'unica via d'uscita dall'oppressione" — effettivamente immensa — non poteva che essere "una rivoluzione sanguinosa e inesorabile". Profetizzava "un fiume di sangue", e "periranno anche vittime innocenti". In pratica, l'atto fondativo del terrorismo in Russia. Per non dire del terrorismo tout court. È Vittorio Strada, massimo esperto di Russia del nostro Paese, filologo, accademico e critico, a raccontarci questa storia. Che non lascia indifferenti nell'epoca dei morti del Bataclan e di Nizza, del mercatino di Natale berlinese e di Barcellona. Certo, i jihadisti del Ventunesimo secolo sono altra cosa rispetto a quel Pëtr Zaičnevskij che aveva elaborato — in carcere — il proclama di cui sopra, nel senso che il loro nemico "non è un particolare regime, ma la civiltà contemporanea nel suo complesso". Ma lo spirito "fanatico e totalitario" è lo stesso, e quei giovani — scrive Strada — "che si votarono alla morte gettando bombe rudimentali contro lo zar hanno anticipato i terroristi suicidi che usano ordigni ben più sofisticati contro le folle occidentali". Certo, non è un caso che Strada abbia scelto per questo suo ultimo lavoro un titolo furibondo come Il dovere di uccidere, provocatorio nell'esatta misura in cui coglie uno dei caratteri fondanti del terrore praticato, rosso o nero, "giacobino" o jihadista. Per dimostrarlo, ci porta per mano in un viaggio attraverso le origini e la storia del terrorismo russo che è molto di più di una storia. Perché in questa galleria di nomi e volti come quello di Pëtr Tkačëv, teorico del giacobinismo russo (secondo cui era necessario "fare rapida e degna giustizia dei portatori del potere autocratico"), scorrono, e non da personaggi secondari, i nomi di Dostoevskij come di Camus, di Nietzsche come di Lukács, spesso con sofferenza e dolore. Proprio Tkačëv aveva letto, come tanti, I demoni ("l'opera che più a fondo penetra nelle tenebre del nichilismo russo", Strada dixit), e sarà Dostoevskij a scrivere che "l'orrore sta proprio nel fatto che da noi si possa commettere l'azione più disgustosa e abietta senza essere affatto un mascalzone!", aprendo quella finestra sulla soggettività del terrorista che finirà per essere uno dei temi più lancinanti, per esempio negli anni di piombo. Un viaggio che a tratti lascia senza fiato, come il passaggio che porta persino alla Montagna incantata di Thomas Mann, tramite l'inquietante personaggio del "gesuita sovversivo" Leo Naphta, la cui figura è peraltro ricalcata per l'appunto su quella di György Lukács: perché, come sottolinea Bakunin in una lettera del 1870, "il gesuitismo era un punto di riferimento nella tradizione rivoluzionaria russa e nella sua manifestazione estrema terroristica". E non è un paradosso se "chiesa" e "catechismo" siano parole che ricorrono, nella narrazione di Strada. È lunga e lastricata di vittime questa storia, fin dentro le viscere del Novecento. L'editoriale di una rivista della Ceka del 1918, graziosamente intitolata Terrore rosso, enuncia che "noi annientiamo la borghesia come classe". Lenin trovò esagerate quelle parole, tant'è vero che di quel foglio non fu mai pubblicato un secondo numero. Ma l'enunciazione contiene uno degli assunti cruciali del terrore organizzato: la morte come "necessità" di ipotetiche rivoluzioni, l'annullamento delle vittime come individui. Nella Mosca di Dostoevskij come sul lungomare di Nizza.

"Il moderno terrorismo? È figlio dei teorici russi che volevano morto lo Zar". In «Il dovere di uccidere» lo storico analizza la nascita del mito dell'omicidio politico «giusto», scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Il terrorismo è uno dei peggiori flagelli del XXI secolo, soprattutto nella declinazione religiosa che caratterizza l'islamismo radicale. Ma quali sono le radici storiche del terrorismo? È il tema su cui riflette Vittorio Strada, studioso di cultura e letteratura russa, nel suo nuovo saggio: Il dovere di uccidere (Marsilio, pagg. 204, euro 16). Strada dimostra che il terrorismo moderno ha trovato nella Russia degli zar e poi nella rivoluzione bolscevica una fecondissima incubatrice. Questo terrorismo nato all'ombra del regime degli Zar e prosperato nella Rivoluzione d'ottobre ha poi segnato la storia di tutto l'Occidente. E non solo dell'Occidente. Come scrive Strada, il terrorismo occidentale ha avuto particolare sviluppo nella Russia della seconda metà del XIX secolo e dell'inizio del XX, animato da una religiosità sui generis che gli veniva dall'utopia socialista e comunista.

Professor Strada, perché proprio in Russia?

«Il terrorismo in Russia non è dovuto a un particolare ribellismo locale, ma a una particolare situazione storica. L'arretratezza generale, il permanere di una autocrazia assoluta restia a ogni riforma di tipo istituzionale, la pressione di enormi masse contadine (servitù della gleba), tutto ciò preparò il terreno della rivolta. Quando a questo si sommarono le idee socialiste provenienti da Occidente la situazione esplose».

Il modello del Terrore della rivoluzione francese ha un suo ruolo, nella nascita di questo terrorismo contemporaneo?

«L'influsso delle idee e delle azioni della Rivoluzione in Francia, in particolare durante il Terrore, fu decisivo e portò a un tipo di rivoluzionarismo nuovo che mirava a un utopistico rinnovamento della società. Quanto ai mezzi dispiegati in Russia, furono più spietati di quelli francesi, anche a livello teorico. Ma questo forse fa parte della natura russa...».

C'è un teorico del terrorismo, Sergej Necaev, segretamente molto ammirato da Lenin, che è forse colui che ha portato ai massimi livelli il culto per l'atto violento...

«Necaev fu l'anima nera del movimento terroristico e costituisce ancora oggi per vari aspetti un enigma. Demonizzarlo però non ha senso. Dostoevskij in sostanza nei Demoni parla di lui, ma lo stesso scrittore russo lo considerava un mistero».

Ecco, Dostoevskij lanciò in un certo senso l'allarme sul fatto che stava capitando qualcosa di radicalmente nuovo in Russia. Che stava nascendo una violenza nichilista diversa e pericolosa. Ma fu ignorato...

«Ciò che stava avvenendo in Russia attorno a Necaev era a tal punto sconcertante che sia i moderati, sia i progressisti ne restarono spiazzati. Furono in un certo senso vittime di quello che oggi chiameremmo politicamente corretto. Furono come paralizzati di fronte a quegli ideali rivoluzionari forieri di orrori e genocidi».

Necaev era comunque un teorico, ma con il 1905 cambiò tutto...

«Nei primi anni del Novecento il terrorismo in Russia ha assunto un carattere organizzato sempre più rigoroso e, soprattutto, è diventato un fenomeno di massa, legato alla lotta rivoluzionaria generale. Ormai siamo prossimi al passaggio dal terrorismo di base a quello che sarà il terrorismo di Stato comunista».

E come sono giunte in Occidente le spore del terrorismo sviluppato in Russia?

«È stato un passaggio ovvio e naturale dettato dalla comunanza ideologica. Semmai a essere stato diverso, nel terrorismo degli anni Settanta in Occidente, è il rapporto con le varie compagini statali. Gli Stati erano molto più organizzati e coinvolti in un gioco geopolitico globale».

Nel terrorismo sembrano sempre emergere archetipi religiosi, anche quando si tratta di un terrorismo formalmente laico, come quello comunista. Un esempio potrebbe essere il mito del martirio.

«È un problema più vasto di quanto non appaia e riguarda tutto il processo di secolarizzazione della società contemporanea in cui persino l'ateismo ha connotazioni religiose. Il totalitarismo è stato la forma più compiuta di questo fenomeno. Fra terrorismo e totalitarismo corre in Russia un collegamento che è stato particolarmente esiziale».

Quali sono le affinità e le divergenze fra questo terrorismo storico e il terrorismo islamico?

«Ancora una volta l'esperienza della Russia ha mostrato questa connessione fra terrorismo laico e non. È un tema complesso che tratto nell'introduzione del mio libro».

Dove Strada scrive: «Il terrorismo russo costituisce la preistoria del terrorismo presente e futuro. Coloro che si votarono alla morte gettando bombe rudimentali contro lo Zar hanno anticipato i terroristi suicidi che usano ordigni ben più sofisticati contro le folle occidentali».

Terrorismo rosso. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo rosso è una tipologia di eversione armata di ispirazione comunista e rivoluzionaria e, più in generale, collegata a ideologie politiche di estrema sinistra e che ha come obiettivo il ricorso alle armi come unico mezzo individuato per disarticolare il sistema Stato-Capitale, al fine di generare un sollevamento del proletariato e provocare così uno slancio rivoluzionario liberatrice delle masse oppresse. Obiettivo di tali organizzazioni è il rovesciamento dei governi capitalistici e la loro sostituzione con la dittatura del proletariato, ovvero con l'unica classe rivoluzionaria e anti-imperialista, in grado di abolire il classismo e lo sfruttamento e favorire l'instaurazione di una società marxista-leninista o socialista, come passo fondamentale verso il raggiungimento di una democrazia vera e non solo formale.

Le origini. «La netta soluzione di continuità tra l’organizzazione armata e i movimenti sociali è sottolineata dalla decisione di intendere la violenza come progetto e strumento di azione in strutture clandestine […] privandosi delle discussioni politiche aperte e democratiche per analizzare e verificare ipotesi e obiettivi». (Robert Lumley da La genesi del terrorismo di sinistra). Alcune tracce delle origini del terrorismo rosso, d'ispirazione marxista-leninista e che poi diede vita al moltiplicarsi di organizzazioni armate di sinistra negli anni settanta, possono essere probabilmente individuate in alcuni scritti del politico e rivoluzionario russo, Lev Trotsky. Già nel 1918, all'indomani cioè della Rivoluzione d'ottobre, nel suo Terrorismo e comunismo, Trotsky teorizzava la necessità dell'impiego della forza (terrore rosso) da parte del potere rivoluzionario, per difendere il neonato Stato dei soviet dai germi della controrivoluzione e dalle stesse classi che, la rivoluzione stessa, aveva espropriato e che cercavano a loro volta di rovesciare. «La Storia non ha trovato finora altri mezzi per fare avanzare l'umanità, se non opponendo ogni volta alla violenza conservatrice delle classi dominanti, la violenza rivoluzionaria della classe progressista». (Lev Trotsky da Terrorismo e Comunismo). Il terrore rosso, quindi, come proseguimento naturale dell'insurrezione armata attraverso la quale i comunisti avevano preso il potere in Russia. E come chiarisce lo stesso Trotsky, nella prefazione alla seconda edizione inglese del suo testo: "il terrorismo è, in ultima analisi, un'incitazione, un monito, un incoraggiamento: lavoratori di tutti i paesi, unitevi e prendete il potere, strappatelo a chi lo usa per tenervi in catene e fatelo vostro." «La creazione di un disciplinato e potente Esercito rosso nello Stato comunista dei Soviet ha la virtù di eccitare i cervelli vuoti. Si parla della Russia sovietista come di una nuova Prussia militarista. Lev Trotsky, che ha saputo rinnovare i miracoli di Lazzaro Carnot, tra difficoltà enormemente superiori a quelle dovute superare dal grande organizzatore della Rivoluzione francese, viene presentato come un nuovo Gengis Kan; si parla di 'regime militarista', mentre l'Esercito rosso è istituzione transitoria creata per la difesa della rivoluzione». (Antonio Gramsci da L'Avanti!, marzo 1919).

Nel mondo. Nate perlopiù nel contesto storico che seguì il movimento di protesta che, sul finire degli anni sessanta, prese il nome di Sessantotto, le organizzazioni terroristiche di sinistra ebbero il loro periodo di maggiore attività soprattutto nel corso degli anni settanta e ottanta quando, la loro strategia eversiva, sembrò in alcuni casi far vacillare governi e sistemi politici, in nome di una trasformazione radicale della società e nella speranza di un sollevamento del proletariato nella lotta rivoluzionaria. Nel corso del tempo, moltissimi Paesi in tutto il mondo hanno dovuto in qualche modo confrontarsi con il fenomeno terrorista e, nello specifico dell'eversione legata ad ideologie di sinistra, furono le democrazie occidentali (Stati Uniti, Giappone e, soprattutto, l'Europa), dove i gruppi terroristici trovarono il terreno più fertile per le loro azioni. E anche nei Paesi dittatoriali dell'America Latina, dove la lotta eversiva assunse la valenza anche di lotta per la liberazione nazionale, la svolta armata d'ispirazione marxista-leninista, alimento il fiorire di gruppi di guerriglia per la presa del potere in nome di una rivoluzione socialista. Tra le organizzazioni terroristiche di sinistra più conosciute e longeve nel mondo, ci furono: l'Armata Rossa Giapponese, i Weather Underground negli Stati Uniti, le Brigate Rosse e Prima Linea in Italia, la Rote Armee Fraktion nella ex Germania Ovest, Action directe in Francia, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in Nicaragua, Sendero Luminoso in Perù e le FARC in Colombia.

Germania. La più importante formazione armata di sinistra tedesca fu la Rote Armee Fraktion (RAF). Inizialmente nota come banda Baader-Meinhof, la RAF venne fondata il 14 maggio 1970 da Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Horst Mahler, e Ulrike Meinhof. Organizzazione comunista e antimperialista, dedita alla guerriglia urbana e impegnata nella resistenza armata contro quello che considerano uno stato fascista, nonostante i suoi leader (Ensslin, Baader e Meinhof) furono prematuramente arrestati nel 1972, il gruppo rimase comunque attivo per quasi 30 anni, fino al 1993, e venne formalmente disciolto nel 1998. Rote Armee Fraktion. Organizzato in piccole cellule compartimentate la RAF poteva contare anche su collegamenti con formazioni terroristiche internazionali come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, con il gruppo francese Action directe, le Brigate Rosse, e con terroristi come il Comandante Carlos. Complessivamente, la Rote Armee Fraktion fu responsabile di numerose operazioni terroristiche e di 33 omicidi e raggiunse momento di massima attività fra il 1975 e il 1977, culminata con il rapimento del presidente degli industriali tedesco-occidentali Hanns-Martin Schleyer e il dirottamento di un aereo Lufthansa.[ Diversi dirigenti e militanti del gruppo rimasero uccisi tra la fine degli anni settanta e primi anni ottanta durante scontri a fuoco con la polizia oltre alla morte, in carcere, il 18 ottobre del 1977 nella prigione di Stammheim, a Stoccarda (ufficialmente per suicidio), di Andreas Baader e di altri due leader storici del gruppo, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. l 20 aprile del 1998, un volantino di otto pagine a firma RAF fu inviata via fax all'agenzia di stampa Reuters, dichiarando lo scioglimento ufficiale del gruppo. Altra organizzazione terroristica di estrema sinistra tedesca fu la Revolutionäre Zellen (RZ). Attiva tra il 1973 e il 1995, è stata descritta nei primi anni ottanta, secondo il Ministero dell'Interno tedesco, come una delle più pericolose formazioni terroristiche di sinistra e responsabile di 186 attacchi, 40 dei quali furono portati a segno a Berlino Ovest.

Belgio. La formazione terroristica delle Cellule comuniste combattenti (CCC) venne fondata nel 1982, in Belgio, da Pierre Carette, grazie anche all'apporto di alcuni militanti della francese Action directe. Gruppo d'ispirazione marxista-leninista, i CCC furono attivi per meno di due anni. Finanziarono le loro attività attraverso una serie di rapine in banca e furono principalmente impegnati in attentati entro i confini del Belgio ma con obiettivi prevalentemente internazionali. Nel corso di 14 mesi effettuarono 20 attentati contro, in particolare, la NATO, aziende statunitense ed altre imprese internazionali. Nel dicembre 1985, la polizia ha arrestò il leader e fondatore Pierre Carette, assieme ad altri militanti del gruppo. Dopo la sua condanna all'ergastolo, il 14 gennaio 1986, il gruppo cessò di essere operativo.

Francia. In Francia, l'organizzazione Action Directe (AD), venne fondata, nel 1979 da Jean-Marc Rouillan e dalla fusione del Groupe d'Action Révolutionnaire Internationale con il Noyaux Armés Pour l'Autonomie des Peuples. Attiva solamente per otto anni, al suo interno coesistevano due formazioni: una nazionale e un'altra internazionale con quest'ultima che manteneva una collaborazione attiva con gli altri movimenti terroristici europei come la Rote ArmeeFraktion tedesca, le Brigate Rosse e le Cellule comuniste combattenti del Belgio. Tra il 1982 e il 1985, la fazione nazionale di Action Directe effettuò numerosi attentati dinamitardi a edifici governativi e omicidi contro obbiettivi politici: il più noto fu quello che nel 1985 costò la vita al generale René Audran, uno dei massimi responsabili della Difesa e dell'industria militare. Il 28 marzo 1986, la fazione nazionale dell'organizzazione, venne smantellata con l'arresto a Lione e a Saint-Étienne di André Olivier e molti suoi complici. Il 21 febbraio 1987, l'arresto dei capi storici Jean-Marc Rouillan, Nathalie Ménigon, Régis Schleicher, Joëlle Aubron e Georges Cipriani, segnò la fine dell'intera organizzazione.

Spagna. Il Grupos de Resistencia Antifascista Primero de Octubre (GRAPO) nasce, a partire dall'estate del 1975, come braccio armato del Partito Comunista di Spagna Ricostituito (PCEr), componente clandestina scissa dal Partito Comunista di Spagna. Un gruppo clandestino anticapitalista e anti-imperialista d'ispirazione maoista che puntava essenzialmente alla formazione di uno stato repubblicano spagnolo sul modello della Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong. Fortemente contrari all'adesione spagnola alla NATO, a partire dalla sua nascita e fino al 2006, furono responsabili di 84 omicidi tra poliziotti, militari, giudici e civili, di 300 attentati dinamitardi e di circa 3.000 azioni armate (il governo spagnolo ne riconosce ufficialmente 545). Il gruppo ha anche commesso una serie di rapimenti, inizialmente per motivi politici e, solo in seguito, per autofinanziamento. L'ultima azione venne commessa il 17 novembre 2000 con l'omicidio di un agente di polizia ucciso a Carabanchel, distretto di Madrid. Secondo la polizia spagnola il GRAPO sarebbe stato sciolto nel 2007, dopo che 6 dei suoi militanti furono arrestati, nel giugno quell'anno e anche se, il gruppo stesso, non abbia mai annunciato il suo ufficiale scioglimento. Fino ad oggi 3.000 persone sono state arrestate in relazione al gruppo (e al PCEr), di cui 1.400 sono state poi incarcerate. Ad oggi ci sono 54 prigionieri del GRAPO (e del PCEr) nelle carceri spagnole. Il leader del GRAPO, Manuel Pérez, è stato condannato da un tribunale francese nel 2000 per associazione a delinquere con finalità di terrorismo. Altra organizzazione armata spagnola di sinistra è l'ETA politico-militare, nata nel 1974, dopo la scissione dalla componente maggioritaria nazionalistica dell'Euskadi Ta Askatasuna (meglio nota con l'acronimo ETA), il gruppo terroristico per l'indipendenza delle Province Basche. L'ETA politico-militare, formazione d'ispirazione marxista e propensa alla lotta politica contro il franchismo, dopo il fallito colpo di Stato militare del febbraio 1981, sospese ogni azione di guerriglia e, nel 1982, si unì al Partito Comunista di Euskadi.

Grecia. In Grecia, a partire dal 1975, fu attiva l'Organizzazione Rivoluzionaria 17 novembre (17N), un gruppo di estrema sinistra che deve il proprio nome alla data della violenta repressione della rivolta degli studenti del Politecnico d’Atene, del 17 novembre 1973, durante la dittatura dei Colonnelli. Il gruppo 17N, che ebbe come principali nemici obiettivi Americani e capitalistici in Grecia, si rese responsabile in tutto di 25 omicidi e di decine di attentati. L'ultima vittima fu il militare britannico Stephen Saunders, colpito a morte nel giugno del 2000. Si ritiene che l'organizzazione sia stata definitivamente sciolta nel 2002, dopo l'arresto ed il processo di un certo numero dei suoi componenti come Alexandros Giotopoulos, identificato come il leader del gruppo ed arrestato il 17 luglio 2002, o Dimitris Koufodinas, capo operativo del 17N, che si arrese alle autorità il 5 settembre di quello stesso anno. In tutto 19 persone vennero accusate di circa 2.500 reati relativi alle attività del 17N. Il processo contro i sospetti terroristi 19 accusati d'aver compiuto 25 delitti in 27 anni, iniziò ad Atene il 3 marzo 2003 e, l'8 dicembre successivo, quindici imputati (tra cui Giotopoulos e Koufodinas), vennero ritenuti colpevoli, mentre altri quattro vennero assolti per mancanza di prove. Come risposta allo scioglimento forzato della 17N, a partire dal 2003, vennero fondati i gruppi Lotta rivoluzionaria' e' Setta dei rivoluzionari, organizzazioni terroristiche paramilitari tuttora attive, entrambe legate alla sinistra radicale greca e note, soprattutto, per una serie di attentati dinamitardi nei confronti di obbiettivi governativi (tribunali, corti d'appello, ministeri) e statunitensi, in territorio greco.

Regno Unito. Fondato nel 1970, l'Angry Brigade, fu un piccolo gruppo anarco-insurrezionalista, responsabile di una serie di attentati in Inghilterra fino al 1972, anno in cui fu smantellato a causa di una serie di arresti nei confronti dei loro militanti. Gli obiettivi dei circa 25 attentati, attribuiti loro dalla polizia, non causarono comunque morti, in quanto tesi a colpire beni materiali e simboli dell'establishment britannico: banche, ambasciate, piuttosto che abitazioni di deputati conservatori. Il 3 maggio del 1972 si aprì il processo a carico del gruppo, che terminò il 6 dicembre dello stesso anno, con condanne pari a dieci anni di detenzione per i quattro imputati (John Barker, Jim Greenfield, Hilary Creek e Anna Mendleson). L'Irish National Liberation Army (INLA) è stato un gruppo paramilitare nordirlandese di ispirazione marxista-socialista, costituitosi nel dicembre del 1974 (anno della scissione dall'IRA), con l'obiettivo di far uscire l'Irlanda del Nord dal Regno Unito e di riunificarla con la Repubblica d'Irlanda. Tra il 1975 e il 2001, il gruppo si rese responsabile della morte di 113 persone, tra cui: 42 civili, 46 membri delle forze di sicurezza del Regno Unito, 16 paramilitari repubblicani e 7 paramilitari unionisti. Dopo 24 anni di ininterrotta lotta armata, il 22 agosto del 1998, l'INLA dichiarò per la prima volta il cessate il fuoco e, nell'ottobre del 2009, ha formalmente deciso di perseguire i suoi obiettivi con mezzi politici pacifici.

Turchia. Nato nel marzo 1994 dalle ceneri del movimento Dev-Sol (Sinistra rivoluzionaria, fondato nel 1978) il Partito/Fronte rivoluzionario popolare di liberazione (Dhkp/C), è una delle principali organizzazioni armate turche di estrema sinistra. Accusata di aver compiuto una serie di omicidi e attentati contro ex ministri e generali in pensione e dell'uccisione nel 1996 dell'industriale Ozdemir Sabanci, membro di una delle due principali famiglie imprenditoriali del paese, l'organizzazione è dichiaratamente ostile agli USA e alla NATO. Il Dhkp/C è stato al centro di numerose rivolte nelle carceri e, nel 2000, di uno sciopero della fame che portò alla morte di 64 persone. A tutt'oggi è ancora attivo e, in particolare nel 2013, ha rivendicato una serie di attentati kamikaze contro obbiettivi politici, tra cui quello all'ambasciata Usa ad Ankara che, nel febbraio di quell'anno, ha provocato la morte di due persone (tra cui l'attentatore stesso). Altre formazioni terroristiche turche, d'ispirazione marxista-leninista sono: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato, nel 1978, da Abdullah Ocalan e che da anni combatte nelle regioni sudorientali a maggioranza curda per la creazione di uno Stato curdo indipendente; l'Esercito segreto armeno per la liberazione dell'Armenia, attivo dal 1975 al 1986 e responsabile dell'uccisione di più di 30 diplomatici turchi in tutto il mondo, con l'obiettivo di costringere il governo turco a riconoscere pubblicamente la sua responsabilità nel genocidio del popolo armeno e imporre la restituzione del territorio sottratto agli stessi. Le diverse scissioni interne e l'uccisione, ad Atene, il 28 aprile 1988, del suo leader Hagop Hagopian, determinarono in pratica la fine dell'organizzazione.

Medio Oriente. In Medio Oriente, le più importanti organizzazioni terroristiche di sinistra, sono legate al conflitto arabo-israeliano e alla questione palestinese. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), fondato nel 1967 da George Habash, da una costola del Movimento dei Nazionalisti Arabi, è un'organizzazione marxista-leninista che, pur rimanendo fedele agli ideali del Panarabismo, giudica la lotta palestinese parte della più ampia rivolta contro l'imperialismo occidentale, allo scopo anche di unire il mondo arabo e di rovesciare i regimi reazionari. Nel 1968 il PFLP aderì all'OLP e vi rimase fino al 1974, anno in cui decise di abbandonare l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, rea di aver abbandonato (secondo il PFLP) l'obiettivo di azzerare lo Stato di Israele. Nell'immediato biennio che seguì la fondazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, a seguito di altrettante scissioni, nacquero altre due organizzazioni palestinesi di ispirazione marxista-leninista e nazionalista: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Comando Generale, fondato nel 1968 da Ahmed Jibril, ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), nato nel 1969 e guidato da Nayef Hawatmeh. Le tre formazioni palestinesi sono state inserite nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta da Stati Uniti d'America, dal Canada e dall'Unione europea. Da una combinazione di estremismo islamico e marxismo, invece, nascono i Mujahidin del Popolo, gruppo di dissidenti iraniano che ha all'attivo numerosi attentati nel loro Paese.

Giappone. L'Armata Rossa Giapponese fu un gruppo terroristico fondato, nel febbraio 1971, da un gruppo di studenti guidati da Fusako Shigenobu (soprannominata la regina del terrorismo) e con il preciso obiettivo di rovesciare il governo e le istituzioni imperiali giapponesi, ma soprattutto infiammare la rivoluzione mondiale. Il gruppo, che ebbe fino circa 400 membri e strinse legami anche con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, divenne noto per aver compiuto il primo attacco kamikaze portato a termine, nel maggio 1972, all'aeroporto israeliano di Tel Aviv, che provocò la morte di 24 persone. Con l'arresto, nel novembre 2000, dopo trenta anni di latitanza, della sua leader Fusako Shigenobu, l'organizzazione venne formalmente sciolta il 14 aprile 2001. Nel 2006, la Shigenobu venne condannata a venti anni di carcere. Di più recente formazione, invece, è l’Esercito Rivoluzionario Kansai, considerato come il braccio armato dello schieramento estremista di sinistra nato dalla frammentazione del Partito Comunista Giapponese.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti d'America, i Weather Underground, furono un'organizzazione terroristica di ispirazione comunista rivoluzionaria attiva dal 1969, anno della contestazione giovanile studentesca americana, e fino al 1976. Nata da una scissione all'interno del movimento Students for a Democratic Society e fondata da Bill Ayers, Mark Rudd, Bernardine Dohrn, Jim Mellen, Terry Robbins, John Jacobs e Jeff Jones, il nome del gruppo fa riferimento al verso You don't need a weatherman to know which way the wind blows (non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento) contenuto nel brano Subterranean Homesick Blues, di Bob Dylan. Utilizzando metodi di protesta violenta in reazione alla politica estera degli Stati Uniti, i Weather compirono diversi attentati come l'esplosione al Campidoglio di Washington, del primo marzo 1971 o l'attentato al Pentagono del 19 maggio 1972. Il gruppo sposò anche la causa antirazzista delle Black Panther al fine di raggiungere, secondo un rapporto del governo degli Stati Uniti del 2001, tre obiettivi: liberare i prigionieri politici nelle carceri americane, attuare espropri proletari (rapine a mano armata) per finanziare la terza fase, ovvero quella di avviare una serie di attentati e attacchi terroristici. La clandestinità dei vari componenti finì all'inizio degli anni ottanta, quando molti attivisti del gruppo decisero di costituirsi.

Canada. Il Fronte di Liberazione del Québec (FLQ) fu un'organizzazione terroristica di estrema sinistra canadese fondata, nel 1963, dal rivoluzionario belga George Schoeters, con l'obiettivo di raggiungere l'indipendenza della provincia del Québec e la sua trasformazione in una nazione comunista indipendente. Sostenitori di una politica marxista-leninista, nel corso della sua storia e fino al 1970, il FLQ si rese responsabile di oltre 200 azioni violente, tra cui attentati dinamitardi, rapine di autofinanziamento e due omicidi. Tra le azioni più note ci furono: l'attentato alla borsa valori di Montréal che, nel febbraio 1969, causò 27 feriti; il rapimento e successivo assassinio del ministro del Lavoro del Québec, Pierre Laporte e il rapimento del diplomatico britannico James Cross, entrambi nell'ottobre del 1970. Il declino del movimento coincise con le misure repressive messe in atto dal governo canadese che, su richiesta dell'organo provinciale, proclamò lo stato di guerra e lo stanziamento di truppe dell'esercito che riuscirono a riportare l'ordine, grazie anche ad una compatta reazione dell'opinione pubblica, contraria alla svolta armata della lotta politica. Alla promulgazione di una serie di leggi speciali approvate dal Parlamento, fece seguito un'ondata di arresti da parte delle unità antiterrorismo della polizia di Montreal: 457 persone tra attori, scrittori, giornalisti e militanti politici.

America Latina. Nel volume The New Dimension of International Terrorism, scritto da Stefan Aubrey nel 2004, l'autore identifica le seguenti formazioni quali principali organizzazioni terroristiche di sinistra operanti, negli anni settanta e ottanta, in America Latina: il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in Nicaragua, i Sendero Luminoso in Perù, l'M-19 e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (note come FARC) in Colombia. Molto spesso, questi movimenti, presentano al loro interno, caratteristiche sia indipendentistiche che rivoluzionarie. Il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale fu un movimento rivoluzionario nicaraguense di ispirazione marxista fondato nel 1961 e che riuscì, con un forte sostegno popolare, nell'offensiva militare finale che, nel 1979, contribuì al definitivo crollo del regime dittatoriale di Anastasio Somoza Debayle. Saliti al potere l'anno seguente, i sandinisti si costituirono come partito politico e instaurarono un governo rivoluzionario riformista. Sendero Luminoso è un'organizzazione terrorista peruviana di ispirazione maoista che, fondata nel 1969 da Abimael Guzmán Reynoso (da una scissione dal Partido Comunista del Perú - Bandera Roja), si propone di sovvertire il sistema politico per l'instaurazione del socialismo attraverso la lotta armata. Inizialmente attivo soprattutto nelle zone andine e specializzato in azioni di guerriglia, il gruppo ha messo a segno diversi attacchi contro le forze governative. Diviso in tre fazioni, in questi anni il movimento ha alternato momenti di tregua con ritorni alla lotta armata. Il 12 settembre 1992, il principale leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, è stato catturato dal Gruppo Speciale di Intelligence della polizia peruviana, in una casa del distretto di Surquillo nella città di Lima. M-19, acronimo di Movimiento 19 de Abril fu un'organizzazione di guerriglia rivoluzionaria di sinistra colombiana molto nota per le sue azioni spettacolari (come ad esempio l'occupazione dell'ambasciata domenicana nel 1980) e per la sua massiccia presenza nelle città. Nonostante le sue divisioni interne, il movimento M-19contribuì ad innalzare il livello di lotta contro il regime dell'allora presidente Belisario Betancur il quale, avvertendo il pericolo imminente dell'avanzata guerrigliera, nel 1984 decise di decretare un'amnistia per tutti i prigionieri politici e di negoziare la tregua con il movimento armato. Dopo anni di guerriglia, nel 1990, l'M-19 consegnò definitivamente le armi e divenne partito politico (Alianza Democrática). Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) sono un'organizzazione guerrigliera comunista e anti-imperialiste colombiana fondata nel 1964. Obiettivo principale del gruppo è quello di rappresentare le classi contadine nella lotta anti-governativa e contro l'influenza statunitense e delle grandi multinazionali nel Paese. Finanziatesi principalmente attraverso i sequestri di persona e la produzione e il commercio di cocaina, a partire dal 2002 le FARC sono state oggetto di una dura repressione militare, condotta per quasi dieci anni dal governo di Alvaro Uribe con l'obiettivo dichiarato di sconfiggere il movimento senza ricorrere ad alcun strumento diplomatico. A queste formazioni vanno aggiunte anche altre organizzazioni terroristico-guerrigliere operanti in America Latina: i' Montoneros (formazione guerrigliera della sinistra peronista) in Argentina; i Tupamaros in Uruguay; il Fronte Patriottico Manuel Rodriguez (sorto nel 1983 come frangia armata del Partito Comunista del Cile) e le Forze Ribelli Popolari Lautaro' in Cile; l'Esercito di Liberazione Nazionale e i guerriglieri Tupac Katari in Bolivia; l'Esercito di Liberazione Nazionale(gruppo ispirato a Che Guevara e a Fidel Castro) in Colombia; l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (per l'autodeterminazione del popolo indios) nella regione messicana del Chiapas; il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru in Perù.

In Italia. L'arco temporale attraverso cui si snoda la vicenda del terrorismo di sinistra, nell'Italia repubblicana, è un periodo che comprende gli anni settanta e la fine degli anni ottanta. Le prime azioni, fatte di attentati dinamitardi all'interno delle fabbriche e sequestri di persona dimostrativi di dirigenti, industriali e magistrati, lasciarono poi il passo ad un'estremizzazione della violenza politica con gli attentati e gli omicidi. Una parabola che vide il suo apice con l'agguato di via Fani ed il sequestro dell'allora presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte delle Brigate Rossenella primavera 1978 (e assassinato dopo 55 giorni di reclusione in una cosiddetta prigione del popolo) e che entrò in crisi, nella seconda metà degli anni ottanta, anche grazie alla promulgazione di leggi speciali dello Stato e grazie soprattutto al fenomeno del pentitismo. Dopo l'omicidio, da parte delle Brigate Rosse, del senatore democristiano Roberto Ruffilli, nel 1988, il fenomeno fu considerato praticamente esaurito e, solo verso la fine degli anni novanta, il Paese fu testimone di una nuova breve stagione di omicidi politici e di lotta armata che si esaurì nuovamente nel 2002 con l'omicidio di Marco Biagi. Complessivamente i morti provocati dalle organizzazioni armate di sinistra in Italia, tra il 1974 e il 2002, ammontano a circa 130.

La nascita della sinistra extraparlamentare. I primi germi che favorirono la nascita dell'eversione e del terrorismo di sinistra in Italia possono essere rintracciati nel periodo di tensione sociale che segnò il finire degli anni sessanta in Italia e che venne in qualche modo alimentato dalla protesta operaia e sindacale e dal movimento di contestazione studentesca che prese poi il nome di sessantotto. Pur non avendo come componente prevalente un progetto rivoluzionario mediante lo strumento della lotta armata, proprio della radicalizzazione successiva, quel movimento ebbe in realtà forme e modalità anche intense di protesta espresse su basi culturali genericamente anti-autoritarie e che, nell'ambito universitario, investiva innanzitutto il potere accademico. La spinta che alimentò quella protesta giovanile, di ispirazione marxista, profondamente incisiva sui costumi sociali di quel tempo, non seppe però trovare, nel nostro Paese, un valido sbocco politico autorappresentativo soprattutto per l'assenza di riferimenti ideologici nei partiti della sinistra istituzionale e quindi, almeno come movimento di massa, perse rapidamente la sua forza propulsiva esaurendosi in un breve e intenso lasso temporale. La fine della protesta studentesca, tra la primavera e l'estate del 1968, ed il fallimento rivoluzionario di quel movimento e delle speranze di un sollevamento proletario e operaio, nella lotta per la trasformazione delle logiche classiste del paese determinò, invero, la nascita di un nuovo fermento culturale ben più radicale ed eversivo del precedente. Dall'esperienza delle lotte negli anni precedenti e dall'incontro tra lavoratori e studenti, nasce così la figura del cosiddetto militante rivoluzionario: una generazione di giovani studenti che decise di proseguire il conflitto al di fuori del contesto studentesco e che si inserì quindi nel più ampio ambito dell'autunno caldo del 1969 e delle lotte operaie per un radicale cambiamento del sistema. Come scrisse Guido Viale: "nasce una figura politica che non lotta per vivere (come invece faranno gli operai), ma che vive per lottare” e che, sul finire del 1969, con la nascita della cosiddetta sinistra extraparlamentare, portò prima ad una estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata vera e propria, che percorrerà senza sosta il quindicennio successivo (1969-1984) dei cosiddetti anni di piombo. Il ricorso alla violenza e alla lotta armata, quindi, giustificata come essenziale grimaldello in grado di generare un vero e proprio impeto rivoluzionario e di scatenare quella protesta sociale contro quelle forze reazionarie borghesi e imperialiste, incluse quelle della sinistra istituzionale (come ad esempio il Partito Comunista Italiano) che in tutti i modi tentò di affrancarsi come avanguardia del processo di rivendicazione e di miglioramento delle condizioni del proletariato, troncando qualsiasi possibilità di riconoscimento, quale soggetto politico, da parte delle formazioni della sinistra extraparlamentare. E se alcune di queste formazioni perseguirono la strada della lotta politico-sociale, rifiutando lo scontro frontale attraverso la scelta armata o, al limite, limitandola alla prassi degli scontri di piazza (Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia operaia, Movimento Lavoratori per il Socialismo, Autonomia Operaia, Lotta Comunista), altri gruppi, invece, optarono per la scelta eversiva e per l'uso della violenza per fini politici. Questo portò ad una stagione di intensa fase repressiva politico-giudiziaria da parte dello Stato che, anche attraverso l'uso di una legislazione speciale, tentò in questo modo di contrastare il crescente fenomeno della lotta armata di sinistra. Il risultato fu una decisa diminuzione delle libertà costituzionali e individuali ed un ampliamento della discrezionalità operativa delle forze dell'ordine.

1977: Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia in via De Amicis a Milano. L'immagine diventerà il simbolo degli anni di piombo, la fotografia è di Paolo Pedrizzetti.

Un giro di vite repressivo che raggiunse poi il suo picco massimo nel 1977, con l'adozione di misure come quella di vietare tutte le manifestazioni pubbliche nella città di Roma. Come ebbe a dichiarare il Ministro dell'interno Cossiga, intervistato sulle violenze in piazza: "Io mi chiedo come si possa pensare che tutta questa violenza serva a qualcosa o a qualcuno. Sia ben chiaro che peraltro non siamo più disposti a sopportarla."

La svolta armata. Due episodi in particolare, che segnarono in diverso modo la fine del 1969, possono forse essere letti come linea di confine tra la protesta sessantottina e l'implosione di quel movimento nella successiva stagione armata[41]: i disordini seguiti allo sciopero generale del 19 novembre 1969, che a Milano determinarono la morte dell'agente di polizia Antonio Annarumma, in servizio durante la manifestazione indetta dall'Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco, e poi la strage di piazza Fontana del 12 dicembre successivo, che provocò 17 morti e oltre 100 feriti e che accelerò la svolta armata a sinistra, tesa a contrastare quel golpe militare ritenuto da molti imminente. Soprattutto la bomba di piazza Fontana, nel quadro di crescente tensione sociale che attraversava l'Italia in quel periodo, determinò la definitiva discesa verso la deriva terroristica, favorendo nuove forme di protesta politica che solo l'azione armata poteva garantire. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione». È l'alba di una stagione politica che sarà contraddistinta da innumerevoli fatti di sangue in nome dell'odio ideologico che trascinò il Paese quasi alle soglie di una guerra civile e che vide contrapporsi, inizialmente, giovani militanti di estrema destra e di estrema sinistra e che poi sfociò, fatalmente, nel terrorismo di matrice politica. E dalle prime azioni di giustizia proletaria dei gruppi operaisti della sinistra extraparlamentare si giunse così rapidamente a maturare in militanti, operai e studenti di estrema sinistra, la scelta terroristica come unico mezzo per disarticolare il sistema Stato-Capitale. « Pur essendovi state ideologie o teorie rivoluzionarie che possano aver agevolato la maturazione di concezioni terroristiche, questo non spiega sufficientemente il salto all’azione armata, perché essa non ha pescato solo nel panorama delle ideologie insurrezionali (che sono state varie: operaismo, luxenburghismo, strategie tese alla disarticolazione dello Stato) e perché non è possibile presupporre che ideologie particolari conducano inevitabilmente al terrorismo, se non concorrono altre cause o contesti, quale una società in forte movimento, come nel biennio 68/69, il mito della violenza, l’acriticità ». Se inizialmente lo spazio d'azione privilegiato dall'eversione armata di sinistra fu, quasi esclusivamente, quello della fabbrica e il nemico da colpire il padrone e, più genericamente, il capitale, intorno al 1973 si registro invece un progressivo abbandono della cosiddetta logica fabbrichista, in favore di un'offensiva diretta verso figure più istituzionali e statuali di maggiore valenza simbolica.

Le sigle. Feltrinelli e i GAP. Il primo tentativo di una proposta rivoluzionaria imperniata sulla lotta armata fu quella dell'editore Giangiacomo Feltrinelli: figlio di un industriale del legno e proveniente da una ricchissima famiglia, nel 1945 Feltrinelli aderì al Partito comunista che provvide anche a sostenere con ingenti contributi finanziari. All'indomani della strage di piazza Fontana, la paura per un imminente colpo di stato neofascista, lo spinse a chiudere i rapporti col PCI e a decidere di iniziare a finanziare i primi gruppi di estrema sinistra. Coinvolto nell'esplosione del padiglione FIAT alla Fiera di Milano del 25 aprile 1969, la magistratura dispose il ritiro del suo passaporto prima di decidere, lui stesso, il passaggio alla clandestinità, nel dicembre 1969 (in realtà non una vera e propria clandestinità, quanto un'uscita dalla scena pubblica). Il suo percorso politico-rivoluzionario lo portò, poco più tardi, nel 1970, a fondare i Gruppi d'Azione Partigiana (GAP), un gruppo paramilitare che richiamava nel nome un'organizzazione militare della Resistenza (i Gruppi di Azione Patriottica). In nome di "una rivoluzione più rivoluzionaria" e allo scopo di alimentare focolai di guerriglia civile, tra l'aprile 1970 e il marzo 1971 misero in atto alcuni attentati dinamitardi a scopo dimostrativo a Genova e Milano. Richiamandosi alla Resistenza come ideale politico tradito dal riformismo e dal seguente sbocco neocapitalistico, il suo progetto principale era quello di un'unificazione dei gruppi armati europei, coordinati con i movimenti rivoluzionari del Terzo mondo. Il suo impulso rivoluzionario, però, non vide mai la luce: il 15 marzo 1972 il suo cadavere dilaniato da un'esplosione fu rinvenuto ai piedi di un traliccio dell'alta tensione presso Segrate (Milano).

Il Gruppo XXII Ottobre. Se si eccettuano gli iniziali tentativi eversivi di Feltrinelli, la prima vera formazione che decise di saltare definitivamente il fosso e di passare all'azione, sin dal 1969, attraverso la scelta della lotta armata, fu il Gruppo XXII Ottobre (che prese il nome dalla sua data di fondazione). Attivi a Genova e composti prevalentemente da operai ed ex partigiani d'impostazione marxista-leninista, si fecero conoscere per una serie di attentati dinamitardi e, soprattutto, per il sequestro di Sergio Gadolla, secondogenito di una delle famiglie più ricche di Genova, del 5 ottobre 1970. Obiettivo del gruppo fu quello di "scardinare i poteri dello Stato".e di provare ad introdurre, nella vita politica italiana, il metodo della guerriglia urbana attraverso attentati dinamitardi, incendi e sabotaggi, nella speranza di un progressivo sostegno popolare alle proprie azioni. Leader del gruppo fu Mario Rossi e ne fecero parte, in tutto, non più di 25 persone, tra cui: Augusto Viel, Rinaldo Fiorani, Giuseppe Battaglia, Adolfo Sanguineti, Gino Piccardo, Diego Vandelli, Aldo De Sciciolo e Cesare Maino. Verranno definitivamente smantellati nella primavera del 1972, in seguito alle indagini sulla rapina di autofinanziamento che, il 26 marzo 1971, vide l'uccisione (da parte di Mario Rossi) del portavalori dell'Istituto Autonomo Case Popolari, Alessandro Floris. L'omicidio Floris segna infatti la fine del gruppo stesso, nel 1972, dopo poco più di un anno di vita: Mario Rossi venne arrestato il giorno stesso e, nei mesi a seguire, gli altri componenti andranno ad ingrossare le file di altre organizzazioni armate, chi nei Gruppi d'Azione Partigiana e chi nelle nascenti Brigate Rosse. L'ultima tappa della storia del gruppo fu la richiesta di liberazione di Rossi e compagni, da parte delle Brigate Rosse, in occasione del sequestro del magistrato Mario Sossi (che era stato il pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre) e come prezzo richiesto per la liberazione dell'ostaggio. La richiesta non venne mai accolta per l'opposizione del procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco (che per questo verrà poi assassinato a Genova l'8 giugno 1976, dalle stesse BR[58]), ma venne comunque letta come una sorta di condivisione di un percorso politico e strategico comune tra il gruppo e le prime BR e che autorizzava a ricondurre queste ultime nel solco politico ideologico che il Gruppo XXII Ottobre avevano appena tracciato.

Il Collettivo Politico Metropolitano. Alla lotta armata, sempre nel 1969, andavano pervenendo anche altri gruppi come il Collettivo Politico Metropolitano che proprio nel settembre di quell'anno nasce a Milano con l'obiettivo di mettere insieme le diverse forze che animavano l'area della sinistra extraparlamentare milanese di quegli anni. Formato da elementi provenienti da alcuni gruppi di fabbrica (CUB Pirelli, GdS Sit-Siemens, GdS IBM), come Mario Moretti e Corrado Alunni, e da altri soggetti, provenienti dal movimento studentesco (come Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol), piuttosto che dissidenti del PCI o della FGCI (come Alberto Franceschini). Il gruppo, che prese in affitto un vecchio teatro milanese in disuso nelle vicinanze di Porta Romana, nel complesso poteva contare solo su poche decine di militanti. Non esiste una data ufficiale di nascita del CPM ma, uno degli atti di definizione del collettivo, risale all'8 settembre 1969, giorno in cui fu preparato un bollettino ad uso interno dei militanti, redatto dai singoli comitati di azienda di Torino, Milano, che definiva il nascente gruppo quale strumento per predisporre "le strutture di lavoro indispensabili a impugnare in modo non individuale l'esigenza-problema dell'organizzazione rivoluzionaria della metropoli e dei suoi contenuti (ad esempio democrazia diretta, violenza rivoluzionaria ecc.)". Pur non avendo mai di fatto compiuto azioni armate, l'esperienza del Collettivo Politico Metropolitano, riveste un'importanza politica e strategica fondamentale nella ricostruzione delle sigle che contribuirono a formare l'arcipelago delle organizzazioni terroristiche di sinistra. Il CPM, infatti, può essere considerato come il nucleo iniziale che, attraverso varie trasformazioni, darà poi vita al progetto del gruppo terroristico di sinistra più importante nell'Italia del secondo dopoguerra, quello delle Brigate Rosse. La scelta di passare alla lotta armata in clandestinità venne discussa per la prima volta nel novembre del 1969, in un convegno del Collettivo tenutosi all'Hotel Stella Maris di Chiavari e a cui parteciparono «essenzialmente marxisti-leninisti e cattolici progressisti (o cattolici del dissenso), i primi delusi dalla svolta moderata e dalla conseguente rinuncia alla rivoluzione dei partiti della sinistra storica, Partito comunista in testa, i secondi convinti che fosse necessario un maggiore impegno per modificare l'assetto sociale».Al termine dei lavori, il 4 novembre, venne redatto un documento finale (il cosiddetto libretto giallo) intitolato Lotta sociale e organizzazione nelle metropoli[62] e in cui si individua la lotta popolare violenta come l'unica risposta adeguata alla repressione attuata dalla borghesia. «Ogni alternativa proletaria al potere è, fin dall’inizio, politico-militare. La lotta armata è la via principale della lotta di classe. La città è il cuore del sistema, il centro organizzativo dello sfruttamento economico-politico. Deve diventare per l’avversario un terreno infido». (Lotta sociale e organizzazione nelle metropoli). In quel convegno, i promotori della svolta armata, furono comunque in minoranza e decisero quindi di separarsi dal Collettivo Politico Metropolitano per confluire in Sinistra Proletaria. Fondata, tra gli altri, da Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, la storia di SP fu di fatto molto breve: iniziata nel dicembre 1969, si concluse nell'estate dell'anno successivo e servì soprattutto da ponte fra l'esperienza del Collettivo ed il passaggio, nel 1970, alle Brigate Rosse.

Le Brigate Rosse. Quella che fu l'organizzazione terroristica di estrema sinistra più nota, numerosa e longeva dell'Italia del secondo dopoguerra, nacque, nell'agosto del 1970, in coincidenza con il Convegno di Pecorile (Reggio Emilia) che segna la definitiva fine dell'esperienza politica di Sinistra Proletaria e in cui Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, assieme ad altri militanti (tra cui Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene), sanciscono il loro definitivo passaggio alla clandestinità e alla lotta armata, attraverso la nascita delle Brigate Rosse. A livello ideologico, la prospettiva del movimento, si inseriva in un contesto più ampio (tipico di diverse formazioni armate di sinistra di quel periodo) che riteneva non conclusa la fase della Resistenza[64] all'occupazione nazifascista dell'immediato dopoguerra e che, secondo la loro visione, era stata sostituita da una più subdola occupazione economico-imperialista delle multinazionali. Un meccanismo a cui, secondo i terroristi, bisognava rispondere attraverso la lotta armata, per poter scardinare i rapporti di repressione dello Stato e fornire lo spazio di azione necessario allo sviluppo di un processo insurrezionale del proletariato.

1970-1973: la propaganda armata. «Il progetto, detto in due parole, era questo: prima fase, la propaganda armata. Bisognava far capire che in Italia c'era bisogno della lotta armata e che l'organizzazione era lì per farla. Infatti nei primi tempi il problema non era che si parlasse bene delle Brigate Rosse, ma che se ne parlasse. Seconda fase, quella dell'appoggio armato. Un numero sempre maggiore di persone, capito che l'unico sistema di cambiare era la lotta armata, si sarebbe unito a noi. Terza fase, la guerra civile e la vittoria». (Patrizio Peci da Io, l'infame). La prima azione del gruppo risale al 17 settembre 1970, con l'incendio dell'automobile del dirigente della Sit-Siemens, Giuseppe Leoni. Tutta l'iniziale fase di propaganda armata, tra il 1970 e il 1974, vide comunque le neonate BR agire prevalentemente in piccoli gruppi, operanti all'interno delle fabbriche e in modo spesso clandestino. Le prime iniziative furono perlopiù di natura dimostrativa: attentati incendiari, sabotaggi e brevi sequestri di persona, a scopo dimostrativo, di quadri e dirigenti aziendali e della durata di qualche ora o di pochi giorni (come quello di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, nel marzo 1972, o di Ettore Amerio, capo del personale FIAT, nel dicembre 1973). A livello organizzativo, sempre nel 1972, venne formato il primo esecutivo (formato da Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti e Pierino Morlacchi) e la costituzione (a Milano e a Torino) di due colonne, ognuna delle quali composta da più brigate formate da militanti, operanti all'interno delle fabbriche e dei quartieri. Fu anche decisa la distinzione tra forze regolari (i militanti clandestini) e le forze irregolari (militanti organici ma senza essere clandestini). Un modello che venne in seguito sempre più affinato attraverso una struttura paramilitare, compartimentata e organizzata in colonne e cellule e coordinata da una comune Direzione strategica.

1974-1980: l'attacco al cuore dello Stato. L'azione terroristica, in questa seconda fase, andò sempre più spostandosi verso simboli e rappresentanti del potere politico, economico e sociale. Furono gli anni del cosiddetto attacco al cuore dello Stato, caratterizzati da un'escalation di situazioni criminose con omicidi, attentati e rapimenti nei confronti di politici, magistrati, forze dell'ordine, giornalisti, industriali, dirigenti di fabbrica e sindacalisti. La prima azione rilevante fu il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi, già Pubblico ministero nel processo contro il Gruppo XXII Ottobre, sequestrato a Genova, il 18 aprile del 1974. Tenuto prigioniero in un villa vicino Tortona, Sossi fu sottoposto ad un processo proletario dai brigatisti che, in cambio della sua liberazione, chiesero la scarcerazione di otto militanti della XXII Ottobre. Alla fine il giudice venne però rilasciato senza alcuna contropartita.

L'agguato di via Fani. La risposta dello Stato non si fece attendere, con una serie di contromisure appositamente costituite per la lotta al terrorismo politico: l'istituzione delle carceri speciali per i detenuti politici, la legge Reale, che assegnava alla polizia poteri eccezionali nella prevenzione al terrorismo e la costituzione di un nucleo speciale dei Carabinieri, comandato del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Il 1974 fu anche l'anno dei primi arresti: l'8 settembre, le forze speciali di Dalla Chiesa, misero a segno la cattura dei due capi storici del gruppo, Curcio e Franceschini, arrestati grazie alle informazioni del pentito Silvano Girotto. Renato Curcio venne liberato nel febbraio 1975 da un nucleo di brigatisti guidato da Margherita Cagol, ma la sua seconda clandestinità terminò il 18 gennaio 1976 quando venne arrestato di nuovo a Milano dagli uomini del generale Dalla Chiesa; il 5 giugno 1975 la Cagol invece era rimasta uccisa in un conflitto a fuoco con i carabineri durante il fallito sequestro Gancia. Nonostante queste sconfitte, nel biennio 1975-1976, le azioni delle BR, si moltiplicarono: il 15 maggio 1975 venne gambizzato il consigliere comunale della DC milanese, Massimo De Carolis e, sempre in quegl'anni, diversi agenti perirono negli scontri a fuoco con i brigatisti: il carabiniere Giovanni d'Alfonso (4 giugno 1975), il maresciallo Felice Maritano (15 ottobre 1974), l'appuntato di Polizia Antonio Niedda (4 settembre 1975), il vice questore Francesco Cusano (11 settembre 1976) e i sottoufficiali della Polizia, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani (15 dicembre 1976).

Aldo Moro sequestrato dalle Brigate Rosse. A partire dall'omicidio l'8 giugno 1976 del giudice Francesco Coco e della sua scorta, le Brigate Rosse, sotto la direzione principalmente di Mario Moretti, accrebbero la loro forza numerica e organizzativa. Nel periodo 1977-1980, gli attentati, aumentarono in maniera esponenziale: alla fine del 1978 se ne conteranno 230, con 42 morti e 43 feriti. Tra i più eclatanti: l'omicidio di Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Torino, ucciso il 28 aprile 1977, quello del giornalista de La Stampa, Carlo Casalegno (16 novembre 1977), quello del maresciallo Rosario Berardi, quello del commissario Antonio Esposito, e quello di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (12 febbraio 1980). Ma il vero "attacco al cuore dello Stato" fu portato il 16 marzo 1978, con l'agguato di via Fani: il rapimento a Roma del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione dei cinque uomini della sua scorta. Durante i 55 giorni del sequestro, le BR chiesero (ma non ottennero) la liberazione di tredici prigionieri politici come contropartita per la liberazione del politico. La vicenda si concluse il 9 maggio 1978, con il ritrovamento del corpo dell'onorevole Moro in via Caetani, a Roma.

1981-1988: il declino e la dissoluzione. Il sequestro Moro segnò il momento più alto e, contemporaneamente, l'iniziò il processo di declino delle BR: l'efficace reazione dello Stato, le prime divisioni interne all'organizzazione, gli arresti e i processi ma, soprattutto, il nuovo fenomeno del pentitismo, furono tra i fattori che contribuirono alla dissoluzione dell'organizzazione. Il 21 febbraio 1980 furono arrestati, a Torino, Rocco Micaletto e Patrizio Peci, quest'ultimo dirigente della colonna torinese. L'inattesa collaborazione di Peci con i carabinieri, provocò l'improvvisa cattura di centinaia fra dirigenti e militanti brigatisti e una grave crisi organizzativa e politica per il movimento. Il 28 marzo 1980 quattro importanti brigatisti furono uccisi dai carabinieri nel corso della drammatica irruzione di via Fracchia a Genova. Nonostante l'arresto di Mario Moretti il 4 aprile 1981, le Brigate Rosse ripresero la loro azione: il 17 dicembre 1981, rapirono a Verona il generale statunitense James Lee Dozier, che venne poi liberato, a Padova, dai NOCS, le squadre speciali della polizia. Il rapimento Dozier, che nei propositi brigatisti avrebbe dovuto rilanciare l'organizzazione, ne rappresentò, invece, l'inizio della loro fine. Pur se decimate dagli arresti, seguiti alle confessioni di Peci, nella prima metà degli anni ottanta, sotto la guida di Giovanni Senzani, le BR continuarono l'azione contro lo Stato con un numero rilevante di attentati, rapimenti e, soprattutto, omicidi: quello di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio, del direttore del petrolchimico di Marghera, Giuseppe Taliercio (nel 1981), del generale statunitense Leamon Hunt (1984), dell'economista Ezio Tarantelli (1985), dell'ex-sindaco di Firenze Lando Conti (1986), dell generale Licio Giorgieri(1987) e del senatore Roberto Ruffilli (1988). Nel gennaio del 1987, una serie di "lettere aperte" firmate da diversi militanti, sancirono quindi la chiusura unitaria dell'esperienza da parte del nucleo storico delle BR. Tra il giugno e il settembre 1988 venne smantellata anche l'intera ala militarista del movimento, denominata BR-Partito comunista combattente e sorta, nel 1984, da una scissione interna alle BR.

1999-2003: le Nuove BR. Nel 1999, a distanza di undici anni dall'ultimo omicidio del nucleo storico delle Brigate Rosse, quello del senatore democristiano Roberto Ruffilli, un nuovo gruppo armato adottò nuovamente la sigla della stella a cinque punte. Le cosiddette Nuove Brigate Rosse, organizzazione capeggiata da Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, furono protagonisti di una nuova breve stagione di omicidi politici e di lotta armata. Il gruppo terroristico fu responsabile degli omicidi di Massimo D'Antona nel 1999 e di Marco Biagi nel 2002, e venne poi smantellato nel 2003, a seguito degli arresti degli stessi Lioce e Galesi, azione che è costò la vita al sovrintendente della Polfer Emanuele Petri. 

Cronologia delle Organizzazioni armate di sinistra in Italia. Le altre sigle. A partire dal 1970, con la nascita delle BR, le organizzazioni armate di sinistra andranno sempre più moltiplicandosi. Tra le più rilevanti che da lì in poi nasceranno ci furono: i Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, i Proletari Armati per il Comunismo, i Comitati Comunisti Rivoluzionari, le Unità Comuniste Combattenti, le Formazioni Comuniste Combattenti e la Brigata XXVIII marzo. 

1969 – 1978: la politica estera di Aldo Moro ai tempi del terrorismo internazionale, scrive Enrico Malgarotto il 12 aprile 2018 su "socialnews.it". “L’Unione Sovietica mira ad indebolire l’Europa occidentale con una manovra per linee esterne, tentando di separare politicamente da essa il Medio Oriente e l’Africa del Nord. In questo stato di cose si rafforzano i segni di un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa. E’ umano che il popolo americano cominci ad essere stanco di vedere schierati alla difesa dell’Europa occidentale i figli di coloro che la liberarono. Ciò pone, tuttavia, problemi di sicurezza interna e anche di obiettivo politico che noi europei dobbiamo prepararci ad affrontare al più presto.” Questo appunto inedito di Aldo Moro risalente al marzo del 1970 è stato ritrovato nell’archivio di Stato dall’ Avvocato e scrittore Valerio Cutonilli, autore, insieme al Giudice Rosario Priore, di un interessante libro sulla strage di Bologna e sui rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi. La nota, ignorata per oltre 40 anni, si rivela particolarmente significativa se si esamina il contesto in cui è stata vergata e, più ancora, se si comprende la lucida analisi che connota la visione dello Statista sugli equilibri geopolitici dei decenni successivi e sulla stabilità interna di un’Italia ancora provata dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e che si preparava ad affrontare un importante vertice con la Germania, a sostegno della Ostpolitik per l’apertura con i paesi dell’Est.

Tale visione, da qualcuno definita “eretica”, si rivelerà profetica alla luce degli avvenimenti degli anni seguenti. L’allora Ministro degli Esteri Moro, autore di questa annotazione, sapeva bene quale fosse la situazione internazionale tra la fine degli anni sessanta ed il decennio successivo. Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam con ingenti forze militari e risorse. Questa concentrazione di fondi ed energie verso il sud est asiatico aveva portato l’Amministrazione statunitense a rivedere le proprie priorità a svantaggio della tradizionale centralità dell’Europa nella propria pianificazione. Sebbene questo spostamento verso l’estremo oriente della politica estera di Washington fosse stato oggetto di appositi negoziati con la controparte sovietica, i fatti successivi hanno dimostrato che il Cremlino ha approfittato di questa situazione per agire contro l’Europa occidentale ed i suoi alleati. Questo processo sarebbe avvenuto non attraverso un conflitto frontale con la NATO, ma ricorrendo ad una guerra non convenzionale attuata da organizzazioni terroristiche supportate dai Servizi segreti del blocco orientale.

Verso il Lodo Moro: il terrorismo palestinese. In quegli anni faceva la sua comparsa in Europa il fenomeno terroristico dei gruppi palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero sono i nomi delle maggiori formazioni operanti in quegli anni, sebbene la galassia delle unità terroristiche arabe fosse molto più vasta. Sono molti i fatti salienti, tra il 1969 e il 1973, che hanno visto come epicentro l’aeroporto di Roma – Fiumicino e che avrebbero portato il nostro Paese ad imboccare la strada dell’accordo con questi gruppi, ad iniziare dal dirottamento su Damasco di un aereo della TWA in volo da Los Angeles a Tel Aviv (con scalo a Roma) compiuto il 29 agosto 1969 dalla più famosa terrorista dell’organizzazione palestinese, Leila Khaled, cui è seguito l’attentato del 16 giugno 1972 messo in atto con un mangianastri imbottito di tritolo dotato di un timer regalato da due giovani arabi a delle ragazze israeliane conosciute poco prima. Nonostante la deflagrazione dell’ordigno nella stiva durante il volo, l’aereo, non avendo riportato danni, atterrava a Tel Aviv. Il 4 aprile 1974 a Ostia, fuori Roma, due membri dell’organizzazione palestinese venivano fermati e arrestati per detenzione di alcuni missili Strela di costruzione sovietica – facilmente trasportabili – da usare contro un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al durante le fasi di decollo o atterraggio. Il 17 dicembre 1973 a Fiumicino, cinque terroristi lanciavano delle bombe incendiarie all’interno di un aereo della statunitense Pan Am uccidendo trenta passeggeri tra cui quattro italiani. Il gruppo terroristico, poi, prendeva possesso di un velivolo della Lufthansa (la compagnia di bandiera tedesca) costringendo il pilota a decollare. Dopo aver fatto scalo per il rifornimento di carburante ad Atene, il velivolo veniva fatto atterrare a Kuwait City dove, una volta liberati gli ostaggi, le Autorità provvedevano ad arrestare i terroristi, rilasciati, in seguito e posti a disposizione dell’organizzazione terroristica palestinese. Anche i siti industriali sono stati oggetto di attentati da parte di tali organizzazioni arabe come occorso il 3 agosto del 1972 all’oleodotto di Trieste (in concomitanza con un simile attacco avvenuto in quegli anni in Olanda).  

Il Lodo Moro. Di fronte alla portata degli attentati i Paesi europei decisero di entrare in contatto con le formazioni per stringere speciali accordi affinché il proprio territorio fosse escluso da ulteriori attacchi. L’Italia, presumibilmente nel 1972/1973, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, allora retto da Aldo Moro, stringeva un patto – passato alla storia come il Lodo Moro – che concedeva piena libertà alle organizzazioni palestinesi di muoversi nel nostro territorio e ad utilizzarlo come base logistica per azioni in tutta Europa. La controparte avrebbe assicurato che in Italia non ci sarebbero stati altri attentati, ad esclusione delle sedi e dei siti americani ed israeliani presenti nel territorio della penisola. Probabilmente l’autore materiale dell’accordo e’ stato il Servizio segreto italiano: prima il SID, il Servizio informazioni Difesa (organo d’intelligence italiano dal 1965 al 1977) e poi il SISMI – Servizio Informazioni Sicurezza Militare (a partire dal 1978) nella figura del Colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro del Servizio a Beirut, in Libano. L’agente infatti per tutto il periodo di durata del Lodo, aveva provveduto a mantenere i contatti tra Roma e il Medio Oriente sia con le organizzazioni terroristiche sia con gli altri Paesi, in particolare Giordania e Libano, che mal tolleravano la massiccia presenza di organizzazioni palestinesi nel proprio territorio. L’assenza di azioni terroristiche in Italia suggerisce che nel corso degli anni settanta l’accordo tra le parti sia stato sostanzialmente rispettato. Come hanno dimostrato diversi eventi, i terroristi scoperti e arrestati in procinto di progettare attentati nel nostro Paese sono stati liberati e riportati alle loro basi palestinesi anche attraverso la Libia di Mu’ammar Gheddafi, da sempre Padre Protettore di tali organizzazioni, cui forniva campi di addestramento e significativo supporto.

Da Ortona a Bologna: la violazione del Lodo. Nel novembre del 1979 ad Ortona, piccola cittadina abruzzese, i Carabinieri sequestrarono dei missili Strela (lo stesso modello usato dai due arabi a Ostia nel 1974) ad alcuni rappresentanti romani di Autonomia Operaia, movimento della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria in aperta opposizione al Partito Comunista Italiano di quel periodo. Indagando sulla provenienza delle armi, le Autorità Giudiziarie arrestavano a Bologna Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente fuori corso presso l’Ateneo ma, in verità,  membro, in qualità di responsabile della rete logistica in Italia, del gruppo terroristico FPLP e della formazione tedesca Separat di Carlos lo Sciacallo, nome di battaglia di Ilich Ramirez Sanchez, famoso rivoluzionario venezuelano marxista – leninista e filo arabo, autore, con i suoi gruppi, di numerosi attentati in tutta Europa. Fin da subito le poche persone a conoscenza dell’accordo stretto da Moro si rendevano conto che l’arresto di Saleh avrebbe potuto essere considerato dalle formazioni palestinesi come una violazione del Lodo, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Attraverso le informazioni raccolte dal Colonnello Giovannone, cominciavano ad arrivare a Roma i primi segnali d’allarme circa la volontà di compiere un’azione punitiva nei confronti dell’Italia da parte dell’ala più oltranzista dell’organizzazione palestinese. Col passare dei mesi, con la condanna di Saleh, dal Medio Oriente giungeva la notizia che l’eventuale attacco contro il nostro Paese sarebbe avvenuto per mano di elementi esterni al FPLP. Il 2 agosto 1980 una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto della stazione di Bologna esplodeva causando ottanta vittime e il ferimento di circa duecento persone. Per circa trent’anni o più si è voluto associare questa strage alla matrice neofascista nell’ambito della strategia della tensione, tuttavia altri punti di vista, ancorché controversi ed in parte smentiti, porterebbero a puntare il dito contro quel Carlos a capo del gruppo Separat di cui anche lo stesso Saleh faceva parte.  

La spinta dall’est del terrorismo europeo. Le formazioni eversive di estrema sinistra presenti in tutta Europa negli anni settanta e ottanta erano le francesi Action Directe, le tedesche RAF o Rote Armee Fraktion – conosciute anche come Banda Baader – Meinhof dal nome dei due capi storici – e le italiane Brigate Rosse. Questo sistema eversivo europeo occidentale, in coordinamento con quello medio orientale, nella sua fase più matura, era gestito dall’Unione Sovietica. I Servizi segreti di Mosca, quelli cecoslovacchi (Stb) e della Germania orientale (Stasi e Hva) hanno contribuito a supportare il terrorismo rosso di quegli anni. Fin dai primo dopoguerra, la Cecoslovacchia si è sempre dimostrata in prima linea per quanto riguarda le attività clandestine comuniste in occidente. Per approfondire quest’ultimo aspetto è necessario far riferimento a diverse fonti tra cui l’archivio Mitrochin, (il voluminoso dossier sui documenti top secret del kgb che l’ex archivista del Servizio sovietico Vasilij Nikitič Mitrochin ha portato in occidente nei primi anni novanta contribuendo a svelare la fitta rete di legami tra il blocco orientale e l’occidente durante la guerra fredda) ed il libro di Antonio Selvatici “Chi spiava i terroristi? KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa <<comunista>>” Ed. Pendragon, 2010, i quali trattano in modo approfondito le dinamiche con cui gli organi di intelligence d’oltrecortina aiutavano i terroristi. I campi erano stati creati dal Kgb nel 1953 per addestrare anche il personale dell’apparato militare clandestino in seno al PCI, composto soprattutto da ex Partigiani comunisti fuggiti dall’Italia in quanto colpevoli, durante la guerra, di crimini e per questo motivo ricercati dalle Autorità, alle attività di sabotaggio, guerriglia, intercettazione, all’uso delle armi interrate dal Kgb nel nostro Paese (che si aggiungevano a quelle utilizzate dalle formazioni rosse durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra Mondiale e mai restituite agli alleati alla fine del conflitto) e alle comunicazioni radio cifrate. Karlovy Vary è il nome della località nell’ex Cecoslovacchia in cui sorgeva il campo d’addestramento gestito, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non dai Servizi segreti di Praga ma dal Gru, l’organo di intelligence militare di Mosca. La presenza degli 007 sovietici in questi campi potrebbe confermare la tesi secondo cui la stagione degli attentati degli anni settanta e ottanta non fosse solo una manovra politica ma una vera e propria guerra contro l’occidente, combattuta con strumenti ben lontani dal concetto tradizionale di conflitto. Nel 1974, dopo l’arresto, da parte dei Carabinieri di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR ma completamente slegati ed autonomi dalle trame politiche di Mosca e Praga, il Servizio segreto cecoslovacco incrementò la propria presenza a fianco del movimento eversivo. I vertici del PCI erano a conoscenza di questi legami “pericolosi” tra est e ovest al punto che il segretario del partito Enrico Berlinguer inviava, nel 1975, una delegazione a Praga guidata da Salvatore Cacciapuoti, in qualità di responsabile agli affari internazionali del PC, per conoscere quanti e chi fossero gli italiani addestrati in Cecoslovacchia. Dalle Autorità slave solo silenzio (probabilmente dovuto alla volontà di non trattare l’argomento con elementi esterni o perché, come effettivamente è stato, i Servizi cecoslovacchi non avevano alcuna autorità su questi campi) e una vaga promessa di inviare a Roma una relazione in merito. L’invio della delegazione è dovuto al fatto che il PCI, soprattutto a partire dal 1974, cominciava a considerare la questione terrorismo rosso con molta preoccupazione, soprattutto perché era a conoscenza che elementi interni al partito continuavano a collaborare alle attività clandestine comuniste d’oltrecortina e che l’unica soluzione per contribuire a fermare l’ondata eversiva che stava colpendo l’Italia (e forse anche per scongiurare eventuali situazioni di imbarazzo politico) era collaborare con le Forze dell’Ordine, in particolare con la Sezione antiterrorismo dei Carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Contatti tra le Brigate Rosse e l’FPLP. Le Brigate Rosse godevano anche del supporto delle formazioni palestinesi, le quali mettevano a disposizione dei terroristi italiani i campi di addestramento del Libano, Yemen, Siria e Iraq mentre, come in una sorta di scambio, le BR custodivano le armi che i terroristi arabi portavano in Italia per colpire gli obiettivi israeliani e statunitensi presenti nel nostro Paese. Questi contatti erano avvenuti durante gli anni settanta proprio quando, come già detto, i Servizi segreti italiani stringevano con il Fronte Popolare di Liberazione delle Palestina (FPLP) di George Habbash il Lodo Moro. Come riportato dalla Stampa, citando le carte della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, già a partire dal 1976 i Vertici del FPLP cominciavano una rivoluzione all’interno delle varie sigle arabe a causa delle diverse vedute circa la richiesta di Mosca di por fine ai dirottamenti aerei e cominciavano a diffidare delle BR. Inoltre i vertici arabi volevano mantenere, a tutti i costi, la parola data al Governo Italiano attraverso il Lodo risparmiando la penisola da ogni tipo di attacco. Il già citato Colonnello Giovannone, il capo centro del SID/SISMI in Libano, veniva informato dal suo omologo palestinese circa i piani eversivi delle BR in Italia. L’ultima nota inviata a Roma dall’Ufficiale del Servizio risaliva al 18 febbraio 1978 e diceva:”[…] Mio abituale interlocutore rappresentante Habbash, incontrato stamattina, ha vivamente consigliatomi non allontanarmi da Beirut, in considerazione eventualità di dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. Alle mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore ha assicuratomi che opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristi del genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario, elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte delle nostre Autorità.” A distanza di circa un mese dalla ricezione di questo telegramma da parte del governo italiano, l’Onorevole Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse. Con la morte dello statista si concludeva quello che può essere definito “Il decennio di Aldo Moro”, iniziato nel 1969 in qualità di Ministro degli Esteri e terminato nel 1978 da presidente della Democrazia Cristiana con il suo assassinio.

Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le propietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.

Caso Moro. I brigatisti rossi? Figli dell’Italia dell’odio antifascista e resistenziale, scrive il 19 marzo 2018 Mario Bozzi su Barbadillo e Secolo d’Italia. Il quarantesimo anniversario del massacro di Via Fani, con il sequestro di Aldo Moro, leader della Dc, da parte delle Brigate Rosse, ha confermato, oggi come ieri, un oggettivo ritardo culturale nell’interpretazione delle cause della stagione del terrorismo. A leggere certe ricostruzioni si ha quasi l’impressione che gli autori del massacro della scorta e del rapimento fossero venuti da un altro pianeta e non fossero invece i figli legittimi dell’Italia dell’epoca, di ben chiare ascendenze storiche e ideologiche. Al di là dei “misteri insoluti”, su cui ci si è soffermati nelle diverse ricostruzioni offerte in questi giorni (il numero dei partecipanti all’azione, il luogo della prigionia, i “depistaggi”, il ruolo di soggetti stranieri, ecc…) esistono alcuni fattori “certi” che erano alla base del sequestro Moro e dell’esperienza terroristica del decennio settanta.

Ascendenze e connivenze culturali. A legittimare ideologicamente l’operato dei terroristi era la visione dello Stato-nemico, prodotto dell’antagonismo di classe e strumento di sfruttamento della classe oppressa (Lenin), ed il nuovo radicalismo marxista-leninista, frutto delle esperienze guerrigliere in America Latina e nel Vietnam. La “visione” era in fondo simile a quella dei Partiti Comunisti “legalitari” (l’instaurazione della “dittatura del proletariato”), diversa la strada per raggiungere il potere. A difendere questo quadro d’assieme è il sostanziale asservimento della cultura italiana alla logica egemonica di stampo gramsciano, ma fatta propria da Togliatti.  Riviste, case editrici, università sono state il “brodo di coltura” di questa doppia verità: in apparenza pluralista ed aperta al dialogo, in realtà alimentata dalle aspettative rivoluzionarie di stampo marxista-leninista: “I filosofi hanno soltanto ‘interpretato’ variamente il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’” (Marx). “Il terrorismo è una forma di azione militare che può essere utilmente applicata o addirittura rivelarsi essenziale in certi momenti della battaglia” (Lenin).

La continuità antifascista. L’appello  mitico alla Resistenza non è solo dettato dal cosiddetto “pericolo stragista”, quanto soprattutto dall’idea di una rivoluzione antifascista incompiuta e  di un suo ulteriore sviluppo  sulla strada della liberazione socialista dallo sfruttamento e dall’ oppressione capitalista, fino al passaggio – segnalato da Alberto Franceschini, cofondatore, con Renato Curcio, delle Brigate Rosse – delle armi usate durante la Resistenza ai “nuovi partigiani”: un passaggio reale e simbolico, che, durante gli Anni Cinquanta-Sessanta,  era stato ideologicamente  rappresentato  – all’interno del Partito Comunista – da Pietro Secchia, vicesegretario del partito dal 1948 al 1958,   e poi da Pietro Longo, segretario dal 1964 al 1972,  il quale, ancora nel 1970, arriva a scrivere (su “l’Unità”) di una “nuova Resistenza”, in grado di realizzare nel nostro paese  “ … una nuova decisiva avanzata democratica, liberandolo da ogni subordinazione all’imperialismo americano, dalla arretratezza e dalla miseria”.

L’ambiguità politica. Sia la Dc che il Partito Comunista hanno giocato per anni sulla politica degli “opposti estremisti”, dei “compagni che sbagliano”, delle “sedicenti Brigate Rosse”, favorendo così la crescita del terrorismo armato, che non a caso  – secondo una coerente  logica “antifascista” – aveva iniziato colpendo un sindacalista della Cisnal (Bruno Labate, sequestrato il 12 febbraio 1973, a Torino e sottoposto ad un “processo proletario”) e  due  militanti missini (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi durante l’ assalto delle Br alla sede del Msi di Padova nel  giugno 1974). C’è una complicità (morale) e una sottovalutazione (politica) dietro l’emergere delle Brigate Rosse, che chiamano in causa la principale forza di governo dell’epoca ed il maggiore partito comunista dell’occidente. Ad unirli non c’era solo la strategia del “compromesso storico” quanto l’idea di un possibile abbraccio tra cattolicesimo e marxismo, ben analizzato da Augusto Del Noce, il quale all’epoca denunciava il cosiddetto “progressismo cristiano”, autentica quinta colonna nel campo cattolico e moderato, culturalmente disarmato e quindi pronto a qualsiasi compromesso. Il “trauma” provocato dal sequestro di Moro (1978) e poi dall’assassinio (1979) dell’operaio comunista Guido Rossa da parte delle Br, obbligherà sia la Dc che il Pci a superare la fase dell’ambiguità politica per cogliere i tratti reali del fenomeno terroristico nel nostro paese. Ma fu certamente una presa d’atto tardiva, visti i grandi costi umani degli “anni di piombo”. Su un manifesto, che all’epoca fece scalpore, diffuso dal Fronte della Gioventù, c’era scritto “Moro: chi semina vento raccoglie tempesta”. Dopo quarant’anni – al di là di ogni retorica rievocazione – anche da lì bisogna partire per cogliere il senso di quella stagione, pervasa dall’odio ideologico e dalla tempesta che ne seguì e che travolse tutta l’Italia, con la sua lunga striscia di sangue. Per fissarne le responsabilità reali. Per non dimenticare.

40 anni fa: poteri occulti e lunga scia di sangue, scrive il 16 marzo 1978 Valter Vecellio su “la Voce dell'isola". Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? È materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia. 16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi. Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica.

Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni. Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti.

La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti, oltre 200 feriti: per la magistratura la firma è della destra estrema.

1980, strage di Bologna. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.

La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente. Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine. Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale. Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. È lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti. C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS. Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.

Primavalle, il rogo e i depistaggi. Così la sinistra perse l’innocenza. I due figli del «fascista Mattei» furono uccisi una seconda volta dalla campagna di veleni e dall’indifferenza con cui l’omicidio fu trattato da un vasto fronte politico, scrive Pierluigi Battista il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Oggi Stefano Mattei, arso vivo in un delitto politico che si consumò la notte del 16 aprile 1973, avrebbe 55 anni. Suo fratello Virgilio, invece, ne avrebbe 67. Morirono tutti e due nell’incendio che, appiccato da un manipolo di delinquenti politici, stava divorando la piccola casa popolare in cui vivevano con tutta la famiglia. Una fotografia scattata quella notte di esattamente quarantacinque anni fa, dalla strada ritrae Virgilio carbonizzato dalle ustioni, che cerca inutilmente di gettarsi dalla finestra. Nella foto non si vede invece il piccolo Stefano, che in quel momento se ne sta avvinghiato alle gambe del fratello grande che non era riuscito a salvarlo. Due morti vittime dell’odio politico. Due vittime dell’indifferenza con cui la cultura democratica e progressista aveva reagito all’assassinio così orrendo che aveva colpito dei ragazzi colpevoli solo di essere figli di un fascista.

I responsabili. La vicenda giudiziaria è stata lunga, complessa, ma ormai nessuno più dubita dell’identità dei responsabili. Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, militanti di Potere Operaio, sono stati condannati come esecutori materiali di quel delitto. Sono riparati all’estero anche grazie all’aiuto di una sinistra che, come Dario Fo e Franca Rame, è stata talmente trascinata dall’odio ideologico contraffatto con le parole dell’antifascismo da considerare veniale la morte di un bambino e di un ragazzo nel rogo di Primavalle, il luogo dove la giovane sinistra uscita dal Sessantotto perse la sua innocenza. La casa dove abitavano i fratelli Mattei, era un appartamento a Primavalle di appena 40 metri quadri, al terzo piano della Scala D, lotto 15, in uno dei più famosi quartieri proletari di Roma. Ci abitavano in otto in quella casa di 40 metri quadri del «fascista Mattei», che poi era Mario Mattei, segretario della sezione «Giarabub» del Movimento Sociale Italiano: i genitori e sei figli, Stefano, Virgilio, Giampaolo, Antonella, Lucia e Silvia.

L’incendio. Quella notte terribile, mentre tutta la famiglia dormiva, gli assassini si misero in fretta a cospargere di benzina il pianerottolo al terzo piano, davanti alla porta e a far filtrare il combustibile con un piano inclinato, lasciare l’innesco e scappare. Probabile che quel gesto criminale volesse essere un irresponsabile gesto dimostrativo, i rampolli della borghesia di sinistra romana forse non avevano nemmeno idea di cosa fosse una casa di appena 40 metri quadri abitata da otto persone. Fatto sta che l’innesco esplose, la benzina prese fuoco e in un battibaleno bruciò l’intero appartamento del «fascista Mattei», i mobili, i letti, l’armadio, i vestiti, persino i pigiami dei bambini. Mario e la moglie spaccarono i vetri delle finestre e aiutarono i ragazzi a buttarsi nel vuoto. Ce la fecero tutti, sia pur con ustioni e fratture. Tranne due: Virgilio, 22 anni, che si era attardato per salvare il fratellino, e appunto Stefano, 10 anni, bruciato vivo in quello che passerà alla storia come il «rogo di Primavalle».

Disinformazione. Ma l’Italia non rimase sgomenta e interdetta per la fine così orribile di un bambino, il figlio di un fascista non meritevole di pietà e cordoglio sincero. Cominciò invece una campagna di disinformazione e di depistaggio, partita dall’estrema sinistra ma appoggiata dagli organi tradizionali della stampa e della televisione, per cancellare la vera matrice politica di quel misfatto. Stefano e Virgilio furono uccisi una seconda volta da titoli oltraggiosi e insensati che servivano a colpevolizzare le vittime e a scagionare politicamente e materialmente i responsabili del delitto. Si urlò al «regolamento dei conti tra i neri», si delirava di una «faida tra fascisti», si farneticava di una «provocazione fascista che arriva al punto di uccidere i propri figli»: ma a queste farneticazioni vollero credere in tanti, purtroppo non solo nell’estremismo di sinistra, ma anche negli ambienti rispettabili dell’establishment antifascista. Si faceva pure dell’ironia sulla fiamma «assassina» che sarebbe stata una «fiamma tricolore», come il simbolo del Msi in cui militava il «fascista Mattei». Partirono i cortei con gli slogan per «Lollo libero». Il padre di uno dei tre indagati venne raggiunto da una lettera aperta scritta da alcuni dei più accreditati esponenti della sinistra in cui si suggeriva il blasfemo paragone tra il carcere in cui era rinchiuso il figlio e un campo di concentramento nazista.

Odio ideologico. Per questa velenosa campagna di disinformazione, di odio ideologico, di disprezzo per le vittime, di cinica indifferenza per la morte di un bambino bruciato vivo nessuno ha chiesto veramente scusa. E in quella assurda campagna di auto innocentizzazione insincera davvero una parte della sinistra ha perduto la sua innocenza morale e politica. Sono passati quarantacinque anni e quella vicenda terribile è quasi dimenticata, derubricata a uno dei tanti episodi di cieca violenza politica degli anni Settanta. Ma fu molto peggio. E a distanza di tanto tempo facciamo ancora fatica a rendercene conto.

La bugia rossa su Primavalle che coprì i compagni assassini. Un commando Potop incendiò la casa di un missino: morirono due ragazzi. La verità emerse solo anni dopo, scrive Stenio Solinas, Giovedì 19/04/2018, su "Il Giornale". La via si chiamava Bernardo di Bibbiena, il numero civico era il 33, l'appartamento popolare era all'interno cinque della scala D del lotto 15, il quartiere era quello di Primavalle. Ci abitava una famiglia proletaria e fascista, i Mattei, madre, padre e cinque figli. Una tanica, una miccia, alcuni litri di benzina trasformarono il 16 aprile del 1973 la casa in un forno crematorio in cui arsero vivi Virgilio Mattei, 22 anni, e suo fratello Stefano, dieci anni. Gli altri si salvarono, chi miracolosamente scappando dalla porta prima che fiamme e fumo rendessero mortale l'uscita, chi gettandosi dalle finestre: ustionati, fratturati, ma vivi. Il rogo e la tentata strage hanno una firma, con tanto di rivendicazione: «Brigata Tanas Guerra di classe - Morte ai fascisti - la sede del Msi Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria». Era talmente mirata e giusta quella giustizia che storpiava persino il nome di uno dei bersagli: Schiaoncin, braccio destro di Mario Mattei, il capofamiglia segretario della sezione missina Giarabub, è quello vero e il particolare, come vedremo, è significativo. Gli assassini che si nascondono dietro quella sigla si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, tre militanti di Potere operaio, ma, come titolerà Lotta continua a cadaveri appena bruciati, «La provocazione fascista oltre ogni limite è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Quanto al Manifesto: «È un delitto nazista. Fermato un fascista». Quarantacinque anni dopo, di quel rogo tragico e bestiale nella sua stupidità si sa tutto, o quasi. Ma fra il primo processo del 1975, conclusosi con un'assoluzione per insufficienza di prove, e un secondo d'appello che rovescia il verdetto passeranno undici anni e ce ne vorranno ancora venti prima che Lollo, espatriato come gli altri fin da subito, ammetta dal Brasile che sì, quella sera, davanti a quella porta c'erano loro, e non solo loro: erano addirittura in sei, i componenti di un collettivo creato qualche mese prima e dove aspiranti proletari e veri borghesi si davano la mano. C'era Diana Perrone, la figlia di Ferdinando Perrone e la nipote di Sandro Perrone, gli allora proprietari del quotidiano Il Messaggero; c'era Elisabetta Lecco, che poi diverrà un'affermata gallerista; c'era Paolo Gaeta, futuro gestore di enoteche. In quel 2005 in cui verranno tirati in causa, reagiranno, come ha ricordato Luca Telese nel suo Cuori neri, con lo sdegno di classe e di censo che gli è proprio: quel Lollo è un poveraccio, un borgataro, brutto, sporco e cattivo, insomma...

Ora, al di là delle ricorrenze e del giusto omaggio e ricordo verso quelle giovani vite spezzate, verso una famiglia piegata e piagata da ciò che accadde, il Rogo di Primavalle resta emblematico per il clima intellettuale che si creò intorno a esso, la cortina fumogena del falso e della reticenza, la sapiente strategia della menzogna, la rete di solidarietà messa in atto perché alla verità non si giungesse. Potere operaio curò un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si parlava «di un oscuro episodio, nato e sviluppatosi nel verminaio della sezione fascista del quartiere». Come era scritto nell'introduzione, avevano contribuito «alla realizzazione di questa contro-inchiesta un gruppo di giornalisti democratici» e del resto da Alberto Moravia a Dario Bellezza, da Elio Pecora a Ruggero Guarini, la crème dell'intellighentia di sinistra romana dell'epoca, saranno tutti lì ad alzare il calice nella casa di Fregene dei genitori di Lollo al tempo del primo processo. Quarant'anni dopo sarà proprio Guarini (riposi in pace) a raccontare come quel libretto era nato. Ci aveva lavorato lui, capo dei servizi culturali del Messaggero, insieme con due colleghi, un redattore capo e un inviato, aiutando quelli di Potop «a spazzolare stilisticamente un testo che avevano messo in piedi, scritto in un sinistrese indigesto». Lo aveva fatto perché degli amici del Movimento con cui la sera giocava a poker gli avevano detto: «Credi davvero che dei ragazzi colti, intelligenti, preparati come noi, dei marxisti che leggono i Gundrisse di Karl Marx, possano individuare in un povero netturbino, segretario di sezione dell'Msi di Primavalle, un nemico di classe?». Infatti Lollo, Clavo e Grillo, la parte per il tutto potoppino, erano talmente a loro agio con il tedesco dei Gundrisse da non saper nemmeno scrivere correttamente, come abbiamo visto, il nome italiano di uno dei missini da abbattere. Guarini dirà allora che lui all'innocenza di Lollo e compagni ci credeva: peccato non ci credessero proprio gli amici del Movimento andati a chiedere il suo aiuto. In La generazione degli anni perduti, uno di essi, Lanfranco Pace, dirà trent'anni dopo: «Fummo costretti ad assumerne le difese nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c'erano alternative». E ancora: «Non ricordo tanta comprensione né tanta solidale vicinanza come quella volta che predicammo il falso». Superficialità, pressapochismo, arroganza intellettuale, il gusto di civettare con la rivoluzione, senza firmarsi, non si sa mai, ma emotivamente e culturalmente sentendosi militanti dell'Idea, anche questo fu, fra una partita di poker e l'altra, il giornalismo italiano dell'epoca, un correre in aiuto del vincitore senza troppo preoccuparsi se il vinto rimasto morto sul terreno meritasse almeno una pietosa e onorevole sepoltura. È anche per questo che ogniqualvolta sento parlare di controinformazione metto mano al revolver.

LA PROPAGANDA E L'OSSESSIONE ANTIFASCISTA.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Massimo Giletti, la lezione sul fascismo a PiazzaPulita: "Basta parlare di guerre puniche", scrive il 16 Febbraio 2018 Libero Quotidiano". A PiazzaPulita, tra gli ospiti, c'era anche Massimo Giletti, conduttore di La7 al pari di Corrado Formigli, il padrone di casa. E nel programma, ancora una volta, si è a lungo disquisito del presunto pericolo fascista, dell'orda nera immaginaria sbandierata da sinistra in campagna elettorale. Una discussione stucchevole che ha fatto sbottare Giorgia Meloni, presente in studio: "Mi avete rotto le palle". Ma anche Giletti ha mostrato tutto il suo dissenso. Già, perché dopo una domanda alla Meloni proprio sul fascismo, è stato interpellato anche Giletti. Il quale ha esordito così: "Invece di parlare delle guerre puniche...". Insomma, anche per lui il dibattito sul fascismo era surreale e superato. Una lezione a Formigli e compagni.

Giorgia Meloni zittisce Marco Damilano: "Avete rotto le palle col fascismo". Gelo in studio da Corrado Formigli, scrive il 16 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". I sinistra, da mesi, hanno messo in scena la storiella del ritorno immaginario del fascismo, ottimo spauracchio da campagna elettorale. E Marco Damilano, rossissimo direttore de L'Espresso, non può fare altro che cavalcare la storiella dell'onda nera. Lo ha fatto anche a PiazzaPulita di Corrado Formigli, dove era ospite in studio insieme a Giorgia Meloni. E la leader di Fratelli d'Italia, all'ennesima domanda su fascismo e dintorni, ha sbottato: "Se volete farmi ogni volta un esame di storia facciamolo". E ancora: "Non posso mai parlare dei miei programmi perché ogni volta mi chiedete cosa penso del fascismo e delle guerre puniche. Mi sono rotta le palle, ve lo devo dire. Voglio parlare dei miei programmi". Infine, ha concluso: "Non ho niente da farmi perdonare, semmai ho dato qualche lezione di democrazia al Pd. Vi prego, possiamo parlare di questo millennio?". Damilano colpito e affondato.

STAZZEMA. Nasce l'anagrafe virtuale antifascista ed è boom delle adesioni online. Dopo aver lanciato la Carta dei valori, il comune teatro dell'eccidio del 1944 (560 vittime) apre anche le iscrizioni online, scrive Marco Gasperetti il 30 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Il comune virtuale antifascista cresce minuto dopo minuto da quando l'amministrazione di Stazzema, simbolo della repressione nazi-fascista e teatro dell'eccidio del 12 agosto nel 1944 durante il quale nella frazione di Sant'Anna i massacratori delle SS, accompagnati da alcuni repubblichini italiani, sterminarono 560 persone, donne, vecchi, bambini e persino un neonato di venti giorni. Dopo aver lanciato l'iniziativa, il comune toscano ha ricevuto migliaia di adesioni che adesso con la possibilità di iscriversi via web stanno aumentando vertiginosamente. In poche ore le iscrizioni sono state migliaia e in questo momento stanno sfiorando quota 13 mila. E' stata anche sottoscritta una Carta nella quale sono elencati i valori dell'antifascismo e soprattutto viene illustrata e lanciata una nuova visione dell'antifascismo includente con alla base il concesso dell'essere per e non essere contro. L'iniziativa del comune di Stazzema è anche "una risposta a quanto sta accadendo intorno a noi, per non restare indifferenti - si legge in una nota - perché si riaffacciano simboli, parole, atteggiamenti, gesti ed ideologie che dovrebbero appartenere al passato e si fanno largo sentimenti generalizzati di sfiducia, insofferenza, rabbia, che si traducono in atteggiamenti e azioni di intolleranza, discriminazione, violenza verbale".  Secondo il sindaco di Stazzema, Maurizio Verona, "sottoscrivere la Carta ed aderire all'Anagrafe significa prendersi un impegno per la democrazia e a sostegno dei valori della nostra Costituzione".

L'ultima trovata dei partigiani moderni: l'anagrafe antifascista. A Stazzema il sindaco vara il "registro" per chi rigetta nostalgie del passato: è polemica, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". Di antifascista, a Stazzema, c'è Stazzema. Chi visita Sant'Anna e il Parco della Pace ci va per non dimenticare quella strage nazifascista, l'eccidio di 560 persone avvenuto il 12 agosto del 1944, una pagina infame della nostra storia, sporca del sangue di uomini, donne e bambini innocenti. Ora, però, per iniziativa del sindaco del comune toscano, Maurizio Verona, Stazzema varerà un'«anagrafe antifascista». Una sorta di comune virtuale al quale potrà iscriversi chi condivide i principi elencati in una carta, al momento ancora in via di redazione. Oltre la costituzione, oltre gli statuti comunali, oltre la stessa accettazione delle regole democratiche su cui è fondata la nostra Repubblica. Ce n'è bisogno? Secondo il primo cittadino sì: l'anagrafe antifascista è una risposta ai casi di «ritorno in auge di simboli e ideologie che dovrebbero appartenere al passato». E l'iniziativa, giura, «non vuole escludere qualcuno» ma unire, e «difendere le minoranze». Peccato che l'iniziativa sia fatta anche per escludere, visto che le associazioni che vorranno manifestare sul territorio del comune, dopo il varo dell'Anagrafe antifascista, dovranno dimostrare di essersi iscritte oppure nisba. Che fa un po' a pugni con lo scopo dichiarato, «impegnarsi per la libertà di tutti di esprimere il proprio pensiero». Insomma, lo scontro sulle nostalgie vere o presunte, sui «rigurgiti fascisti», sulla guerra ai simboli del Ventennio, passata dalle parole della Boldrini contro i monumenti alla legge Fiano, fino ai blitz dei naziskin comaschi e alle bandiere del Secondo Reich fotografate in caserma a Firenze non accenna a placarsi. E purtroppo un luogo della memoria diventa l'occasione per rilanciare una polemica che divide. E che non nasce certo nel piccolo comune in provincia di Lucca. Già la scorsa settimana, infatti, Firenze aveva per esempio approvato il «patentino antifascista». E modificato il proprio statuto per rimarcare che «il Comune opera contrastando l'ideologia nazifascista», come se non bastasse, appunto, la Costituzione. Un patentino che dividerà «buoni» da «cattivi», perché, stando a un emendamento approvato, «chiunque intenderà organizzare un'iniziativa su area pubblica dovrà farlo nel rispetto dei principi dello statuto e della Costituzione impegnandosi con una dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall'ordinamento repubblicano». Prima di Stazzema, oltre a Firenze iniziative simili sono state adottate da diverse città, toscane (Siena, Pisa, Prato) e non solo (Bologna, Cuneo, Pavia). Ma la patente per bocciare i pensieri cattivi suona illiberale per molti. Come i consiglieri toscani di opposizione, con Fi e Fdi che definiscono «inutile se non illegittima» l'iniziativa, perché «niente cambia rispetto a quanto prevede la legge italiana sulla libertà di parola». Così, sul caso Stazzema, paradossalmente i primi a evocare la Costituzione non sono i «cittadini antifa doc» che sogna il sindaco, ma i cattivoni di Casapound Versilia. Che ricordano al sindaco come «vietare ed emarginare chi non la pensa come lei va contro i principi della Costituzione. Proprio quella che lei sventola in nome dell'antifascismo ma, che forse, non ha letto e compreso veramente».

La caccia al fascista comincia all'anagrafe: "Sono ben 276 i milanesi di nome Benito". Lombardia Progressista spulcia gli elenchi elettorali: "Risultato inquietante", scrive Luca Fazzo, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". C'è chi vuole demolire i monumenti costruiti nel Ventennio, c'è chi propone di cambiare i nomi alle strade intitolate agli uomini del Regime. E chi si spinge ancora più in là, utilizzando gli elenchi elettorali per lanciare un nuovo allarme sulla recrudescenza fascista: c'è in giro troppa gente che si chiama Benito. Pazienza se in spagnolo Benito vuol dire Benedetto, se un martire con questo nome si festeggia il 23 agosto; e pazienza, sul versante opposto, se a rendere popolare nell'Ottocento il nome fu la luminosa figura di Benito Juarez. Niente da fare. Di Benito per gli indignati dell'anagrafe ce n'è stato uno solo, Mussolini. E che centinaia di milanesi (e verosimilmente qualche migliaio di italiani) si ostinino a chiamarsi come il Duce, senza sentire il dovere civico di correre a farsi sbattezzare, diventa un segno del persistere nel paese di sentimenti antidemocratici. A prendersi la briga di andare a spulciare gli elenchi elettorali di Milano alla ricerca degli omonimi del maestro di Predappio è stato uno dei sostenitori della lista «Lombardia Progressista», l'ala gauchiste dello schieramento che sostiene la candidatura di Giorgio Gori alle prossime elezioni regionali. Come gli sia venuto il ghiribizzo, il fan di Gori non lo spiega. Ma ieri ha pubblicato su Facebook i risultati della sua ricerca, sotto il simbolo della sua lista. «Ho avuto modo di consultare - scrive - l'elenco degli elettori di Milano e ho cercato quelli che avevano Benito" nel nome proprio. Questo è l'inquietante risultato». E via, con l'elenco dettagliato: fortunatamente senza cognomi. Si scopre così che il 4 marzo saranno chiamati alle urne ben 276 milanesi che al momento della nascita sono stati battezzati semplicemente Benito: e va a sapere se per omaggio al Duce, a Juarez, a san Benito o a cos'altro. C'è poi la sfilza dettagliata di quelli che portano Benito insieme ad altri nomi. In alcuni, la scelta ideologica appare difficilmente contestabile: cinque elettori sono stati battezzati Benito Adolfo, e ad uno - perché non ci fossero dubbi - il babbo ha dato come secondo nome Mussolini. Riconducibili alla figura del Duce sono forse anche i due Benito Arnaldo (Arnaldo era il fratello minore del leader) e magari anche i tre Benito Romano. Ma ad affollare la classifica sono una quantità di incolpevoli cittadini, che portano l'odioso marchio solo come secondo, terzo o addirittura quarto nome (esiste un Francesco Gabriele Ferdinando Benito Romano): magari era il nome del nonno. E chi lo porta insieme ad altri protagonisti della storia patria, come il signor Valeriano Benito Nazario Sauro. Ma tutto fa brodo per lanciare la nuova allerta: i fascisti sono tra noi. E si chiamano Benito.

Renzi disperato: va in pellegrinaggio a Stazzema e si iscrive all’anagrafe antifascista, scrive Ezio Miles giovedì 15 febbraio 2018 "Il Secolo D’Italia”. Fino a poco tempo fa, passava per leader “post-ideologico”, per uno cioè che s’era messo alle spalle le mitologie forti del Novecento. Ora però, nel momento più delicato della sua carriera politica, l’ex aspirante statista Matteo Renzi, cambia passo e cambia volto: la svolta antifascista della sinistra ha contagiato anche lui. Con buona pace di qualche suo ingenuo ammiratore di “destra”, il Renzi ammaccato ma sempre ruspante s’è recato in pellegrinaggio oggi a Stazzema dove ha concionato la folla sul valori resistenziali e ha aderito solennemente all' “anagrafe antifascista” ivi concepita e lanciata tra le fanfare mediatiche di mezza Italia. “Post-ideologia” addio? Diciamo che Renzi non vuole lasciare scoperto il fianco sinistro del Pd e punta a riprendersi la scena, che in questi giorni, dopo i fatti di Macerata, gli è stata rubata dagli antifascistissimi Grasso e Boldrini. Ma vediamo che ha detto Renzi a Stazzema: «Noi abbiamo fiducia nelle nostre istituzioni: non siamo qui perchè temiamo che domani torni la dittatura fascista. Non esiste questo rischio. Siamo qui, a ottanta anni dalle leggi razziali, per ricordare che il nostro Paese non è stato innocente ma ha avuto grandi responsabilità».  E poi ha aggiunto contrito: «Abbiamo il dovere della memoria: è fondativa per il futuro. Solo tenendo viva l’attenzione verso l’ideale democratico noi possiamo costruire una prospettiva. Il fascismo appartiene al passato ma sono ideologie che vanno combattute». Di qui il fatidico annuncio: «L’antifascismo è un valore che appartiene a tutti e oggi siamo qua per aderire all’anagrafe di coloro che dicono no al nazifascismo: è il male assoluto».  Ma, insomma, il fascismo può “tornare” o no? E, se no, perché evocarne continuamente la “minacciosa” presenza? Renzi non chiarisce il dubbio. Non gli conviene. Un manciata di voti in più val bene un’incoerenza. Ma è proprio sicuro, Renzi, che l’antifascismo sia oggi un tema elettoralmente efficace?

Sinistra, imbecillità senza limiti: istituita l'anagrafe antifascista. Lampi del pensiero di Diego Fusaro: hanno istituito l'Anagrafe antifascista. Imbecillità senza limiti. Scrive Diego Fusaro Venerdì, 16 febbraio 2018, su Affari Italiani. Hanno istituito l'Anagrafe antifascista. Imbecillità senza limiti. L’ho detto e lo ridico. Il benemerito ed eroico antifascismo di Gramsci era patriottico, anticapitalista e in presenza reale di fascismo. L’antifascismo patetico e vile odierno delle sinistre è globalista, ultracapitalista e in assenza totale di fascismo.

Aderite all'anagrafe anticomunista. Ecco la nostra risposta alla farsa antifascista, scrive Marcello Veneziani il 15 Febbraio 2018 su "Il Tempo". Italiani, aderite compatti all'anagrafe nazionale anticomunista. Diventate cittadini onorari di Fiume e di Porzus, dell'Istria e della Dalmazia, del Triangolo rosso dell'Emilia e di mille altri luoghi in cui il comunismo ha lasciato vittime. Diventate cittadini onorari dei tanti luoghi in cui le Brigate rosse e le altre formazioni terroristiche hanno ucciso borghesi e proletari, ragazzi e militanti di destra, magistrati e politici, giornalisti, professori e casalinghe nel nome del comunismo. E mi limito all'Italia perché se dovessimo prendere la cittadinanza onoraria di tutti i luoghi della terra in cui il comunismo ha calpestato la vita, i popoli, la libertà e la dignità umana, allora dovremmo diventare cittadini di mezzo mondo, di tre continenti e di non so quanti Paesi oppressi dalla bandiera rossa. L'iniziativa de Il Tempo di indire l'anagrafe nazionale anticomunista è una risposta in rima a Renzi e a tutta la processione antifascista che in pieno 2018, anzi in pieno carnevale elettorale, ha deciso questa grande festa in maschera: l'anagrafe nazionale antifascista, dove tutta la sinistra fa a gara a mostrare il suo volto eroico di sfidare un regime che è morto da più di settant'anni. “Vile, tu uccidi un uomo morto”, diceva Ferrucci a Maramaldo; una tragedia storica che poi mutò in farsa, nel teatrino dei Pupi. Esattamente come sta accadendo con l'antifascismo riesumato al tempo di Pinocchietto Renzi. L'antifascismo ai tempi del fascismo fu una cosa seria, coraggiosa, rispettabile. L'antifascismo 80 anni dopo il fascismo, è un caso patologico di psicosi indotta, è vilipendio di cadavere, è sfruttamento di morti per mantenere il potere... E' ridicolo e patetico che il rottamatore dei padri sia diventato poi il restauratore dei nonni; e abbia liquidato la vecchia sinistra per attaccarsi al vecchissimo antifascismo formato Anpi. O partigiano, portali via...

Perché invece un'anagrafe nazionale anticomunista? Perché il comunismo è il regime totalitario che ha mietuto più vittime di tutti i tempi, in più paesi e in tempi diversi, e con due particolarità efferate: ha ucciso di più in tempo di pace che in tempo di guerra e ha fatto strage soprattutto di connazionali. E ancora. Perché è il regime totalitario che ha retto sul terrore poliziesco e sulla cancellazione di ogni realtà al di fuori del comunismo: nessuno spazio per la religione, per il capitale, per la proprietà privata, per le tradizioni nazionali che restavano in piedi perfino sotto il nazismo. Perché il comunismo è il regime totalitario più vicino al nostro tempo, rimosso pochi anni fa in Unione Sovietica ma ancora imperante nel paese più popoloso del mondo, la Cina. Perché l'ultimo dittatore che è morto non è Mussolini o Hitler, e nemmeno Franco o Pinochet, ma il comunista Fidel Castro. Perché il comunismo è stato una tragedia ovunque abbia governato, senza eccezioni, a dimostrazione che il difetto non era nel singolo regime o dittatore, Stalin, Mao o PolPot, ma nel manico, cioè nel dna del comunismo stesso, nella sua teoria prima ancora che nella sua prassi.

Iscrivetevi all'anagrafe nazionale anticomunista anche per celebrare lo scampato pericolo: quest'anno è il settantesimo anniversario del '48, l'anno in cui l'Italia evitò di diventare una Repubblica Comunista Sovietica con la vittoria del Fronte popolare degli staliniani di casa nostra. Fatelo da patrioti e da europei, da cattolici e da ebrei, da borghesi e da contadini, da missini e da democristiani, da liberali e da socialdemocratici, da monarchici e perfino da anarchici (che furono vittime del comunismo più di ogni altro regime, dalla Spagna alla Russia). Ricordate pure a tutte le femministe che celebrano il voto delle donne, che alle prime elezioni politiche le donne furono determinanti per battere il comunismo e far vincere lo scudo crociato, la libertà, l'Occidente (lo dice uno che non è né democristiano né filoamericano).

Se leggete il testo che sottoscrivono per assumere la cittadinanza antifascista, vi accorgerete che mutando le parole antifasciste in parole anticomuniste, il discorso fila perfino meglio. Tra i vari demeriti che ha questa iniziativa della sinistra italiana per campare sull'antifascismo al tempo delle elezioni (lo ripeto, l'antifascismo è l'ultimo rifugio dei farabutti) ce n'è uno che mi preme ricordare: costringe tutti a una regressione stupida e grottesca al passato più truce. Costringe gente come me a dissotterrare il comunismo; ero uno che non si definiva più anticomunista da una vita - perché si è anti qualcosa in presenza del qualcosa, non in assenza o in memoria – uno che amava dialogare con tutti, comunisti inclusi, uno che distingueva tra l'errore da condannare e gli erranti con cui dialogare, uno che aveva stima e considerazione di gente che si è professata comunista, perché l'ideologia e il giudizio storico-politico non deve mai offuscare la verità dei fatti, il riconoscimento dei meriti, e il rispetto delle persone. E invece, grazie alle comiche finali di questi antifascisti ai saldi, a caccia dell'ultimo voto tramite l'ultimo veto, siamo costretti a tirar fuori dalle soffitte gli arsenali antiquati dell'anticomunismo, le vignette di Guareschi sui trinariciuti, Dio che ti vede nell'urna e l'Anpi no, le Madonne piangenti e i morti ammazzati, e tutto il vintage, il reliquiario del passato. Il comunismo non passerà, zazà.

Firenze, Salvini: “L’anagrafe antifascista di Sant’Anna di Stazzema? C’è quella canina”. Lo ha detto il segretario della Lega parlando dell'iniziativa lanciata per festeggiare i 70 anni della Costituzione da Maurizio Verona, sindaco della cittadina toscana teatro dell'eccidio operato dai nazifascisti il 12 agosto 1944, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2018. L’anagrafe antifascista di Sant’Anna di Stazzema? Matteo Salvini la mette sullo stesso piano di quella canina. “Cosa penso dell’anagrafe antifascista di Stazzema? Vabbè, l’anagrafe io la lascerei per l’anagrafe canina”, ha detto il segretario della Lega a Firenze, a margine di una iniziativa elettorale all’auditorium in via de’ Cerretani, parlando dell’iniziativa lanciata per festeggiare i 70 anni della Costituzione da Maurizio Verona, sindaco della cittadina toscana teatro dell’eccidio operato dai nazifascisti il 12 agosto 1944. “Sono contro i regimi, sono pacifico, nonviolento. Rossi e neri hanno creato abbastanza disastri, sono stati condannati dalla storia”, ha tenuto a specificare il leader della seconda forza politica di una eventuale coalizione di centrodestra. “A me fanno ridere e sorridere – ha aggiunto Salvini – quelli che parlano di un pericolo di ritorno fascista. Non torneranno né il fascismo né il comunismo. Io voglio vivere in base alle regole: purtroppo in Italia c’è qualche fenomeno di sinistra che pensa che chiedere regole, limiti, rispetto, doveri oltre che diritti, sia fascista. Penso che sia semplicemente buon senso da padre di famiglia”. Ai giornalisti che gli chiedevano se si definisse antifascista, oltre che anticomunista, il segretario della Lega ha risposto dicendo di essere “contro tutti i tipi di regimi, rossi, verdi, gialli, bianchi… io sono per la libertà di pensiero e di parola”.

La cogestione del Manzoni? Lezioni di guerriglia e ius soli. Nel programma condiviso tra dirigente, prof e alunni Interventi di candidati Pd, Anpi e dei centri sociali, scrive Marta Bravi, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". È finito oggi il programma di cogestione al liceo civico Manzoni. Una settimana di lezioni «che tanto hanno il sapore di campagna elettorale mista a lavaggio del cervello». Il calendario - a frequenza obbligatoria - è stato concordato a livello di consiglio di istituto quindi tra docenti, rappresentanti degli studenti, dei genitori e dirigente scolastico, ma «ai genitori il programma è arrivato già confezionato solo qualche giorno prima». «Un programma molto politicizzato e di parte», denuncia Francesco Giani, responsabile del Movimento studentesco per la Lega a Milano. «Si tratta di un evidente indottrinamento politico, l'ennesima dopo la teoria gender nelle scuole. Ciò che fa più specie è che i convegni siano organizzati in cogestione, con responsabilità del dirigente scolastico e del consiglio di istituto» attacca Samuele Piscina presidente del Municipio 2 (Lega). Scorrendo l'articolato programma, ricco di ospiti come la parlamentare Pd e candidata alle politiche Lia Quartapelle, l'europarlamentare sempre Pd Brando Benifei. Ma c'è anche la «Guida alle elezioni politiche con esponenti dei partiti interessati», guarda caso Pietro Bussolati capolista alla Regionali per il Pd e Eugenio Casalino, candidato per il Movimento 5 Stelle. Ancora terrà una lezione Pape Kouma, tra i promotori dello «ius soli», mentre Roberto Cenati, presidente Anpi provinciale e Giuseppe Natale presidente Anpi Crescenzago parleranno di neofascismi. In calendario anche interventi di Arcigay e sul femminismo, testimonianze dall'Argentina e dal Venezuela di ieri e di oggi, della figlia di Pinelli e in difesa di Carlo Giuliani. Si alternano incontri sulla interruzione volontaria di gravidanza e sul testamento biologico. Come se non bastasse ecco una lezione sulla guerriglia urbana tenuta da Pietro Bolzoni, che si definisce «elemento di disturbo del centro sociale Lambretta» dal titolo «Un corso per imparare le dinamiche da chi di manifestazioni se ne intende». «Nulla vieta che gli studenti scelgano dei temi da affrontare durante la cogestione ma c'è da chiedersi chi abbia pilotato interlocutori e argomenti» polemizza il consigliere comunale della Lega Max Bastoni. «Ormai nei licei l'indottrinamento è sempre più preoccupante e patetico» commenta Silvia Sardone, consigliere di Forza Italia. Difende le scelte il dirigente Giuseppe Polissena: «Quando gli studenti mi hanno parlato dell'esigenza di fare un approfondimento sulle elezioni, mi sono raccomandato che chiamassero esponenti di tutti gli schieramenti e così hanno fatto. Poi qualcuno non è venuto. Noi garantiamo nella scuola il pluralismo, la libertà di discussione e l'assoluta esclusione di ogni forma di violenza. Le scelte le hanno fatte gli studenti, noi abbiamo controllato». «Il livello dei corsi di approfondimento proposti, i cui contenuti sono tra i più variegati, è stato molto alto» per l'assessore all'Educazione Anna Scavuzzo -. Il Liceo Civico Manzoni è sempre stata scuola di eccellenza, palestra di libertà, aperta a tutte le idee e le prospettive, e vuole continuare a esserlo».

Ci risiamo con i "compagni che sbagliano". Entrambi i casi sono la prova che il moralismo è sempre merce avariata, quello che conta è solo la moralità dei singoli uomini, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 15/02/2018, su "Il Giornale". Che cosa lega lo scandalo delle molestie sessuali su donne disperate da parte dei volontari delle organizzazioni umanitarie a quello dei rimborsi grillini? Apparentemente nulla, ma non è così. Entrambi i casi sono la prova che il moralismo è sempre merce avariata, quello che conta è solo la moralità dei singoli uomini. Ci hanno fatto credere che i volontari - soprattutto se terzomondisti - e i grillini sono santi per definizione, quasi per legge, e chi invece non condivide le loro tesi, dei poco di buono. Dividere gli uomini per come la pensano e non per quello che sono è razzista più che dividerli per il colore della pelle. E noi di destra, in questo senso, siamo alla stregua dei perseguitati. Che differenza c'è tra il fascista di Macerata (pazzo) che spara agli immigrati e il comunista di Piacenza che attenta alla vita dei carabinieri? Perché quelli di CasaPound, ma anche la stessa Meloni, per alcuni sindaci di sinistra non possono sfilare o fare comizi in campagna elettorale mentre a Toni Negri, ideologo pregiudicato delle Brigate rosse e dei suoi assassini vengono spalancate le porte delle università per tenere lezioni ai nostri ragazzi? Nei grillini, nelle organizzazioni umanitarie e nella sinistra c'è del marcio esattamente come in qualsiasi altro ambito. Ed è un marcio più pericoloso perché negato, mascherato, minimizzato dai mondi di appartenenza e purtroppo spesso anche dal sistema mediatico. C'è voluto l'avvento di Trump per rompere il muro di omertà che proteggeva l'immoralità e la violenza privata del magico mondo di Hollywood che per anni ha sostenuto i Clinton e la sinistra americana (altro che le cene eleganti e innocenti - di Arcore portate proprio da loro a simbolo dell'inferiorità etica della destra). Questo giornale è nato per dare almeno una voce a chi non voleva sottomettersi alla falsa e pericolosa verità di Toni Negri. Nel nostro piccolo, anni dopo, continuiamo a farlo non accettando lezioni, tanto più di morale ed etica, da grillini e terzomondisti che, come dimostrano i fatti di questi giorni, urlano a «ladri», «fascisti» e «razzisti» solo per poter rubare e menare loro in santa pace o fare orge, con i soldi delle nostre donazioni, insieme alle donne di colore che dovrebbero salvare e redimere. E non crediamo alla favola dei «compagni che sbagliano», usata ieri dai comunisti e oggi da Di Maio per non ammettere di essere ciò che erano e sono: incubatori di terroristi i primi, e di ladroni i secondi.

Sesso coi fascisti, la Strada insiste: "Rifarei quella battuta". La figlia del fondatore di Emergency non ritratta la battuta sui rapporti fra fascisti e antifascisti e anzi rincara la dose, scrive Ivan Francese, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". Si aggiunge un altro capitolo alla polemica - che per la verità sta diventando anche un po' stucchevole - fra Cecilia Strada, Ignazio La Russa e Vittorio Sgarbi sull'opportunità o meno di fare sesso fra fascisti e antifascisti. Cinque giorni dopo aver condiviso sul proprio profilo Facebook un post in cui invitava a non fare sesso con i fascisti, la figlia del fondatore di Emergency rincara la dose. Intervistata a Circo Massimo su Radio Capital denuncia di essere stata attaccata e minacciata da estremisti di destra ma non per questo rinuncia ad affermare che quel post lo ripubblicherebbe eccome: "Mi dicono che il clima è teso e non è il caso di fare battute, ma rinunciare a fare battute su un'ideologia come quella fascista, già condannata dalla storia, sarebbe autocensura. Quindi lo ripubblicherei". Nel frattempo ci sono state le risposte al vetriolo di La Russa, che ha invitato le persone di destra a "farlo anche con le comuniste", e di Vittorio Sgarbi, che invece ha sostenuto che l'ex presidente di Emergency "non si deve preoccupare perché non corre pericolo". Due messaggi diversi che hanno ottenuto reazioni diverse nella destinataria. La Strada ritiene infatti che mentre il secondo sia "privo di senso dell'umorismo, una risposta sul livello di 'sei cessa'", il primo è stato "più ironico, sullo stesso tenore, sullo stesso registro". Ad ogni modo, però, respinge al mittente le accuse di essere razzista verso i fascisti: "Il razzismo si esplicita in ragione delle qualità ascritte dell'individuo, quelle con cui nasci, e non delle acquisite. Essere fascisti è evidentemente qualcosa che si sceglie di fare, per cui non è razzismo criticare l'ideologia fascista".

La politica resti fuori dal letto. Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency, ha dichiarato: "Non fate sesso con i fascisti, non fateli riprodurre". Non avevo mai pensato a un erotismo ideologico o antifascista, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 15/02/2018, su "Il Giornale". Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency, ha dichiarato: «Non fate sesso con i fascisti, non fateli riprodurre, anche solo per non dare loro una gioia». Non avevo mai pensato a un erotismo ideologico o antifascista. Il piacere è liberazione degli istinti, anche contraddittori, non elaborazione razionale e tantomeno programmatica. Lo sfogo non è della Strada, in verità, ma è la trascrizione di una scritta murale. Appena fatto proprio da lei, il pensiero ha raccolto su Facebook centinaia di commenti, tutti negativi e non solo per contrasto politico: «È la testimonianza di quanto la miseria umana può annidarsi in un essere spregevole e pieno di odio verso il prossimo». Ovvero: «Come se qualcuno avesse il coraggio perverso di avvicinarla». O ancora: «Non sono fascista, ma se costei dovesse mai provarci, posso sempre dichiararmi tale...». Da quello che si capisce, la figlia di Gino Strada può stare tranquilla. Non troverà fascista che voglia fare sesso con lei e tantomeno riprodursi in lei; o che vorrà darle una gioia, proponendosi. Bisogna riconoscere che il sesso è un'altra cosa e non ha orientamento politico. Per questo temo che la Strada faticherà a trovare anche comunisti disposti a fare l'amore con lei. Diciamo che la questione non è politica e la finirei qui. O Michele Serra, che ancora non ha commentato, è pronto a offrirsi?

Signori benpensanti (come diceva lui) lasciate stare De André…, scrive Piero Sansonetti il 15 Febbraio 2018, su "Il Dubbio".  Un artista anarchico può piacere a Salvini e Saviano? Ha avuto un gran successo di pubblico il film su Fabrizio De André mandato in onda ieri e l’altro ieri sera sul primo canale della Tv. Perfino un tipo come Matteo Salvini, sempre polemico, stavolta ha fatto i complimenti alla Rai: ha detto che Faber (che è il soprannome che aveva De André) è un mito. Ha avuto successo il film o ha avuto successo De André? Cioè: ha avuto successo l’immagine di quel personaggio anarchico e romantico, bello, ribelle, e che cantava con una voce molto suggestiva canzoni fantastiche e originali? Oppure ha avuto successo il messaggio che De André ci ha lasciato dopo circa 40 anni sulla scena? La reazione di Salvini fa pensare alla prima ipotesi. A Salvini piace De André per la sua carica di protesta. Per la potenza poetica del suo messaggio antisistema. E la mia impressione è che sia questo l’aspetto di De André che ha ottenuto l’applauso universale. Ma nessuno, forse, ha voglia di fare i conti con il De André vero. Cioè con il grande intellettuale genovese, anarchico e libertario, provocatore purissimo, che era contro l’autorità costituita, contro la legalità borghese, che si schierava con i reietti, con gli ultimi, con gli emarginati, con gli assassini, con le puttane. Il pensiero e il sentimento di De André sono talmente lontani dal sentire comune che oggi costituisce il nocciolo duro dello spirito pubblico, da essere considerati una specie di metafora, una forzatura letteraria. Non un’idea reale. Oggi sembrano incompatibili con la realtà, e quindi accettabili solo in quanto fantastici. Invece De André aveva una idea vera, concreta di società: ed era coerente. La sua idea era irricevibile dal senso comune di oggi. Colpisce il fatto che il leader di uno schieramento che usa slogan come quelli che Salvini usa per chiedere l’espulsione dei migranti, l’ergastolo per i malfattori, la fucilazione per i ladri di appartamento (“se entrano in casa, devono uscire coi piedi davanti… se li metti in carcere devi buttare la chiave… ”), colpisce che poi esalti la figura e le canzoni di De André. E del resto colpisce anche come De André venga santificato da buona parte della sinistra ultra legalitaria e girotondina, quella del Fatto quotidiano, di Saviano, di Fazio, ma non solo, e poi dai 5 Stelle e da ampi settori ultra giustizialisti della sinistra radicale.

Qualunque sia il giudizio su De André, una cosa è certa, e cioè che aveva due bersagli, due idiosincrasie: la legalità e i giudici. Faber identificava il potere proprio lì: nella legalità e nella magistratura. Una delle sue canzoni più belle – anche se non la scrisse lui ma il suo maestro francese Georges Brassens – è quella che racconta in modo un po’ scurrile la storia di un gorilla che sodomizza un giudice. Il giudice è preso come simbolo di tutte le miserie, gli egoismi e l’idiozia umana. Trascrivo gli esilaranti (e amari) versi finali di quella canzone: “… piangeva il giudice come un vitello / e negli intervalli gridava mamma / gridava mamma come quel tale / che il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po’ originale / aveva fatto tirare il collo…”. De Andrè era anti-legalitario, anticonformista e libertario. Ha scritto canzoni contro la legge, contro la violenza (ma anche per la violenza) contro i sindacati (specialmente la Cgil), contro il Pci, contro la borghesia, contro il maschilismo, contro la polizia, contro la sessuofobia, ha difeso il movimento del ‘77, gli anarchici, e persino la lotta armata. È assolutamente inutilizzabile da un punto di vista legalitario e tantopiù da un punto di vista leghista.Il suo disco che ho amato di più è “Storia di un impiegato”. Lo ho amato più di tutti gli altri sui dischi anche se molti musicologi pensano, al contrario, che sia la sua opera meno riuscita. È un’opera del 1973, durissima, quasi violenta. Un racconto. Parte dal maggio francese (la rivolta degli studenti nel 1968) e finisce con un inno alla rivolta dei detenuti.

Trascrivo solo pochissimi versi della canzone finale: «tante le grinte, le ghigne, i musi, / vagli a spiegare che è primavera /e poi lo sanno ma preferiscono / vederla togliere a chi va in galera. Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire /che non ci sono poteri buoni. /E adesso imparo un sacco di cose / in mezzo agli altri vestiti uguali / tranne qual è il crimine giusto /per non passare da criminali. / Ci hanno insegnato la meraviglia / verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto / il non rubare quando si ha fame. Voi ve lo immaginate Salvini che a un comizio della Lega canticchia questa canzone? Ma non solo Salvini: Travaglio, o Grillo, o Bersani, o Grasso, o Rosy Bindi…Forse il capolavoro di De André, la sua provocazione più estrema, è stata la canzone don Raffaè, dedicata a Raffaele Cutolo, il capo della camorra. Cutolo è in prigione dagli anni sessanta. Credo che abbia battuto tutti i record nella lunghezza della detenzione. Negli anni ottanta era considerato un boss più o meno del rango di Riina e Provenzano. Don Raffaé è un brano del 1990. Ogni tanto provo a pensare cosa succederebbe oggi a un cantante che volesse dedicare una canzone, non dico a Riina, ma a un qualunque povero cristo che sta in prigione, magari ingiustamente, come per esempio Dell’Utri. Lo farebbero a fette. Datemi retta: lasciate stare De André. Era unico. Lasciatelo stare, “signori benpensanti”, come diceva lui. Non è roba per voi. Faber ha diritto a un po’ di rispetto, no?

Matteo Salvini, per Marco Travaglio sta con il folle che ha sparato a Macerata, scrive "Libero Quotidiano" il 4 Febbraio 2018. Non basta la netta condanna del gesto di Luca Traini, l'uomo che ha aperto il fuoco contro gli immigrati a Macerata. Non basta a Laura Boldrini ma neppure a Marco Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano, in prima pagina, si cimenta in un titolo vergognoso sulla vicenda. Nel mirino c'è Matteo Salvini. Dunque, il titolo: "Fascio-leghista spara sui migranti: Salvini e Forza Nuova con lui". Insomma, secondo il Fatto di Travaglio il leader del Carroccio starebbe con Luca Trani. Una totale falsità. Discorso differente per Forza Nuova che è apertamente scesa in campo al fianco dello squilibrato affermando di volerne pagare le spese legali.

Il razzista e gli sciacalli. Raid a Macerata: un folle spara, ferisce 6 stranieri e grida «Viva l'Italia» Era candidato per la Lega. E la sinistra attacca: «Salvini è il mandante» L'omicidio di Pamela ultima scintilla. L'Italia rischia il collasso sociale, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 04/02/2018, su "Il Giornale". Tanto tuonò che piovve. Una tempesta si è abbattuta ieri sulla campagna elettorale seminando lo scompiglio. Un segno profondo che ha la faccia poco rassicurante di un ragazzo di Macerata che ieri ha scorrazzato in auto per la città sparando a tutti gli immigrati che gli si presentavano a tiro. Si chiama Luca Traini, ha 28 anni, è in cura psichiatrica. Quando lo hanno fermato aveva già ferito sei persone. Non ha opposto resistenza, si è avvolto le spalle con un tricolore e ha fatto il saluto romano davanti a un monumento dei caduti. Questa è una storia di follia mixata a odio e violenza, dello sfregio alla nostra bandiera che mai potrà sventolare come paravento di un assassino, per di più razzista. Ma in questa storia tragica c'è di più, cioè non aver voluto ascoltare i tuoni che da anni rimbombano nelle nostre città esasperate da una criminalità d'importazione impunita e che negli ultimi giorni scuotevano proprio l'aria di Macerata. Città nella quale un immigrato nigeriano, pregiudicato e spacciatore - da tempo doveva essere espulso - ha prima ucciso e tagliato a pezzi una giovane, Pamela, poi occultato i resti dentro due valigie. Un pazzo italiano che si vendica di un pazzo clandestino nigeriano. Parlare del primo più che del secondo è pericoloso, soddisfa le esigenze elettorali della Boldrini ma non porta alla soluzione del problema. Se, come le sinistre sostengono in queste ore (io non ci credo) Luca Traini è la prova che stiamo diventando un Paese razzista, allora gli stessi devono ammettere che il nigeriano di Macerata che ha fatto a pezzi Pamela è la prova che l'immigrazione, così come la politica e la magistratura l'hanno permessa e gestita, è un fenomeno criminale da combattere e stroncare. Luca Traini passerà giustamente tanti anni in carcere, e la società non ne sentirà la mancanza. Ma proprio per questo pretendiamo che altrettanto rigore a norma di legge venga messo in atto con chiunque si trovi sul suolo nazionale. E il nigeriano assassino di Pamela non avrebbe dovuto trovarsi a Macerata, ma in galera o a casa sua. Il fatto che ciò non sia avvenuto non giustifica nulla, tanto meno un raid razzista. Ma adesso basta giocare col fuoco, perché - matti o non matti - era evidente che prima o poi ci si sarebbe scottati. E ai piromani bisogna togliere il combustibile, altrimenti rischiamo l'incendio.

Traini, il fascista perfetto, scrive Luigi Iannone il 4 febbraio su "Il Giornale". Luca Traini è il fascista perfetto. L’uomo che ha terrorizzato la città di Macerata, esplodendo colpi da un’auto in corsa verso tutte le persone di colore, nella stessa zona dove abitava quel nigeriano che ha seviziato la giovane Pamela per poi farla a pezzi e riporla in due valigie, è il fascista perfetto. È il fascista perfetto perché pare avesse alle spalle una candidatura alle comunali per la Lega di Salvini e dunque ha le stimmate per essere considerato tale. Quando poi è stato preso dalle forze dell’ordine, si è tolto il giubbotto, si è messo sulle spalle una bandiera italiana e ha ostentato il saluto romano dai gradini del monumento collocato nella piazza del paese. Cosa volete di più? Sì, Luca Traini è il fascista perfetto nella basica e fanciullesca suddivisione del mondo e degli uomini da parte delle Boldrine e dei Fiano. Fanciullesca ma non ingenua. Quale infatti migliore sintesi del male, della propaganda razzista, del nostalgismo imperante, della figura reale di uno che spara all’impazzata contro gli africani? Quale migliore simbologia per testimoniare la ‘bontà’ di quanto va dicendo il deputato Emanuele Fiano sui rigurgiti neofascisti? Quale liturgia sarebbe stata superiore e più accattivante per ridestare certa estetica? Quale miglior fantoccio da apporre nella cosmogonia democratico-progressista che sempre si fonda su fratture di tipo manicheo. Un bianco che spara ai neri, già candidato con la Lega e che, nel momento dell’arresto, si avvolge col tricolore e fa il saluto romano, è il compendio visivo di tutto quanto detto in questi ultimi mesi. È la chiusura del cerchio; la dimostrazione che punire apologia e propaganda è solo il minimo che si possa fare, la premessa per un impianto legislativo ancora tutto da costruire e quindi ai primordi. Da questo punto di vista (dal loro punto di vista) la questione è risolta. La tipologia del nero (il ‘fascista’, non il ‘nigeriano’) collima ampiamente con quella che frulla nella testa dei progressisti nostrani e fornisce prove che i problemi sociali siano alimentati da uno schieramento politico-culturale che artatamente alimenta la fiammella dell’intolleranza. Non esistono problematiche di tali dimensioni e pervasività sociale, oppure esistono ma in misura circoscritta, mentre sarebbero esclusiva colpa dei deliranti strepitii delle varie destre e il rivoltante livello demagogico ad alzare l’asticella. E perciò Luca Traini, oltre al fatto criminale in sé, all’idea folle e insulsa di punire una intera etnia, all’aver messo in pericolo la vita di decine di innocenti e aver spaventato a morte una intera comunità, ha completato l’opera con una liturgia simbolica che, nei prossimi giorni, diventerà solluchero per molti subdoli opinionisti i quali non vedevano l’ora di farci ripiombare al clima degli anni Settanta mediante la solita caccia alle streghe generalizzata. E allora, non più solo il fascista ipotetico o reale, ma il leghista, il destrista, il conservatore e anche tutti coloro che hanno una visione ed una idea dell’immigrazione molto lontana da quella ecumenica e fondata sull’accoglienza deregolamentata, saranno messi all’indice e intimati al silenzio. Pena l’accusa di istigazione al crimine. Nel nostro Paese, il dibattito sul fenomeno migratorio è penoso di per sé e si connota di schematismi a volte reali, quasi sempre invece pretestuosi e utili alla propaganda dell’una e dell’altra parte. Mai duramente articolato e complesso rispetto ad una realtà contemporanea che è, invece, complicata e satura di contraddizioni. Ora che si è però materializzato il fascista perfetto nella figura di questo Luca Traini, nelle menti dei progressisti nostrani scatterà la libido del trofeo da mostrare; il giocattolo da esibire ogni qual volta un interlocutore mostrerà con la dovuta asprezza le sue posizioni nette sul tema dell’immigrazione.

Macerata, la sinistra strumentalizza. Ma gli italiani sono davvero fascisti? Scrive Marcello Foa il 4 febbraio 2018 su "Il Giornale". Questa mattina ho partecipato alla puntata di Omnibus su La 7, condotta da Frediano Finucci, e dedicata ai fatti di Macerata. Puntata vivacissima durante la quale ho contestato le tesi di alcuni ospiti, in particolare dell’esponente della lista Più Europa della Bonino Piercamillo Falasca e dello scrittore Fulvio Abbate. In particolare disapprovo il tentativo di criminalizzare chiunque abbia delle riserve sull’immigrazione incontrollata, perché è questo discorso che sta emergendo a sinistra e sostenuto dalla narrativa di molti media, a dispetto del fatto che l’immigrazione sia considerata una minaccia dal 60% degli italiani, come emerso dai sondaggi spiegati in studio da Elena Melchioni. Lo scopo del mondo “progressista” è di cambiare il giudizio collettivo, facendo leva sul senso di colpa e lasciando intendere che il gesto di Luca Traini non sia quello di un disadattato squilibrato, come io ritengo, bensì il sintomo di un rinascente fascismo in Italia. In studio si sono sentite affermazioni come quelle secondo cui l’animo dell’80% degli italiani è fascista (parola di Abbate), che io ho contestato duramente: grazie al cielo dal 1945 l’animo degli italiani è profondamente democratico e la presenza di liste politiche così variegate lo dimostra. Catalogare come fascisti la stragrande maggioranza degli italiani è grave e inaccettabile. Falasca ha persino proposto l’equazione, presentandola come un dato di fatto, che chi è sovranista (e dunque è contro l’Unione europea e per l’uscita dall’euro) è razzista e fascista. Un’altra operazione, vergognosa, di manipolazione semantica.

Ho l’impressione che queste scomposte reazioni della sinistra ai fatti di Macerata finiranno per ritorcersi contro chi li promuove, per una ragione molto semplice. Tutti gli italiani di buon senso, e sono la quasi totalità, inorridiscono di fronte ai folli tentativi di vendetta di Traini, ma molti di loro – a mio giudizio la maggioranza – si ribella alle strumentalizzazioni di chi, in seguito a un singolo episodio, pretende di spalancare le porte dell’Italia ai migranti e, soprattutto, di mettere a tacere chi dice basta a un’immigrazione incontrollata. Più la sinistra darà voce ai Saviano, agli Abbate e ai Falasca e più Matteo Salvini guadagnerà consensi, anziché perderne. Ricordatevelo.

Nicola Porro: Macerata e gli Sciacalli contro Salvini, scrive il 3 febbraio 2018 Imola Oggi. Il delinquente di Macerata e i commenti di Saviano, Boldrini e Grasso che come prima cosa attaccano Salvini. Ecco perchè li metto allo stesso livello degli haters dei social network…“Quanto accaduto oggi a Macerata dimostra che incitare all’odio e sdoganare il fascismo, come fa Salvini, ha delle conseguenze: può provocare azioni violente e trasforma le nostre città in un far west seminando panico tra i cittadini. Basta odio, Salvini chieda scusa per tutto quello che sta accadendo”. Lo ha scritto la finta nemica dell’odio, Laura Boldrini, su Facebook. “Le notizie che arrivano da Macerata mi lasciano attonito e inorridito. Chi, come Salvini, strumentalizza fatti di cronaca e tragedie per scopi elettorali è tra i responsabili di questa spirale di odio e di violenza che dobbiamo fermare al più presto. Odio e violenza che oggi hanno rischiato di trasformarsi in una strage razziale”. Lo afferma l’altro finto nemico dell’odio, Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, su facebook. “Il nostro paese – prosegue – ha già conosciuto il fascismo e le sue leggi razziali. Non possiamo più voltarci dall’altra parte, non possiamo più minimizzare”. A poche ore dai fatti, Roberto Saviano scrive un post su Facebook in cui punta il dito contro Matteo Salvini: “ll mandante morale dei fatti di Macerata è Matteo Salvini. Lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta democratica. Chi oggi, soprattutto ai massimi livelli istituzionali, non se ne rende conto, sta ipotecando il nostro futuro”. Poco dopo lo scrittore partenopeo scrive un tweet, sempre in merito alla vicenda, rivolto però ai media: “Invito gli organi di informazione a definire i fatti di Macerata per quello che sono: un atto terroristico di matrice fascista. Ogni tentativo di edulcorare o rendere neutra la notizia è connivenza”.

Due miliardi per le espulsioni. Ma l'accoglienza ne costa dieci. In Italia 600mila clandestini, fra i 3 e i 4mila euro per ogni rimpatrio. In tre anni abbiamo speso cinque volte di più, scrive Antonella Aldrighetti, Giovedì 08/02/2018, su "Il Giornale". Il piano per il rimpatrio degli immigrati irregolari che il presidente Silvio Berlusconi vuole attuare per riportare nel paese d'origine i 600 mila stranieri, che non hanno diritto all'asilo e alla protezione internazionale e che costerebbe attorno ai 2 miliardi di euro, si dimostra addirittura a buon mercato rispetto a quanto l'Italia ha impegnato per l'accoglienza negli ultimi tre anni: ben 10 miliardi. Le risorse del piano rimpatri servirebbero essenzialmente a far funzionare il meccanismo a partire dall'abolizione dei permessi umanitari, alla velocizzazione delle pratiche burocratiche in capo alle prefetture fino a destinare, una piccola parte dei soldi impiegati oggi per l'accoglienza, ai percorsi di accompagnamento nella terra d'origine dei singoli stranieri. Vale a dire che se ne spenderebbero 2 a fronte di 10. Diversamente l'Italia potrà essere costretta a sborsare annualmente la medesima quantità di risorse per quella che di fatto non è mera accoglienza piuttosto una completa presa in carico dell'immigrato. Già perché nei 10 miliardi di euro impegnati tra il 2015 e il 2017 è compreso l'intero pacchetto di servizi che i faccendieri della solidarietà (cooperative sociali, ong e onlus), ossia attori economicamente forti in fatto di numeri e capacità gestionali, offrono alle prefetture da nord a sud dividendosi e subappaltando efficacemente fette omogenee di mercato. Sono loro infatti che si assicurano i contratti per l'ospitalità, organizzano la gestione dei centri d'accoglienza straordinari, quelli dei minori non accompagnati, i servizi per i richiedenti asilo e non ultimo, curano l'interpretariato e la mediazione culturale. La quota giornaliera per ogni immigrato assistito è di 45 euro lordi (35 euro più iva) e comprende alloggio, vitto, abbigliamento, assistenza sociale, linguistica e psicologica e sanitaria. Nell'intero calmiere del dispendio non possono mancare i servizi di supporto alla commissione territoriale durante i colloqui di chi richiede l'asilo. Parcelle orarie, per traduttori di lingue sconosciute ai più, dialetti e idiomi quasi estinti, che partono dai 20 euro fino a 27. Oltre alla quota parte, dell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, destinata al trasporto degli stranieri, nonché i contributi per i progetti cosiddetti Sprar (Servizi protezione richiedenti asilo e rifugiati) destinati direttamente ai singoli comuni. Voci di spesa aggiuntive sono quelle riferite ai programmi di rimpatrio volontario assistito: un flop in piena regola che per il biennio corrente sta costando 8 milioni di euro e avrebbe lo scopo di reintegrare a casa propria un centinaio di migranti economici. E non è finita qui. Non è da trascurare anche la spesa extra per le manutenzioni ordinarie e straordinarie dei centri hotspot. Per quello di Lampedusa ad esempio sono a disposizione 980 mila euro per la prossima ristrutturazione del complesso. Soldi erogati direttamente dal ministero dell'Interno alla prefettura, stazione appaltante Invitalia. Negli ultimi due anni la presa in carico dei migranti è stata arricchita e affiancata da programmi aggiuntivi in sinergia tra istituzioni e terzo settore. Pubblicazioni patinate dispendiose, firmate da autorevoli figure istituzionali dei vari dipartimenti del Viminale. Molto spesso sono le stesse coop e onlus che gestiscono i servizi primari a ingegnarsi per stilare progetti dai titoli e dalle apposizioni ridondanti e ipocritamente accorate che sottendono concetti di integrazione e inclusione sociale. Spesso solo chiacchiere che denotano il fardello dell'approccio italiano alla gestione della migrazione e il perché di una quantità di denaro impressionante.

I conti delle coop sui migranti nascosti dai siti del governo. Sui siti delle prefetture lacune sulle rendicontazioni dei costi dell'accoglienza ai migranti: dati mancanti o presentati in confusione, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 02/11/2017, su "Il Giornale". La parola magica è “Amministrazione trasparente”. O almeno dovrebbe esserlo. In tanti l’hanno invocata, ma in pochi sembrano praticarla. Soprattutto in tema di immigrazione. Già, perché per quanto nel lontano 2014 Matteo Renzi avesse promesso di mettere online “ogni singolo centesimo di spesa pubblica”, in realtà i buoni intenti sono rimasti lettera morta. E dove servirebbe chiarezza, come nella gestione delle ingenti risorse destinate ai migranti, in realtà regna il grigiore. Ad aprile (dati del Ministero dell'Interno) sui 177.505 stranieri presenti sul territorio nazionale, ben 137.599 vivevano nelle strutture temporanee (Cas) gestiti dalle Prefetture e solo 23.867 nei posti "d'eccellenza" Sprar coordinati dai Comuni. Poi ci sono altri 2.204 migranti sistemati negli Hotspot e 13.835 negli hub di primo soccorso. Tradotto in percentuali, significa che l'80% degli stranieri (e delle risorse economiche) finisce nelle mani di imprenditori che hanno fatto dell'immigrazione una nuova attività economica. Un po' di chiarezza su come vengono spesi i soldi sarebbe necessaria, no?

Speranza vana. I dati dei pagamenti risultano occultati, presentati in confusione o nascosti nei luoghi più improbabili dei siti internet delle Prefetture. Il risultato? Per un normale cittadino diventa impossibile sapere quanti milioni di euro delle sue tasse finiscono a questa o a quell’altra cooperativa. Un governo “trasparente” dovrebbe fornire in maniera semplice e rapida alcune delucidazioni ai contribuenti: quali sono i centri di accoglienza in ogni provincia, quali le associazioni impegnate coi profughi e quanto incassano ogni anno. Ma nessuno di questi dati è facilmente accessibile online. E pensare che la legge sull’anti corruzione prevede che le “stazioni appaltanti” siano tenute a pubblicare nei loro siti web istituzionali le informazioni base sulle procedure di tutte le gare, comprese quelle sull’accoglienza. Una tabella ordinata dovrebbe indicare la struttura proponente, l’oggetto del bando, l’elenco degli operatori invitati a presentare le offerte, l’aggiudicatario, l’importo complessivo e pure le somme liquidate alle singole coop. Le prefetture in effetti mettono a disposizione un’apposita sezione chiamata - appunto - “Amministrazione trasparente”. All’interno ci si aspetta di trovare l’Eldorado dei documenti, ma spesso si rimane delusi. La prefettura di Ragusa ha la pubblicazione delle gare (secondo la L. 190/2012) ferma al 2013. Un po’ in ritardo, non pensate? Roma fa un po’ meglio, ma non va oltre il 2015. Siena? Idem. Salerno invece ha rendicontato 720 euro per la manutenzione dell'impianto elettrico della Polstrada, ma non le spese per i migranti. Vibo Valentia lo stesso, eppure l’appalto l’anno scorso è stato vinto da qualcuno: l’associazione “Da donna a donna” qualche somma l’avrà pure incassata, no? Frosinone invece fornisce solo il dato aggregato: accordo quadro da oltre 28 milioni di euro e poi giù una sfilza di vincitori. Ma le singole coop, quanto si beccano?

Per carità: ci sono anche esempi lodevoli, amministrazioni che divulgano l’elenco completo delle procedure d’appalto. Ma in generale regna il caos. Soprattutto quando si cerca di ricostruire il processo di assegnazione dei milionari bandi dell’accoglienza. Dei contratti dettagliati tra Stato e cooperative, neppure a parlarne. La lista delle strutture con il numero di immigrati presenti? Solo Napoli, Aosta, Cosenza e poche altre. La maggioranza delle prefetture non la fornisce. Latitano pure i verbali delle commissioni, gli avvisi di post-informazione e le aggiudicazioni definitive. E pensare che la legge parla chiaro: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale alle informazioni” della Pa, così da permettere il controllo “sull'utilizzo delle risorse pubbliche” da parte del cittadino. Solo parole: fatta la legge, trovato il cavillo. Quando a fine 2015 la campagna “InCAStrati” fece ufficiale istanza di accesso civico per conoscere il numero complessivo dei centri profughi, la loro ubicazione e chi fossero gli enti gestori, Ministero e prefetture risposero picche. Affermando che le “informazioni richieste non sono soggette ad obbligo di pubblicazione”. Viene da chiedersi allora per quale motivo alcuni enti territoriali del governo abbiano i documenti completi e visibili (per esempio: Torino e Firenze), mentre molti preferiscano divulgare dati incompleti o del tutto inutili. A Udine l’albo dei fornitori è fermo al 2014. A Oristano se si cercano dettagli sui “contratti” si trova solo una cartella vuota. A Cesena la sezione degli “avvisi di aggiudicazione” è “in corso di aggiornamento”. E chissà da quanto. Una cosa è certa: tutta questa confusione, se non è serve ad occultare i costi dell’accoglienza, di certo non aiuta a sollevare il velo di mistero che li avvolge. Alla faccia della trasparenza.

Milena Gabanelli: "Sparatoria contro gli immigrati solo un orrendo fatto di cronaca nera", scrive il 7 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Una lezione a tutta la sinistra e ai suoi toni apocalittici sul "ritorno del fascismo". E' quella che Milena Gabanelli, ex anima storica di Report e oggi giornalista per il Corriere della Sera, ha impartito stamattina parlando del caso di Macerata ai microfoni di Radio Cusano Campus. "Penso che di questi fatti più ne parliamo più si innesca un effetto detonatore. Preferirei circoscriverlo ad un orrendo fatto di delinquenza. L'effetto che si produce rischia di essere quello di aizzare gli animi torbidi. Bisogna riferire il fatto di cronaca in sé e basta. Il pericolo che ci siano tanti Traini in giro per l'Italia? In ognuno di noi c'è un potenziale animale, quindi penso che il problema sia un altro. Invece di continuare ad analizzare un animo umano disagiato penserei a come risolvere un disagio reale che sta fuori. Vale a dire, come gestiamo questa accoglienza? Il problema da risolvere è quello. Il resto sono patologie che devono essere prese in cura da un altro tipo di professionisti".

Pamela Mastropietro, lo strazio della mamma in piazza a Macerata: incontra un nigeriano, la sua reazione, scrive il 7 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano". Un gesto a sorpresa, che ha spiazzato Macerata e ridato sollievo e speranza a una comunità distrutta dal dolore. Alessandra Verni, mamma della povera Pamela Mastropietro, la 18enne romana morta e fatta a pezzi dopo essere scappata da una comunità di recupero di Corridonia, è scesa in piazza nella cittadina marchigiana per una fiaccolata insieme al padre e allo zio della ragazza. Tra le 200 persone che hanno partecipato alla manifestazione si è fatto avanti un ragazzo nigeriano, connazionale dei due spacciatori finora accusati di vilipendio e soppressione di cadavere (non di omicidio, perché il sospetto è che Pamela possa essere morta per overdose). "Voglio chiedere scusa per tutto quello che le è stato fatto - ha detto alla signora Verni -, non so se può servire, ma chiedo scusa a nome di tutta la mia comunità. Prego Dio che le violenze finiscano qua, che non ci sia altro sangue, dobbiamo unirci per la pace". La mamma di Pamela, commossa, l'ha abbracciato: "Non sei tu che hai fatto a pezzi mia figlia". Una straordinaria lezione di umanità dopo le polemiche suscitate da un'altra dichiarazione della Verni, che ringraziava Luca Traini (l'uomo che ha cercato di fare strage di africani dopo la morte di Pamela) per aver acceso un cero nel luogo in cui sono stati trovati i poveri resti della figlia.

Macerata, quelle dichiarazioni e quel business che non ci piacciono…scrive Nicola Porro il 7 febbraio 2018. Sui fatti di Macerata si continua a parlare. E quasi sempre a vanvera. Sentite cosa dice Giancarlo Borgani, avvocato del nigeriano accusato di essere il complice di Innocent Oseghale. Roba da non credere! E non finisce qui. Nella seconda parte di questo breve video, insieme al giornalista Carlo Cambi, tratto di un business che a Macerata è fiorito… 

Gli affari d’oro dei profughi di Macerata, su "La Verità (direttore Maurizio Belpietro) del 7 febbraio 2017. L’accoglienza è la prima industria della città. La Onlus che ospitò il nigeriano accusato del massacro di Pamela ha oltre 400 dipendenti e bilanci milionari, in continua crescita, che però non certifica. E nei quali spuntano misteriose donazioni.

Gus, dai profughi al terremoto: bilancio di 20 milioni di euro. L’intervista, Bernabucci: lavoriamo bene ed è tutto controllato, scrive Paola Pagnanelli il 23 luglio 2017 su “Il Resto del Carlino”. Partito da Macerata nel 1993 in seguito all’emergenza umanitaria nei Balcani, il Gruppo umana solidarietà «Guido Puletti» ha chiuso il 2016 con un bilancio di 20 milioni di euro: una cifra impressionante, che infatti ha attirato l’attenzione della stampa nazionale. Come si legge dal bilancio pubblicato sul sito della onlus, tra le entrate del Gus ci sono nove milioni di euro di crediti dalle prefetture e altri sette milioni di crediti dal sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il bilancio è cresciuto progressivamente negli anni, man mano che l’associazione vinceva bandi pubblici, soprattutto per l’accoglienza agli immigrati che segue per 24 Comuni italiani, ma anche per la gestione delle emergenze dall’Emilia all’Abruzzo per il terremoto, e i progetti di sostegno al disagio: tante iniziative, che hanno portato la onlus guidata Paolo Bernabucci anche all’estero, in Nepal, in Sri Lanka e poi altrove. Ma questo, assicura il presidente, non è un business, e non ci sono polemiche da montare: «La verità è che la nostra è una realtà che funziona: diamo lavoro a quasi 500 persone, e chi ci sceglie lo fa perché vede come lavoriamo».

«Il nostro bilancio è pubblico, come ogni anno lo abbiamo messo sul sito e tutti possono vedere da cosa è composto e come sono utilizzati i soldi». Il presidente del Gus Paolo Bernabucci non vuole sentire parlare di polemiche sul business degli immigrati, sebbene la sua onlus abbia un bilancio annuale di venti milioni di euro. 

Ma come si arriva a una cifra così elevata? 

«Noi lavoriamo molto e in tante città. Non è volontariato: ci sono poco meno di 500 persone che abbiamo assunto regolarmente in tutta Italia, psicologi, assistenti sociali, commercialisti, gli appartamenti e gli alberghi e altro, che vanno pagati. C’è un’organizzazione che nasce a Macerata e poi ha iniziato a lavorare anche fuori di qui. Non capisco dove sia il problema, forse siamo troppo grossi per Macerata».

Il problema nasce perché tutti questi soldi fanno pensare a un grosso affare. 

«Se ci sono organizzazioni truffaldine, che sfruttano i progetti sugli immigrati, non vuol dire che siano tutte così, o che il Gus sia così. Anche il Filo d’oro o Emergency hanno bilanci importanti. Noi lavoriamo per le prefetture e i Comuni, con i bandi pubblici, non prendiamo soldi dopo trattative private, e quello che facciamo viene continuamente controllato dalle prefetture e dal ministero. I soldi che riceviamo servono per erogare servizi, e dal bilancio si vede: siamo trasparenti».

Molti si lamentano, perché dicono che in città ci sono moltissimi immigrati che ciondolano in giro senza far nulla. 

«Macerata città ospita meno richiedenti asilo di Ancona o Ascoli, e il dato provinciale invece è nella media. I ragazzi che seguiamo noi fanno corsi di italiano e molte altre attività, come di recente i mondiali antirazzisti. Poi bisogna dire due cose: in primo luogo non tutti i richiedenti asilo in città sono seguiti dal Gus, e poi ci sarà anche qualcuno che va a spasso, ma se dà fastidio che ci siano persone di colore in giro, è un’altra questione. Ma non credo ci siano tante lamentele su questo, qualcuno sta cercando di montare una polemica che non esiste». 

Le proteste ci sono, sia sul giro di soldi che sul numero di richiedenti asilo in città.

«Ma non hanno senso. Il nostro lavoro è soggetto a continue verifiche e ispezioni, e aggiungo anche che siamo valutati tra i migliori in Italia nel nostro campo. Per questo lavoriamo molto e il bilancio aumenta. Pensi solo che per l’emergenza sisma il Gus ha raccolto quasi 500mila euro di donazioni, arrivate da realtà come la Fondazione La Stampa di Torino o il gruppo De Agostini: se hanno scelto noi per le donazioni, è perché evidentemente si fidano di come usiamo questi fondi».

E come li avete usati?

«Sull’emergenza sisma siamo al lavoro dal 24 agosto senza interruzioni. Abbiamo risolto moltissimi problemi pratici dei terremotati di Abruzzo e Marche, dal modulo per l’allevatore che deve rimanere vicino alla sua azienda al generatore di corrente, arrivando prima dello Stato. Dieci persone di media lavorano gratuitamente per fronteggiare le necessità di questo ultimo terremoto, come fatto in passato. Ma di questo si preferisce non parlare». 

FdI: «Macerata non è razzista, il problema sono droga e accoglienza opaca».  LE REAZIONI - I rappresentanti di Fratelli d'Italia sulla morte di Pamela e l'attacco di Traini. Renna: «Finalmente il sindaco ammette la situazione». Ciccioli: «Le associazioni che gestiscono gli arrivi hanno rovinato la città» e aggiunge «lotta senza quartiere alla malavita per cui gli immigrati che escono dai progetti sono manodopera gratis». Domani nel capoluogo manifestano Forza Nuova e Movimento nazionale, scrive lunedì 5 febbraio 2018 Federica Nardi su "Cronache Maceratesi". «A Macerata gira troppa droga. Togliamoci i tappi dagli occhi e combattiamola. Pretendo dal prefetto la lotta alla droga e al degrado», dice Paolo Renna. Carlo Ciccioli, a domanda diretta risponde: «lotta senza quartiere alla malavita, alla Camorra, che sono soddisfattissimi di questo esercito di disperati (gli immigrati, ndr) che per loro è manovalanza a costo zero». Al centro Carlo Ciccioli regionale, Stefano Benvenuti Gostoli, altro candidato e Andrea Blarasin, coordinatore comunale, a tracciare un filo rosso tra il mercato della droga in mano alla malavita, la morte di Pamela Mastropietro per cui è accusato il nigeriano Innocent Oseghale e la follia stragista di Luca Traini, 29enne dell’ultradestra che sabato ha seminato il panico in città puntando la sua Glock contro persone a caso, colpevoli solo di avere il colore della pelle nero, perché, come ha riferito agli inquirenti, ha “sbroccato dopo l’omicidio di Pamela”. «Un borderline – dice Ciccioli, che è psichiatra – che per fortuna non ha ucciso nessuno. Ma il suo brutto gesto è inquadrabile nella patologia. Traini è in cura al centro di salute mentale. I borderline si scompensano con eventi emotivi stressanti. In questi giorni si è creata la miscela doc per creare l'”acting out”. Ha preso di mira chi per lui è motivo di fattore stressante. In questo caso la sua fissazione era politica, il gesto legato alla sua percezione della realtà. Il suo è stato un rodeo, con finale istrionico. Questo lo scenario e vi parlo da psichiatra». Anche su chi ha presumibilmente ucciso Pamela (le indagini sono in corso per capire la causa della morte) e poi l’ha fatta a pezzi (accusato Oseghale), Ciccioli parla di «un matto. Pamela – ha aggiunto – è morta per le leggi che si è data l’Italia, dove non c’è una norma per vietare a chi è in cura in una comunità di uscire. Al suo corpo manca il cuore e altri pezzi di cadavere (ipotesi fermamente smentita dagli inquirenti, ndr). La sensazione è chi ha eseguito questo rito fosse fuori di testa». Da sinistra Luca Traini e Innocent Oseghale C’è l’orrore per la morte di Pamela, per l’attacco di Traini. Ma il fattore comune per FdI è la droga e la malavita che ne gestisce lo smercio. Oseghale era uno spacciatore. «E’ un caso che arriva tutto a Macerata? E’ un caso l’Hotel House? – chiede Ciccioli -. Là c’è il nucleo della criminalità non controllata e autorizzata». Dall’altro lato le Ong. «A Macerata – dice Ciccioli – c’è il Vadano a portare organizzazione in Africa invece di far venire qui gli immigrati. Queste persone pagano un prezzo altissimo per andarsene e poi fuori dai progetti finiscono preda della criminalità organizzata. Queste associazioni di accoglienza stanno massacrando Macerata, che prima era un’isola felice. Hanno creato il terreno per il gesto di Traini, un brutto gesto. Bisogna liberare l’Italia dalle finanziarie dell’accoglienza, che con tutte le buone intenzioni fanno solo male». In carcere, conclude il coordinatore regionale, «il 45 percento dei detenuti sono stranieri. A Montacuto ci sono 101 stranieri e 179 italiani, e questi ultimi sono quasi tutti non marchigiani. Considerando che gli stranieri regolari in Italia sono il 9 percento della popolazione, il tasso di criminalità è altissimo». Da sinistra Paolo Renna e Andrea Blarasin Renna torna poi sul “caso Macerata”, diventata terreno di scontro nazionale della battaglia politica in vista delle elezioni. «Finalmente – dice il consigliere – il sindaco Romano Carancini ha ammesso che il problema esiste, noi siamo a disposizione. Ma diciamo no alla speculazione politica. Macerata non è razzista, è sempre stata multiculturale e ora merita un po’ di pace. A chi fa accoglienza chiedo più trasparenza. Perché l’ignoranza nasce dalla non conoscenza. Abbiamo fatto domande precise al Gus e deve darci risposte. Ci dovrebbero essere 139 migranti e invece ce ne sono 372 e ne sono previsti 250 in più. Sospendiamo l’accoglienza». Andrea Blarasin aggiunge che rispetto ai due fatti drammatici «c’è stata una reazione incontrollata sui social. Riportiamo un po’ i fatti sul piano della realtà: due eventi criminosi che nulla hanno a che vedere con responsabilità di destra o sinistra. Bisogna riportare i maceratesi a un’unità – continua –. Ed essere più efficaci nella prevenzione, sottovalutata negli ultimi anni. La politica tenga piedi saldi a terra e torni a dare risposte». Elena Leonardi aggiunge che «va data solidarietà alla famiglia di Pamela, che ha trovato la morte in modo così crudele. Così come alle persone ferita dalla mano del folle Traini. Credo che sia importante che la politica si interroghi anche fuori dai confini della regione. Bisogna affrontare il problema della droga e dell’accoglienza a livello nazionale. Innocent era già stato fermato per spaccio a minorenni. Chi pone un problema del genere non è razzista. Si rischiano focolai sociali nella parte più debole della società. Mi sarebbe piaciuto – aggiunge Leonardi – che la presenza dello Stato fosse stata solerte anche subito dopo l’omicidio di Pamela. Un crimine che si lega al problema della droga. Lo Stato deve essere più forte anche nei confronti di quelle che saranno le pene. Questi episodi fanno male anche alle comunità di immigrati che si sono integrate e che vanno distinte nettamente da chi entra in Italia con altre finalità e da chi vive di criminalità. Le scelte politiche sull’accoglienza non stanno facendo il bene del Paese». Anche per Stefano Benvenuti Gostoli «non si tratta di episodi sporadici ma di un reale problema sociale. Per troppi anni la destra che ha sollevato i problemi dell’immigrazione fuori controllo e della criminalità è stata bollata come xenofoba. Purtroppo si è arrivati all’esasperazione del problema e c’è stato il gesto del folle e anche il crimine efferato». Dalla destra sono arrivati anche altri annunci. Forza Nuova sfilerà domani in piazza della Libertà con il coordinatore nazionale Roberto Fiore. Sempre domani Movimento nazionale di Alemanno ha in programma una fiaccolata che dovrebbe partire alle 21 dai cancelli di accesso al centro storico.

Immigrazione a Macerata, il consigliere Marchiori: "Il grande inganno dell'accoglienza", scrive "Picchio News" il 2/11/2017. Un bilancio della situazione accoglienza a Macerata, attraverso i dati ufficiali di Prefettura e Comune, raccolti grazie all'interrogazione fatta dal consigliere comunale di Forza Italia Andrea Marchiori, il quale ha illustrato il punto della situazione sino ad oggi. "Il grande inganno dell’accoglienza. Così potrebbe essere il titolo del progetto ministeriale che in questi anni ha coinvolti gli enti locali e le associazioni nella gestione del fenomeno migratorio. La stragrande maggioranza degli individui coinvolti nella selezione per beneficiare del percorso di integrazione, non ha diritto di accesso ai medesimi progetti con la conseguenza che dopo pochi mesi, nelle migliori occasioni, o pochi giorni, vengono estromessi dalle tutele. Facciamo un esempio: il progetto Sprar “Macerata Accoglie”, che vede il Comune di Macerata quale ente affidatario ed il Gus quale ente gestore, prevede un numero complessivo di 110 richiedenti asilo da inserire in un programma triennale di accoglienza. Il percorso prevede una serie di attività volte sia all’assistenza alla persona che all’integrazione (assistenza sanitaria, alfabetizzazione, inserimento abitativo, inserimento lavorativo, ecc.) che richiede evidentemente un tempo di prolungata permanenza; purtroppo i dati dicono che troppo spesso i richiedenti asilo non posseggono i requisiti per il riconoscimento dello status sicché vengono esclusi e subito avvicendati con altri aspiranti al fine di non far perdere all’ente gestore il contributo ministeriale. Ma che fine fanno coloro che vengono allontanati? Diventano vagabondi con in tasca un documento di identità e con l’amarezza di aver perso all’improvviso quella forma artificiosa di sostentamento che, evidentemente, poco ha a che fare con l’umana solidarietà. Il fenomeno non è di poco conto se si considera che nella nostra città gli immigrati accolti nei vari progetti sono attualmente 373 di cui 101 del solo Sprar del Comune. A tale ultimo riguardo un argomento di esame molto significativo è rappresentato dall’esiguo numero di donne che attualmente è solo di quattro; facile comprendere come non vi sia alcuna possibilità di una prospettiva di integrazione familiare e come dai paesi afflitti dalle guerre riescano a fuggire solo i maschi giovani, lasciando indifesi i bambini, le donne e gli anziani. Viene, poi, naturale domandarsi perché a Macerata, che non è centro di prima accoglienza, giungono immigrati nei cui confronti non è stato ancora accertato lo status e che, ciononostante, riescono ad inserirsi nei progetti ministeriali di accoglienza. In tale contesto vi è senz’altro un grande inganno che mina fortemente la credibilità del progetto nazionale il quale, a luglio 2017, contava 31.313 posti finanziati dislocati in oltre 1.100 comuni. Altro aspetto critico della questione è il rapporto tra popolazione residente e numero di migranti. Il piano c.d. Morcone, che prende il nome dal prefetto Mario Morcone, capo dipartimento immigrazione del Viminale, a seguito dell’accordo siglato tra Ministero ed Anci, prevede l’inserimento nei comuni di un numero pari 2,5 immigrati per ogni 1.000 abitanti. La scheda ministeriale indica per la nostra città un numero massimo di 139 destinatari da inserire in progetti di accoglienza. Il citato Prefetto, lo scorso anno, ebbe a dichiarare: “I sindaci non possono decidere quello che gli pare sui migranti. Dobbiamo avere sì rispetto per chi è stato eletto, ma si presta giuramento alla Repubblica italiana e non si può interpretare questo giuramento a seconda della convenienza politica”; un monito evidentemente rivolto ai Sindaci che non favorivano l’inserimento dei progetti di accoglienza nei propri comuni nel rispetto delle quota suindicata. Ebbene nel nostro Comune il rimprovero al Sindaco dovrebbe essere mosso a contrario dato che il numero ufficiale censito è di 373, ovvero di quasi il triplo oltre il limite suggerito. Se, poi, a questi si aggiungono le centinaia di persone che non risultano ufficialmente risiedere nel comune ma che, tuttavia, vi dimorano, si comprende bene come il problema diventi rilevante anche in termini di convivenza e controllo. Proprio sul controllo va fatta l’ultima osservazione. Anzitutto si deve considerare che tutti i migranti che vengono inseriti nei vari progetti di accoglienza hanno diritto ad ottenere immediatamente il documento di identità, sebbene vi sono stati numerosi casi in cui i dati anagrafici rivelati non hanno trovato coincidenza con quelli reali. Successivamente al rilascio dei documenti il Comune procede all’accertamento dell’effettiva permanenza della residenza nel luogo indicato ed in molte occasione si è appurato che ciò non corrispondeva più in quanto il soggetto aveva, di fatto, abbandonato il progetto di integrazione e con esso la residenza a cui era stato destinato. Un notevole sacrificio di energie da parte del personale dell’Ente e del corpo dei Vigili Urbani, spesso vanificato dalla situazione reale che diventa ingovernabile. A questo punto, tenuto conto dell’evidente presenza sul territorio di immigrati senza meta, che vivono di espedienti, si innesca un enorme lavoro di prevenzione e repressione di crimini da parte di tutte le Forze dell’Ordine che da molti mesi stanno presidiando in modo encomiabile le zone della città più sensibili. Ma la gestione del fenomeno migratorio ed il corretto funzionamento dei progetti di accoglienza non può essere rimesso al controllo sulle strade da parte delle FF.OO. perché il problema di fondo rimane quello di migliaia di immigrati abbandonati a se stessi. Ad oggi vi sono ben 112 soggetti a cui è stato negato lo status i quali hanno presentato ricorso amministrativo ancora pendente ed altri 105 la cui domanda è in fase di esame: quanti di questi potranno inserirsi nei progetti e raggiungere l’obiettivo di una vera integrazione che gli possa garantire un futuro dignitoso nel nostro Paese? Qui sta il concetto del grande inganno che, peraltro, costa milioni di euro e diventa veramente un business incomprensibile."

Profughi, l’accoglienza vale oro: bilancio da 20 milioni per il Gus “Ma i cittadini sono all’oscuro”, scrive Giovanni De Franceschi su cronachemaceratesi.it il 21.7. 2017. Da una parte ci sono uomini, donne e bambini che scappano da guerre e persecuzioni. Viaggi della speranza che diventano troppo spesso disperati tentativi di sopravvivenza. Con cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. Dall’altra c’è un fiume carsico di soldi pubblici gestiti da una onlus che ha raggiunto il bilancio di un’azienda degna di Piazza Affari. In mezzo scorre implacabile quello che inevitabilmente è diventato un vero e proprio business: l’accoglienza dei profughi. Milioni di euro che Comuni, Prefetture e governo spendono ogni giorno per cercare di regalare una nuova vita a chi ha perso tutto. Ma il punto non è se sia giusto o meno spendere quei soldi, piuttosto capire come realmente vengono gestiti. Una questione di trasparenza, insomma. Ed è proprio quella che sembra mancare qui a Macerata. Veniamo ai numeri. Il Comune di Macerata, con due delibere di giunta dell’ottobre scorso, si è fatto carico di proseguire per il triennio 2017-2019 due progetti Sprar (Sistema di protezione per profughi e richiedenti asilo) già avviati negli anni precedenti: “MaceratAccoglie” e “Mosaico”. Il primo è prettamente comunale e riguarda l’accoglienza di 65 profughi (50+15 posti aggiuntivi). Sul piatto ci sono poco più di 2,9 milioni di euro in tutto: 2,7 a carico del ministero e 150mila euro scarsi del Comune. L’altro invece era il progetto gestito dalla Provincia che ha deciso di non rinnovarlo a fine 2016. Ha chiesto di farsene carico sempre il comune di Macerata: prevede l’accoglienza di altri 45 profughi. Un totale di 110 persone da ospitare: il Ministero ha accolto entrambe le richieste e per la seconda sono disponibili 674.662 euro all’anno, più 33mila euro di cofinanziamento comunale. Per un totale di altri 2 milioni di euro e rotti.

I responsabili del Gus. Ma chi è gestisce questa mole considerevole di soldi pubblici? Fino adesso è stata la onlus Gruppo Umano Solidarietà. Per i nuovi due progetti bisognerà rifare una gara d’appalto, ma nel frattempo il Comune ha chiesto che sia concessa una proroga per la gestione del Gus, e ha ottenuto l’autorizzazione. E finché non sarà fatta la gara al Gus andranno 56.221 euro al mese. Il bilancio 2016 del Gus è di 20milioni di euro, con crediti vantati verso gli enti pubblici di tutta Italia per 17milioni circa (9,3 milioni dalle prefetture e 7,2 per i progetti Sprar). L’avanzo di esercizio ammonta a circa 195mila euro. Di questo giro d’affari se n’era occupato anche Il Giornale. E per capire quanto sia aumentato, basti pensare che nel 2013 il Gus aveva un bilancio di 8,2 milioni. In tre anni è più che raddoppiato. Tutto legittimo, per carità, ma i cittadini avrebbero almeno il diritto di sapere nel dettaglio come vengono spesi i circa 40 euro al giorno per ogni profugo che la onlus riceve e gestisce, visto che si tratta di soldi pubblici. Ed è qui che entra in gioco il Comune. Ne sa qualcosa il consigliere d’opposizione di Forza Italia Andrea Marchiori che, a suon di mozioni, ordini del giorno e interrogazioni, sta cercando di rendere più trasparente possibile la vicenda.

Andrea Marchiori. “Quello che a me interessa – spiega il consigliere – non sono tanto i conti interni del Gus, quanto i rendiconti del progetto “MaceratAccoglie”. Il ministero infatti impone al Comune di presentare ogni anno un rendiconto dettagliato delle spese sostenute per l’accoglienza. L’associazione lo redige, lo gira al Comune che a sua volta informa il ministero. Sostanzialmente si tratta dell’atto principale che va a giustificare tutto il progetto. Ora, non si capisce perché la giunta ha sempre evitato di discutere di questo rendiconto in Consiglio, opponendosi alla mia richiesta di renderlo pubblico. Hanno detto che è una questione di privacy, renderlo pubblico, secondo loro, violerebbe i diritti di ogni singolo immigrato. A parte che basterebbe oscurare i nomi e lasciare solo le voci di spesa così come viene fatto in molte altre delibere, ma non si capisce perché, trattandosi di soldi pubblici, c’è tutta questa ritrosia ad essere trasparenti. Non sto criticando il progetto in sé, o i soldi spesi, perché è giusto accogliere chi scappa dalla guerra, non sono certo loro i privilegiati. E’ la mancanza di trasparenza che non è accettabile, la giunta tende a tenere tutto nascosto, in Consiglio non se ne discute. Al contrario, far conoscere come vengono gestiti i soldi pubblici, oltre ad essere un dovere, darebbe modo al Gus di dimostrare che è tutto in regola e eviterebbe di alimentare sospetti e polemiche inutili”. Tra l’altro i consiglieri hanno accesso a questo famoso rendiconto delle spese, ma non possono renderlo pubblico. Come se fosse un atto che riguarderebbe solo pochi e non tutta la cittadinanza.

Dossier sul Gus: “Su 26 milioni di euro nel bilancio non tutto è chiaro e trasparente”, scrive Gabriele Censi su cronachemaceratesi.it il 6.10.2017. Obiettivo trasparenza sulla gestione di 26 milioni di euro di fondi pubblici che compaiono nel bilancio della onlus maceratese che si occupa di accoglienza, il Gus. E’ l’iniziativa del capogruppo di Forza Italia Riccardo Sacchi affiancato da altri rappresentanti dell’opposizione comunale consiliare e non (Francesco Luciani di Idea Macerata, Paolo Renna di Fdi, l’ex consigliera di Macerata nel Cuore Francesca D’Alessandro, Mattia Orioli del Cdu, Anna Menghi e Stefano Migliorelli della Lega). “Rilanciamo dopo le dichiarazioni del presidente del Gruppo Umana Solidarietà, Paolo Bernabucci che ha parlato di trasparenza dell’associazione con i dati pubblicati sul loro sito – spiega Sacchi -. Ho chiesto così a due tecnici di analizzarli e ne è scaturita una relazione che ha invece molte mancanze di trasparenza. Speriamo che siano chiarite, altrimenti andremo avanti in questa iniziativa. Perchè in un momento di grave crisi che viviamo vogliamo saper come vengono gestiti imponenti fondi pubblici, fermo restando la meritoria attività di chi fa accoglienza. Non per aprire una sterile e banale polemica sui tema dell’immigrazione. Tale tematica o problematica è, infatti, di dimensioni epocali e talmente complessa da richiedere un approccio transnazionale più che locale”.

Il dossier è stato elaborato da Massimo Raparo, analista finanziario e Raffaele Pallotto, commercialista, e si concentra su statuto e numeri trovati sul sito del Gus. “L’ultimo bilancio integrale pubblicato è quello del 2015. Il bilancio 2016 non contiene proventi ed oneri. Ad oggi – spiegano i due tecnici – non appare sul sito nessuna delibera assembleare dei soci dell’associazione in riferimento all’approvazione dei bilanci. L’unica certificazione è quella relativa al 2013. Lo statuto recita: “Per l’attuazione dei propri fini statutari l’associazione si avvale in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali volontarie e gratuite dei propri associati salvo i casi di particolare necessità in cui può assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo…”.  Ciò sembra in apparente contrasto con il numero di dipendenti che risulta al 31 dicembre 2016 di 407 unità”. Gli analisti si chiedono se alla luce di ciò la struttura si configuri ancora come attività a carattere volontario come da statuto o abbia una natura diversa: “Non è specificato il numero degli associati”. Altro punto evidenziato: “Non sono previsti organi di controllo di gestione, chi lo effettua?”.  Poi si chiedono chiarimenti anche su immobili esposti nel 2013 in bilancio per 600mila euro senza un fondo di ammortamento. Nel 2014 compare un fabbricato e un terreno per 482mila euro con relativo fondo di ammortamento di un terzo. Evidenziata anche la voce Marchex, società privata che gestisce un circuito di scambi commerciali facente parte del gruppo Sardex. “30mila euro nel 2014 e 190mila nel 2015 riferiti rispettivamente a crediti e proventi. Perchè il Gus partecipa ad attività prettamente commerciali?”. Altro punto su cui si soffermano i tecnici sono le disponibilità liquide: “455mila euro nel 2015 senza dettaglio, 1,724 milioni nel 2016 comprensive di 75mila in cassa. Le norme sul limite al contante fissano in 3mila euro il valore massimo”.

Il dossier prosegue sulle poste di proventi e oneri: “Oneri accessori e oneri di supporto senza nessuna specifica per 120mila euro e 250mila euro nel 2012 e 2013. Nel 2014 1,5 milioni per vitto e abbigliamento, 100mila per ‘altre spese’, un milione per altre spese non identificabili come consulenze, rimborsi spese, donazioni in uscita, contributi straordinari, incontri, corsi e convegni. Nel 2015 scompare la specifica relativa alle spese, i ricavi salgono a 18 milioni, gli oneri per assistenza sono 6,5 milioni, i costi del personale 4,5 milioni e la gestione degli immobili a 2,8 milioni. 150mila euro per oneri diversi”. Nel 2016 ci sono 950mila euro per crediti diversi: “Non si trova alcune specifica su una così rilevante voce”. Attendiamo i chiarimenti e approfondimenti del Gus – conclude Sacchi – per un’ampia condivisione con i cittadini e contribuenti maceratesi”. Intanto sempre sul fronte rifugiati il consigliere Prenna annuncia una interrogazione comunale in merito alla gestione di chi esce dal programma di accoglienza e seppure con un teorico foglio di via resta “abbandonato per la città”. “Ce ne sono ora una ventina e aumenteranno ad un centinaio, come vuole intervenire l’amministrazione?”

Caccia rossa a Salvini. Grasso e Saviano accusano: il leader leghista è responsabile dell’odio. Ma sono loro a odiare il centrodestra, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale".  Forse non odieranno i neri, ma sicuramente Roberto Saviano, Pietro Grasso, Laura Boldrini e compagnia odiano i bianchi. Uno in particolare: Matteo Salvini. Contro il quale hanno aperto, dopo i fatti di Macerata, una campagna violenta e razzista, quella contro la «razza leghista». Saviano è arrivato a scrivere che Salvini (ma con lui tutto il centrodestra) è il mandante politico e morale del pazzo, quello sì razzista, che a Macerata ha aperto il fuoco contro i passanti di colore. Quando superbia, odio e ignoranza si mischiano tra loro - e in Saviano accade spesso - la miscela è esplosiva. Ci dicano questi signori, che per raccogliere due voti in più dei quattro che hanno sono pronti a tutto, un solo atto ufficiale o politico in cui Salvini e il centrodestra abbiano teorizzato l’uccisione di immigrati, regolari o clandestini che siano. Che io sappia, la Lega e i suoi alleati sono più che favorevoli all’unica immigrazione possibile in un Paese civile, ovvero quella controllata e compatibile con un’accoglienza dignitosa. Che a me risulti, Salvini si sgola da anni, come Berlusconi, contro l’illegalità in cui si muovono migliaia di immigrati e contro il lassismo dello Stato che la permette. Salvini, non Saviano, da tempo mette in guardia che, andando avanti così, prima o poi ci sarebbe scappato il morto, perché il matto è sempre in agguato. Cattivi maestri sono semmai Boldrini, Grasso e Saviano, che con la loro politica e i loro scritti hanno fatto credere al nigeriano di Macerata che fosse un suo diritto stare in Italia, nonostante già condannato, a spacciare droga e a fare a pezzi ragazze. Il bello è che quelli che parlano di «cattivi maestri» per il caso di Macerata sono gli stessi che ne negano l’esistenza nel caso dei terroristi islamici, declassati a «cani sciolti». Quando invece lo sterminio degli occidentali è, quello sì, teorizzato dal cattivo maestro Allah, nel Corano, e da centinaia di imam nelle moschee, oltre che da alcuni leader di Stati islamici. Quelli che, per esempio, negano il diritto di esistere di Israele o che pianificano - come il turco Erdogan, che oggi sarà in Italia, ricevuto con tutti gli onori - lo sterminio dei curdi e il carcere o la pena di morte per gli oppositori, politici o giornalisti che siano. La verità è che la salvezza degli immigrati sta proprio nella ricetta di Salvini e Berlusconi. Al contrario, la loro fine razzista, mascherata da buonismo, è di continuare a dare credito a Saviano e Grasso, che evidentemente, fin da piccoli, hanno avuto cattivi maestri. Tornate a scuola, studiate e smettetela di seminare odio tra gli italiani. Il fatto che non utilizziate la pistola non vi rende migliori di chi la impugna.

Meloni: "Per la sinistra immigrato ​vince su donna stuprata". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo: al centro l'immigrazione, scrive Franco Grilli, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo. La leader di Fratelli d'Italia durante un'iniziativa elettorale a Firenze ha parlato del tema dell'immigrazione. E su questo punto la Meloni sottolinea le differenze tra il centrodestra e la sinistra: "Va bene tutelare le donne, ma nella gerarchia della sinistra immigrato vince su donna violentata e questa non è la mia Italia: la mia Italia è un Paese in cui si rispettano le regole". Inevitabile un commento anche sulla vicenda di Pamela Mastropietro, la ragazza fatta a pezzi da un nigeriano e ritrovata dentro due trolley: "Purtroppo dal Pd, da Renzi, dalle istituzioni non mi aspettavo un atteggiamento omertoso verso alcuni fatti di cronaca, come il caso della povera Pamela, perché significa riconoscere che la politica ha sbagliato qualcosa. C'è un nesso, dimostrato dai dati del Viminale, tra l'aumento dell'immigrazione incontrollata e l'aumento dei reati. Siccome la politica questo non lo può riconoscere fa finta che questi fatti non esistano. Io sono stata la prima a chiamare la mamma di Pamela, e mi fa specie che ci siano file di ministri che sono andati a Macerata all'indomani della sparatoria di quel pazzo ma il giorno prima, quando c'era una madre che piangeva sua figlia, non abbiano sentito il bisogno di farsi vedere o sentire la madre", ha affermato la Meloni. Infine riassume il suo programma così: "Nella nostra Italia chi rispetta le regole verrà aiutato, chi non le rispetta no".

Roma, le tre figlie di Giacobbo aggredite per strada a Trastevere. Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere, scrive Luca Romano, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere. Le tre sorelle stavano facendo una passeggiata in uno dei quartieri più turistici della Capitale. Un marocchino di 29 anni, Abdel Jebar El Karafli, le avrebbe minacciate con una bottiglia in mano. L'obiettivo del malvivente erano i loro telefonini. Una delle figlie del conduttore ha inziato ad urlare e ha chiesto aiuto. A questo punto, come riporta il Corriere, il marocchino ha provato a colpirla alla testa con la bottiglia. L'uomo poi è fuggito ma è stato fermato da una pattuglia della polizia. Immediatamente è scattato l'arresto e adesso l'uomo si trova nel carcere romano di Regina Coeli. Di fatto gli investigatori adesso pensano che dietro ad altri furti e rapine possa esserci lo stesso marocchino. I colpi sarebbero stati messi a segno sempre a Trastevere e a Borgo Pio. Le figlie di Giocobbo sono state poi soccorse dagli stessi agenti della polizia e dal 118.

Il nigeriano e il buonista, scrive Giampaolo Rossi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". PRIMO E SECONDO

Il primo è un nigeriano. Il secondo è un buonista.

Il primo è un criminale. Il secondo è un idiota.

Il primo fa lo spacciatore, a volte il ladro e forse anche l’assassino e il macellaio sui corpi di povere ragazze. Il secondo fa il politico di sinistra, l’intellettuale impegnato, il volontario delle Ong con i soldi di Soros, il fighetto radical-chic con il culo degli altri.

Il primo è un nigeriano, il secondo è un buonista. Il primo è un criminale, il secondo è un idiota.

Il primo è un immigrato irregolare con precedenti penali che gira libero per le nostre città a spacciare e a delinquere come se niente fosse. Il secondo è un italiano regolare a cui dell’Italia non frega nulla ma grazie alle sue idee sballate, alla sua ipocrisia pelosa, ci sta riempiendo di rifiuti umani che vengono a distruggere la nostra già difficile convivenza civile.

Il primo, il nigeriano, è scappato dal suo Paese a causa della guerra, ci dicono. Ma da che mondo è mondo dalle guerre scappano le donne e i bambini mentre lui è un uomo di 28 anni. E francamente è strana questa immigrazione che porta in Europa masse di giovani sani di corpo e di mente e lascia sotto le bombe e le persecuzioni i più indifesi. Il secondo, il buonista, vive da sempre qui, gode della libertà e della sicurezza che gli sono garantiti ed è così stupido da convincersi che facendo entrare tutti, lui faccia il bene di queste persone e di se stesso, mentre fa solo il bene dell’élite globalista che pilota questo esodo di nuovi schiavi.

Il nigeriano, quello che si traveste da profugo, da povero, da diseredato, è solo uno schifoso delinquente che si approfitta della possibilità che noi diamo a lui per farsi manovalanza delle organizzazioni criminali, in cambio di facili guadagni.

Il buonista, quello che si veste di solidarietà, è solo uno schifoso schiavista, uno di quelli che è convinto che gli immigrati ci pagheranno le pensioni o che è meglio farli entrare tutti così li mettiamo a raccogliere i pomodori come dice Emma Bonino (e questo solo perché in Italia non coltiviamo cotone come nella Virginia del XIX secolo).

NON SOLO…

Il nigeriano non è solo il nigeriano; è anche il tunisino, il marocchino, il bosniaco insomma è tutti quelli che chiamiamo clandestini e che una volta in Italia si mettono a rubare, stuprare, spacciare, assassinare, rafforzando la già folta fauna di delinquenti nativi.

Il buonista non è solo il buonista; è anche l’antirazzista, il progressista, il catto-comunista, l’umanitarista, il prete arcobaleno, la femminista, insomma tutta quella poltiglia di retorica ed ipocrisia che alimenta una sottocultura che sta mandando in malora la nostra Nazione.

Sia chiara una cosa: il nigeriano e quelli come lui non hanno nulla da spartire con gli stranieri che in Italia vengono a lavorare, che rispettano le leggi e che magari sognano un giorno di diventare cittadini di questo Paese. A loro va il nostro aiuto e la nostra vera amicizia. Mentre al contrario, il nigeriano e il buonista, l’irregolare e il suo complice italiano, il criminale che abusa della nostra libertà e l’idiota che lo legittima e lo fa entrare, rappresentano la feccia di questo Paese. Entrambi vanno messi nella condizione di non nuocere: il primo, il nigeriano, ficcandolo in galera il tempo che occorre e poi rispedendolo a casa sua a calci nel sedere. Il secondo, il buonista, impedendogli democraticamente di continuare a governare questo Paese e a perpetrare i danni fin qui fatti.

Gli immigrati stanno sostituendo gli italiani,  Andrea Pasini, scrive il 6 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un Paese senza ​natalità è uguale ad un paese destinato all’estinzione. ​Gli immigrati intanto sostituiscono gli italiani. Ma la vergogna più assolta e che ​nessun partito politico in corsa per queste elezioni è capace di proporre ​una soluzione concreta per ​porre un argine a ​questa tragica problematica. Sono Andrea Pasini un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio e non mi vergogno di dire che grazie all’incompetenza della classe politica italiana il nostro paese tra non molti anni diventare patria di nessuno e il popolo italiano si estinguerà. Il futuro di una Nazione sono i suoi figli, ma in Italia si è smesso di procreare. I dati sono impietosi, per non dire vergognosi. Al primo gennaio 2017 l’Istat parlava chiaro, sì è passati dai 486mila neonati dal 2015 (minimo storico dal 1861 ad oggi) a 474mila nuove nascite. Negli astri delle culle l’oblio della scomparsa. La fecondità per ogni singola donna è di 1,34 figli, portato verso l’alto dalle straniere che toccano punte di 1,95, mentre le italiani si attestano, dati del 2015, a 1,27 figli. La fotografia sulla situazione attuale è molto facile da tratteggiare. I dati sul processo di invecchiamento della popolazione in Italia sono a due poco catastrofici. Al primo gennaio 2017 l’età media dei residenti, secondo l’istituto di statistica, è di 44,9 anni, due decimi in più rispetto al 2016 (corrispondenti a circa due mesi e mezzo) e due anni esatti in più rispetto al 2007. Gli individui di 65 anni e più superano i 13,5 milioni e rappresentano il 22,3% della popolazione totale (11,7 milioni nel 2007, pari al 20,1%). Ma sono soprattutto gli ultranovantenni a registrare un aumento sensibile: al 1 gennaio 2017 sono 727 mila, un numero superiore a quello dei residenti in una grande città come Palermo”. L’Italia, spiace constatarlo, non è un Paese per giovani. Più morti che vivi. Uno scenario alla zombie di Romero, dove la Grande Sostituzione, tema centrale negli scritti di Renaud Camus, diventa una realtà allarmante che i nostri governanti non sanno (o non vogliono) vedere. Una diaspora. Centomila persone in meno nel 2014 nel computo tra nati e deceduti, come se Udine o Piacenza scomparissero in una notte, in un amen. La nostra è una preghiera che però rimane inascoltata. Nascosta in un cassetto, laddove nessuno può sentire il lamento sordo di un popolo caduto nel precipizio della storia. Una guerra combattuta senza armi materiali, ma a colpi di decreti, a colpi di disoccupazione, a colpi di lavoro che non c’è. Questi sono concetti che devono far riflettere. Detto questo come è possibile biasimare le giovani famiglie, impossibilitate a mettere al mondo figli perché altrimenti non riuscirebbero a mantenerli? Uno stipendio da 1000 euro non basta per due persone, figuriamoci se il nucleo familiare si allarga a tre. L’Italia muore, ma non per volontà degli italiani. Il governo, la politica ci uccide giorno dopo giorno, un passo alla volta, con nuove tasse, con nuove leggi che ci distraggono dal nostro presente e annullano il futuro dei nostri figli. Ormai da troppo tempo i soldi degli italiani non vengono investiti e nemmeno redistribuiti ai cittadini. Le politiche sociali stanno conoscendo un’agonia irreversibile. Dove vanno, vi starete chiedendo, tutti questi miliardi di euro? Finiscono per alimentare il sistema clientelare, marcio ed appestato, che mantiene in vita una manciata di politicanti da strapazzo. Colate laviche di danaro sugli stranieri e nulla per chi da millenni occupa questo lembo di terra. Difficile a credersi, ma è così. 1050 euro al mese per ogni immigrato, 480 euro al mese per una pensione sociale e 40 euro al mese per un neonato. Questo è quanto spende lo Stato in termini di Welfare State. Dunque quando parlo di sostituzione di popolo non racconto una favola populista, ma racconto una realtà agghiacciante. Un Paese non può crescere senza soldi. Una coppia non può mettere al mondo dei figli quando non ha abbastanza danaro per fare la spesa. Viviamo in un Paese che garantisce maggiori diritti agli stranieri rispetto ai suoi cittadini. I nostri avversari sono un gruppo di politici che cercano di accaparrarsi voti millantando doti caritatevoli. L’Italia muore e chi la uccide ha lo sguardo fisso verso il mare. Mi viene da sorridere pensando alle dichiarazioni di Boldrini&Co. in campagna elettorale. Prima promotori di un coro unanime a favore degli immigrati, ora redarguiscono Salvini. Perché non si occupano abbastanza degli italiani. Pazzia. Tremenda pazzia. Mentre rischiamo di scomparire nel volgere di qualche generazione. A nessuno sembra importare nulla dell’avvenire italiano. Le proposte dei leader dei partiti, in campo in questa campagna elettorale, sono molteplici, ma non ho ancora sentito proporre un piano preciso e dettagliato che incentivi concretamente la natalità. I nascituri sono la linfa vitale di un Paese sano, incapace di arrendersi ad un destino nefasto, ma che soprattutto non vuole estinguersi. Eppure la politica 2.0 sembra non interessarsene. Ed i parlamentari, capaci solamente di blaterare, devono pensare al domani di un’Italia appesa ad un filo. Tutto questo risulta vergognoso.

Vittorio Feltri il 4 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": chiudiamo le frontiere, o sarà soltanto l'inizio. A forza di condannare il razzismo che non c’era, il razzismo è arrivato, come nel nostro piccolo avevamo previsto. L’accoglienza indiscriminata e continuativa di immigrati, specialmente neri, ha provocato il rigetto. Era ovvio che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato all’invasione degli africani. Gli imbecilli che hanno spalancato le porte agli stranieri sono stati pregati da noi di non esagerare, nel timore che nel breve il casino sarebbe scoppiato. Non ci hanno dato retta, anzi si sono abbandonati a una serie di attacchi nei nostri confronti come se auspicassimo l’esplosione di episodi di violenza contro la gente di colore, verso la quale non nutriamo alcun sentimento negativo. Anzi, facciamo di tutto affinché riceva l’assistenza che merita. Il problema, che abbiamo sempre fatto presente ai fessi del governo e in generale della sinistra acefala di stampo boldriniano, è un altro: l’aumento degli ingressi nel nostro Paese, se non controllato, era fatale che avrebbe acceso la miccia del razzismo. Ciò in effetti è avvenuto nelle Marche come dimostra l’ultimo fatto di cronaca: un cittadino di Macerata, arbitrariamente interprete di una esasperazione diffusa, ha premuto il grilletto a casaccio contro poveri nigeriani incolpevoli, simbolicamente responsabili di aver ridotto l’Italia a ricettacolo di spacciatori di droga e di assassini capaci di uccidere e di fare a pezzi una ragazza indigena di 18 anni. Non possiamo non condannare una simile azione disgustosa; è altrettanto vero che per giudicarla occorre comprenderne il movente. Che è esattamente quello che abbiamo indicato: il sovraffollamento di extracomunitari non viene sopportato dalla massa, che pertanto si ribella anche in forme violente. Nessuno in linea di principio ce l’ha coi signori dalla pelle scura, ma se costoro si impadroniscono delle città e incrementano attività delinquenziali, fatalmente vanno incontro a reazioni da parte di nostri connazionali privi di scrupoli. Non c’è da stupirsi se i neri dilaganti nel ramo della delinquenza incrementano il razzismo, poiché i nostri concittadini si sentono assediati da uomini sconosciuti e pronti a delinquere. I quali non hanno altri mezzi che non siano criminali per sopravvivere in una società che proclama di accogliere chiunque senza poterlo fare. Chiudere le frontiere significa evitare guai, però la nostra politica non è in grado di farlo per mancanza di coraggio e dignità. La fabbrica del razzismo ormai è aperta e tra un po’ ci azzanneremo per le strade: sarà battaglia tra bianchi e neri che non saranno razze, ma sono diversi. Basta guardarli in faccia. Vittorio Feltri

Vuoi una frase da duro? Leggi Plutarco. Nei suoi "Detti memorabili" trionfa l'etica militare degli spartani, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Gli antichi greci li chiamavano apoftegmi, li consideravano il sale della politica e della retorica e amavano raccoglierli. Cosa sono? La parola viene dal verbo apophtheggomai, «enunciare una cosa in forma definitiva», e indica una massima, spesso pronunciata da un personaggio importante e ritenuta così brillante da meritare di essere tramandata e riutilizzata alla bisogna. Erano davvero così efficaci? Winston Churchill ha modellato molti dei suoi discorsi più noti pescando dai repertori della letteratura classica greca e latina. Ora arriva in libreria il meglio del frasario raccolto dal più grande biografo dell'antichità, Plutarco (48 - 127 d.C.). L'autore delle Vite parallele nella sua opera principale aveva sciolto molti di questi memorabilia linguistici nella narrazione delle esistenze dei grandi, da Licurgo ad Antonio. Ma già allora si era accorto che il suo pubblico ne era troppo ghiotto e decise di raccoglierle. Ecco allora spiegata la genesi del volume che ora arriva in libreria, a cura di Carlo Carena: Detti memorabili. Di re e generali, di spartani, di spartane (Einaudi, pagg. 234, euro 28). Mancava sino ad ora un'edizione italiana che separasse e rendesse comodamente fruibili e confrontabili queste schegge raccolte o inventate da Plutarco (del resto solo dall'anno scorso esiste una valida edizione dell'insieme dei Moralia fatta da Bompiani). La prima delle tre raccolte lo storico greco la dedicò direttamente all'imperatore Traiano, in modo che potesse farsi consigliare dai suoi pari, i monarchi precedenti. Ma che si tratti di questa o delle altre due, ciò che aleggia attraverso tutti i testi è il mito di Sparta. I lacedemoni, maschi e femmine, titolati e non, la fanno da padroni. Con accenti e toni non lontanissimi, se ci consentite un paragone molto pop, da quelli di un fumetto fantastorico come 300 (o dell'omonimo film). Plutarco fa della durezza spartana (che pur sapeva eccessiva) strumento didattico, la parte di cultura greca più facilmente cucinabile in salsa romana. Del resto a quale centurione non starebbe simpatico lo spartano Agide? «Gli spartani non vogliono sapere quanti sono i nemici, ma dove sono». E Cleomene? A chi voleva vendergli dei galli pronti a morire combattendo: «No davvero, dammi di quelli che combattono e uccidono». Ad Agesilao (444 - 360 a.C.) poi vengono attribuite frasi che farebbero la fortuna di ogni sceneggiatore hollywoodiano del genere Swords and sandals. Alla domanda fino a dove si estendevano i confini della Laconia rispode, brandendo la lancia: «Fino a dove giunge questa». Il consiglio a uno spartano zoppo che vuole un cavallo per la battaglia? «Non capisci che in guerra non serve chi fugge ma chi resiste». Ma se Plutarco è l'inventore della Sparta che piace al cinema, leggendolo vi accorgerete che molte delle metafore care agli umanisti, compreso il celebre binomio «Golpe et lione» di machiavelliana memoria, sono in realtà farina degli apoftegmi dello storico greco.

Ma gli italiani sono razzisti? Un saggio di Manconi e Resta, scrive il 4 Febbraio 2018 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha firmato il decreto di conferimento a Luigi Manconi dell’incarico di Coordinatore dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), nell’ambito del Dipartimento per le pari opportunità. Lo ha reso noto Palazzo Chigi. Il professor Manconi è docente di Sociologia dei fenomeni politici. Nel corso della XVII Legislatura ha ricoperto il ruolo di presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. L’incarico presso l’UNAR, che il professor Manconi svolgerà a titolo gratuito, avrà inizio a decorrere dal 24 marzo 2018.

Ridotte al rango di una «breve», le tragedie dei migranti nel Mediterraneo non fanno quasi più notizia. Vige la cinica regola del giornalismo: ciò che diventa consueto non merita grandi titoli. Peccato che sia in gioco la nozione stessa di umanità, come non smette di ammonire papa Francesco. Ieri l’ennesimo naufragio di un barcone carico di pachistani al largo delle coste libiche, costato novanta vite, ha aggiornato il macabro calcolo degli esuli deceduti in mare, che beffardamente chiamiamo ancora mare nostrum. Sono duecentoquarantasei nell’ultimo mese, il peggiore dal giugno scorso, il che smentirebbe l’efficacia del «codice di condotta» per le Ong varato dall’Italia nell’agosto 2017 fra aspre polemiche. E sono dodicimila i morti dal 2014 a oggi, stando all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Ginevra. È una strage che può evocare la Shoah. Identica la tentazione di «girare la testa dall’altra parte», ha ricordato la neo-senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Che fine hanno fatto gli «italiani brava gente» di un celebre film?

Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura è il titolo di un recente saggio di Luigi Manconi e Federica Resta (Feltrinelli ed., pagg. 150, euro 15,00). L’impegno politico di Manconi viene da lontano, dal ‘68, e giunge fino al Senato, dove nella legislatura agli sgoccioli è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani. Un impegno coltivato di pari passo con gli studi sociologici (insegna all’Università IULM di Milano). Federica Resta, di origini pugliesi, è un giovane avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali, autrice di ricerche sull’11 settembre e le Vecchie e nuove schiavitù (Giuffrè, 2008).

L’Italia è dunque un paese razzista? Manconi e Resta rifuggono dalle semplificazioni, tracciando una rotta innanzitutto linguistica e perciò politica. Difatti la posizione perentoria o l’appello tranchant rispondono a «quel fondamento costitutivo di ogni razzismo che è lo stigma generalizzante». Gli Autori se ne tengono alla larga e invitano piuttosto a percorrere e a scandagliare la linea d’ombra, di volta in volta più scura, tra le nostre auto-rappresentazioni o proiezioni freudiane e il dato di realtà che prende pur sempre le mosse dal lessico. Sicché quell’espressione ricorrente in certi talk show, «Non sono razzista, ma», fa emergere proprio nell’avversativa l’autentica opinione di chi parla: l’ostilità verso l’altro o quanto meno l’ipocrisia.

Certo, gli italiani non possono considerarsi razzisti tout court, scrivono Manconi e Resta. Tuttavia, in nome della guasconata «cattivista» alla Calderoli, va scemando rapidamente il «tabù del razzismo». Le responsabilità sono numerose e sfaccettate, per esempio il venir meno delle «grandi agenzie di formazione del senso comune, dalla chiesa cattolica ai partiti politici». Eppure lo scenario della globalizzazione riguarda, volenti o nolenti, i popoli quanto e più delle merci. E i dati sconsigliano le invettive e fanno riflettere: gli stranieri regolari in Italia sono l’8,2 per cento della popolazione e producono 8 punti di Pil (circa 100 miliardi di euro l’anno). Altro che il presunto «buonismo» attaccato dalla Lega di Salvini! Alla luce del calo demografico, avremmo necessità di più stranieri per garantire la produttività del sistema e il pagamento delle pensioni, come dice Tito Boeri, il presidente dell’Inps.

La proposta del libro? Sovvertire il paradigma: «In ciascuno di noi - dichiarate o censurate - covano forme di intolleranza e pulsioni xenofobe. Negarle è vano e controproducente. Forse vale la pena adottare, per contrastarle, una strategia minimale e, per così dire, di riduzione del danno... Rovesciamo quella frase e iniziamo a pensare e a dire: “Io sono (un po’) razzista, ma...”. E quel “ma” significa: voglio capire, voglio sapere». In tal modo, sostengono Manconi e Resta, riusciremo forse a evitare o a contenere la guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i penultimi (gli italiani poveri). Essa infiamma i quartieri più degradati delle nostre città, nell’impotenza della politica e delle élite, in primis della sinistra accusata di essere accogliente perché «se lo può permettere». L’«ideologia del guscio» segnalata dallo storico Aldo Schiavone, cova in nuce, appunto, «nuove» manifestazioni di fascismo e un timor panico incontrollabile che è fra i motivi profondi del declino europeo. Non si può fermare un flusso di umanità, mentre ogni frontiera è una formidabile occasione di rigenerare visioni e caratteri collettivi, mette in gioco chi è al sicuro non meno di chi rischia la vita in mare per attraversarla. È una «metafora dell’esistenza» perché il naufragio coinvolge «lo spettatore» sulla terra ferma, secondo il filosofo tedesco Hans Blumenberg, che prende le mosse dal De rerum natura di Lucrezio in un saggio edito in Italia dal Mulino. D’altronde è arduo concepire una società aperta senza un afflato di generosità. Soprattutto, a proposito di minoranze (le comunità rom e sinti tra le altre), vale il principio per cui «la violazione di un diritto si ripercuote sull’intero sistema dei diritti». Discernere, dare il nome alle cose e alle persone, e alle vittime del mare oltraggiate dall’anonimato... Ecco un impegno contro l’indifferenza, ecco la Politica di ogni giorno.

Macerata assediata dai girotondi antifascisti. Città impaurita e blindata nel giorno del corteo Gentiloni: «Il Ventennio è fuori dalla Costituzione», scrive Massimo Malpica, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale".  Fa più paura un corteo del pistolero Traini. Fa più paura una manifestazione - ora autorizzata - del timore di uno spacciatore che fa a pezzi una ragazza. Macerata si sente sotto assedio. Ma più dei fatti di cronaca che le hanno regalato questa improvvisa e per niente voluta notorietà, a spaventarla è proprio questa attenzione. Di Macerata parla anche il premier Paolo Gentiloni. «Atteggiamenti e discorsi che si rifanno al nazismo e al fascismo - ha detto - sono fuori dalla Costituzione». E in città ci sono giornalisti, telecamere, i politici che sfilano ogni giorno, la polizia e i carabinieri mai così presenti e visibili: tutte cose che la bella cinta muraria cinquecentesca di Macerata non può certo arginare. Proprio intorno alle mura, oggi, sfilerà il corteo antifascista e antirazzista. Prima negato, poi autorizzato. Ci saranno i centro sociali, la Fiom, annunciati pure Gino Strada e Pippo Civati, Sabina Guzzanti e Nicola Fratoianni, l'Arci, Potere al Popolo, rappresentanti dell'Anpi «a titolo personale», Libera e via dicendo. Ci saranno anche maceratesi, ma il grosso della città guarda con diffidenza a cortei e manifestazioni. Di qualsiasi colore. Non certo perché si sente vicina a Traini, o perché approva il tiro a segno all'immigrato andato in scena una settimana fa. Semplicemente vuole voltare pagina. E in molti invece si sentono tirati per la giacca, usati dalla politica per meri fini elettorali. Così oggi la città chiude, nemmeno fosse davvero sotto attacco. Niente scuole, anche se la manifestazione inizierà alle 14. Stop anche ai trasporti pubblici. E persino i negozi del centro, che pure dovrebbe restare fuori dal percorso del serpentone antifascista, dicono di voler lasciare le serrande abbassate, «perché non si sa mai». Ci sono gli allarmisti («rischiamo di fare una Genova», esagera un tabaccaio a due passi da piazza della Libertà), i prudenti («alle 13 si chiude, poi vediamo che succede e decidiamo», spiegano in una boutique del centro) e i nauseati. Come Carla, commessa di un negozio di abbigliamento dai bei soffitti affrescati, che allarga le braccia e sbuffa. «Qui non siamo abituati a 'ste cose. Scontri di piazza, cortei, giornalisti ovunque. La cosa triste è che quello che è successo non conta niente, l'hanno buttata in politica con le elezioni tra meno di un mese e questo mi fa schifo». «Ora - continua - vengono ministri e big politici, la polizia arresta un pusher al giorno e la vita tranquilla è sconvolta. Poi tutto tornerà come prima. Anche i problemi però, perché gli spacciatori ai giardini Diaz ci sono sempre e scommetto che torneranno presto pure loro, appena il circo leverà le tende». Intanto sulle vetrine di molti negozi, ieri, sono apparsi cartelli rossi con la scritta «Peace in Macerata» circondata da un cuore. Un'iniziativa di Paolo, titolare del bar Hab, che pure qualche sassolino dalla scarpa se lo vuole togliere. Perché mercoledì è bastato che il leader di Casapound Simone Di Stefano si fermasse lì a prendere un caffè per etichettare il locale e lo stesso Paolo come «fascisti». Qualcuno ha addirittura postato sulla pagina Facebook del corteo odierno una foto del bar, indicandolo come «il posto che oggi ha ospitato Casapound» e invitando a boicottarlo. «Si è beccato una denuncia alla Digos», ringhia ora il titolare del locale. «Servire un cliente ti fa connotare politicamente? Sono tutti impazziti. Macerata è sacrificata sull'altare di una strumentalizzazione da parte delle forze politiche, tutte affannosamente intente a cavalcare in chiave elettorale gli ultimi fatti di cronaca». «Purtroppo - conclude - questa città è pavida, perché ha la tranquillità nel suo Dna. Altrimenti dovremmo scendere in piazza noi, pretendendo una sola cosa. Rispetto per Macerata».

La manifestazione antifascista di Macerata? L’ultimo chiodo sulla bara della sinistra italiana. Non c’è errore più grande di una manifestazione anti-fascista a Macerata. Un assist clamoroso alla destra securitaria. Ma soprattutto la prova provata che la sinistra non ha capito perché i “penultimi” l'hanno abbandonata. E continua pervicace ad accanirsi su di loro, scrive Francesco Cancellato su "L’Inkiesta” il 9 Febbraio 2018. Fantastico. Con la polemica sulla manifestazione sì o no di sabato prossimo a Macerata, con la presumibile presenza di centri sociali e neofascisti che se le daranno di santa ragione, con le successive dichiarazioni di Salvini e dei suoi antagonisti che terranno banco la settimana successiva, a occhio e croce arriveremo al 4 marzo parlando di immigrazione e ordine pubblico. E chiuderemo questa meravigliosa campagna elettorale a riflettere pensosi sullo smottamento a destra del Paese, a chiederci per l’ennesima volta se il fascismo sia o meno l’autobiografia della nazione, a prometterci di tornare sui territori, da domani, per capire cosa non avevamo capito. Le cose, in realtà, sono molto più semplici di così. C’è stato un doppio caso di cronaca - l’omicidio di Pamela Mastropietro, la caccia al migrante di Luca Traini- che ha fornito a destra e sinistra le prove delle proprie ossessioni: il coinvolgimento di uno spacciatore nigeriano clandestino ha offerto alla destra la prova inconfutabile che la grande invasione degli stranieri è un fenomeno sociale incontrollabile; la folle azione di Luca Traini ha convinto la sinistra che siamo praticamente in Germania, nel 1933. Nessuna delle due ossessioni è vera - né a Macerata, né nel resto del Paese - e nessun numero è in grado di suffragarla. Ma evidentemente siamo in una di quelle fasi della storia di questo Paese in cui la ragione si prende un anno sabbatico. Soprattutto a sinistra, perdonate l’assenza di equidistanza, dove alcuni ancora faticano a capire quanto la manifestazione di sabato sia in realtà uno dei più clamorosi boomerang possibili.

Primo: perché genera problemi di ordine pubblico in una realtà traumatizzata da problemi di ordine pubblico. E indovinate da che parte si vota, quando il problema è l’ordine pubblico. È francamente paradossale vedere i terzultimi che se la prendono coi penultimi perché si accaniscono sugli ultimi, mentre i primi, i secondi e i terzi si godono lo spettacolo alla televisione, sgranocchiando popcorn.

Secondo: perché mostra impietosa la follia di uno schieramento progressista che marcia unito contro il pericolo fascista, ma poi si presenta balcanizzato alle urne, tra tre settimane. Delle due, una, ragazzi: o siamo nell’imminenza di una dittatura, e allora si va tutti assieme a sparare in montagna. Oppure mettete giù il fucile e il fazzoletto rosso e discutiamo tutti insieme di Jobs Act e Buona Scuola. 

Terzo, perché confonde causa ed effetto, perpetrando la teoria che il neofascismo faccia proseliti perché ha visibilità in piazza, o da Mentana, o da Formigli, laddove invece è esattamente il contrario: la visibilità arriva perché il neofascismo fa proseliti nei luoghi - fabbriche, periferie, aree di crisi - che la sinistra ha abbandonato.

Quarto, più importante: perché è francamente paradossale vedere i terzultimi che se la prendono coi penultimi perché si accaniscono sugli ultimi, mentre i primi, i secondi e i terzi si godono lo spettacolo alla televisione, sgranocchiando popcorn. Già: quei penultimi che un tempo, quand'erano ultimi, votavano proprio a sinistra. E che sono stati definiti dei lobotomizzati catodici quando si sono messi a votare Berlusconi, dei razzisti quando hanno barrato il simbolo di Alberto da Giussano, analfabeti funzionali se folgorati dal Movimento Cinque Stelle. Senza che mai si provasse davvero a comprenderne il disagio, senza che mai vi fosse qualcuno che chiedesse conto del loro smarrimento: “La cosa più stupida che possa accadere nei prossimi mesi è una riedizione dell’antifascismo militante, con scaramucce nelle strade e nelle piazze, morti e feriti soprattutto dalla nostra parte. Nei confronti dei miserabili occorre esercitare la pietà, l’ironia terapeutica e la pazienza. Perdona loro perché non sanno quello che fanno. Perdona loro perché sono vittime come le loro stesse vittime”, scrive Franco “Bifo” Berardi, ancora oggi uno dei più radicali e lucidi teorici dell'antagonismo di sinistra, in un articolo intitolato “Antifascismo? No grazie”. E forse non poteva essere detta meglio. Finirà malissimo.

Luca Traini, il suo avvocato attacca la sinistra: "Orlando e Grasso sono venuti qui a fare comizi", scrive il 9 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Poche ore dopo l'arresto di Luca Traini, a Macerata si sono fiondati il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente del Senato Pietro Grasso. Nulla a che fare con la volontà delle istituzioni di essere presenti in un luogo travolto da due terribili fatti di cronaca, la morte atroce della 18enne Pamela Mastropietro e la sparatoria scatenata da Traini. Per Orlando e Grasso l'occasione era troppo ghiotta, in piena campagna elettorale, per non approfittarne. Una strumentalizzazione bella buona, come dice al Tempo l'avvocato del ragazzo, Giancarlo Giulianelli: "Non si può far campagna elettorale sulla pelle di Luca Traini. È gesto che i magistrati si possano esprimere in modo sereno sul mio cliente. Invece - ha aggiunto l'avvocato - l'arrivo in città del ministro della Giustizia e della seconda carica dello Stato, entrambi candidati alle elezioni, potrebbero creare condizionamenti". Il timore dell'avvocato è che Traini sia condannato ben prima che il procedimento a suo carico cominci. I presupposti per renderne il colpevole perfetto in fondo ci sono tutti. Traini è un simpatizzante dell'estrema destra, in casa sua i carabinieri hanno ritrovato libri e bandiere inneggianti al nazismo. Per non parlare del suo aspetto fisico, dal tatuaggio della runa sulla tempia destra, da cui il soprannome "Lupo", al fisico imponente e l'aria da perenne arrabbiato. Per la sinistra insomma è già bastato vederlo in faccia per decidere di gettarlo in cella e buttare le chiavi. Il comportamento del ministro, secondo l'avvocato Giulianelli, si commenta da solo: "Orlando sta facendo comizi elettorale, pur essendo ancora ministro, con un ruolo che dovrebbe essere super partes. Luca Traini deve essere giudicato da giudici di cui lui sovraintende l'organizzazione giudiziaria". L'unica speranza per l'avvocato è che i magistrati maceratesi continuino sereni con il proprio lavoro: "Sono certo comunque che i giudici del Tribunale di Macerata, e gli stessi inquirenti, non si lasceranno influenzare dalla diatriba politica che ha suscitato questo caso".

Sputi, cori e lanci di bottiglie: centri sociali aggrediscono la Meloni. I centri sociali aggrediscono la leader di FdI intonando "Bella Ciao". Lei: "Sono i soliti vigliacchi, volete stare con loro?", scrive Chiara Sarra, Martedì 13/02/2018, su "Il Giornale". Sputi, cori e lanci di bottiglie. Intonando Bella Ciao i centri sociali hanno aggredito Giorgia Meloni, a Livorno per incontrare i commercianti. Il tutto documentato in un video pubblicato su Facebook dalla stessa leader di Fratelli d'Italia e girato mentre le forze dell'ordine la proteggevano dall'assalto. "A Livorno oggi le due Italie che si confrontano il prossimo 4 marzo", ha spiegato poi la Meloni alla stampa, "Da una parte Fratelli d'Italia che parla con i commercianti, con le persone comuni, di sicurezza, di tutela del piccolo commercio, di identità, di marchio italiano. Dall'altra i soliti quattro deficienti dei centri sociali che quattro giorni fa in branco prendevano a calci un brigadiere dei carabinieri mentre era a terra e che oggi vogliono impedire a me di parlare. Scegliete da che parte stare, italiani. Scegliete se stare dalla parte degli antidemocratici o della democrazia e della libertà. Ringrazio il lavoro impagabile delle nostre forze dell'ordine che hanno svolto anche oggi un servizio esemplare per fronteggiare i soliti vigliacchi dei centri sociali che volevano impedirmi di passeggiare e incontrare i commercianti".

Ignazio La Russa umilia sessualmente Cecilia Strada: "Scopate con le comuniste, anche solo per...", scrive il 14 Febbraio 2018 Libero Quotidiano". Una risata li seppellirà, e verrà da destra. Ignazio La Russa umilia Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency Gino Strada, nell'unico modo possibile: l'ironia. La stellina di sinistra su Facebook aveva invitato a "non scopare con i fascisti, non fateli riprodurre", aggiungendo poi quella che doveva essere un'altra battutina, "anche solo per non dar loro una gioia". E La Russa, fondatore di Fratelli d'Italia, su Twitter ha replicato invitando tutti a scopare "anche con le comuniste! Anche solo per dar loro una gioia che non hanno mai avuto". 

Roberto Saviano sul Guardian: "Il fascismo è tornato, e sta paralizzando l'Italia". Il quotidiano britannico pubblica un editoriale dello scrittore: "I partiti italiani hanno paura di perdere i voti degli xenofobi". Macerata, l'omicidio di Pamela Mastropietro, ma anche il silenzio stampa: "Perché i media hanno difficoltà a definire ciò che succede come un attacco terroristico di ispirazione fascista?" Scrive Katia Riccardi il 13 febbraio 2018 su "La Repubblica". Il fascismo è tornato in Italia, e sta paralizzando il sistema politico. Con il suo stile conciso che non lascia spazio a frasi fatte, titola così il britannico The Guardian l'articolo pubblicato oggi di Roberto Saviano. "Partiti di destra e di sinistra stanno spingendo le persone a non parlare di un incidente in cui sono stati feriti a colpi di arma da fuoco sei immigrati. Hanno paura di alienarsi un elettorato in aumento e sempre più xenofobo". Subito dopo, la foto dell'arresto di Luca Traini, Macerata, 3 febbraio. Guardarsi da fuori è come sentir leggere un libro che si pensa di conoscere. Diverso. Saviano parte dai fatti, li racconta in poche righe. "Macerata, una cittadina della provincia dell'Italia centrale", i colpi sparati "da una Alfa Romeo nera" in movimento. Su Facebook, il sindaco che chiede ai cittadini di restare al riparo, in casa perché "un uomo armato sta sparando". Poi un accenno alla puntata precedente. "Un paio di giorni prima a Macerata, il cadavere, tagliato a pezzi, di una giovane donna, Pamela Mastropietro, trovato in una valigia e uno spacciatore nigeriano, Innocent Oseghale, arrestato per omicidio". Premessa fatta, si torna a Traini. Preso dai carabinieri ancora avvolto nel tricolore italiano. "Sparare agli immigrati, il saluto fascista, il tricolore, cos'altro serve per chiamare ciò che è successo con il suo vero nome?" chiede Saviano. Il suo stupore è rivolto ai media che non hanno il coraggio di usare la parola fascismo. "Perché i media italiani hanno tanta difficoltà a definire quello che è successo come un attacco terroristico di ispirazione fascista? Mi venne subito in mente un tweet che Matteo Salvini, il leader della Lega Nord, il partito xenofobo alleato di Silvio Berlusconi alle prossime elezioni, aveva postato due giorni prima dell'attacco, riferendosi alla morte di Pamela Mastropietro e all'arresto di Oseghale: “Cosa stava ancora facendo questo verme in Italia? [...] La sinistra ha il sangue sulle sue mani". Definisce i media, timidi: "L'atto di un pazzo", le definizioni, "Non parliamo di fascismo", "Mantieni i toni bassi in modo da evitare che siano sfruttati". Pochissimi politici parlano delle vittime dell'attacco perché prendere la parte degli immigrati significa perdere voti. "Solo un piccolo partito, il Potere al popolo, subito dopo l'attacco, ha visitato i feriti in ospedale. Wilson, Jennifer, Gideon, Mahamadou, Festus e Omar sono i loro nomi, tutti molto giovani che cercano di farsi strada in Italia". Tempo di elezioni nel nostro Paese, spiega lo scrittore, "un clima di continue campagne elettorali ha innescato una reazione a catena che nessuno sembra in grado di tenere a bada: l'intera campagna politica è incentrata sul tema dell'immigrazione". Il Guardian sceglie poi una foto di Lugi Di Maio, con la didascalia che spiega come il Movimento 5 Stelle sia pronto a contestare il 4 marzo le prossime elezioni. Guardarsi da fuori. Gli immigrati sono percepiti come la ragione principale della longevità della crisi economica e persino del rischio di attacchi in corso. "Ma se gli italiani hanno paura, ci deve essere una ragione per questo" scrive Saviano. "È quasi una perdita di tempo fornire dati e sottolineare che l'immigrazione non è una crisi, ma un fenomeno che, se gestito responsabilmente e con lungimiranza, siamo in grado di controllare". La sua resta una battaglia contro una coda che continua a mordersi. "Più parlo di migranti, più sono accusato di incoraggiare l'odio verso di loro. È una specie di logica back-to-front: come è possibile, mi chiedo, che se racconto quello che sta accadendo in Libia nei centri di detenzione, se parlo della macchina del fango contro le ONG che operano nel Mediterraneo, ottengo l'effetto contrario di ciò che sto cercando di fare?" Non si salva nessuno, destra, sinistra, nessuno. "Dopo l'attacco, è successo qualcosa che in Europa finora non ha precedenti: Matteo Renzi, segretario del Pd e Luigi Di Maio, leader del M5S, hanno invitato tutti a tacere sugli eventi. Perché? Per non perdere i voti dell'elettorato xenofobo: questa è la loro paura, la conseguenza di un sistema politico ormai vacuo". Vuoto, spaventato e utilitarista.

Di Vaio: «Saviano cattivo maestro? No, ma parla solo alla borghesia reazionaria». Gaetano Di Vaio oggi è produttore cinematografico di successo, un successo raggiunto passando per l’inferno della povertà e del carcere, scrive Simona Musco il 13 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «Se i giovani sono violenti è perché soffrono la mancanza di affettività. I ragazzini più deboli diventano meteore impazzite, sui quali nessuno vuole avere controllo, salvo quando aggrediscono in maniera così lampante». Gaetano Di Vaio oggi è produttore cinematografico di successo, un successo raggiunto passando per l’inferno della povertà e del carcere. Fino alla rinascita, a Poggioreale, grazie ad un incontro che gli ha aperto le porte su un mondo nuovo e prima sconosciuto. Nasce da qui il suo sguardo lucido, una lente di ingrandimento sui fenomeni sociali e sulla violenza che serpeggia tra i più giovani, destabilizzati dai modelli negativi «propinati dalla politica». La società, racconta al Dubbio, «è incapace di interagire con quei ragazzi».

Parliamo di baby gang: come se le spiega?

«È un fenomeno trasversale, che colpisce ovunque e qualsiasi ceto sociale, anche se Napoli attira di più i media. Il problema è la rete sociale: quando salta, in un momento in cui i media e i social diventano più selvaggi, i ragazzi più deboli e senza strumenti diventano meteore impazzite, di cui a nessuno importa, tranne quando succedono cose eclatanti. Dove c’è maggiore disagio sociale e familiare ti ritrovi in questo tipo di situazione».

Si dà la colpa a modelli considerati negativi, come la serie “Gomorra”. Quanto c’è di vero in questa analisi?

«L’efferatezza che vedo in questi ragazzini nasce ben prima della serie. Chi si giustifica così non vuole evidentemente assumersi responsabilità. Il vero problema sta nei modelli totalmente devianti che vengono diffusi. La realtà è molto più cruda di Gomorra e mi preoccupano di più cose come “Uomini e donne”, perché viene inculcato il culto dell’apparire. Ho a che fare con i ragazzi tutti i giorni e usano le frasi del film in modo ironico. Volete censurarlo? Prima eliminate ciò che è diseducativo».

Si riferisce alla politica?

«Certo, il Governo è come un padre di famiglia. Se la politica non comunica con i ragazzi è un disastro. I giovani di oggi non hanno un modello positivo, i politici che sentono parlare in televisione trasmettono tutto tranne che valori positivi. Non è che i ragazzi sono degli imbecilli. Anche lo stesso Saviano, che fa il divo anticamorra, non parla al loro cuore ma al cervello di una borghesia reazionaria. Ma è a loro che dobbiamo parlare e a chi ha voglia di cambiare le cose. Io ero un suo grande sostenitore ma ormai mi scoccio a sentirlo parlare. Per come si pone, perché lui poteva essere un faro e non lo è».

Il mondo della comunicazione e la scuola hanno delle responsabilità?

«Basta vedere i servizi sulle baby gang: è terrorismo, non si può utilizzare bambini così piccoli in quel modo, facendoli parlare e sentire così più esaltati quando si rivedono “coraggiosi” a casa in tv. Quando vedi Gomorra tu sai che è finzione a tutti gli effetti, quando vedi quel tipo di servizio tu sai che è realtà. È un’aggressione mediatica, più grave di quella fisica. La scuola poi non è in grado di stare dietro ai fenomeni, anzi li genera pure, perché tende ad allontanare questi ragazzi anziché accoglierli. Così nascono i complessi. I ragazzi più disagiati sono messi ai margini, sono respinti. Loro lo avvertono e trasformano tutto questo in aggressività. Le vere gang sono gli adulti, non i bambini».

Parliamo della sua storia: com’è finito in carcere e come ne è uscito?

«Quello che mi ha portato in prigione da bambino è stata la povertà. I primi sette anni della mia vita sono stato quasi sempre lontano dalla mia famiglia: erano poveri e pensavano che dentro un istituto avrei potuto studiare. Invece lì dentro, 400 bambini per istituto, tutti poveri, subivamo violenze. Non ci stavo bene e così scappavo. Dormivo per strada e per vivere ho cominciato a rubare. La prima volta in carcere è stata invece a 17 anni, per un furto d’auto. Ci sono rimasto tre mesi. Dentro facevamo delle attività, io mi ero molto fissato con l’informatica e speravo di poter approfondire fuori ma una volta uscito tornavi ad essere solo. Non avevo riferimenti e così, una volta fuori, sono andato al tribunale dei minori, chiedendo aiuto. Ma i servizi sociali mi dissero che non ero più di loro competenza. Mi sono detto: ma com’è, nun ce sta’ speranza, allora? Vidi il buio ed è una cosa che non posso dimenticare».

Quindi tornò sulla strada.

«Divenni il leader di una piazza di spaccio, facevo rapine, furti. Tornai in carcere e passai 3 anni e 5 mesi in prigione, poi altri 3 in affidamento in prova ai servizi sociali».

Cosa cambiò la sua vita?

«Un incontro a Poggioreale con un detenuto, avevo 23 anni. Era innocente e stava sempre in disparte, a leggere. Io avevo la quinta elementare, non avevo studiato ma lui mi incuriosiva. Nacque un grande rapporto di amicizia che mi ha fornito degli strumenti culturali che una volta uscito si sono rivelati fondamentali per affrontare la realtà quotidiana a Scampia. Credo di aver retto il carcere proprio per quell’incontro, così come ha aiutato questa persona a sopportare la galera da innocente. È costata tanta fatica ma è andata bene. Poi ho incontrato l’arte e tutto è cambiato».

La soluzione sta nella cultura quindi?

«Se hai strumenti culturali anche da povero puoi liberarti di una situazione che è prima di tutto mentale e poi diventa in materiale. Spesso però la povertà non c’entra, c’è la solitudine. Non serve per forza il papà in prigione, c’è un disagio enorme che i ragazzi riescono ad esprimere in gruppo. Aggrediscono per esistere».

Qual è la soluzione?

«Serve giustizia sociale. Ma soprattutto, è importante che i governi tornino ad un modello educativo positivo, cancellando la pornografia del consumo. Questo è il telefilm più spaventoso».

Saviano è un disco rotto, al Guardian: “Il fascismo è tornato”, scrive il 13 febbraio 2018 Vittoria Fiore su Primato Nazionale. Roberto Saviano è ormai un generatore compulsivo di banalità. Oscillante tra il piacione che lancia occhiate libidinose alle sue telespettatrici radical chic e la vecchia zia che lancia allarmi surreali, lo scrittore napoletano non perde occasione per replicare all’infinito il verbo dominante. L’ultima perla in ordine di tempo ce l’ha regalata dalle colonne del Guardian, il noto quotidiano britannico. Titolo: Il fascismo è tornato e sta paralizzando il sistema politico italiano. Si tratta in sostanza di un’invettiva contro una presunta congiura del silenzio sui fatti di Macerata. Ovviamente il prode Saviano non si riferisce all’assassinio e allo squartamento con rituale mafioso di Pamela Mastropietro. Nossignore, il newyorchese Saviano parla dei sei immigrati feriti da Luca Traini. Si badi che l’articolo è stato pubblicato dopo che si era appena svolta nel capoluogo marchigiano la “manifestazione antirazzista” indetta da alcuni gruppi di antifascisti, con tanto di codazzo di sedicenti intellettuali e politici al seguito, tra cui la presidente della Camera Laura Boldrini, ossia la terza Carica dello Stato. Ma, al di là di questo, Saviano non gradisce che non si sia parlato di “fascismo”. Secondo la sua tesi sopraffina, «un clima di continue campagne elettorali ha innescato una reazione a catena che nessuno sembra in grado di tenere a bada: l’intera campagna politica è incentrata sul tema dell’immigrazione». Politici e media, dunque, avrebbero timore a definire “fascista” Traini perché, così facendo, perderebbero il consenso di una popolazione (quella autoctona) che sarebbe diventata essa stessa “xenofoba”, anzi “fascista”. Ma all’«antitaliano» Saviano, sempre pronto a rampognare il popolaccio sporco e razzista, non è proprio venuto in mente che, se l’immigrazione è diventata argomento principale di discussione, forse è perché qualche problema, questa immigrazione di massa, l’ha effettivamente creato? Certo, in questo caso bisognerebbe fare un’analisi un attimo più approfondita. Ma sarebbe quel genere di analisi che non troverebbe spazio sulle pagine patinate del Guardian. Quindi, tanto vale continuare a savianeggiare, ossia lanciare a random appelli contro la rinascita del fascismo. Hai visto mai che, per una volta, ci azzecca. Vittoria Fiore

La sinistra strombazza un fascismo di ritorno e non conosce la lezione dell’intellettuale Pier Paolo Pasolini, scrive Carlo Franza il 13 febbraio 2018 su "Il Giornale". Il rabbioso antifascismo esploso a Macerata, presentato con striscioni, ma manifestato anche  verbalmente  e materialmente, e la  vergognosa caccia-assalto  ai Carabinieri a cui abbiamo assistito  con il pestaggio di  uno a quattrocento, nelle immagini trasmesse in tutta Italia,  la dice lunga su questo Stato che  Renzi, Delrio, Gentiloni, la Boldrini, Cecile Kyenge,  il Fiano della  risibile legge contro il Fascismo  e compagni  di “o bella ciao” vanno presentando  come assalito dal “nuovo fascismo”. La sinistra -oggi è piuttosto un fantasma-  si reinventa il fascismo, non avendo più materia per il suo programma, diversamente non avrebbe più propositi oggettivi per intervenire e imbonire il popolino. Il quotidiano La Repubblica ha aperto ieri-l’altro la prima pagina con l’apocalittico annuncio del ministro Delrio: “Il fascismo è tornato, la politica non può più tacere”. Di questo signor Ministro in tempi passati Sindaco di Reggio Emilia, me ne ha fatto un quadro singolare e chiarissimo Don Franco Ranza - amico fraterno e compagno di studi in anni lontani - parroco delle centralissime parrocchie di S. Francesco e S. Nicolò a Reggio Emilia.   Ma sa Delrio che il fascismo è finito 70 anni fa? La cosa che semmai preoccupa gli italiani è avere un governo fatto di ministri come Delrio, che essendo Ministro dei Trasporti, avrebbe dovuto casomai occuparsi della situazione in cui versano le autostrade (vedi il salato rincaro delle loro tariffe) e le Ferrovie dello Stato e del fatto che i treni di Italo sono appena finiti in mano straniera; invece Delrio è noto solo per il suo ridicolo sciopero della fame per lo Ius soli. Questa è la vera tragedia. Il fascio è morto e sepolto, ma lo sfascio prodotto dal PD e da questa classe dirigente sta travolgendo il Paese. Mi fermo qui, le elezioni sono alle porte, gli italiani non devono lasciarsi ingannare da questi incantatori di serpenti con promesse che non saranno mai saldate. Renzi e compagni sono da mettere in cantina ben inscatolati.  Desidero chiudere con un pensiero di Pierpaolo Pasolini in un dialogo con Alberto Moravia nel 1973 (entrambi gli autori avevano ben vissuto Ventennio e guerra mondiale): “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda.”. Ecco, una lettura vera della storia che dovrebbe essere recepita da questi politicanti da quattro soldi che parlano a vanvera di fascismo e antifascismo, ad uso a loro conveniente. Ma statene sicuri, perché il 4 marzo 2018 gli italiani torneranno a riaprire porte e finestre, inizia la primavera. Carlo Franza  

Caro lettore di sinistra…, scrive Augusto Bassi il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale". Inserisco come articolo la risposta che ho dato questa notte all’amico e lettore di sinistra Damiano, il quale, legittimamente, trovava la storia di ieri un poco assurda. Caro Damiano, vorrei tanto che la mia fosse solo una suggestione letteraria con qualche vuoto di sceneggiatura. Al contrario, è una posizione troppo meditata per darmi grosse speranze di errore. Dalle opere di Horkheimer e Adorno (che mi sono permesso di inserire subliminalmente in alcuni passaggi di quel testo), all’Uomo a una dimensione di Marcuse, passando all’Italia attraverso Pasolini, gli studi gramsciani fino a Bagnai e Fusaro… si rileva come il pensiero da sinistra abbia intercettato lucidamente il nemico. E il nemico, post grandi narrazioni ma ancor più totalitario, ha sempre la stessa radice, benché venga chiamato con nomi diversi, talvolta confondendo il soggetto con i suoi mezzi: capitalismo avanzato, dominio, industria culturale, società dei consumi, pensiero unico, globalismo, mondializzazione, plutocrazia egualitaria, finanzocrazia. Semplifico, sapendola uomo di cultura. Se prima la supremazia si esercitava governando il mito, poi attraverso la divinità (l’Islam può ancora farlo), quindi con i grandi ideali (la Patria, la Rivoluzione), nell’Occidente secolarizzato e post-ideologico (espressione ironica, va da sé) si esercita con la forza persuasiva del capitale al servizio di se stesso. Le masse non sono composte da cittadini, ma da zombi… perché il dominio, anziché adattarsi ai bisogni e ai valori degli elettori democratici, li inventa. Li inculca. E’ fondato sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi, come le manifestazione paciaiole oppure i black friday rappresentano eloquentemente. E ne riutilizza la prassi attraverso tutti i medium di cui dispone (cinema, tv, stampa, web, smartphone), innestando la nuova ideologia. Il linguaggio appiattito e comprensibile a tutti ma con improvvise ingiunzioni oscure e dogmatiche («spaventano i mercati», «pericolo spread», «fiscal compact», «ce lo chiede l’Europa»), apparentemente necessarie e ineluttabili («la globalizzazione è inarrestabile»), i valori semplici eppure seducenti, capaci di creare rapida intesa, tranquillizzano le coscienze e solleticano la vanità di appartenenza (le persone civili, sofisticate, cool, votano a sinistra). Il loro prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli inesistenti. E i cittadini democratici diventano morti viventi. Se lei osserva e ascolta la macchina culturale politicamente corretta, che è globale, da New York a Parigi fino a Macerata… noterà che ha sempre il tono della strega che intende ammaliare il bambino mentre lo avvelena: «Buona la minestrina? Ti piace tanto la minestrina! Ti farà tanto bene, tanto bene». Ma caliamo il tutto in propaganda politica. Alla fine delle grandi narrazioni la sinistra ha tradito il popolo e venduto l’anima al capitale. E il capitale ha capito che per dominare le masse era utile servirsi di valori che fingessero di tutelarle. Così si arriva, mutatis mutandis, al «abbiamo una banca!» di Fassino. Il vecchio sentimento di invidia sociale dell’ex comunista ha trovato ristoro nel danaro, mentre l’epica plutocratica, già paventata da Mussolini, ironicamente, ha trovato nei valori della sinistra sociale la sua maschera ideale. Per cui i Pd di questo mondo attirano voti fingendosi dalla parte degli ultimi, e mentre lo fanno servono i primi e si arricchiscono; perché questo meccanismo funziona allo stesso modo per i democratici americani o per i marciatori di Macron in Francia. Da Fassino-Bersani a Renzi-Leopolda c’è solo una mutazione antropologica per rendere lo strumento più adatto ai tempi, più potabile per i nuovi elettori (con una lotta intestina fra resistenze e rampantismi). Le élite dell’industria culturale (Hollywood come Favino fino al Vaticano di Francesco) ripetono, ritualmente, consapevolmente o meno, l’incantesimo di questo inganno… e gli zombi si commuovono per poi marciare. Un incantesimo che ha le sue ferali formulette, fra le quali l’antifascismo appunto. Quest’ultimo oggi non è sbandierato da chi sa che cosa fu il fascismo; perché chi lo sa è consapevole del suo decesso. Ma da chi lo rivendica per posa o per poter esercitare violenza dalla parte della ragione “autorizzata”, in una necrofilia esplicita verso quella violenza che non c’è più. Per questi ultimi vale la frase di Flaiano: esistono due tipi di fascisti, quelli comunemente intesi e gli antifascisti. Mentre chi si lascia piegare dall’influsso delle altre formule magiche, quelle dell’egualitarismo, dell’accoglienza, dell’amore per il diverso purché esotico, dal profugo al ristorantino etnico, lo fa con la stolta ingenuità di cui parlava Gramsci. Che porta noi tutti alla sciagura. Un mondo dove L’1% della popolazione possiede una ricchezza pari a quella del restante 99% e dove quello stesso 1% persuade la classe media planetaria che i disperati della terra vanno aiutati qui da noi. E quella classe media se ne convince senza chiedersi chi pagherà il prezzo. Quindi tutta questa impalcatura va oltre il bieco-opportunismo elettorale a termine che citava lei ed è piuttosto una sinistra macchina elettorale totalizzante e sempre in funzione, che plagia, soggioga, irretisce prima ancora che la coscienza della falsità emerga. E arriva a plagiare alcuni fra gli stessi aguzzini, come nel caso della Boldrini. Quando dichiara… «abitiamo un mondo globale, in cui circolano liberamente i capitali, le merci e le informazioni. I migranti sono l’elemento umano della globalizzazione, l’avanguardia del mondo futuro»… senza rendersene conto sta già trattando gli uomini come cose. E senza saperlo è messaggera e carceriera (al femminile) di un nuovo sfruttamento. La vita non vive. Proprio come nel nazifascismo e nello stalinismo. Se là si esisteva nei campi di concentramento o nei gulag, qui si viene deportati in un sonno ipnotico di schiavitù a deambulare per la pace, per l’antifascismo, per i diritti delle donne, degli omosessuali, degli irredentisti bengalesi… come fosse un nutrimento per la libertà quando è invece la minestrina della strega. Ma se c’è qualcosa che può ridestare le coscienze cadute in stato di ecoprassia… è la disperazione. Quanto a Berlusconi (che pure ha i suoi zombi nell’armadio), sventolava lo spauracchio rosso, sì… ed era una banalizzazione. Ma con concetti di senso comune come “cuore a sinistra, portafoglio a destra”, grossolanamente, semplicisticamente, indicava proprio questa commistione fra ex comunisti e nuovi capitalisti, la contraddizione in termini fra difesa del proletariato e turboliberismo. Additava i De Benedetti. Che degli zombi sono sempre stati gli animatori culturali. Da sincero uomo di sinistra, spero che ora le sembri tutto ancor più assurdo.

Dalle Foibe al Carabiniere aggredito, la follia dell’antifascismo non conosce limiti, scrive Andrea Pasini il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un sabato (anti) italiano. Pensate. Risulta sempre curioso osservare “pacifici” manifestanti, così come vengono descritti dai media coccola centri (a)sociali, muoversi con bastoni, passamontagna e cieca violenza contro i Carabinieri, in tenuta antisommossa, lo scorso fine settimana in quel di Piacenza. Indisturbati difensori del globalismo marciano tra le strade d’Italia, figli di un culto politico che vuole annientare questo Paese facendolo bruciare tra le fiamme del politicamente corretto. Il tutto mentre un difensore dello Stato, un brigadiere appartenente all’Arma dei Carabinieri, viene abbandonato al suo destino fatto di calci e pugni elargiti, senza parsimonia, dagli antifascisti che hanno sfilato per le vie de la Primogenita. Con quale motivazione? Per protestare contro l’apertura, avvenuta sabato 3 febbraio, della sede cittadina di CasaPound. Rossi, ma di vergogna. Immagini planate in mondovisione, che rimbalzano da un lato all’altro del globo, e mostrano una Nazione senza polso, allo sbando, che lascia un suo indefesso servitore nelle mani dei traditori della Patria. E lo lascia, abbandonando ognuno di noi, davanti ad un destino nefasto con 40 giorni di prognosi ed una spalla fratturata. Con la consapevolezza di aver assistito ad una tragedia, fortunatamente, sfiorata. Altrettanto curioso è vedere in azione, sempre loro gli antifascisti della porta accanto, a Torino armati, pacificamente sia chiaro, di sassi, bottiglie e chi più ne ha più ne metta da scagliare contro gli agenti di Polizia. La sinistra, nel frattempo, non prende le distanze, canta “ma che belle le Foibe da Trieste in giù”, proprio nel giorno del ricordo dei Martiri italiani infoibati dall’odio comunista. Impuniti ed arroganti, si vogliono fregiare del diritto di elargire patenti di democrazia, quando sono loro ad essere gli unici non democratici all’interno del panorama politico. Oppure, continuando a scavare nell’ambito delle curiosità, fa sorridere sentire i paladini di pace e di solidarietà, nella manifestazione di Macerata gremita di “indignati”, forse senza specchi in casa per osservare attentamente l’unica indegnità di questa Italia, pronti a ribellarsi contro Fascismo e razzismo, ma sempre propensi a lanciare un canto, quello citato nello scorso paragrafo, per irridere una pagina nera del panorama storico tricolore. Chi è ammantato dalla vergogna scagli la prima pietra. Le pietre dei cortei antifascisti. Una situazione rivoltante, che non sarebbe dovuta accadere. Perché, per chi se lo fosse dimenticato, il dramma delle Foibe colpì centinaia di migliaia, tra morti ed esuli, macchiando indelebilmente le pagine di quei giorni. Un fardello che il 10 febbraio viene ricordato, nel 2004 venne istituita la Giornata del ricordo, ma che trova il modo di dividere e far indignare la sinistra. Sinistra che sputa sulla bandiera tracciando una linea sottile di divisione tra defunti di serie A e defunti di serie B. Negli occhi i nostri connazionali fuggiti dall’Istria, dalla Dalmazia e da Fiume che lasciarono alle loro spalle la vita, per cercarne un’altra. Tutto per mano e volontà del Maresciallo Tito. L’Italia non li volle, rifiutò quei suoi figli per un netto contrasto con la propria coscienza. Una diaspora da quelle terre verso il mondo. Con l’accusa di essere semplicemente italiani. Stiamo assistendo ad una strumentale paura del ritorno del Fascismo. Fenomeno politico morto 70 anni fa, ma che per mascherare le malefatte della sinistra viene mantenuto in vita artificiosamente. Quindi se il Fascismo è morto, perché si continua a parlare di un suo possibile nuovo avvento? Per mascherare l’inettitudine della politiche attuale.

Perché la sinistra mette sotto accusa movimenti come Forza Nuova o CasaPound? Ricordiamolo ai democratici, forze politiche presenti in cabina elettorale. Forze politiche, soprattutto CasaPound, che raccolgono voti e consensi e che potrebbero, se sostenute concretamente dagli elettori, sedere in Parlamento? La risposta è molto semplice. Il Fascismo rappresenta, da esattamente 73 anni, la coperta di Linus delle sinistre. Trapunta che serve a mascherare la mancanza di progettualità politica, di argomenti, di interessi nazionali. I “democratici” non vogliono che si parli dell’assenza di risposte concrete, date agli italiani, durante l’ultima legislatura. La peggiore di sempre. Nulla di fatto sia per quanto riguarda l’immigrazione che per la povertà. Ma non finisce qui, basta osservare il sistema della banche e le migliori imprese tricolori svendute ad acquirenti esteri. Aldilà delle rispettive posizioni ideologiche è inquietante che si continui a parlare di Fascismo. E questo solo per il fatto che un delinquente, Luca Traini, ha scatenato in quel di Macerata la sua rabbia contro inermi vittime. L’assurdità è queste accuse vengono utilizzate per mascherare l’orrendo omicidio di Pamela Mastropietro, assassinata barbaramente da un gruppo di nigeriani dediti allo spaccio ed al voodoo. Dobbiamo dire basta a queste strumentalizzazioni, rivolgere lo sguardo al 2018 e indicare i colpevoli del folle business dell’immigrazione. Il rischio tangibile non è il ritorno delle camice nere o del razzismo. Il vero pericolo sta nella diffusione della paura, veicolo portato in grembo da una sinistra resasi conto che, questa volta, potrebbe perdere gran parte del suo consenso elettorale. 

Caro antifascista…, scrive Giampaolo Rossi il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale".

NÈ ODIO, NÈ DISPREZZO. Caro antifascista del 2000 che inneggi a Tito e prendi per il culo le donne e i bambini infoibati, io non ti odio; perché l’odio è un sentimento nobile, è un “liquore prezioso” come scrisse Baudelaire, “e bisogna esserne avari”. Quindi conservo questo nettare distillato del mio cuore a chi ha la dignità di essere un mio nemico, a chi vale tanto quanto me. E in fondo, caro antifascista, nemmeno ti disprezzo perché “nel disprezzo c’è un’invidia segreta” come diceva Paul Valéry: “vi consolate col disprezzo la felicità che non avete, la libertà che non vi concedete, il coraggio che vi manca”. E quando ti vedo insieme ai tuoi eroici compagni pestare in 10 un uomo a terra, colpevole di difendere la dignità di questo Paese, mi rendo conto che non ho proprio nulla da invidiarti: né la felicità che il tuo pavido cuore non conosce, né una libertà che tu, servo, non sai rispettare, né un coraggio che non puoi avere perché tutta la tua storia è senza coraggio. Ah, se solo avessi letto una sola volta in vita tua Pasolini, comunista e antifascista, libero uomo perseguitato da una destra intollerante e da una sinistra conformista; lui, nella carne della sua diversità, aveva compreso il male insito nella tua essenza distruttiva e in quella ipocrisia che alimenta la tua violenza, già in quel 1968 da cui tu sei nato: “Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono i figli dei poveri”. Incise nella pietra, queste parole rimangono l’evocazione incancellabile di ciò che tu rappresenti nella storia di questo Paese. Ieri come oggi.

CARO ANTIFASCISTA TI RINGRAZIO. E allora, caro antifascista del 2000, non odiandoti e non disprezzandoti, sento in cuor mio di ringraziarti. E lo dico con stupore: io ti ringrazio. Ti ringrazio perché tu mostri ciò che io potrei diventare se dovessi cedere all’ignoranza, alla violenza, all’intolleranza, alla paura di leggere la complessità del mondo; insomma, se dovessi diventare come te. Sei un continuo monito affinché io uccida il demone che alberga in ogni natura umana: il demone della superbia e della spudorata pretesa di ritenersi sempre dalla parte del giusto. Perché ogni volta che vedo la tua rabbia scaricarsi nelle piazze cariche di odio, nelle parole dei tuoi intellettuali vigliacchi, nei gesti dei tuoi politici ignoranti; ogni volta che vedo l’ipocrisia pelosa del tuo falso umanitarismo, della tua infida tolleranza, mi rendo conto di ciò che io non devo e non voglio mai essere.

NO, NON SIAMO UGUALI. Anche in questi giorni hai mostrato te stesso e per questo ti ringrazio. Hai deciso di inscenare le tue manifestazioni antirazziste ipocrite e antifasciste fuori tempo storico, nel Giorno del Ricordo; quel 10 Febbraio in cui questa Nazione dovrebbe fermarsi a ricordare le migliaia di vittime italiane uccise e martirizzate da assassini comunisti slavi, protetti da vigliacchi comunisti italiani. Perché una nazione senza memoria è una nazione senza futuro. E lo hai fatto apposta proprio per evitare che si parlasse delle Foibe, delle complicità di quella mattanza disumana; affinché si nascondesse nell’oblìo delle tue grida di piazza, quello che l’Unità scriveva in quegli anni: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città”.

Quando la sinistra cacciava dalle città i profughi istriano-dalmati (donne e bambini non spacciatori nigeriani); quando sequestrava loro il cibo e l’acqua o picchettava i porti dell’Adriatico e le stazioni delle città italiane per impedire ai piroscafi e ai treni carichi dei nostri connazionali di riparare in Italia; perché erano testimoni scomodi di quel mondo di orrore che i tuoi padri difendevano e volevano replicare da noi. Hai fatto di tutto perché nel Giorno del Ricordo, non si ricordasse. E in fondo ce l’hai fatta. Hai vinto tu. Ma nonostante questo io ti ringrazio ugualmente perché per l’ennesima volta mi hai mostrato il volto di una verità negata dal mondo: e cioè che gli uomini non sono uguali. Tu non sei uguale a me. Io non sono uguale a te. Come scrisse Ernst Jünger cantore del vero Ribelle: “gli uomini sono fratelli ma non uguali”. Forse ci rende fratelli la natura. Di sicuro ci rende diseguali l’anima. La mia, io la custodisco gelosamente nella pienezza di una libertà che mi spinge a riconoscere dignità al mio nemico, ad onorare i suoi morti, a rispettare i suoi dolori e la sua storia. La tua, l’hai venduta al mercato della tua vigliaccheria. No, io e te, caro antifascista del 2000 fuori tempo massimo, non siamo uguali; e ti ringrazio proprio perché la tua stupidità mi ricorda continuamente questa grandiosa verità.

10 Carabinieri costretti a scappare contro 400 schifosi delinquenti. L’immagine della fine di uno Stato indegno, scrive Emanuele Ricucci l'11 febbraio 2018 su "Il Giornale". Perdonate lo sfogo. Che grande schifo. Ricorderemo questo 10 febbraio come un chiodo arrugginito che va a chiudere la bara d’Italia. Il mio Paese mi fa male.

Da Pastrengo, a Macerata. Dalla carica a cavallo, ai dieci Carabinieri contro i 400 delinquenti. E qui, in questa assurda favoletta nel quinto anno dell’Era della tolleranza, in questa immagine, prima di tutto, prima di ogni rinnovata considerazione sui centri sociali, sull’antifascismo militante, ormai assurto al livello superiore di montagna di merda, sul silenzio contraddittorio della sinistra che blatera di moralità a targhe alterne, sul PD che ha creato ad arte uno scenario di contrapposizione civile surreale, confermato dal suo non esprimersi, rispolverando i fantasmi del passato per distrarre dal presente, divide et impera, su una frantumazione di un popolo adolescente, mai stato veramente tale, prima di ogni altra analisi, in questa immagine sta la fine epica, etica ed estetica dello Stato. In quei 10 Carabinieri costretti a scappare di fronte a 400 bimbi viziati, figli di babbo, delinquenti. Scarto ed insulto di una generazione che farà fallire la continuità della gente d’Italia. Già indebolita dalla propria cocente mediocrità di provincia. Truccata male, vestita peggio, mai nata, mai risorta. Abortita alla messa la domenica. Tra una preghiera, un gossip, due bei baffi neri, un pregiudizio sul vicino, un compito da fare per pulirsi la coscienza di bravo cittadino e un piatto di spaghetti all’acido.

E allora viene da chiedersi, senza mezzi termini: lo Stato, cazzo, dov’è? Autorizzare un corteo zeppo di rancore gratuito, ben noto, di clandestini e di “bandiere” dell’Anpi, in un giorno di memoria nazionale, istituito per Legge, nel Giorno del Ricordo, in una città ancora in lacrime, in cui una ragazza è stata ammazzata e fatta a pezzi da un clandestino. Una manifestazione per la tolleranza che canta contro i morti infoibati dei cori da stadio. A strafottersene di quanto buia e profonda sia la foiba della coscienza.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando i propri figli si dividono il quartiere in una misera guerra tra poveracci. Corvi che beccano i resti. E su qualche brandello si ammazzano. In nome di un problema inesistente: il fascismo. Il fascismo. Il fascismo. Vomito.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Lo Stato che non è più padre, non è più confine. Né fine. Se non servitù della sovranazionalità. Non è garante, ne equilibrio delle forze sociali. Non è primus inter pares. È una paresi. E una parentesi, assieme.

Lo Stato, cazzo, dov’era? Quando ha lasciato dieci Carabinieri a prendere le botte, senza neanche qualche lacrimogeno. Così da poter disperdere quella mandria di maiali. Che per tutta risposta si avventano su uno di loro, che cade, e lo pestano tutti insieme. Niente lacrimogeni, in sotto numero. Ma perché?

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando si tratta di applicare la legge. E di pensarne una nuova, se necessario, per garantire la serenità dei cittadini e la dignità della propria stessa essenza. Come la Legge Cossiga, come la Legge Reale. Dov’è l’inasprimento delle pene per la sovversione, per il vandalismo e la violenza politica di grave entità? Dov’è il suo pugno duro? Dove sono le sue palle di marmo? Dove sono i provvedimenti contro le scorribande dell’estrema sinistra, contro i centri sociali? Leggi “speciali” impossibili da realizzare nell’epoca che vuole discolparsi da tutto, evitando, per incompetenza e vigliaccheria, di assumersi responsabilità.

E allora come può essere Stato? Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando si tratta di bilanciare i significati, di prendere per mano la propria gente e condurla nella lucidità del confronto democratico. Dove? Quando si tratta di garantire un pareggio nella battaglia semantica che si sta combattendo. Secondo cui, se manifesti contro le discriminazioni, non vai insultando i morti. Se manifesti per la pace, e contro il fascismo, non vai a tirare mazzate ai Carabinieri. Se vai a manifestare per l’evoluzione di modernità di un Paese, per il progresso, non vai a ripescare i fascisti con tutti i treni in orario, i balilla e l’obelisco del Foro Italico. E se ti senti di sinistra, e sai che gli italiani in condizione di povertà che piangono di nascosto dai figli sono milioni, non ti senti anche un po’ stronzo a pensare che il tuo unico obiettivo è prendertela con chi gli porta la spesa in periferia, perché non ti frega dei poveri, ma della visibilità elettorale che ha il tuo avversario?

Lo Stato, cazzo, dov’è? Non si sentono parlare i suoi rappresentanti. Che, già lo so, oggi tireranno fuori la criptica critichetta della domenica, in cui si capisce fin troppo bene da che parte stanno, come a farci un’elemosina di Stato, appunto. Ed oggi, oh disgrazia, sarà il più scolorito Presidente della Repubblica della storia recente a doversi spacchettare dal ghiaccio dei silenzi in cui si mantiene in vita, a riaccendersi di colore, dal grigio che lo perseguita, evocando, magari, calma, tranquillità, democrazia; di dare sempre la precedenza, di ringraziare e di salutare quando si esce dalla salumeria. All’indomani di una giornata VERGOGNOSA per la decenza di ogni cittadino onesto e rispettabile. Sempre che non tiri in ballo il fascismo.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Dov’è Minniti? O nel girone dei mandanti morali? E chi sono a questo giro i mandanti morali, eh Boldrini, Saviano et similia?

Lo Stato cazzo dov’era? Quando moriva Pamela, quando avviene la grande mistificazione, che riesce a trasformare un prodotto della sua superficialità, nell’esatto opposto, ovvero in un’azione da ricondurre specificamente alla bontà della visione antifascista? Da Oseghale a Traini, il passo è breve e, anche qui, surreale. Ma non c’è equilibrio, subito la condanna: Oseghale pagherà, ma Traini è il vero cancro di questo tempo. Un tempo che è…Stato.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando deve specificare la propria posizione, e prendere le distanze, in nome dei valori dell’antifascismo, di cui si riempie tanto la bocca, tramite i suoi figuri. A sentirlo, l’antifascismo è il più alto e moderno valore repubblicano. Eppure, nello stesso calderone c’è lo Stato, e le teste di cavolo manesche dei centri sociali; ci sono i bambini portati in gita da piccoli a osannare la prima copia della Costituzione, e c’è chi si rifiuta di mettere a disposizione un sala comunale ad un movimento, come Casa Pound, ad esempio, che, democraticamente l’ha richiesta, ha più di cento sedi in Italia, ha raccolto ben più firme di quelle necessarie per la candidatura, e sarà presente e “votabile”, quindi, in tutti i collegi del Paese? Un movimento perfettamente riconosciuto dalla democrazia, dotato di uno specifico programma complesso e dettagliato, di un’alternativa, quindi non di una cartelletto elettorale senz’arte, né parte, né significato.

Lo Stato cazzo dov’è? Quando si tratterà di tirare la linea del rigore, di richiamare tutti all’attenzione, all’ordine, impedendo, come possibile, che si minimizzi ciò che è accaduto oggi tra Piacenza e Macerata. L’anarchia più perfida, più infima, sporca, viscida, come quella pelle butterata, quei capelli arruffati, quell’eskimo sporco di chi oggi ha sputato sui morti, cantando “com’è bello far le foibe da Trieste in giù”, e rendendo noto a tutti che non esistono morti di serie A e di serie B, ma direttamente che del Giorno del Ricordo, in questo Paese, non frega quasi un cazzo a nessuno. Percepito com’è, lontano nella storia, lontano negli eventi, a causa di una corruzione ideologica, dell’impronta che l’egemonia culturale imperante gli ha attribuito, legandolo, in una perfetta operazione psicosociale, tipica delle sinistre, anche solo nell’evocazione, alla destra estrema, nazionalista, possibilmente fascista, e quindi di conseguenza, all’immagine del razzismo, della fazione, dell’intolleranza verso il resto, insomma, ad una questione “di parte”.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Lo Stato chi è? È Stato perché? Questo Stato non c’è. Questo Stato puzza di morto, è un’offesa, è un cavillo, è un pezzo di colla di trattati internazionali, è una vena sottopelle fina, invisibile, che non dà più sangue. Si tiene in piedi a forza, è una convenzione, un’abitudine. Questo Stato è maleducato, incapace di formare, di essere esempio, di assumersi delle responsabilità. Di permanere, di rimanere, di ricordare. E alla fine di tutto questo, dove finisce lo Stato, in Italia, inizia la società (in)civile. E proprio in questo settore, qualcuno ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta a deviare l’attenzione, a prosciugare quel ruscello fino e quasi rinsecchito di attenzione che il Giorno del Ricordo ha in questo Paese. In un esperimento psicosociale tristissimo, quasi assimilabile a quello dei cani di Pavlov, che appena sentivano il campanello, correvano a sbavare. Per riflesso condizionato. Come quei cani, tanti italiani. Che nella pigrizia di sviluppare un proprio pensiero critico, assoceranno il Giorno del Ricordo ai fascisti rancorosi, a qualcosa di destra, banalmente e brutalmente inteso, dimenticando, per l’appunto, che settanta anni fa si trattava di italiani, di connazionali, di fratelli, e non di fascisti. Ma alla fine di una giornata così vergognosamente amara, viene da chiedersi, più e più volte, con le vene del collo gonfie di sangue che è benzina, aspra e bruciante: lo Stato dov’era? E a tutti quei connazionali guardano in silenzio da dietro le tapparelle, ricordo solo che gli italiani di oggi, senza quelli di ieri, della Pietas, della Misericordia e del rispetto, della ferrea moralità romana, finanche cattolica, sono solo una vaga e stereotipata espressione geografica, sono solo dei portatori sani di baffi neri, pizza e mandolino. Inutili alla storia.

“Il mio Paese mi fa male in questi empi anni,

per i giuramenti non mantenuti,

per il suo abbandono e per il destino,

e per il grave fardello che grava i suoi passi”

(Robert Brasillach, poeta)

"Pd ipocrita, non basta definirsi antifascisti per essere democratici". È il retaggio culturale degli eredi del Partito comunista mettere all'indice tutte le idee a loro contrarie. Compresa la famiglia, scrive Matteo Forte, Consigliere comunale, martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". È tornata la parolina magica che la sinistra milanese rispolvera in vista della prossima campagna elettorale: antifascismo. Ed ecco che a Palazzo Marino viene presentata una bella mozione che di più democratiche non ce n'è. La mozione, firmata in pompa magna da tutti i consiglieri di maggioranza, sottomette la concessione di spazi pubblici, contributi e patrocini ad una dichiarazione in cui il richiedente certifica il suo antifascismo e il suo essere contro il razzismo, le discriminazioni di genere e d'orientamento. A più di settant'anni, però, è giunto il momento che qualcuno di insospettabile dica una cosa che ormai anche nella storiografia più recente è stata sdoganata: non basta essere antifascisti per dirsi democratici. Il concetto di antifascismo fu egemonizzato fin da subito dall'Unione sovietica di Stalin che, vedendo nel fascismo nient'altro che l'ultimo stadio dello stato borghese, lo faceva coincidere con l'anticapitalismo. Da allora è passata l'idea che antifascisti, e quindi sinceramente democratici, sono solo quelli di sinistra. Tale retaggio culturale affligge ancora oggi gli eredi del Pci, quelli che il «comunismo italiano era un'altra cosa» e i loro giovani nipotini dem. I democratici di oggi finiscono per rigettare nel campo del fascismo tutte le idee che loro osteggiano. È fascista chi, per esempio, si oppone alla «colonizzazione ideologica» nelle scuole medie statali da parte di esponenti dell'Arcigay, com'è capitato all'assessore Deborh Giovanati del Municipio 9. Lei ha sollevato il caso di sedicenti «corsi contro la discriminazione» in cui si parlava a ragazzini adolescenti di «pansessualismo» e si invitava una consigliera Pd a presentare il suo libro su Islam e integrazione. Giovanati ha chiesto semplicemente se i genitori fossero stati opportunamente informati e se, nel caso, fosse prevista una pluralità di voci su temi così delicati in cui risulta violento andare contro le convinzioni più intime delle famiglie. Apriti cielo. Sono fioccati interventi sdegnati di parlamentari Pd contro la presunta ingerenza del Municipio nell'autonomia della scuola. Sono fioccate mozioni di censura contro l'assessore. È intervenuta l'Anpi zonale durante una seduta dell'ex consiglio di zona. La libertà è solo quella di poter esprimere le idee politicamente corrette e più accreditate. Le altre sono semplicemente fasciste. Ecco perché nella mozione liberticida ancora in discussione a Palazzo Marino si richiede l'autocertificazione pure contro le discriminazioni di genere e d'orientamento sessuale. Del resto non è un caso che la madrina delle unioni civili, la senatrice Cirinnà, abbia espressamente minacciato: «L'intuizione del grande sociologo Bauman è ormai da tempo una dura realtà: la società liquida, nella quale abbiamo dovuto abituarci a vivere, ci pone quotidianamente di fronte a nuove sfide culturali, sociali, intellettuali, per cui il tema della libertà d'espressione è indubbiamente la nuova frontiera che dobbiamo definire». In un regime sotto il Patto di Varsavia non avrebbero saputo fare di meglio. Per questo ancora oggi non basta dirsi solo antifascisti per difendere la libertà.

I comunisti e i fan del politicamente corretto sono sostenitori morali anche del terrorismo, scrive il 16 dicembre 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". Esiste un confine, netto, tra l’umana paura ed il sostegno morale al terrorismo. Oggi quel confine è stato varcato da migliaia di persone. In ogni canale mediatico, in centinaia di discussioni ed in milioni di coscienze è sbocciato un nuovo fiore del male. È il loto che erode la percezione. Cancella la memoria, annebbia i fatti. Ci suggerisce che la soluzione migliore sia arrendersi. Dialogare. Ci dice che queste cose sono inevitabili, che qualsiasi cosa facciamo è inutile. E fa guardare a chi lotta, a chi non si arrende, a chi chiama le cose col proprio nome come ad un molesto provocatore. Una voce da soffocare nella diffamazione. Negli anni ’70 le Brigate Rosse divennero un mostro perché nessuno ebbe il coraggio di riconoscerle. Decide di morti sulla loro scia, nel silenzio e l’assenso dei molti, della porporata intellighenzia di sinistra. Oggi viviamo la stessa fase di rimozione. In tanti cominciano con i distinguo e le profonde analisi politologiche. Tutto pur di non affrontare la realtà. Riecheggiano le auliche parole. I grandi ragionamenti si sprecano. Con il sangue ancora caldo ci dicono che chi ha sparato, chi si è fatto esplodere o chi con un camion ha investito e ucciso decine e decine di persone sono un caso isolato. Un pazzo senza matrice razziale. Rifiutano il fatto che il terrorismo sia, in diversi di questi casi, di matrice islamica. Un terrorismo figlio dell’odio religioso. No. Basta, è ora di cominciare a dire la verità. Urlarla per le strade. Dalle finestre. Sui social network. I morti in Francia, Belgio, Spagna e Regno Unito sono vittime del terrorismo islamico. Chi ha sparato era devoto all’Islam. Non satanisti sotto mentite spoglie. Non sono alieni, ma nuovi barbari. Sono uomini con un passato ed un presente forgiato nei nostri Paesi. Figli dell’oblio culturale frutto del tramonto dell’Occidente, per dirla citando Oswald Spengler. Alcuni di loro sono stati nostri vicini di casa. Frutto di quel melting pot culturale che riecheggia fin dagli anni ’80 ed è esploso, in questi giorni, con la generazione Erasmus. Erano assistiti dallo Stato, che li imboccava, sparsi per l’Europa, con sussidi, ma non nutriva la loro anima lasciandoli, per dirla questa volta alla Massimo Fini, allo scoperto del nostro vizio oscuro dell’Occidente. Erano tra noi. Come lo erano gli attentatori di Charlie Hebdo. Come lo erano i terroristi di Londra. Ammetterlo è il primo passo. Serve per rendere onore ai morti, seppellendoli senza bugie e false parole. Raccontare ai loro cari la realtà, sono morti per le negligenze di questa società, complice di chi è armato dalla fede islamica. È rendere un servizio ai vivi. Indicando il nemico e dando ad ognuno la possibilità di difendersi. Questo aspetto ad alcuni fa paura. Ma come, si domandano questi soloni, come possiamo permettere che la gente sappia e si tuteli? La violenza potrebbe diffondersi. Il razzismo rinascere. Per questo dobbiamo negare. Dobbiamo distinguere. Spiegare. Catechizzare all’amore incondizionato verso il diverso. Ma soprattutto sradicare, eliminare e tacitare di razzismo chiunque denunci questo malcostume. La gente, libera di vedere, diverrebbe una belva. Questo pensano i buonisti. Questo pensano i complici. Ora basta, guardiamo in faccia la realtà. Chi difende i terroristi per elevare la radicazione di una cultura informe rispetto alla nostra non è un libero pensatore, ma semplicemente un venduto. Sulle sue mani c’è il sangue dei caduti. Dei nostri fratelli. Parliamo di un vile Caino. L’odio contro di noi come occidentali, come cristiani, come europei e come uomini e donne liberi esiste. Fatevene una ragione. Se vogliamo che questo odio non ci conduca nell’abisso non arrenderci è la soluzione. Dobbiamo combattere. Putin, nei giorni scorsi, a mezzo stampa dopo essere stato in Siria ha dichiarato: “Abbiamo sconfitto Isis, ora ritiro truppe”, ma dobbiamo ricordarci che siamo un bersaglio. Siamo il bersaglio di chi vuole mettere in ginocchio il nostro stile di vita. Dobbiamo con coraggio e lealtà reagire per non farci sottomettere e conquistare. Questo tipo di Islam non è nostro amico. Non resta che tenere la guardia alta, lo sguardo concentrato per non cadere nella trappola del nemico che ci vuole gambizzati. Caduti nell’oblio del nulla. 

Le Reali Tombe del Pantheon, scrive Camporotondo. Il Pantheon sorge in Piazza della Rotonda, a Roma; è così chiamato perchè era un tempio dedicato a più divinità. La costruzione venne iniziata nel 27 a.C. dal console Marco Agrippa, ma durante gli incendi dell'80 e del 110 d.C. venne distrutta; essa fu ricostruita nel 118 d.C. dall'imperatore Adriano. Fu restaurato da Domiziano ed è arrivato fino a noi quasi integro nella ricostruzione eseguita da Adriano nel 130 d.C. L'imperatore Foca donò nel 608 il Pantheon al Papa Bonifacio IV, il quale lo trasformò in una chiesa cristiana con il nome di Santa Maria dei Martiri. Il monumento è formato da un cilindro che sostiene la più grande cupola mai costruita in muratura: il suo diametro infatti misura 43,3 metri. La cupola è decorata da cinque file di cassettoni concentrici che degradano verso l'alto e terminano in un'apertura circolare di 9 metri di diametro; ogni anno, alle 12 del 21 giugno, in occasione del solstizio d'estate, un raggio di sole attraversa “l'oculus” irradiandosi all'interno della costruzione. Il pavimento presenta il disegno che aveva in origine: per costruirlo furono adoperati gli stessi materiali usati per le decorazioni architettoniche, ossia i marmi tipici delle costruzioni romane: il granito, il porfido, il pavonazzetto, il giallo antico. Nel gennaio del 1878, in occasione della morte del primo Re d'Italia Vittorio Emanuele II, il Pantheon fu scelto quale dimora delle salme dei Reali d'Italia. Attualmente accoglie le spoglie mortali di Re Vittorio Emanuele II, Re Umberto I e della Regina Margherita di Savoia. Sono destinate ad esservi sepolte anche le salme dei Reali d'Italia ancora sepolti in esilio: Vittorio Emanuele III, La Regina Elena, Re Umberto II e la Regina Maria Josè.

Al Pantheon i geni, non i supini, scrive il 18 dicembre 2017 Luca Nannipieri su "Il Giornale". Ma se mettessimo davvero la salma del re Vittorio Emanuele III dentro al Pantheon a Roma, accanto alla tomba eterna di Raffaello, le salme di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Giorgio De Chirico, Giuseppe Ungaretti, Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo, Vittorio De Sica, dove le avremmo dovute mettere? Avremmo dovuto dedicare uno speciale mausoleo per ciascuno di loro. Perché è vero che nel Pantheon è sepolto anche un altro re d’Italia, ma col tempo, con il turismo globalizzato che si concentra a milioni ogni anno in visita a questo tempio, il Pantheon ha smesso di essere il luogo di sepoltura di reami e dinastie, e può diventare il luogo per eccellenza dove seppellire le massime vette del genio italiano. Anche nella lingua comune, pantheon è luogo delle rarissime eccellenze che hanno la forza di essere riconosciute come fondatori e padri spirituali di un popolo. Già nei primi del Novecento lo storico dell’arte Alois Riegl teorizzò la metamorfosi delle funzioni dei monumenti: un monumento non è statico, immobile, ma il suo significato varia a seconda delle epoche e dei valori che in esso si agitano. Re Vittorio Emanuele III è un padre spirituale? Neanche lontanamente. Accettò le leggi razziali, con la stessa supina accondiscendenza con cui don Abbondio, nei Promessi Sposi, si inchina ai bravi. Il Pantheon sia il luogo dei padri fondatori come Raffaello, non dei don Abbondio della storia.

Il Pantheon no. A proposito di Vittorio Emanuele, scrive il 18 dicembre 2017 Marco Valle su "Il Giornale". Torni dall’Egitto e riposi in pace Vittorio Emanuele. Riposi nel suo Piemonte. Riposi accanto ad Elena, il suo amore montenegrino. Finalmente, nel silenzio di una antica abbazia sabauda, “Curtatone e Montanara” — la definizione è degli Aosta, il ramo cadetto ed impertinente della dinastia — possano dormire assieme. Bene. Torni in Patria Vittorio, il re che seppe difendere nel 1917 a Peschiera, all’indomani di Caporetto, l’onore dell’Italia. Venga sepolto lassù, tra langhe, colline e montagne, il sovrano che nell’ottobre del 1922 impedì una guerra civile e poi, di malavoglia, accettò una modernizzazione autoritaria forgiata dal figlio di un fabbro di Predappio. Vittorio, borbottando, firmò ogni sua legge: la scuola di Gentile, le riforme sociali, le “città nuove”, le pensioni, l’orario di lavoro, i diritti delle madri, la salvaguardia dell’ambiente di Bottai e molto altro. Tante firme, anche sui provvedimenti più stupidi ed odiosi. Gli errori del Fascismo. La storia è nota. Inutile aggiungere note superflue. Basta leggere De Felice. Per un ventennio lui e tutti i Savoia preferirono crogiolarsi nel ventre caldo del regime, accettando cariche, piume, soldi e corone (Etiopia, Albania). Un bel gioco. Poi, la guerra. Nel giugno del 1940 Vittorio chiese al Duce — sempre De Felice — Nizza, Savoia, il confine al Var. La “roba” che Cavour aveva barattato con Napoleone III in cambio dell’Unità. Piccoli calcoli dinastici in una guerra mondiale. Con l’età gli orizzonti dell’uomo si erano erano ristretti tra le sue monete (era un numismatico compulsivo), la famiglia e gli egoismi di casta. Poi, le vittorie (poche) e le sconfitte (tante) sino al 25 luglio del 1943. Il crollo. La classe dirigente fascista — una folla di gerarchi, ministri, di “fedelissimi” e, persino, il genero — decise di suicidarsi offrendo al sovrano il pretesto per arrestare Mussolini e imbarcalo in un’ambulanza. Poi, con il “generalissimo” Badoglio — massone, affarista e cretino — il re organizzò, nel modo peggiore possibile, l’armistizio. L’8 settembre 1943. Una data pesantissima che, giustamente, Galli della Loggia, ha definito la “morte della Patria”. Poi la fuga ad Ortona e l’imbarco di reali e gallonati sulla corvetta Baionetta — la “zattera della Medusa” della dinastia — verso Brindisi. L’usbergo graziosamente concesso dagli invasori al monarca. Un piccolo ricordo. Tanti, troppi anni fa, con mio padre scoprivo Alessandria d’Egitto. Arrivati alla Cattedrale cattolica ci accolse un padre francescano. Al termine della visita chiese se volevamo visitare la tomba del Savoia. Babbo s’inalberò. «No, no. Lui ci ha traditi, ci ha abbandonato, ci ha umiliato». Non l’avevo mai visto così adirato. Una volta usciti dal tempio mi raccontò il suo 8 settembre ’43. La flotta salpata da La Spezia — corazzate, incrociatori, caccia — per la “battaglia dell’onore”. Lo scontro decisivo e finale contro gli anglo-americani nel mare di Salerno. Un beau geste. In navigazione arrivò, invece, l’ordine di mettere a prua verso sud e innalzare pannelli neri come segno di resa. Poche ore dopo i tedeschi affondarono la “Roma”, il gioiello della nostra Marina. Poi l’umiliazione a Malta. Babbo era imbarcato sul cacciatorpediniere Grecale, una delle prime unità a cui gli inglesi consentirono di rientrare a Taranto. Quel giorno, mentre una banda raffazzonata suonava l’inno del Piave, i marinai scorsero sulla banchina il re e suo figlio. Dalla tolda una tempesta di fischi e insulti salutarono i reali. Storie vecchie. Vittorio Emanuele torni pure dall’Egitto. Lo si chiuda nel suo sepolcro alpino. Dorma in pace. Chi vuole lo pianga, sventoli bandiere, indossi i palandrani dei vari sodalizi sabaudi. Chi vuole suoni la “Marcia reale”. I defunti vanno rispettati. Sempre. Ma non si chieda per Vittorio la sepoltura al Pantheon. La meriterebbe, piuttosto, Carlo Alberto — in ogni caso un personaggio centrale del processo unitario — e, forse, forse — Umberto II, ma non il “re sciaboletta”. No, lui no. No.

Le polemiche sulle sepolture dei Savoia sono vecchie di 140 anni. Torna in Italia la salma di Vittorio Emanuele III, dopo quella della moglie Elena. Sarà sepolto a Cuneo, ma secondo gli eredi gli spetterebbe il Pantheon, scrive "Agi" il 16.12.2017. Finisce l'esilio postmortem di Vittorio Emanuele III di Savoia e della moglie Jelena Petrovic Njegos. Dopo che la salma della Regina Elena, in gran segreto, era stata traslata dal cimitero di Montpellier, in Francia, dove fu inumata il 28 novembre 1952, è arrivata al santuario di Vicoforte, nei pressi di Mondovì, nel cuneese, anche il feretro del consorte, che riposava invece ad Alessandria d'Egitto. Un trasferimento, che, come era previsto, ha sollevato polemiche, date le responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III nella tragica avventura bellica dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Elena aveva seguito il marito in esilio ad Alessandria e, rimasta vedova, si era trasferita in Francia per curare i gravi tumori dei quali soffriva.

"Profonda gratitudine a Mattarella". La notizia è stata data, a traslazione avvenuta, dalla nipote Maria Gabriella con un comunicato all'agenzia France Presse: "A nome dei discendenti della coppia reale che ha vissuto i suoi 51 anni di matrimonio insieme agli italiani, nella buona e nella cattiva sorte, esprimo la più profonda gratitudine al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, che ha favorito il trasferimento in Italia". Il Quirinale in una nota ha confermato di essersi mosso "sul piano diplomatico" per il rientro delle spoglie mortali degli ex regnanti.  "Confido che il ritorno in Patria della Salma di Elena di Savoia, la Regina amata dagli italiani, concorra alla composizione della memoria nazionale nel 70esimo della morte di Vittorio Emanuele III (28 dicembre 1947) e nel Centenario della Grande Guerra", ha aggiunto Maria Gabriella. E alcuni quotidiani sostengono che proprio in quella data la salma del re potrebbe essere rimpatriata. A confermarlo a Repubblica il rettore della basilica, don Meo Bessone, che ha celebrato ieri la cerimonia per la sepoltura della regina nel santuario che, nelle intenzioni dei duchi di Savoia, avrebbe dovuto diventare il mausoleo della casata. Chissà se vi troveranno posto in futuro anche Umberto II e Maria José, che regnarono un solo mese prima della proclamazione della Repubblica e riposano nell'abbazia di Heutecombe, in Savoia. 

"I re e le regine d'Italia debbono riposare al Pantheon". Un gesto di conciliazione che non tutti gli eredi hanno apprezzato. "La mia bisnonna, l'amata regina Elena seppellita a Cuneo? Mio padre Vittorio Emanuele, capo di Casa Savoia, è rimasto sconvolto dall'iniziativa della sorella Maria Gabriella e soprattutto dai modi della traslazione della salma della regina d'Italia, in gran segreto. Ma perché?" è subito sbottato Emanuele Filiberto di Savoia, che al 'Corriere della Sera' spiega i motivi della tensione con la zia Maria Gabriella che ha preso "in autonomia" la decisione di far rientrare in Italia le spoglie. "Farla tornare adesso di nascosto, quasi fosse stata una terrorista, per noi Savoia è un insulto. La nostra battaglia è sempre stata quella di far tornare le salme degli ex re nell'unico luogo deputato alla loro sepoltura, il Pantheon a Roma. Non in una tomba qualsiasi in Piemonte".

Chi riposa al Pantheon. Il Pantheon conserva le tombe dei due primi re d'Italia, Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. La tomba di Vittorio Emanuele II si trova nella cappella centrale a destra. In realtà la destinazione della salma del re al Pantheon fu oggetto di un'accesa discussione: in molti, infatti, volevano che fosse inumata nella Basilica di Superga, luogo tradizionale di sepoltura dei Savoia. Alla fine tuttavia prevalse la volontà del presidente del Consiglio Agostino Depretis e del ministro dell'Interno Francesco Crispi. Come sacrario di casa Savoia nel 1882 sorsero immediate le proteste per impedire che venisse inumata nel Pantheon la salma di Giuseppe Garibaldi. Esattamente sul lato opposto del Pantheon sorge la tomba di re Umberto I e della sua consorte, la regina Margherita. Le tombe reali vengono mantenute in ordine da volontari delle organizzazioni monarchiche. Il servizio di guardia d'onore è reso dai volontari dell'Istituto nazionale per la guardia d'onore alle reali tombe del Pantheon. Non solo Savoia, però: nel Pantheon riposano i pittori Raffaello e Carracci, l'architetto Baldassarre Peruzzi e il musicista Arcangelo Corelli. Anche per il principe Serge di Jugoslavia, bisnipote della regina, l'ultima dimora dei reali d'Italia non può che essere il Pantheon. "Nonno Umberto II e il bisnonno Vittorio Emanuele III si rivolterebbero nella tomba", dichiara al Corriere, "i re e le regine d’Italia debbono riposare al Pantheon a Roma, e soltanto lì. È dal 1998, quando Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto hanno potuto far ritorno in Italia che mi faccio portavoce di questa battaglia: i sovrani d’Italia debbono poter riposare tutti al Pantheon. E poi in famiglia le decisioni si prendono discutendo, e invece in questo caso, se i fatti stanno così, nessun altro in famiglia ne era al corrente. Mia madre, Maria Pia, con me non ne sapeva nulla, neppure zio Vittorio Emanuele e tantomeno Emanuele Filiberto con i quali ho parlato: siamo tutti contrariati da questa iniziativa".

Vittorio Emanuele III, i Monarchici rispondono all’Ucei: “Leggi razziali? Non interessano più”, scrive Alfonso Raimo su "Dire" il 17-12-2017. “La storia è storia. A distanza di 70 anni lasciamo in pace i morti. Questo vale anche per Vittorio Emanuele III. Il piccolo grande re. Il re della vittoria. Non ci ricordiamo le leggi razziali, che non furono ascrivibili alla sua volontà. Ricordiamo quel che fu ascrivibile alla sua volontà: la riscossa dopo Caporetto”. Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica italiana, in un’intervista all’agenzia DIRE replica alla presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni, che ha chiesto di non procedere alla traslazione della salma di Vittorio Emanuele III al Pantheon perchè il re porta “il peso di decisioni che hanno gettato discredito e vergogna su tutto il paese” a cominciare dalla firma delle leggi razziali. “Cominciamo col dire che da oggi in poi i Pantheon sono due: uno a Roma e uno a Vicoforte. Il Pantheon, infatti, è là dove è sepolto il re. E siccome il re è a Vicoforte, lì è il Pantheon”, premette Sacchi. Noemi Di Segni ha un’opinione specularmente opposta. “Massimo rispetto ma non sanno cosa significhi essere un re parlamentare e costituzionale, ruolo che Vittorio Emanuele III conservò anche durante il periodo fascista”, risponde il presidente dei monarchici. L’aspetto più controverso è la firma delle leggi razziali. “Ma un re deve controfirmare gli atti del governo. Capisco bene la loro posizione e me ne posso dispiacere tanto e considerare le leggi razziali un abominio. Ma non furono decise da Vittorio Emanuele III, che da capo costituzionale non poteva fare altro che firmare. Sì è vero: avrebbe potuto rifiutarsi e salvarsi la coscienza con l’abdicazione. Dopo di che Mussolini avrebbe fondato la repubblica fascista e promulgato comunque le leggi razziali. Del resto è quello che i fascisti hanno fatto a Salò, no?”. Ma qual è il suo giudizio sui rapporti tra il re Savoia e il regime? “Senza Vittorio Emanuele III non ci sarebbe stato il freno nei confronti del fascismo che comunque c’è stato”, risponde Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica italiana. “Ma io - aggiunge - non pensavo che ancora oggi, dopo 70 anni, avrei dovuto fare la difesa d’ufficio dalle accuse di vicinanza al fascismo. Per me la monarchia è il futuro. Tutto nella storia ha una sua giustificazione, anche la firma delle leggi razziali. Che senso ha parlarne oggi?”. In che senso dice che tutto ha una giustificazione? “Qualunque atto umano trova una sua ratio. Da che sono il capo dei monarchici italiani- aggiunge Sacchi - passo una parte del mio tempo per spiegare delle cose che tutto sommato non interessano più nessuno, come la marcia su Roma, le leggi razziali, la fuga di Pescara. Ci sarebbe, invece, molto da dire sulla funzione che hanno oggi le monarchie nel consesso dei popolo democratici. Le più belle democrazie sono oggi monarchie costituzionali. Di questo vorrei parlare e non perdere tempo a domandarsi dopo 70 anni quali responsabilità ebbe la monarchia in questo o quel frangente. Ripeto: tutto ha una giustificazione e una ratio”. Il giudizio complessivo sul re è più che positivo. “Vittorio Emanuele III è stato il più intelligente dei capi dell’Italia unita dal 1861. E soprattutto quello che più di chiunque altro ha rispettato lo Statuto. Una cosa che gli è costata anche cara, visto che anche i suoi consiglieri volevano farlo abdicare già nel 1943 e lui non volle, perchè sosteneva che abdicando avrebbe implicitamente ammesso di aver commesso degli errori. Cosa che non fu. Neppure quando diede l’incarico a Mussolini per formare il governo. Ci si dimentica che fu il parlamento italiano ad affidarsi a Mussolini. Che nel primo governo Mussolini c’erano anche i popolari. Si vorrebbe Vittorio Emanuele III colpito da una damnatio memoriae. Ma è stato un grande re”.

Ma i re non si smacchiano dalla storia, scrive Marcello Veneziani su "Il Tempo" il 18 dicembre 2017. Abbiate pietà per il piccolo Re. Abbiate pietà per i morti, per la storia, per l’Italia. Riattivate quel sentimento nobile e pudico che si chiama carità di patria. Accogliete le salme dei reali come si deve. Non solo a Torino ma anche a Roma, al Pantheon, dove ci sono le salme dei loro avi. Perché sono pezzi di storia patria, e non potete adottare fratture, salti, amnesie. Se volete riscrivere la storia, cancellare e modificare il nostro passato, allora via a eliminare in tutte le città d’Italia gli omonimi corsi, le omonime piazze dedicate a Vittorio Emanuele. Non a lui, beninteso, ma a suo nonno, che benché II° fu il primo re d’Italia. Cos’è questa fobia, questa paranoia che si abbatte sul passato, questa voglia di abbattere monumenti, cancellare memorie e paternità, disconoscere eventi storici? E magari tenersi qualche viale Lenin, viale Unione Sovietica, persino Stalingrado, oltre a svariati viali Togliatti, e cancellare tutto il resto. Anche il re viene vituperato in nome dell’antifascismo. Ma questo paese avrebbe bisogno di antirabbica più che antifascismo: troppo livore, troppi rancori. Su Re Vittorio Emanuele III diciamo due o tre cose. Fu il Re più duraturo nella storia d’Italia. Cominciò da ragazzo, quando gli uccisero il padre, Umberto I, a Monza, agli albori del ‘900 e rimase re fino a maggio del ’46, quando abdicò in favore di suo figlio Umberto II. Sarà stato un mezzo re quanto a statura, o un re dimezzato quando dovette coabitare con l’ingombrante duce, ma durò mezzo secolo sul trono. E un mezzo secolo in cui l’Italia combattè due guerre mondiali, alcune guerre coloniali, un paio di guerre civili, dal biennio rosso alla guerra civile fascio-partigiana, e in cui un paese contadino e analfabeta si modernizzò, si istruì, in massa. Fu un buon soldato, re sciaboletta, una persona triste, un po’ introversa, non maestosa ma sommessa. Commise alcuni errori, alcuni cedimenti. Dal fascismo subì non solo gli oltraggi, la marcia su Roma, le leggi liberticide o razziali; ma ebbe anche prestigio mondiale e nazionale, un impero, una storia. Non finì bene, la sua fuga resta una macchia nera nella sua biografia: magari non lo fece per salvarsi la pelle ma per salvare un regno anche se non vi riuscì. Conosco le giustificazioni, ma non fu una bella pagina. Fu perfino più grave del pastrano tedesco con cui fu preso Mussolini. Ma la storia è la storia. Si prende sulle proprie spalle la croce del tuo paese, insieme agli onori e ai ricordi. E si storicizzano gli eventi raccontandoli nel bene e nel male, e non vietandoli, smacchiandoli come tracce di unto, addirittura negando onorata sepoltura. La monarchia sabauda in Italia fu una monarchia breve per un paese antico, durò meno della vita di un uomo, ottantasei anni. Poco per un paese di millenarie tradizioni come il nostro. E i Savoia, dissi una volta con un filino di perfidia, seguono la via dell’involuzionismo, ossia il figlio è sempre peggio del padre o se preferite una formulazione più indulgente, il padre è sempre meglio del figlio. Carlo Alberto era meglio di Vittorio Emanuele II, e questi era meglio di Umberto I, e Umberto meglio di lui, il piccolo Re. E lui meglio di Umberto II e questi meglio di Vittorio Emanuele IV. Che temo sia meglio di Emanuele Filiberto… Poi ci sono gli Aosta, ma è un altro discorso. Mille aneddoti e maldicenze gremiscono la storia di Vittorio Emanuele III; ci piace ricordarne solo una, più innocuo. Quando Italo Balbo, a Tripoli, dov’era governatore, fece travestire il piccolo Leo Longanesi da Re e lo fece scorrazzare nella città su un’auto scoperta. Poi furono chiamati a rapporto da Mussolini che voleva punirli per il goliardico vilipendio, ma a sentire il racconto il ducione non riuscì a trattenere una fragorosa risata…In Italia le nostalgie monarchiche oggi toccano più i Borboni, gli Asburgo, e altre dinastie, più che i Savoia. Ma è giusto che le salme dei Savoia, di lui e della regina Elena, vadano accanto agli avi nel Pantheon. Perché il rapporto dei Savoia con l’Italia è lo stesso delle salme sabaude col Pantheon. L’Italia è una grande civiltà, una grande nazione, con uno stato storto, piccolo e recente, e dunque una monarchia breve e controversa. Così come il Pantheon è un luogo più importante dei re sabaudi che accoglie; c’è la romanità, c’è la Tradizione, c’è l’Impronta di Grandi Imperatori e c’è la dedica a tutti gli dei che grandeggia sulle vicende della storie, come l’eternità rispetto al secolo. Così in quell’ombelico del mondo (omphalos mundi), un posto spetta ai re d’Italia, uno spicchio di storia che non possiamo cancellare di un Paese che fu una grande civiltà e un modesto regno. Riportate il Re in famiglia oltreché in Patria.

Ma per la morte di Stalin il popolo dei moralisti impose il lutto all'Italia. Quante inutili polemiche sul re tenero con il fascismo. Con il dittatore sovietico invece..., scrive Matteo Sacchi, Martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". Tante polemiche per il rientro in Italia del corpo di Vittorio Emanuele III, un re che ebbe la colpa di non sapere fermare l'ascesa della dittatura fascista. E un re che, quando dal fascismo si staccò, ebbe la colpa di non riuscire in nessun modo a prevenire la reazione tedesca. Eppure il nostro Paese, in altri casi, non si è fatto mancare giganteschi rituali di lutto collettivo, per tiranni ben peggiori, e che per altro italiani non erano. Basta pensare a come venne accolta la morte di Stalin, nel 1953. L'occhiello della prima pagina, bordata di nero, dell'Unità di venerdì 6 marzo 1953 così recitava: «Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell'umanità». Venne anche organizzato un subitaneo lutto collettivo, imposto o no che fosse. Ecco come lo raccontava un altro degli organi di stampa più letti della sinistra dell'epoca, Rinascita: «La luttuosa notizia della morte del Capo amato dei lavoratori ha trovato la prima eco dolorosa nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro di tutta Italia. In centinaia e centinaia di aziende, dai grandi complessi alle piccole officine, in ogni provincia, il lavoro è stato spontaneamente sospeso per qualche minuto. Le maestranze si sono raccolte in assemblea, hanno commemorato la figura e l'opera di Giuseppe Stalin; negli stabilimenti, nei reparti, nei cortili sono apparse le prime bandiere abbrunate, i primi ritratti, i primi registri per la raccolta delle firme». E fu solo l'inizio. In onore del «Grande combattente della pace» le manifestazioni si moltiplicarono rapidamente: raccolte di firme da spedire in Urss, lezioni sospese in moltissime scuole, intere città, come le rossissime Livorno e Cerignola, vennero parate a lutto. Si arrivò anche a iniziative più bizzarre: ad Ancona si decise la diffusione di ventimila copie del discorso di Stalin al XIX congresso del Pcus; a Sbarre (Reggio Calabria) venne costituito, nel nome di Stalin, un nuovo reparto di Pionieri (l'organizzazione giovanile comunista). E qualcuno si precipitò verso il territorio sovietico più vicino e reperibile. Così di nuovo su Rinascita: «Gruppi di cittadini si recano a bordo delle navi sovietiche ancorate nei porti italiani, a recare agli ufficiali e ai marinai dell'Urss l'espressione del cordoglio e della solidarietà del nostro popolo». Non si fece mancare nulla nemmeno il mondo politico: sia alla Camera sia al Senato, la seduta fu sospesa per un'ora in segno di lutto. Anche non comunisti, come il socialista Pietro Nenni, usarono toni a dir poco apologetici: «Onorevoli colleghi, nessuno fra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che ha lasciato Giuseppe Stalin». Non bastando l'apologia collettiva partì la caccia ai pochi che ebbero il coraggio di dire, se non la verità sull'ideatore delle purghe più sanguinarie, almeno di correggere l'enormità di alcune di quelle bugie. Alcide De Gasperi si limitò a puntualizzare che: «Da vivo, il dittatore non mostrò per il nostro Paese né comprensione né considerazione...». Venne sottoposto a un vero e proprio linciaggio morale. Certo, si può ovviamente dire che nel 1953 non tutta la verità sul sistema concentrazionario era stata rivelata. L'Italia però non si fece mancare una nutrita delegazione ai funerali di Tito nel 1980. E anche in quel caso, seppure in tono minore, partì l'elogio collettivo (con poche eccezioni). Eppure sulle foibe non c'era molto da scoprire. Evidentemente su un re che ebbe molte colpe, ma anche qualche merito, come la condotta specchiata durante la prima guerra mondiale, la tolleranza è minore.

Fascismo, selfie della nazione, scrive Fulvio Abbate il 12 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi. Il fascismo ci riguarda tutti da vicino. Come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi: ci basta scoprire che hanno fregato il deflettore dell’auto per sognare il ritorno di un sistema poliziesco degno di Pinochet e dei “voli della morte”, delle camere a gas, del razzismo. Ed è sbagliato sostenere che si tratti di una questione strumentale nel frangente delle elezioni. Il fascismo è il selfie della nazione. Più che la sua “autobiografia”, parafrasando Piero Gobetti. Perché il fascismo ci riguarda tutti da vicino. Infatti, come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi (sia detto senza offesa per King Kong, creatura che, come pochi, sapeva invece amare), ci basta scoprire che hanno fregato il deflettore dell’auto per sognare il ritorno di un sistema poliziesco degno di Pinochet e dei “voli della morte”, delle camere a gas, del razzismo. Senza scomodare ciò che spiegava Gramsci – «Il fascismo si è presentato come l’anti- partito, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano» – va detto però che questa riflessione sembra andare bene anche per il dispositivo mentale di altre compagini politiche recenti, come il M5S. D’altronde, assodato che il fascismo è semplificazione, l’opinione che Mussolini aveva di Gobetti non sfigurerebbe in un tweet di CasaPound: “segaiolo incarognito”, prosa da mattinale di questura e fureria. Proseguendo nel racconto della subcultura neofascista sarà bene aggiungere un ricordo personale: era il giorno dell’uscita nelle sale di Jesus Christ Superstar, 1973, e i fascisti stavano già lì a piantonare i cinema, accusando quel film di “blasfemia”. La fantasia di un musical a fronte di una ventina di figli di una piccola borghesia ottusa, i capelli tagliati dal “Kociss” delle caserme. I neofascisti, in questo accompagnati dai convinti d’altre sigle politiche perfino democratiche, di fronte a ogni obiezione spostano sempre l’oggetto della discussione, come al baretto rionale. Se provi a far notare che non si può iscrivere Anne Frank al campionato calcistico italiano 2017- 2018, loro ribattono: «… e allora le foibe?». Oppure: «E allora il comunismo?». «E allora la bomba degli anarchici ai carabinieri di San Giovanni?». Prendiamo ad esempio la bandiera del secondo Reich esposta in una cameretta della caserma dei carabinieri a Firenze. In questo caso basterà leggere i molti commenti contro la ministra Pinotti, accusata di essere ignorante in fatto di vessilli imperiali germanici, per comprendere l’analfabetismo “civile” che contraddistingue sia la zona nera sia la “zona grigia” benevolente verso certe forme di violenza e autoritarismo endemiche. Lo stesso vale per l’appello alla privacy: «Sia denunciato piuttosto il giornalista che con la sua telecamera si è introdotto in un presidio militare!». Questo genere di mistificazione si nutre talvolta di care memorie familiari: ampi strati del Paese privo di sentire democratico, ancora adesso ringraziano il duce per avere loro donato un’uniforme da capo- fabbricato, e con quella, i nonni e le nonne al momento opportuno, forti di un decreto emesso dal regime nel 1938, avrebbero denunciato i condomini ebrei del secondo e quarto piano, è accaduto proprio in un civico di fronte a una delle mie residenze romane. Obiezione: «E allora i comunisti che nel mondo hanno fatto più vittime di tutti?». Il neofascista, in cuor suo, con animo da modellista di stukas e V2, piange ancora adesso sulla sconfitta dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, l’assunto del lutto è facile a dirsi: con la disfatta del “Reich millenario”, ai loro occhi, avviene “la morte dell’Europa”. I neofascisti hanno ancora l’orgoglio identitario e sovranista, cioè «non vogliono stranieri in casa propria». Probabilmente, anche i nostri più ottusi cognati o generi o suocere o cugini, magari acquirenti furtivi di tallio per far fuori i consanguinei, gli appaiono comunque migliori dei “negri”. La legittimazione dei neofascisti come una cosa che «non è che poi fosse tanto male, eh?» è avvenuta con Tangentopoli, a un certo punto, anche a sinistra, si è cominciato a dire che «saranno pure fascisti, però sono onesti, mica come i Dc e i socialisti di Craxi!». Ricordando, metti, che Leonardo Sciascia sempre citava una relazione di minoranza dei missini nella Commissione antimafia. Mi direte che la legge Fiano non risolve il problema e si accanisce perfino sugli inoffensivi collezionisti di cimeli del Ventennio, vero, e infatti secondo alcuni il neofascismo insorgente andrebbe distrutto con le armi dell’ironia, così i più sarcastici, commentando l’irruzione di Forza Nuova sotto la redazione di Repubblica con bandiere e fumogeni hanno scritto: «Non sono fascisti, semmai appassionati della storica tradizione degli sbandieratori che difendono questa antica arte folkloristica strenuamente» . Bene, occorre ironia! Poi però ti guardi intorno e scopri che nulla o quasi è cambiato dal tempo in cui andavi da ragazzino al doposcuola – che sarà stato, il 1969? e il nipote, tuo coetaneo, del prof di aritmetica, già capomanipolo, diceva: «Perché i comunisti hanno ammazzato il duce, lo hanno appeso a testa in giù a piazzale Loreto, partigiani assassini, vergogna!». Allora provavi a spiegargli che il fascismo, restando in ambito familiare, aveva mandato tuo padre a combattere dichiarandolo volontario a sua insaputa (accadde con la classe del 1921) così papà, a 19 anni, era finito in guerra. «Eh, ma queste sono cose vecchie! Il fascismo è finito una vita fa!». Impossibile spiegare a questa gente che, al di là del dato storico, il fascismo è un modus vivendi, la scimmia che si risveglia davanti al deflettore dell’auto rotto, davanti al gommone del migrante. Diceva Pasolini: «Il fascismo è stato una banda di criminali al potere». Già, chi veste una divisa potrà mai esserlo? Obiettano quegli altri, ripensando ancora una volta al nonno con la camicia nera e i galloni da capofabbricato. A quel punto, provandole tutte, gli fai notare che la destra, metti, francese, è, sì, quella che mandava i suoi celerini, i “Crs”, a manganellare gli studenti nel maggio ’ 68 e ancor prima gli algerini, tuttavia era la stessa che anni prima aveva combattuto in prima fila i nazisti occupanti. Neppure l’argomento sulla propensione criminale propria dei fascisti, dalle vicende della banda della Magliana al caso di “Mafia capitale”, fino agli Spada a Ostia, neppure questo sembra smuoverli. Alla fine resta una domanda, che è poi la stessa che ci poniamo di fronte alle tiepide reazioni di sdegno da parte dell’opinione pubblica musulmana davanti alle stragi di “Charlie Hebdo” o del “Bataclan”, ma ci sarà una destra civile che voglia marcare la propria distanza assoluta dallo squadrismo mafioso neofascista? Se sì, ne attendiamo le parole. E Pietrangelo Buttafuoco, ospite di Myrta Merlino a La7, non dica che ciò che sta accadendo sono tutte “minchiate” ( sic), poiché definirle in questo modo è ingiusto e sa di mistificazione su gravi episodi che si ripetono in modo esponenziale, dalle aggressioni ai ragazzi romani da parte dei giovani neofascisti del Fronte della Gioventù che reputano di dover presidiare il territorio secondo un principio squadristico, all’immagine dei pacchi alimentari consegnati da Casa Pound a Ostia sotto le elezioni, tra negazione del principio della dignità al voto di scambio. «E allora perché non ci pensa il Pd, eh?». O ancora, tornando alla bandiera, ripetere, come se fossimo tutti sciocchi, che «quella non è una bandiera nazista e il ministro della Difesa non può essere digiuna di storia militare». Spalleggiato dai giornali del blocco leghista e berlusconiano che a loro volta minimizzano perché in cuor loro un certo modo di agire razzista dà calore e conforto a ogni ben pensante. Evidentemente, chi lo fa reputa il fascismo un bene rifugio di famiglia e tutto il resto un fatto secondario. Il fascismo è diventato il selfie della nazione. Chiedere a queste persone di elaborare il concetto di democrazia è evidentemente troppo. «E allora che dobbiamo dire del comunismo?».

Ps: Sostenere che si tratti soltanto una questione strumentale nel frangente delle elezioni è da analfabeta incapace di riflettere su un nodo storico e culturale che prescinde dalla contingenza e dai piccoli espedienti di una sinistra in difficoltà. E perfino il filosofo Slavoj Žižek sembra semplificare la questione per proprio narcisismo.

Fascismi giudiziari e aggravanti televisive, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Assistiamo da anni a una aggressione giudiziaria, di stampo fascista. Penso agli insensati scioglimenti di Comuni per mafia, all'arresto plateale (seguito dall'incongrua liberazione) di Cateno De Luca, ai processi illegittimi come quello a Contrada, alle condanne arbitrarie di Dell'Utri e di Cuffaro, alle indagini su Berlusconi, e alla farsa degli alimenti a Veronica, conclusa con un risarcimento di lei a lui (in un impressionante squilibrio dei collegi giudicanti), al processo infondato per Mafia capitale, all'arbitrario arresto, fino a farlo morire, dell'innocente sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, all'inverosimile metodo Woodcock, all'abuso di Cantone su Carla Raineri. Una lunga serie di veri e propri errori, per ignoranza o malafede. Fino all'arresto di Spada, per «testata» con l'aggravante di mafia, in un carcere di massima sicurezza. «Ha sbagliato, ma non ci scordiamo che Sgarbi schiaffeggiò la Mussolini in diretta televisiva», ricorda il cugino di Spada. Ricorda male. Fu lei a farmi cadere gli occhiali, e io le dissi semplicemente: «Fascista». Vero invece, e più pertinente al caso Spada, che io spaccai il tapiro in testa a Staffelli. Certo un cattivo esempio. Il cugino osserva: «Ma dove sta questa mafia? La mafia ve la state inventando voi». Ha evidentemente ragione. Roberto Spada, nella sua aggressione era solo, e la mafia prevede una associazione. La sola aggravante è quella televisiva.

Dal Lago: «Dell’Utri: Popolo e giudici gridano insieme “vendetta, vendetta!”», scrive Giulia Merlo il 13 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". “La sinistra si è persa in un incomprensibile degrado giustizialista. Da anni subisce il fascino dei leader magistrati: prima si chiamavano De Magistris, Ingroia e Di Pietro, oggi Piero Grasso”. «La nostra giustizia penale è vendicativa e l’opinione pubblica lo è altrettanto». Alessandro Dal Lago, sociologo e intellettuale di sinistra, interviene sulla vicenda penale di Marcello Dell’Utri e condanna non solo il sistema giudiziario ma anche il silenzio assordante della sinistra.

Professore, il nostro sistema penale è vendicativo?

«La giustizia penale nel mondo occidentale e soprattutto in Italia ha caratteri evidentemente vendicativi, anche quando la nostra Costituzione prevede la funzione rieducativa della pena. Eppure l’attuale situazione delle carceri italiane contrasta ampiamente con questa previsione e le retoriche pubbliche e politiche sono per lo più forcaiole e punitive. Ma attenzione, l’opinione pubblica non è da meno».

Gli italiani sono figli di questo sistema?

«Guardi, io ho scritto un post sulla mia pagina Facebook in cui ho sostenuto che la scelta del Tribunale del Riesame contro la scarcerazione di Dell’Utri fosse priva di umanità. Ho ricevuto alcuni commenti terrificanti, la cui cifra ultima è che Dell’Utri è il nemico e per lui non c’è alcuna pietà: una visione che fa rabbrividire nel Ventunesimo secolo».

L’opinione pubblica italiana confonde la politica con la giustizia?

«Chiariamoci, Marcello Dell’Utri è un mio avversario politico da sempre, ma ciò non può fare di lui un nemico da distruggere e nemmeno giustifica un accanimento nei suoi confronti. Oggi l’opinione pubblica si indigna contro chi ne sostiene la liberazione, mentre invece non fa una piega quando lo stesso Dell’Utri dichiara che si lascerà morire di fame».

Come se lo spiega? L’Italia è un paese giustizialista?

«Basta un dato: in Italia il 30% degli elettori vota per un partito che mette la legalità sopra a tutto. Oggi, nel nostro Paese, c’è ancora chi vuole una giustizia che sia esemplare».

E nel caso di Dell’Utri lo è stata?

«Mi limito a commentare la sentenza e parto dal presupposto della fiducia in ciò che scrivono i medici. Per questo mi indigna il fatto che un Tribunale sia passato sulla testa di tre specialisti che hanno valutato come grave la situazione di salute di Dell’Utri: la legge permette a un magistrato di non tener conto delle valutazioni dei periti».

Quanto c’entra la politica nella vicenda di Dell’Utri?

«Molto, a partire dal fatto che dopo Mani pulite l’esaltazione della giustizia penale è diventata un principio centrale. Non solo, però. Forse è solo un’impressione, ma non mi sento di escludere che la decisione dei giudici del Tribunale delle Libertà sia stata condizionata dal fatto che Dell’Utri sia un uomo di Berlusconi. Allo stesso modo, l’insurrezione dell’opinione pubblica è in parte motivata proprio dall’avversione per il berlusconismo».

Spiega così la mobilitazione della stampa orientata a destra in favore di Dell’Utri?

«Una mobilitazione quantomeno contraddittoria. Quotidiani come il Giornale, il Tempo e Libero lanciano una petizione in favore di Dell’Utri e ora tirano in ballo lo stato delle carceri, ma sono gli stessi giornali che da sempre predicano la frusta contro reati irrisori. La destra si mobilita per Dell’Utri, ma non lo avrebbe mai fatto per i tanti poveracci che condividono la sua stessa sorte. La loro è un’indignazione moralista e populista: ora dicono che quella contro Dell’Utri è tortura, sono stati loro i primi ad opporsi a una legge contro la tortura».

La sinistra, invece, è rimasta in silenzio.

«La sinistra si è persa in un incomprensibile degrado giustizialista. Dalle elezioni del 2013 subisce il fascino dei leader magistrati, che allora si chiamavano Di Pietro, De Magistris e Ingroia e oggi Piero Grasso. Questo è il lungo effetto di Mani pulite, che ha fatto perdere alla sinistra i principi garantisti».

Non esiste garantismo, quindi, nella sinistra italiana?

«Da quando Berlusconi è diventato un avversario giudiziario oltre che politico, la giustizia è diventata il faro della sinistra. In questo modo si è perso l’atteggiamento di critica minima nei confronti della legge e del sistema penale e ci si è dimenticati la cultura dei diritti umani e civili, che sono stati invece il cuore della sinistra. L’unica a restare garantista è Emma Bonino, ma la sua è una posizione marginale nella galassia della sinistra».

Come pensa che finirà la vicenda Dell’Utri?

«Se davvero Dell’Utri dovesse continuare fino alle estreme conseguenze lo sciopero della fame, sarebbe una botta tremenda per il giustizialismo di Stato. Io credo, però, che non si arriverà a questo punto: sul piano politico sarebbe un disastro e qualcuno di sicuro interverrà per aggiustare la situazione».

E’ una lotta tra la giustizia e la politica?

«No, io non ne faccio una questione politica ma di diritti umani: valgono per tutti, devono valere anche per Dell’Utri. Di più, io sono convinto che i diritti umani siano superiori alla giustizia. Bisogna smetterla di pensare che il diritto penale sia il criterio supremo di giudizio: esistono valori superiori come quello di umanità, che è un valore politico nel senso più alto del termine».

Il vero fascismo. Che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri, da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice: era di sinistra, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 08/12/2017, su "Il Giornale". Devo ricredermi, ha ragione La Repubblica a lanciare l'allarme su un pericoloso rigurgito di fascismo in Italia. Ma non perché - come enfatizza il quotidiano diretto da Mario Calabresi - cinque cretini di Forza Nuova leggono un volantino in un centro culturale pacifista e altrettanti agitano fumogeni sotto la sede del suo giornale mascherati manco fosse carnevale. Stiamo diventando un Paese fascista perché un anziano e malato detenuto viene tenuto in carcere nonostante i medici abbiano certificato che le sue condizioni di salute sono senza dubbio incompatibili con il regime di detenzione. Anzi, per la verità Mussolini gli oppositori politici li mandava al confino nella splendida isola di Ventotene o in esilio, come capitò anche a Indro Montanelli, futuro fondatore di questo Giornale. La decisione di ieri del tribunale di sorveglianza di negare cure adeguate in luoghi adeguati a Marcello Dell'Utri, 76 anni, malato di tumore e ad alto rischio cardiopatico, suona come una condanna a morte di Stato. Condanna che l'imputato ha accettato annunciando di sospendere volontariamente e da subito anche le poche terapie che gli vengono somministrate in carcere. Noi quella condanna non la accettiamo e la cosa dovrebbe fare inorridire anche i sinceri democratici antifascisti che si agitano tanto per le pagliacciate di quattro ragazzotti in cerca di pubblicità (facendo così peraltro il loro gioco) ma che appaiono indifferenti alle violenze fasciste della giustizia. Tanto accanimento, direi odio, nei confronti di Dell'Utri non può che avere radici politiche, perché il codice penale permetterebbe ben altre soluzioni. Tipo quelle trovate per Adriano Sofri, icona della sinistra salottiera e rivoluzionaria, che condannato per l'omicidio del commissario Calabresi (padre dell'attuale direttore della Repubblica) scontò metà di una misera pena (15 anni) nel comodo di casa sua per «motivi di salute». Chiedo ai signori giudici: che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri (che per di più non ha mai ucciso nessuno), da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice. Sofri era di sinistra (e che sinistra), Dell'Utri è stato a lungo il braccio destro di Berlusconi, e per questo può morire in cella come un cane. Se dovesse succedere, e mi auguro di no, chiunque può fare qualche cosa per fermare questo «fascismo» giudiziario - dal ministro della Giustizia al presidente della Repubblica - e se ne lava le mani dovrà risponderne. Agli uomini liberi da pregiudizi e alla propria coscienza, per tutta la vita.

Pasquino: «Ha ragione Bersani: Il M5S è un partito di centro sinistra», scrive Rocco Vazzana il 14 Aprile 2017 su "Il Dubbio".  Intervista a Gianfranco Pasquino: «Mi auguro che i 5 Stelle si impegnino: meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni». «Meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni». È questa, per Gianfranco Pasquino, la strada che il Movimento 5 Stelle deve imboccare se vuole conquistare Palazzo Chigi.

Professore, dopo Ivrea Beppe Grillo ha scritto sul Blog: «Non è più tempo di manifestazioni in piazza a carattere provocatorio, facili a sfogare nella violenza, è diventato il tempo di disegnare il nostro futuro». È iniziata la fase 2 del M5S?

«Che si stiano preparando a governare il Paese lo do per scontato, sarebbe sbagliato se non lo facessero. Dopo l’esperienza di Roma dovrebbero aver imparato che è meglio arrivare preparati invece di fare i dilettanti, o le dilettanti, allo sbaraglio. Anzi, mi auguro che si impegnino di più su questo terreno: meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni. Ma non basta organizzare convegni ben frequentati, un partito con ambizioni di governo deve anche essere presente in piazza, Grillo lo sa benissimo. Il Movimento ha bisogno dell’elemento spettacolare».

E come convinceranno la parte “mite” del Paese a votare Movimento 5 Stelle?

«Dovranno trovare alcune persone di cui non si possa dire “uno vale uno” ma che valgano molto più degli altri. Servono personalità che conoscano come funziona l’economia di un Paese, il sistema scolastico, il mercato del lavoro, che non propongano soluzioni sbagliate e che abbiano una biografia professionale che parli per loro. Devono trovare almeno quattro o cinque persone per vincere. Credo sia un’operazione fattibile».

Lo scouting è iniziato a Ivrea?

«Ivrea secondo me è stato un inizio, ma bisognerà andare avanti.

Per governare serve anche una legge elettorale che consenta di farlo. I 5 Stelle vorrebbero di estendere l’Italicum corretto dalla Consulta al Senato, dove però il premio di maggioranza viene assegnato su base regionale. Come si aggira l’ostacolo?

«È possibile fare tutto. Il Parlamento è sovrano. Le leggi elettorali deve scriverle il Parlamento, non il governo con voto di fiducia o la Corte costituzionale. Ma secondo me, la proposta dei 5 Stelle è sbagliata. L’Italicum deve essere buttato nel cestino della spazzatura e le Camere devono riflettere a fondo guardando a due modelli che funzionano: il sistema tedesco, se si preferisce il proporzionale, il Mattarellum o il sistema francese, se si preferisce il maggioritario. Tutte le altre proposte sono operazioni propagandistiche».

Pd e 5 Stelle fanno solo propaganda?

«Entrambi vogliono dire: “è colpa loro se abbiamo questa brutta legge elettorale”. Giocano a fare lo scaricabarile per non rimanere ultimi col cerino in mano. Ma quando si parla di riforma elettorale non è un problema di cerino ma di libri, di analisi comparata. Bisogna rendersi conto che una democrazia vera quando sceglie un sistema elettorale lo utilizza per molto tempo».

Dunque, discorso rimandato alla prossima legislatura?

«La mia intelligenza istituzionale mi dice che lei ha ragione, non ce la faranno a cambiare legge elettorale adesso, la mia volontà gramsciana dice che debbono farcela se vogliono avere una democrazia decente».

Esiste la possibilità che i 5 stelle si alleino con altre forze politiche?

«La storia politica italiana prevede anche la formazione di governi di minoranza appoggiati dall’esterno. Quindi, se il Movimento dà una grandissima prova di sé da un punto di vista elettorale, trova un personaggio adeguato per fare il presidente del Consiglio e si presenta dal Capo dello Stato esplicitando anche i punti programmatici, il Presidente della Repubblica potrebbe anche acconsentire al tentativo di formazione di un governo nella speranza di individuare alleati esterni. Oppure, al contrario, il Movimento potrebbe sostenere un governo a guida Pd a patto che i democratici accettino una parte delle proposte politiche dei pentastellati».

Non sarebbe più naturale cercare un’intesa con la Lega dopo il voto?

«La troverei molto complicata e non so neanche se numericamente sufficiente. Ma poi su cosa riuscirebbero a trovare un’intesa? Sul fatto che sono entrambi sovranisti? Sul no all’Euro e all’Unione europea? Ma si può fare un governo basandosi su dei no?»

Lei ha sempre contrastato chi sostiene la fine della distinzione destra/ sinistra perché i cittadini alla fine sanno sempre riconoscere le forze politiche e catalogarle in base a questo schema. Dove colloca allora il Movimento 5 Stelle? Destra o sinistra?

«Grosso modo dove si trovano adesso: in parte seduti a sinistra del Pd, in parte sopra e in parte verso il centro. Non vanno sui banchi della destra. Certo, al loro interno ci sono anche esponenti di destra. Come definire altrimenti Virginia Raggi? Però, credo che il Movimento 5 Stelle sia votato soprattutto da colo i quali sono insoddisfatti del Pd. Aveva ragione Bersani a provare di fare scouting. Ma non tra gli eletti, tra gli elettori».

In definitiva, elettori a parte, per lei il M5S è di destra o di sinistra?

«Io lo definirei un partito di centro sinistra, sta da quelle parti lì. E i suoi elettori stanno da quelle parti lì. Per intenderci, credo che Salvini non prenda neanche un voto dagli elettori insoddisfatti dal Movimento 5 Stelle».

Però il Movimento 5 Stelle vuole prendere i voti di Salvini. Su sicurezza, immigrazione ed Europa, ad esempio, Grillo strizza molto l’occhio all’elettorato della Lega.

«Questo è possibile. Se qualcuno riesce a rubare i voti alla Lega va bene, poi bisogna vedere come declinano il tema della sicurezza».

E come si declina il tema del lavoro. Pochi giorni fa sul Blog è iniziata la discussione sul programma di governo in cui i 5 Stelle si invocano un ridimensionamento dei sindacati. In questo Grillo insegue la destra o Renzi?

«Credo che scimmiotti Renzi, ma non ha capito che l’idea non funziona. Perché comunque il sindacato mantiene una sua forza e una sua presenza. Se uno vuole costruire un percorso di sinistra riformista può solo ispirarsi all’esperienza socialdemocratica. Ma lo si fa soltanto col consenso dei sindacati. Magari sfidandoli, portandoli su posizioni riformiste».

«CARA SINISTRA, MUORI UN PO’ PER POTER VIVERE…», scrive Rocco Vazzana il 10 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Intervista a Fausto Bertinotti: “Oggi il Parlamento è la cassa di risonanza del governo, non ha nessun appeal. Le elezioni non hanno alcuna incidenza sulla vita delle persone. E la sinistra reale si comporta come se tutto questo non esistesse”. La sinistra per rinascere dovrebbe saltare almeno «un giro elettorale». Fausto Bertinotti è convinto che tutte le proposte politiche in campo, fuori dal Pd, soffrano di un vizio d’analisi imperdonabile: il governo a ogni costo. Una prospettiva che costringe la sinistra «in una prigione» da cui è impossibile uscire senza ribaltare lo schema.

Presidente, partiamo dal tentativo fallito di Pisapia di unire il centrosinistra. Si aspettava che avrebbe gettato la spugna?

«Faccio una premessa, altrimenti tutti i miei giudizi risultano fuorvianti: io guardo a queste vicende come a una realtà lontana ed estranea a ciò che io considero necessario alla politica. Ciò che avviene sulla scena della rappresentanza delle forze della sinistra istituzionale non può portare a nulla di positivo per il destino della sinistra. La scena su cui si esercita la politica delle alleanze è inquinata, ci si muove dentro a una prigione».

Inquinata da cosa?

«Dalla morte della sinistra istituzionale che ha depositato i residui sul terreno, rendendolo inquinato. Non c’è niente da fare. La sinistra può rinascere solo fuori da questo recinto».

Cosa intende con sinistra istituzionale?

«La sinistra reale che occupa oggi la scena, anche se il termine sinistra risulta inutilizzabile. La sinistra ha subito una mutazione genetica che l’ha trasformata irrimediabilmente. È un problema enorme, basti guardare alla gerarchia delle priorità: governo, assunzione cioè del paradigma della governabilità; centralità della presenza politica solo sul terreno della democrazia rappresentativa; costituzione del soggetto politico; e infine la società. Questa gerarchia è mortifera, andrebbe completamente rovesciata. Il governo è stata una grande opportunità ma oggi si rivela nel suo contrario. Facciamo un esempio: la Spd tedesca. Per un partito in crisi drammatica l’unica ricetta per rinascere poteva essere il ricostituente dell’opposizione. Il ritorno alla grande coalizione equivale al ritorno nella tomba. Il problema è che la democrazia rappresentativa non è più centrale. Oggi il Parlamento è la cassa di risonanza del governo, non ha nessun appeal. Le elezioni sono diventate, come diceva Sartre, un’attività seriale, priva di qualunque incidenza sulla vita delle persone. È così vero che metà della popolazione non va a votare. E la sinistra reale si comporta come se questo elemento non ci fosse».

Il progetto di Pisapia non ha tenuto conto di questo elemento?

«È un vizio che riguarda tutta la sinistra. In termini diversi e con diversi gradi questa è la cultura delle sinistre istituzionali, si differenziano solo per il tasso di adesione a questa concezione. Non c’è nessuna forza di sinistra che pensa di rinascere fuori da questo campo, come invece hanno fatto altri soggetti in Europa come Podemos. Il fallimento delle alleanze a sinistra non è il prodotto delle caratteristiche psicopolitiche dei dirigenti, ma della natura del progetto: un’alleanza elettorale solo per influenzare il governo è un delirio. Se sei nel deserto devi dotarti di una risorsa per poterlo attraversare, non inseguire il miraggio. Per questa ragione sono convinto che sarebbe stato meglio saltare questo giro elettorale. Solo così si può ricostruire la gerarchia delle priorità: conflitto, soggettività politica, rappresentanza e poi, semmai, il governo».

Quando è iniziata questa mutazione genetica?

«A mio avviso inizia grosso modo all’inizio degli anni Ottanta, quando le borghesie si ribellano e puntano alla demolizione del ciclo inaugurato nel ‘ 68 e la sinistra risponde in maniera inadeguata a questa controffensiva. Lì muore la sinistra come espressione del movimento operaio.»

La sinistra ha bisogno di stare nel conflitto per definirsi tale?

«Esattamente. O la sinistra è una parte del conflitto, in contrapposizione a un’altra, o non è.»

E la sinistra che si organizza attorno a Piero Grasso che sinistra è?

«Non c’è un paradigma diverso rispetto a quello che attraversa il Pd, non ci sono soggetti in grado di fuoriuscire dalla mutazione genetica. E infatti si definiscono per differenza da Renzi, non per alternativa di visione sociale. Ci sono varie formazioni, ma come mai nessuna si chiama sinistra? C’è un senso di colpa dichiararsi di sinistra?»

Dicono dipenda dalla necessità di allargare il campo…

«Senza rendersi conto che il campo che ambiscono ad allargare è quello inquinato. La maggioranza del popolo sta fuori da questo recinto.»

Ci sono somiglianze tra Liberi e Uguali e la sua Sinistra arcobaleno?

«No, perché la sinistra arcobaleno, per quanto disastrosa, poggiava su una resistenza lungamente praticata. È vero, venivamo da una brutta esperienza di governo che ci aveva logorato, ma prima noi eravamo a Genova, nei movimenti altermondisti, in quelli pacifisti, eravamo dentro al conflitto. A differenza di Liberi e Uguali che non ha nessuna di queste radici, nessuna esperienza di scontro praticato. Basti pensare che il più grande movimento degli ultimi anni, quello delle donne, non è mai entrato neanche per sbaglio nell’agenda politica. O ancora, per la prima volta in Italia c’è uno sciopero in un luogo che sembrava precluso al conflitto, Amazon, qualcuno se n’è occupato? No, dobbiamo pensare alle alleanza secondo l’agenda parlamentare.»

Quindi crede che lo scontro tra Pd e Liberi e Uguali sia solo tattico?

«Lo scontro c’è ma è all’interno di un campo arido. Un tempo c’erano due sinistre con due approcci diversi: da una parte i blairiani e dall’altra gli antagonisti, grosso modo. Oggi ci sono due centrosinistra: uno che vuole governare in continuità con i precedenti esecutivi e uno che si candida a governare secondo una logica emendativa rispetto al passato. I secondi si rifanno al ritorno alle origini del centrosinistra ma chi rimpiange quella stagione non si rende conto che rimpiange l’origine dell’eutanasia della sinistra.»

Ma c’era anche la sua Rifondazione in quel centrosinistra…

«No, abbiamo sostenuto governi di centrosinistra ma non facevamo parte del centrosinistra. Abbiamo sempre rifiutato quella cultura politica della governabilità. La rottura con Prodi da dove nasce se non da questo? La cultura prodiana non c’è mai appartenuta».

Avete partecipato al secondo governo Prodi…

«Abbiamo sempre avuto in mente la centralità del conflitto e l’idea rispetto al governo è sempre stata strumentale. Ricordo che il primo Prodi condusse un’intera campagna elettorale contro di noi ma non aveva i numeri per governare. Fu costretto ad accettare il soccorso rosso. Noi sostenemmo il suo esecutivo senza entrarci, senza un ministro, senza un sottosegretario, senza un usciere».

In altre occasioni, alle Politiche del 2001, Rifondazione decise una desistenza unilaterale. Per quale motivo?

«C’era una legge elettorale asimmetrica. Alla Camera era consentito il voto disgiunto e al Senato no. Al Senato ci candidammo dappertutto, ma alla Camera decidemmo di presentarci solo al proporzionale e non nei collegi uninominali, per non favorire le destre. Era un atto unilaterale per ridurre il danno. Un gesto di generosità irripetibile».

Invece Liberi e Uguali e Pd si faranno la guerra. I bersaniani non escludono di aprire un dialogo col Movimento 5 Stelle dopo il voto…

«Il Pd di Bersani tentò già quel percorso. È un meccanismo in qualche modo scontato. Con questo sistema elettorale bisogna farsi piacere gli altri per tentare delle alleanze. Ma è un meccanismo figlio di un errore politico di partenza: il governo a ogni costo».

Liberi e Uguali è il partito di D’Alema o di Piero Grasso?

«Proporrei per un momento di fare a meno concettualmente di Massimo D’Alema. E proverei anche a pensare meno a Piero Grasso, nonostante lo stimi molto. Vedo una sinistra che si presenta sulla scena abdicando alla sua identità politica. L’idea per cui bisogna portare a termine un’operazione mimetica per presentarsi all’elettorato, attraverso uno schermo ieri Prodi, oggi Grasso – è sinonimo di debolezza. Chiamare qualcuno d’oltrefrontiera, in questo caso un ex magistrato, a rappresentarti è una manifestazione di fragilità».

Pisa, il simbolo di «Lotta Continua» nell’ufficio del funzionario della Questura. Un pugno chiuso su sfondo rosso al secondo piano dell’ufficio di polizia della provincia storicamente legata alla formazione extraparlamentare di cui leader è stato Adriano Sofri. Qualcuno ha fotografato il simbolo che ora sta facendo il giro del web, scrive Marco Gasperetti il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dietro la scrivania del funzionario di polizia, una donna, in un ufficio al secondo piano della questura di Pisa, un pugno chiuso su sfondo rosso “saluta” tutti coloro che entrano nella stanza. E’ il simbolo di Lotta Continua, la formazione extraparlamentare che negli anni Settanta polarizzò parte della sinistra di orientamento operaista e rivoluzionario e fece lavorare non poco la Digos. In quell’ufficio della questura, il simbolo di Lotta Continua è stato incorniciato in primaria evidenza, accanto a un gagliardetto del Pisa Calcio e del crocifisso. Che cosa ci sta a fare? «E’ un cimelio di una quarantina d’anni – rispondono fonti della Questura – nessun poliziotto lo ha appeso in quanto simpatizzante o nostalgico di quegli anni. E’ solo storia». Resta il fatto che qualcuno quel cimelio, un po’ atipico per abbellire un ufficio della questura, lo ha fotografato e lo ha spedito ad alcuni siti e quotidiani. E la notizia in poco tempo ha fatto il giro della Rete. Anche perché Pisa è storicamente legata alla formazione extraparlamentare di cui leader è stato Adriano Sofri, accusato e condannato per l’omicidio del commissario Calabresi, delitto del quale Sofri si è sempre proclamato innocente. Così, dopo le polemiche sulla bandiera del Secondo Reich appesa in una camerata nella caserma dei carabinieri di Firenze, ecco il Pugno Chiuso della questura di Pisa. Sarebbe quasi un derby se non ci fossero dubbi sull’opportunità e qualche sospetto (per il caso di Firenze) di simpatie.

Perché la sinistra non piace più…, scrive Riccardo Paradisi l'8 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La nascita di “Liberi e uguali”, il tentativo fallito di Pisapia, il Pd di Renzi in mezzo al guado: in crisi è il rapporto con il proprio elettorato. La sinistra perde pezzi e soprattutto consenso. Non sa più chi è, cosa deve essere. Come in mezzo a un guado non sa se andare avanti o tornare indietro. L’esperimento fallito o almeno interrotto di Renzi ha incoraggiato il ricomporsi d’un blocco socialdemocratico che affida le sue sorti a un magistrato, Renzi fa loro gli auguri ma risponde che sulla riforma del lavoro non si torna indietro, intanto però si sgancia anche Pisapia, perché in nome della realpolitik lo Ius soli è stato di fatto derubricato dall’agenda di fine legislatura. Ma questa è cronaca di palazzo, nella società, nel mondo del lavoro, nelle periferie, là dove la sinistra fino a un paio di decenni fa c’era e svolgeva un ruolo egemonico, adesso non c’è più. Perché? Cosa è accaduto? Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è un ricercatore che lascia parlare dati, numeri e fatti senza piegarli a un teorema ideologico stabilito a priori. Al campo liberal e progressista dedica libri che ai destinatari non son risultati troppo graditi. Nel 2008 Ricolfi dedicò alla sinistra il suo Perché siamo antipatici (Longanesi), descrivendo il complesso dei migliori che non ha mai smesso di affliggere il campo progressista. Adesso arriva l’altro affondo: Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi (Longanesi, 288 pagine, 16,90 Euro). Qui Ricolfi, che non è un uomo di destra, spiega perché oltre ad essere antipatica la sinistra tradizionale è ormai anche priva di consenso. Ricolfi muove dalla constatazione dell’estinzione delle categorie di destra e sinistra, contestando però alla sinistra di avere usato fino ad oggi questa assiologia a suo favore come discrimine tra il bene e il male. La maggiore responsabilità di questa divisione manichea riguarda, secondo Ricolfi, soprattutto Norberto Bobbio e in particolare un suo libro di successo di 90 pagine pubblicato nel 1994 dal titolo Destra e sinistra.

Un testo chiave dove il filosofo torinese sostiene che la sinistra rappresenta il progresso e dunque il bene, la destra la reazione e dunque il male. La sintesi è semplificatoria ma rispecchia il pensiero di Bobbio che scrive: “Proprio perché i due termini descrivono un antitesi, la connotazione positiva dell’uno implica necessariamente la connotazione negativa dell’altro. Ma quale dei due sia quello assiologicamente negativo non dipende dal significato descrittivo, ma da opposti giudizi di valore che vengono dati sulle cose descritte” Le cose descritte sono eguaglianza e libertà e di queste due idee solo la sinistra, per Bobbio, è la legittima proprietaria. Non solo: siccome eguaglianza e libertà sono i massimi ideali che l’umanità si è data c’è una sola parte politica, la sua, che li incarna entrambi; le altre posizioni politiche sono fuorigioco. Per Bobbio la destra moderata, per dire, è solo conservazione: il suo unico merito è accettare la democrazia. Uno schematismo manicheo secondo Ricolfi che non ha certo aiutato la sinistra a orientarsi nel mondo nuovo ma l’ha bloccata in un riflesso narcisistico e autocompiaciuto di rappresentare comunque la parte giusta, il reale movimento delle cose, il progresso e l’emancipazione, qualsiasi cosa queste cose vogliano dire. Il problema è che, nell’era della globalizzazione, non c’è un solo discrimine ma ve ne sono due. Il discrimine più importante – sostiene infatti Ricolfi è fra forze dell’apertura, che accettano o promuovono ogni tipo di scambi (merci, servizi, capitali, informazioni), e forze della chiusura che invece invocano qualche tipo di chiusura, economica o sociale, comunque basata sull’idea che gli stati debbano riprendersi alcune prerogative, dal controllo delle frontiere a quello della moneta. In questo quadro il discrimine fra destra e sinistra resta, ma assume un carattere più sfumato, e soprattutto è trasversale alla dicotomia fra forze dell’apertura e forze della chiusura. In entrambi i campi sinistra significa una maggiore attenzione ai diritti e alla lotta alle diseguaglianze, destra significa maggiore attenzione ai doveri, alla tradizione e alla difesa della libertà, soprattutto in campo economico. Ma è piuttosto comune che questi più o meno nobili ideali subiscano contaminazioni e ibridazioni: la sinistra, ad esempio, sta sempre più diventando la paladina dei garantiti e dei ceti medi, la destra oscilla tuttora fra il polo conservatore e quello liberista.

Il divorzio tra sinistra e popolo tuttavia non nasce recentemente. Ricolfi lo fa addirittura risalire agli anni sessanta del Novecento con l’inizio della crisi dell’era del welfare. Il punto di svolta, l’arco temporale in cui è avvenuta l’inversione di tendenza, viene collocato da Ricolfi fra il 1970 e il 1975. Nel biennio 70- 71 il tasso di crescita delle economie avanzate subisce un rallentamento per poi precipitare nel biennio 74- 75, l’anno della prima recessione globale del secondo dopoguerra. Da allora non c’è più stato un periodo in cui le economie dei paesi avanzati siano tornate a crescere come negli anni centrali dell’età dell’oro: i decenni del secondo dopoguerra. “E da allora le istituzioni del welfare non sono più state le stesse, se non altro perché – con il passare degli anni – si è fatta sempre più strada l’idea che alla lunga non fossero sostenibili”. Tuttavia la fine dell’età dell’oro del welfare non coincide con il suo smantellamento. Anzi gli anni settanta, ricorda Ricolfi, sono anni di aspettative crescenti in tutta la sfera occidentale del pianeta. Le richieste dei cittadini nei confronti dello Stato si moltiplicano e la risposta dei governi è positiva anche se in deficit: più servizi sanitari, più sussidi, più istruzione. Insomma la crisi fiscale dello stato, che intanto è acclarata, non ne provoca lo smantellamento anzi ne segna il suo trionfo, “e questo nonostante la torta del prodotto nazionale cresca sempre più lentamente impigliata com’è nelle spire della stagflazione”. Qual è il segreto? Semplice il trionfo del welfare viene finanziato dall’aumento della pressione fiscale, dalla spesa pubblica in deficit e dalla riduzione del peso degli investimenti pubblici sulla spesa totale dello stato. Si innesta così un circuito vizioso il cui risultato è che all’espansione della sfera pubblica e dello stato sociale non corrisponde un aumento altrettanto rapido e sufficiente del prodotto, dell’occupazione e dei consumi privati. La realtà presenterà presto il conto ovviamente. E infatti fra la fine degli anni settanta e i primi ottanta “vengono meno tutti i meccanismi che hanno surriscaldato gli anni della stagflazione: la disoccupazione raffredda le rivendicazioni salariali, i deficit pubblici raffreddano la domanda di welfare, la recessione raffredda i prezzi”. È il primo momento della regressione. Il secondo momento, ancora più devastante, arriva con l’avvento della globalizzazione dei mercati che fa entrare nel gioco della competizione gli esclusi dell’Asia e delle Americhe. E ancora una volta la sinistra liberal, che della globalizzazione si fa alfiere dopo essersi intestata l’espansione del welfare, prende il secondo fatale abbaglio. Dalla fede nella socialdemocrazia i liberal passano a quella nel mercato globale: un entusiasmo quello dell’unificazione del mondo sotto le insegne della libertà di mercato che porterà a sottovalutare i rischi di un processo di integrazione troppo rapido e soprattutto poco sorvegliato. Vengono liberalizzate le importazioni dall’estero mentre si ingessa il mercato interno con un surplus di regolamenti, vincoli e proibizioni. Per la verità Giulio Tremonti già nel 1995, l’anno di nascita del Wto, inascoltato aveva lanciato l’allarme: “I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali senza che i salariati orientali debbano immigrare e venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Non occorre che gli operai si muovano. A muoversi ci pensano infatti i capitali occidentali che direttamente o indirettamente finanziano le fabbriche orientali. La convenienza a investire capitali dove la manodopera costa pochissimo fa infatti scattare su scala mondiale la concorrenza salariale”. Insomma i lavoratori occidentali si trovano stretti nella morsa tra salari orientali e costi occidentali. Del resto avrebbe dovuto mettere qualche sospetto il fatto che se per integrare il mercato europeo ci sono voluti alcuni decenni altrettanti se non di più ce ne sarebbero occorsi per trasformare l’intero mondo in un mercato unico con le adeguate prudenze, laddove invece per la globalizzazione sono bastati cinque anni. Di più: la liberalizzazione dei movimenti di capitali si è accompagnata a una imponente finanziarizzazione dell’economia con la rapida diffusione di nuovi strumenti di gestione delle transazioni. Da qui il terzo colpo: il ripetersi di bolle speculative e la crisi finanziaria globali. E così, scrive Ricolfi, “coltivato per due decenni nei più raffinati laboratori del pensiero progressista il sogno di una sinistra amica del mercato si trasforma in un incubo nel 2008, allo scoppio della crisi, quando ci si avvede che non si tratta di una normale recessione ma della crisi di un paradigma che la sinistra riformista aveva adottato dopo il 1989, abbagliata dai successi del capitalismo che ora tende a rinnegare”.

Il divorzio tra sinistra e realtà, tra sinistra e popolo dunque si è prodotto nell’arco di quasi mezzo secolo. Decenni in cui la sinistra di sistema ha oscillato come un pendolo cercando di assecondare le realtà che però intanto la lasciava sempre dall’altra parte, in ritardo, scoperta di tutto tranne che del proprio sussiego e snobismo: persuasa malgrado tutto d’essere dalla parte della ragione malgrado la realtà, in ciò confortata dalla lezione in fondo rassicurante di Norberto Bobbio. L’altra ragione, ulteriore all’incapacità di leggere la realtà e di farle fronte politicamente, per cui il popolo non trova più nella sinistra la sua voce e la sua espressione è ancora più semplice: l’establishment di sinistra non ama il popolo, disprezza profondamente la gente comune, di cui non capisce né le ansie né i drammi quotidiani considerati materia volgare rispetto alle problematiche dei ceti medi riflessivi. I quali sempre evocati non sono mai stati precisamente definiti tanto da lasciar immaginare che siano una cosa di mezzo tra gli impiegati statali e le professoresse che leggono Repubblica. La realtà, dice Ricolfi, è che la sinistra ha perduto la capacità d’analisi: con Machiavelli e Gramsci il senso reale delle cose; con Marx la percezione della struttura sociale continuando invece a ragionare “come se i problemi fossero rimasti quello del mondo sostanzialmente chiuso dei primi decenni del dopoguerra, quando l’80% del Pil mondiale era prodotto da appena una ventina di paesi e la dinamica dell’economia dipendeva dalle decisioni di pochi leader”. La realtà invece è che la torta occidentale non aumenta più ma diminuisce a vista d’occhio e la sinistra non sa fare a meno della torta della crescita, perché da quella traeva l’idea della redistribuzione. Da qui la crisi della sinistra, crisi culturale e politica ma prima ancora crisi di rappresentanza. Da qui l’emersione prepotente dei populismi, fenomeno che la sinistra attribuisce alla destra non vedendo come molto consenso populista proviene proprio dai suoi ranghi. Se gli operai votano in Italia Lega o Cinquestelle o Marie Le Penin Francia – il fatto che il Fronte nazionale sia stato bloccato nell’ascesa all’Eliseo non toglie che sia la seconda forza francese – qualcosa vorrà pur dire. Come vorrà pur dire qualcosa che le forze populiste raccolgono consensi altissimi nei quartieri popolari, anche in grandi città come Roma e Torino un tempo roccaforti della sinistra. Certo al netto dello snobismo e della riottosità all’autocritica la soluzione del dilemma della sinistra non è affatto facile. La sinistra, per costituzione favorevole all’eguaglianza e all’internazionalismo, non può negare ai nuovi protagonisti della scena globale economica, l’accesso alle opportunità del mercato globale, ma al tempo stesso deve rispondere delle istanze dei popoli occidentali schiacciati dal dumping sociale e impoveriti da disoccupazione e delocalizzazione. Il rischio è che la contraddizione sia insanabile.

La sinistra è morta all’Ilva di Taranto. Quella dell’impianto siderurgico pugliese è una vicenda enorme, che coinvolge decine di migliaia di lavoratori e il diritto alla salute di una comunità. In tutto questo, le due sinistre italiane - né Renzi, né Grasso - hanno una posizione chiara. Avanti così, verso l'irrilevanza, scrive Francesco Cancellato il 4 Dicembre 2017 su "L'Inkiesta". Sulla vicenda Ilva sappiamo tante cose. Sappiamo che è complessa, innanzitutto. Perché se un’azienda decide di mettere 2,4 miliardi in investimenti industriali e progetti ambientali nell’acciaieria più grande d’Europa, col corollario di 10mila nuovi posti di lavoro, è indubbiamente un’ottima notizia. Allo stesso modo, però, l’allungamento dei tempi del piano di recupero ambientale è una brutta notizia – certificata dall’Arpa e sottoscritta da un profondo conoscitore della vicenda Ilva come l’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini - soprattutto per gli abitanti del quartiere Tamburi, a poche centinaia di metri dal campo minerario, le cui scuole non aprono ogni volta che tira vento, per evitare che i bambini respirino veleno. Nel frattempo, mentre tutto questo accade, si sente dire che serve la sinistra. Che serve per combattere le onde nere, i fascismi di ritorno, i populisti, le destre vere e quelle mascherate. Perfetto: ma come la mettiamo con l’Ilva? Che opinione avete in proposito? Vanno bene 10mila nuovi posti di lavoro e 2,4 miliardi di investimenti o ha ragione Emiliano a ricorrere al Tar contro il decreto ministeriale per difendere, qui e ora, la salute dei tarantini? Va bene tornare a produrre acciaio, a costo di inquinare – meno ma comunque un bel po’ – l’aria, oppure è meglio importarlo dalla Cina, dall’India e da ovunque vi siano governi che non si pongono certe remore? Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, o comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E se non lo sa il suo segretario, figurarsi se lo sa la base: così, mentre il sottosegretario Teresa Bellanova sta con il ministro Calenda e contro Emiliano, i consiglieri regionali pugliesi sono usciti dall’aula o si sono astenuti quando un loro collega ha promosso un ordine del giorno che prevedeva, tra le altre cose, il ritiro del ricorso al Tar promosso dalla Regione contro il decreto del Governo. Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, e comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E anche dalle parti di “Liberi e Uguali”, nel giorno della fondazione del nuovo soggetto politico a sinistra del Pd, tutto tace sulla vicenda Ilva. Nemmeno a sinistra del Pd il quadro è chiaro. Nel giorno della nascita del nuovo soggetto politico “Liberi e Uguali” tutto tace sulla vicenda Ilva. Il neo leader Piero Grasso parla di dignità del lavoro, di diritti e di doveri, di Falcone e Borsellino - e di Renzi, ovviamente - ma non risulta abbia rilasciato memorabili dichiarazioni programmatiche sul sito tarantino, così come del resto i suoi compagni di viaggio. La stessa Cgil ha le idee un po’ confuse, se è vero che Susanna Camusso ha definito il ricorso di Emiliano «un gioco da bambini», sebbene la Fiom di Maurizio Landini sarà l’unica sigla sindacale che non parteciperà al presidio sotto la sede della Regione Puglia per convincere Emiliano e compagni a ritirare il ricorso al Tar. Motivo? «Non è utile per raggiungere l’obiettivo», disse l’uomo che meno di un mese fa ha occupato l’Ilva di Genova, perché «lo Stato ci costringe a fare i matti». Mistero. Di certo c’è che su vicende come questa una linea ce la dovete avere, care sinistre in cerca d’autore. E se non ce l’avete, se pensate che siano più importanti le fake news o la distanza dal Pd del destino di 35mila lavoratori – sommando addetti, indotto e nuove assunzioni previste -, o che un feticcio giuslavorista come l’articolo 18 sia più meritevole d’attenzione delle politiche industriali non è che non siete di sinistra. Semplicemente, non siete. E qualunque colore va bene, alla gente, persino il nero pece, se l’alternativa è trasparente.

Nonostante ciò, c’è qualcuno, ancora, che continua a fare propaganda comunista.

Diego Bianchi debutta su La7: "Ormai in Italia si fa solo propaganda. E allora ecco la nostra", scrive Cinzia Marongiu il 28 settembre 2017. Cambia la rete, cambia la collocazione in palinsesto, cambia il nome, ma la squadra, quella che ha fatto nascere “Gazebo e che lo ha fatto diventare una delle più interessanti e originali realtà tv, è rigorosamente la stessa. Diego Bianchi, lo “Zoro” nato sul web con i suoi video esilaranti sulle mille divisioni della sinistra, dopo cinque stagioni di Rai3, arriva a La7 e conquista la prima serata. Il debutto di “Propaganda Live”, questo il nome del programma è fissato per venerdì 29 settembre ma già in conferenza stampa Diego Bianchi e Andrea Salerno, nella duplice veste di direttore di rete ma anche di collaboratore storico prima di Gazebo e ora del nuovo programma, ne danno un assaggio spassoso. Si tratta di alcune pillole video della “Scuola Bianchi”, “cioè la scuola che immigrati devono frequentare per diventare come noi”, sottolinea ironico Diego Bianchi. “Quello dell’immigrazione sarà sicuramente uno dei temi al centro di Propaganda Live, così come lo è da mesi al centro di una becera propaganda politica”, dice nella videointervista concessa a Tiscali.it. “Perché il titolo? Abbiamo scelto qualcosa che rappresentasse al meglio il periodo che viviamo. Cinque anni fa la politica italiana era piena di gazebo. Ora invece siamo nella fase della propaganda, che con la campagna elettorale crescerà. Noi ci buttiamo nell'agone e facciamo la nostra”. Gli ingredienti sono i reportage dello stesso Bianchi (si comincia con uno a bordo di una nave di una ong), il racconto della realtà attraverso i social media, gli ospiti (si parte a razzo con Roberto Saviano che farà un riassunto della propaganda estiva”), ma anche la satira e la musica, con la band dal vivo di Roberto Angelini. Immancabile il disegnatore Maccox, ovvero Marco Dambrosio, che con una delle sue dissacranti strisce animate festeggerà i compleanni di Silvio Berlusconi e di Pierluigi Bersani. Nella videointervista a Tiscali.it Diego Bianchi spiega anche perché ha lasciato la Rai: "Con il passaggio di Andrea Salerno a La7 non avremmo potuto più lavorare insieme. E poi qui abbiamo un altro spazio, quello dela prima serata che ci permette di raccontare la realtà con un respiro più ampio. La striscia quotidiana di "Gazebo" ci schiacciava troppo sull'attualità. Io finivo per leggere le classifiche social e non potevo fare più reportage". Infine una battuta: "Tranquilli. Morto un hashtag se ne fa un altro".

Propaganda Live, Gasparri contro Zoro e Makkox: «Falliti, provocatori senza ascolti», scrive sabato 21 ottobre 2017 14:58 Marco Leardi su Davide Maggio”. Quelli di Propaganda Live dovevano aspettarselo. Chiamando in causa Maurizio Gasparri, avrebbero innescato una sua replica via social. Ad ogni azione corrisponde una reazione: e infatti così è stato. Ieri sera, durante il programma di La7 condotto da Zoro, è stata trasmessa una vignetta di Makkox (la riportiamo in apertura) che ridicolizzava il senatore forzista e quest’ultimo – che non stava nemmeno seguendo la diretta – non ha esitato a rispondere su Twitter prendendo di mira i protagonisti della trasmissione ed i loro ascolti. Gasparri si trovava in Sicilia per un incontro politico e non stava davanti alla tv, ma qualcuno lo ha informato che su La7 era appena stata proposta una sua caricatura disegnata dal vignettista Makkox. Il senatore a quel punto si è trattenuto: che fanno i parassiti di #propagandalive? Io sto tra la gente per elezioni in Sicilia, non sono senza pubblico come @makkox. Su Twitter l’esponente di Forza Italia ha punzecchiato direttamente Makkox, con un frecciatina sull’assenza di pubblico riferita con ogni probabilità agli ascolti disastrosi di Skroll, il programma a cura del vignettista laziale (qui la nostra recensione), che La7 ha recentemente spostato dalla fascia preserale a notte fonda (ora va in onda all’1.40) proprio a motivo dello scarso share. Mentre a Propaganda Live si sghignazzava per la freddura su Gasparri, questi tornava alla carica a più riprese. "Pare che io sia l’ossessione di questi falliti @makkox e @zdizoro saluti dalla Sicilia dove noi abbiamo voti, voi 0 ascolti #propagandalive", ha twittato nuovamente il senatore, definendo quelli di Propaganda Live “provocatori senza ascolti”. E ancora: "il vignettista è ossessionato da me. Disse che non mi aveva mai disegnato, invece l'aveva fatto e continua a farlo. Ascolti zero, coerenza zero". Nella passata esperienza a Rai3, Zoro e la sua banda si erano scornati più volte con Angelino Alfano. Stavolta ad alzare la voce è stato Gasparri, il quale però non è nuovo ad impetuosi (ma paradossalmente pure innocui) sfoghi su Twitter. Nel 2016, ad esempio, il senatore forzista se l’era presa sempre con Zoro definendolo un “astioso comunista”. Pane per i denti del videomaker romano, che su questi contenuti social ci ha costruito un programma.

Gasparri contro Diego Bianchi su Twitter: "Zoro comunista astioso e fallito", scrive il 9/04/2016 "L'Adnkronos.com". La lezione social di Diego Bianchi, in arte Zoro, in trasferta al Festival del giornalismo di Perugia con la sua "compagnia di giro" manda su tutte le furie il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Fi). Zoro si è soffermato sui tweet "sgrammaticati" del senatore azzurro, provocandone la reazione stizzita su Twitter: "@zdizoro si crede spiritoso, è un astioso comunista sul cui fallimento umano la sua famiglia riflette, solidarietà ai parenti #fallito".

"Mi diffama": Alfano denuncia Gazebo, che risponde così..., scrive il 20/05/2017 "Adnkronos.com". "Ieri, con i soldi degli italiani -due milioni e mezzo di euro per il 2017! - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". E' quanto si legge in un comunicato di Ap. "Alla denuncia -prosegue- Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l'intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all'area politica che rappresenta". "Il punto - continua la nota - è reso ancor più grave dall'enorme sproporzione che vi è, all'interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: "... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l'identità...". "Quindi - continua la nota - se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l'informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi". "Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza - è la conclusione - che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". E la replica? Sull'account Twitter della trasmissione, è stata pubblicata integralmente la nota di Alternativa Popolare. Poco dopo è arrivato il cinguettio di Diego Bianchi, alias Zoro: una sola parola, "pervicacia", abbinata all'hashtag #gazebo e al retweet del messaggio inviato dall'account del programma.

Perdita gravissima, Angelino Alfano: Non mi ricandido. Zoro disperato. Il ministro degli Esteri a sorpresa lo ha detto durante la registrazione di “Porta a Porta”. Anche Ap, il suo partito, è sotto choc: non aveva avvertito nessuno, scrive il 6 dicembre 2017 "Ragusa News". Diego Bianchi, in arte "Zoro", storico conduttore di "Gazebo", su Rai Tre, e ora di "Propaganda", su La 7, è disperato. Il conduttore televisivo ha fondato molta della sua fortuna sull'attuale Ministro degli Esteri. Angelino Alfano non si ricandiderà alle prossime elezioni politiche. L’annuncio è arrivato nel corso della registrazione di Porta a Porta: «Non starò seduto tra i banchi del prossimo Parlamento, perché ho deciso di non ricandidarmi alle prossime elezioni. Dimostrerò che si può fare politica anche fuori dal palazzo». Il ministro degli Esteri ha aggiunto: «Ritengo - spiega - che ci siano dei momenti in cui vadano fatti dei gesti, voglio dimostrare che tutto ciò che abbiamo fatto è stato motivato da una profonda responsabilità verso il paese». Un annuncio arrivato a sorpresa su una notizia che persino i suoi fedelissimi non sapevano: «L'ho detto a mia moglie che condivide, anzi di più e a mio padre e a mia madre. Solo a loro tre. Non avvertito nessun altro. Non l’ho detto a Renzi? Non avevo dovere di comunicazione con lui». Una notizia dunque che ha messo in subbuglio il suo partito, Ap che alcuni definiscono ora sotto choc. Angelino ha del resto spiazzato tutti. Ma ora ne parlerà direttamente, a quanto si apprende, alla segreteria del partito convocata nella sede di via del Governo vecchio. La decisione del ministro degli Esteri cade anche in un momento particolare, data la direzione nazionale convocata per lunedì prossimo al romano hotel Flora. Una Direzione che dovrebbe votare tra le opzioni in campo in vista delle politiche: alleanza con il Pd o corsa solitaria. Al momento l’appuntamento risulta confermato.

La rinuncia di Angelino Alfano. Zoro legge Ragusanews su La 7. E son soddisfazioni, chiosa "Ragusa News" l'8 dicembre 2017.

Nemo e Gazebo si salvano. Come Alfano, scrive Marco Castoro Venerdì 9 Giugno 2017 su "Ill Messaggero. I numeri contano. Non solo in matematica. Lo sanno tutti che per andare avanti ci vogliono i numeri. E a volte basta un numero per cavarsela. Ora che la legge elettorale con lo sbarramento al 5% sembra solo un incubo passato, Angelino Alfano può tirare un bel sospiro di sollievo. Lo stesso sospiro di sollievo possono tirarlo Gazebo e Nemo. Ebbene, per ironia della sorte, sia il programma di Zoro-Bianchi su Raitre sia quello di Enrico Lucci su Raidue, non amati da Alfano, sono andati molto bene, superando entrambi (alla grande!) lo sbarramento del 5%. Diego Bianchi ora se ne va a La7 e Daria Bignardi dovrà inventarsi un nuovo programma per sostituire il format e il conduttore. Mentre Nemo - che nel frattempo ieri sera ha superato il 7%, crescendo di settimana in settimana rispetto agli esordi col 3% - è stato confermato dal direttore di Raidue Ilaria Dallatana anche per la prossima stagione. Del resto il 7% per Alfano alle elezioni resta un sogno. Nemo e Gazebo lo sbarramento l'hanno superato. 

Un triste "Gazebo" tra conformismo e battute scontate. C'è una trasmissione su Rai 3 che vale la pena di vedere una volta senza correre il rischio di vederla una seconda, scrive Vittorio Feltri, Domenica 04/10/2015, su "Il Giornale". Il titolo è Gazebo, che evoca raccolte di firme per referendum e roba simile. Niente di strano. Ciò che è popolare a noi non disturba, forse perché non siamo di sinistra. Il conduttore è Diego Bianchi, nome d'arte (si fa per dire): Zoro, nientemeno. Credo che sia romano de Roma, dato che, presentando il suo primo capolavoro stagionale, domenica 27 settembre ha esordito con questa parola: «puntada». Che sta per puntata. Anche qui, niente di strano. Ciascuno parla come mangia, lui mangia i «bucadini». Il programma si avvale del supporto di un batterista, un chitarrista e altri musicanti; c'è pure il pubblico: una ventina di facce da studenti fuori corso, barbe a strafottere. Solo un volto ci è abbastanza familiare: quello di Marco Damilano, vicedirettore di fresca nomina dell'Espresso. Dato che è un bravo giornalista, ci domandiamo che ruolo abbia al Gazebo. Transeat. Si comincia con un pistolotto di Zoro che fa lo spiritoso. Mostra delle foto di vari personaggi e li prende in giro. Un esempio, Roberto Maroni accanto al Gabibbo. Commento che dovrebbe essere esilarante: di questi due il grande politico è il Gabibbo. Però, che battuta. Compare un'istantanea di Daniela Santanchè. Alla signora si attribuisce la seguente invocazione: marò liberi. Non è nuova, ma si presta a un'altra battutona di Diego Bianchi: piuttosto che incontrare la Santanchè, i marò rimangono in India tutta la vita. Quando si dice la satira raffinata della sinistra. L'arguto conduttore termina la carrellata esibendo in effigie Giorgia Meloni, rassicurando gli utenti Rai che la signora «non è lesbica». Notizia della quale sentivamo un urgente bisogno. Poi gli intellettuali di Gazebo informano che è morto Pietro Ingrao a cento anni suonati. Non ci viene il dubbio che egli sia perito soffocato dalla balia; apprendiamo con sgomento che è stato un poeta di alto livello e un comunista inflessibile, tant'è che disse ai compagni in procinto di chiudere la bottega del Pci e di aprire quella del Pds: «Non mi avete convinto». Cosicché Ingrao rimase fedele all'utopia della dittatura del proletariato sino all'ultimo respiro. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Aforisma abusato, però rende l'idea di quale tempra fosse il de cuius. Esaurita questa parte, va in onda un reportage realizzato da due signori che in auto si avventurano in Ungheria, attraversando mezza Italia (partenza dalla Capitale), la Slovenia, la Croazia e la Serbia. Le telecamere registrano le freddure dei due reporter in viaggio tra qualche difficoltà, quindi riprendono le scene dei migranti (o profughi, scelgano i lettori) alle prese con gli ostacoli che impediscono loro di recarsi in Paesi teoricamente ospitali, non funestati dalla guerra e dalla miseria. Immagini toccanti che sarebbero anche interessanti se fossero inedite, mentre le abbiamo viste scorrere sul video per giorni e giorni e ci siamo assuefatti ad esse. Indubbiamente, la documentazione audiovisiva del doloroso fenomeno della migrazione in massa ferisce il cuore di chiunque abbia un minimo di sensibilità. Centinaia, migliaia di persone che marciano appesantite da fagotti, seguendo i binari del treno, per sfuggire ai disastri della loro patria, commuovono. Stupisce inoltre la quantità dei bambini, con gli occhi pieni di paura, che camminano esausti accanto ai genitori. Ma trattasi di repliche di filmati logori. Una curiosità tetra. Come mai fra i marciatori non ci sono vecchi e neppure anziani? Sono stati lasciati dai figli sotto le bombe e in balia dell'Isis. A quelli di Gazebo non frega nulla. E Damilano? Non ha fiatato. Ha fatto di tutto per rendersi inutile. Meglio così.

Il pericolo farsista, scrive Marcello Veneziani. MV, Il Tempo 3 dicembre 2017. Siamo alla paranoia ideologica virale. Una bandiera del Secondo Reich, che era una monarchia costituzionale ottocentesca, tenuta in caserma da un ragazzo carabiniere di vent’anni, diventa il pretesto del giorno per gridare al Nazismo risorgente, che non c’entra un tubo con la bandiera e con la storia del secondo Reich. L’uso fake della storia sconfina nel delirio persecutorio. Ma non basta. In pieno autunno del 2017, un benemerito compagno ha scoperto una cosa tremenda: il 20 maggio del 1924, la città di Crema conferì su proposta della giunta locale la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. L’orrenda scoperta ha subito compattato il valoroso popolo de sinistra – enti, associazioni, partiti e sindaca, oltre l’ineffabile Anpi – che ha intimato di provvedere subito a ritirare l’atto osceno in luogo pubblico. Togliendo la cittadinanza onoraria di Crema a Mussolini avremo finalmente un Duce scremato. Tempestivo, non c’è che dire, se ne sentiva l’urgenza, 93 anni dopo. Ma come dice un proverbio politicamente corretto, Chi va piano va Fiano e va lontano. E’ tutta una gara in Italia per scoprire e revocare la cittadinanza onoraria al Duce in un sacco di comuni. Pensavo a questo eroico atto di ribellione al fascismo da parte della città cremosa mentre leggevo per il terzo giorno consecutivo commenti, anatemi e mobilitazioni contro il pericolo fascista dopo la sconcertante “azione squadrista” compiuta a pochi chilometri da Crema, a Como. La Repubblica, per esempio, ha schierato il suo episcopato per condannare il fascismo risorgente e chiamare a raccolta l’antifascismo eterno. Sui tg c’è stato un tripudio di demenza militante a reti unificate. Non avevo intenzione di scriverne, mi pareva immeritevole d’attenzione, ma la paranoia mediatico-politica non accenna a scemare.

1) Ora, per cominciare, quell’irruzione in un’assemblea pro-migranti non è di stampo squadrista semmai di stampo sessantottino. Gli squadristi, come i loro dirimpettai rossi, non irrompevano per leggere comunicati e andarsene senza sfiorare nessuno. L’abitudine di interrompere lezioni, assemblee, lavori è invece tipicamente sessantottina e poi entrò negli usi degli anarco-situazionisti, della sinistra rivoluzionaria, dei centri sociali, ecc. Gli “skin” in questione ne sono la copia tardiva, l’imitazione grottesca.

2) Secondo, i comunicati. Trovate pure demente e mal recitato, quel comunicato che gli impavidi neofascisti hanno letto interrompendo la riunione filo-migranti. A me fa sorridere, se penso ai comunicati degli anni di piombo. Vi ricordate? Davano notizie o annunci di assassini, accompagnavano attentati ed erano a firma Br, Primalinea e gruppi affini. Quando penso a quei comunicati, deliranti ma corrispondenti ad azioni deliranti e sanguinose, trovo farsesco il remake a viso aperto di quattro fasci e l’allarme mediatico che ne è seguito.

3) Terzo, la violenza di irrompere e interrompere. Succede ancora, nelle università, in luoghi pubblici, verso chi non piace ai movimenti di sinistra radicale, lgbt, centri sociali o affini. È capitato anche a me, girando l’Italia, di trovare aule universitarie e luoghi pubblici in cui non riesci a parlare o parli sotto scorta, tra interruzioni, proclami e incursioni. Di questo teppismo i giornali e i tg non ne parlano mai. E nessuna di queste anime belle che gridano indignate al pericolo fascista, ha mai espresso una parola di solidarietà e di condanna. Lo dico anche al pinocchietto fiorentino che esorta la comunità nazionale a indignarsi tutta e non solo la sua parte politica, per l’episodio di Como, anzi per la strage virtuale: lui non ha mai speso una parola per stigmatizzare episodi di segno opposto, assai più numerosi e più violenti e pretende che l’Italia insorga compatta per una robetta del genere? Diamine, ci sono ogni giorno storie di violenza e di morti, aggressioni in casa, e la comunità nazionale intera deve mobilitarsi unita di fronte a un episodio verbale così irrilevante? In realtà, voi informazione pubblica, voi governativi, voi giornaloni e associati, siete i primi spacciatori di bufale o fake news. Perché prendete una minchiata qualsiasi e la fate diventare La Notizia della Settimana, ci imbastite teoremi, prediche, rieducazioni ideologiche, campagne e mobilitazioni antifasciste. Se il pericolo che corrono le nostre istituzioni ha tratti così farseschi, allora il primo pericolo è la ridicolizzazione della storia e della democrazia da voi operata quando sostenete che sono messe a repentaglio da episodi così fatui e marginali. Non sapete distinguere tra una bomba e una pernacchia. E finirete spernacchiati.

Fascismo e antifascismo tra retorica e opportunismo, scrive Leonardo Agate l'8/12/2017 su "TP24". Francamente mi comincia a stare sulle scatole tutta questa retorica antifascista che riempie i mezzi di comunicazione di massa ogni giorno. Sia chiaro che non sono un fascista, e per questo sono antifascista, ma non mi sento di identificarmi con l’antifascismo di maniera, che è quello che non sopporto. Come, per altro aspetto, sono per la lotta alla mafia ma non faccio professione di antimafia. Il fascismo e l’antifascismo, come li abbiamo conosciuti in Italia dopo il crollo del fascismo, sono le due facce della stessa medaglia. Nel passaggio dal Regno alla Repubblica ci fu una corsa sfrenata per salire sul carro del vincitore. Il popolo fu, per fede, per opportunità o per quieto vivere, quasi interamente fascista finché il fascismo rappresentò sviluppo economico e sociale. Il limitato antifascismo crebbe con la creazione dell’asse politico Roma – Berlino, con le leggi razziali e con l’ingresso del nostro Paese nella Seconda Guerra Mondiale. A parte la limitata opposizione al fascismo, proveniente soprattutto dalla sinistra socialista e comunista, fino al 1936 il nostro Paese era massicciamente fascista. Era un regime totalitario, e fece le sue vittime fra gli oppositori, ma nulla a paragone di quello che avveniva in altre regimi totalitari come in Germania o in Russia. Si deve distinguere tra il popolo che inneggiò a Mussolini fino alla creazione dell’Impero, e il limitato antifascismo che il regime perseguì e fece soffrire. Quando il corso della Storia cominciò a cambiare, con l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, il nascosto movimento antifascista si ingrossò, fino a sfociare nella Resistenza quando le truppe alleate cominciarono a risalire per lo Stivale. Il crollo definitivo del Regno e del regime fascista con la vittoria degli alleati diede la stura alla più veloce trasformazione degli italiani da fascisti ad antifascisti. Come se nessun consenso il regime mussoliniano avesse avuto fino al 1936, ed anche oltre, gli italiani si scoprirono in massa antifascisti. L’antifascismo che sostituì il fascismo portava nel suo DNA il virus fascista che lo aveva accompagnato per circa un ventennio. Cosicché si poteva dire che in Italia ci sono stati due tipi di fascisti: i fascisti veri e propri e gli antifascisti che li hanno sostituiti. La retorica degli uni è simile, anche se opposta, a quella degli altri. Lo abbiamo visto e sentito in ogni ricorrenza del 25 aprile. L’antifascismo di professione è quello che in queste ultime settimane vuol farci credere che ci sia un pericolo fascista da prendere in seria considerazione, solo perché un gruppo di stupidi estremisti di destra, della sigla “Veneto fronte skinhead”, ha interrotto l’assemblea della rete di associazioni pro migranti “Como senza frontiere”, per leggere un proclama contro l'invasione dei migranti. L’estate scorsa uno stabilimento balneare della riviera toscana è stato per settimane agli onori della cronaca perché il suo titolare esponeva simboli del ventennio fascista e faceva discorsi contro gli immigrati. A Predappio, dove Mussolini aveva la casa, si vendono ricordini del Ventennio, e se ne fa una questione di alta politica. Il deputato Fiano, Pd, ha presentato una proposta di legge per perseguire in modo più radicale i simboli e i comportamenti ritenuti fascisti, come se le norme della Costituzione e quelle della legge Scelba e della legge Mancino non fossero sufficienti ai giudici per perseguire e condannare i colpevoli di reati legati al possibile risorgere di movimenti fascisti. Il fatto è che l’antifascismo è una professione indolore e redditizia per chi gli si dedica: esclude una seria ricostruzione storica del periodo prima fascista e poi repubblicano; è una nuova patacca da mettersi al petto; si tratta ormai di un classico di moda, che dura ininterrottamente da oltre 70 anni. E’ stata un’autoassoluzione che ha sostituito l’orbace con la camicia bianca, mantenendo dentro il petto il pressapochismo e l’opportunismo di sempre.

“Blitz a Repubblica più grave di bomba a carabinieri”. La frase shock di Gabrielli scrive Davide Romano l'8 dicembre 2017 su "Primato nazionale". L’emergenza democratica causata dall' “onda nera” ricorda un po’ il caso Weinstein. Ovvero dopo la prima denuncia di molestie contro il produttore hollywoodiano, qualsiasi cosa, anche una semplice avances o uno sguardo equivoco, veniva innalzato al grado di “molestia sessuale” dall’ultima “vittima” in cerca di notorietà. L’antifascismo ai tempi della propaganda di Repubblica è al pari di una giornata mondiale contro la violenza di genere o ad un hashtag come #metoo. Non serve più nessun aggancio alla realtà per indignarsi o lanciare “l’allarme”. Basta la lettura di un volantino, una bandiera appesa in una caserma e un blitz di 8 persone con 4 fumogeni sotto un giornale per gridare ai quattro venti che “la democrazia è in pericolo”. E il vero pericolo è che a questo tipo di montatura diano fiato e corda il ministro della Giustizia e quello dell’Interno, oltre ad altri esponenti di peso nelle istituzioni. L’ultimo è il capo della Polizia Franco Gabrielli, un tempo noto, oltre che per l’assenza di scrupoli, anche per un certo pragmatismo. Per questo le sue ultime dichiarazioni rispetto alla dimostrazione di Forza Nuova sotto la sede di Repubblica e l’Espresso lasciano di stucco. Commentando l’ordigno esploso davanti ad una caserma dei carabinieri nel quartiere San Giovanni di Roma ha dichiarato: “È un fatto grave ma non dobbiamo amplificarlo oltremodo. Questi episodi sono avvenuti anche in passato. Vorrei quindi dare un messaggio di rassicurazione. Per certi aspetti ritengo molto più grave la piazzata che è stata fatta ieri nei pressi della redazione di un gruppo editoriale importante”. Un ordigno esploso davanti ad una caserma dei carabinieri con tanto di rivendicazione anarchica, è meno grave di una piazzata. Il primo va minimizzato, il secondo amplificato. Questo ci sta dicendo il capo della Polizia, senza tanti giri di parole. Se un tempo la prassi era la distorsione della realtà da parte dei media, ormai siamo arrivati alla sostituzione della realtà, ovvero ciò che è reale lo decide Repubblica e le istituzioni seguono. In questo modo “vale tutto”, eliminato il reale dall’informazione, dalla politica, dalle istituzioni e dal diritto, qualsiasi provvedimento, anche il più illiberale e ingiusto, può essere giustificato. Mala tempora currunt.

Il petardo neofascista contro “Repubblica” e i veri pericoli. L’indignazione per la dimostrazione di Forza Nuova? Ennesimo esempio di un’ansia comprensibile ma non giustificabile, scrive l'8 dicembre 2017 Corrado Poli su "Vvox" (Primaonline.it). Quattro disadattati fanno esplodere un petardo davanti alla sede di Repubblica e immediatamente non par vero che si possa sollevare un’indignazione antifascista fuori misura. Come se migliaia di drappelli marciassero su Roma per occupare le “aule sorde e grigie” del Parlamento. Basta il poco fumo di un petardo di Capodanno per ravvivare la nostalgia della ormai usurata contrapposizione tra fascisti e antifascisti e confondere ancor più le idee. Ci si domanda se si tratti di un fenomeno di ansia patologica o di strumentalizzazione di fatti quasi irrilevanti. L’ansia è comprensibile. Il fascismo rievoca le grandi tragedie del Novecento e sul linguaggio antifascista è cresciuta la riconquistata democrazia e la sua successiva retorica. Il tempo passa e la democrazia è invecchiata; fascismo e guerra li conosciamo solo per sentito dire. L’ansia invece è una patologia e va curata altrimenti ci si concentra su pericoli immaginari e ci si distrae dalle questioni reali. I veri pericoli in Europa vengono dallo s-fascismo delle destre demagogiche di oggi con il solo programma della conquista del potere; e dalluogocomunismo delle sinistre che, essendo state progressiste oltre mezzo secolo, oggi ripetono insignificanti lotte, vecchi slogan e narrazioni nostalgiche. Così ci battiamo contro un inesistente neoliberismo che è invece un corporativismo travestito come nel progetto degli autentici fascisti; ed è allo stesso tempo uno statalismo simile al comunismo sovietico. Entrambi pervadono le soi disantes democrazie liberali occidentali. Di liberista non c’è nulla in Europa se non le piccole imprese, i lavoratori a contratto e i professionisti – quelli che ho definito i prof-letari. Sono cittadini politicamente non rappresentati e quindi davvero potenzialmente rivoluzionari sebbene non violenti. In assenza di un’ideologia solida, a stento si accorgono della loro condizione e il loro voto vaga a casaccio tra l’astensionismo, la destra demagogica e la sinistra luogocomunista. In Italia si avvicina in parte crescente ai Cinque Stelle, l’unico partito europeo alternativo ma “di centro” che prescinde da vecchi modelli politici (anzi politologici). Un Movimento che però non ha ancora elaborato un sistema di pensiero il cui consolidamento ne faciliterebbe la comprensione da parte di un più ampio e stabile elettorato potenziale. Così succede che l’ansia e i vecchi linguaggi portino a confondere un petardo con il pericolo fascista e i ripetitivi congressi delle plurisinistre luogocomuniste con un partito che crede di essere progressista mentre in realtà insegue i fantasmi del futuro di ieri. Purtroppo il progetto economico e sociale comunista e fascista ha già sconfitto le liberal-democrazie che per fortuna conservano ancora il pluralismo politico. Oggi, secondo il progetto economico totalitario fascio-comunista – che potremmo definire di modernizzazione integrale, un obiettivo quasi generale degli anni trenta del novecento – s’è affermato lo strapotere delle grandi imprese, di immense banche, quello delle corporazioni sindacali e di categoria, delle mastodontiche burocrazie autoreferenziali e infine degli eserciti che per ora – non si sa per quanto – stanno tranquilli (ma Berlusconi ha già fatto il nome di un generale come capo del governo)! Lasciamo perdere Forza Nuova e i quattro violenti di sinistra: se delinquono, se ne occupi la polizia e la politica li ignori. I veri pericoli sono da una parte lo sfascismo che induce al totalitarismo di destra; dall’altra una bieca conservazione luogocomunista che vuole trasformare l’Italia in una casa di riposo. Le forze vitali del Paese e dell’Europa sono da una parte il conservatorismo decente delle grandi coalizioni che consente la stabilità. Dall’altra la formazione di movimenti autenticamente progressisti con al centro dei loro programmi una politica federale e comunitaria solidale che ponga al centro la questione ambientale e avvicini al cittadino semplici e legittime istituzioni. Costoro, sia che vadano al governo (contenuti dall’opposizione e dalle strutture burocratiche) sia che restino all’opposizione (incalzando la conservazione) possono svolgere un ruolo fondamentale di progresso civile, intellettuale e in definitiva riformare una democrazia e un’economia sempre più scandenti. Senza lasciarci distrarre da infantili petardi e molotov che svegliano solo i nonni sordi.

L’ossessione per il fascismo del gruppo L’Espresso ora è preoccupante, scrive Giorgio Nigra il 28 luglio 2017 su "Il Primato Nazionale". Appena qualche settimana fa, l’Espresso se ne usciva con una copertina eloquente: il disegno di Grillo, Salvini e Berlusconi vestiti da squadristi, che avanzano minacciosi, manganelli in mano, in un vicolo buio. Titolo: “Ci rifanno neri”. Ecco il livello dell’argomentazione: il consenso dei grillini? La popolarità mediatica di Salvini? L’eterno galleggiamento di Berlusconi? Non servono analisi politologiche, studi sui cambiamenti avvenuti nella nostra società e magari autocritiche sull’incapacità della sinistra di saper comprendere le priorità e le sofferenze del popolo italiano. È solo l’eterno fascismo che rialza la testa. Per sconfiggerlo, quindi, basta il solito richiamo alla “Costituzione nata dalla resistenza” e l’appello a tutti i “sinceri democratici” affinché si uniscano contro la marea nera montante. Non contenti di aver fornito tali indispensabili chiavi al dibattito della società civile, domani quei simpaticoni dell’Espresso se ne usciranno con un numero la cui copertina è tutta un programma: “Nazitalia”, scritto in caratteri gotici. Il tutto in campo rosso, con al centro un cerchio bianco dentro cui campeggiano due Italie sovrapposte nere a formare una rudimentale svastica. L’Italia del 2017, insomma, vive molto semplicemente sotto il nazismo. Non sappiamo cosa ci sia dentro, ma possiamo immaginarlo: il solito dossier con i soliti numeri sparati a caso, le solite interviste all’Osservatorio democratico contro le nuove destre. Insomma, un eterno dejà vu. Come quello che si ha leggendo l’ennesima inchiesta su Repubblica di Paolo Berizzi (un giornalista già autore di gaffe e falsificazioni tali che, in un Paese normale, farebbe da tempo il correttore di bozze nel giornalino della parrocchia). Quale notizia inedita ha generato questo articolo, rispetto all’ultimo, esattamente identico, di poche settimane fa? La foto, postata sui social, di una cena di alcuni esponenti di CasaPound con altri di Lealtà Azione. Caspita, stupisce che il New York Times non vi abbia dedicato una copertina dal titolo “Anche i fascisti cenano”. Si tratta, peraltro, di una foto liberamente diffusa dai diretti interessati. Nulla di nascosto, nulla di segreto, nulla di misterioso. Ma, all’occhio vigile del giornalista democratico, una cena fra amici si rivela per ciò che essa segretamente è: un patto di sangue, un segnale para-mafioso, un messaggio in codice, il simbolo dell’ora delle decisioni irrevocabili finalmente giunta per portare l’eversione in Italia. Qual è il senso di questa cosa? Qual è il valore euristico, anche per chi è di sinistra, di servizi come questi? Quanto fanno avanzare la coscienza democratica del Paese? Si tratta, come è ovvio, di puro scandalismo, di qualunquismo a buon mercato. Spararla grossa per solleticare il pubblico, esattamente come altre testate fanno su altri argomenti. Fa tutto parte di questa estate pazza, in cui per giorni la prima notizia dei giornali è stata la “spiaggia fascista” di Chioggia. E poi l’exploit elettorale dei Fasci italiani del lavoro in un paese di 7000 abitanti, la prof che inneggia al Duce su facebook, l’assurda “pista nera” per i delitti del Mostro di Firenze, le campagne di Fiano e Boldrini contro i monumenti fascisti, i saluti fascisti, gli accendini fascisti. Tutto concorre strumentalmente a rendere l’idea di una emergenza, di una situazione da sanare. Come? Ma è ovvio con una bella legge speciale, con una bella norma liberticida. È tutto così dannatamente chiaro…

Laura Boldrini ossessionata dal fascismo, scrive il 27/09/2017 Emma Moriconi su "Il Giornale d’Italia". Nuovo attacco alle pagine di facebook, paternali infinite e coccole ai partigiani: ecco le pene della presidente della Camera dei Deputati. Laura Boldrini non trova pace, la sua "crociata", la sua "guerra santa" contro il Fascismo sembra un'ossessione, non passa giorno che non ne dica una delle sue. Ieri in occasione dell’incontro con una delegazione di sindaci e delle associazioni partigiane nel 73° anniversario dell’eccidio del Grappa, dopo aver salutato "i sindaci e le sindache" (insistendo sulla femminizzazione esasperata di ogni cosa), ha dichiarato che i cittadini di quelle terre, "insieme ai cittadini di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema, ai romani che ricordano le Fosse Ardeatine" hanno "la responsabilità di ricordare cosa è stato il nazifascismo, la brutalità con la quale i nazisti trattarono i nostri giovani, la brutalità con la quale tenevano sotto scacco il nostro Paese, il loro disprezzo nei confronti degli italiani". Poi si è lanciata in una disquisizione linguistica (lei, si) sui termini "patriottismo" e "nazionalismo". Lei, Laura Boldrini. Che però Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema e le Fosse Ardeatine furono scientemente provocate proprio dai partigiani non lo ha detto. Peccato. Non contenta, non paga, sempre nella giornata di ieri ha voluto precisare: "Abbiamo già rivolto ad aprile a Zuckerberg, accogliendo l'invito dell'Anpi, la richiesta di bloccare le molte pagine Facebook apologetiche del fascismo. Sono almeno 300, a dimostrazione che non si tratta di un fenomeno locale. In Italia l'apologia e' reato, quindi anche su Facebook dovrebbe esserlo. Dobbiamo insistere con facebook- ha detto ancora - che non può continuare a dire che non si occupa di fenomeni locali. Il nazifascismo è un fenomeno mondiale e bisogna dunque evitare di fomentare razzismo e xenofobia. Ispirarsi a questi principi è una minaccia all'assetto democratico". Questi i pensieri che assillano quotidianamente l'animo della "presidenta" della Camera Laura Boldrini, ogni giorno ha un pensiero da dedicare a questo argomento, del resto in effetti in Italia di problemi ve ne sono pochi, c'è giusto il tempo e l'opportunità di dedicarsi a un po' di sana demagogia. L'ossessione, poi, si intensifica sempre di più ogni giorno che passa, quello che vive l'omonima di Bulow è un vero e proprio incubo, un chiodo fisso dal quale non riesce proprio ad affrancarsi. Non riesce, la seconda carica dello Stato, a identificare con esattezza le epoche storiche, vive il Fascismo come se fosse ancora in atto, non le riesce di canalizzarlo nella storia di questa Nazione (Nazione, Patria, Paese, potremmo fare una lunga dissertazione linguistica pure noi, a dire il vero). Sorge il sospetto che questo tormentone antifascista sorga dalla consapevolezza che il suo mandato sta per giungere al termine, e siccome per l'Italia questa signora non ha fatto nulla di buono se non difendere i partigiani, questi siano diventati ormai il solo zoccolo duro che le resta nel Paese (o Patria, o Nazione, faccia lei). Un corpo elettorale assottigliato, però. E pure un po' muffito. 

"Il fascismo è l'ossessione di chi non sa vivere senza nemici e rancore". L'intellettuale: "Si appigliano a leggende metropolitane per rianimare la mobilitazione", scrive Davide Brullo, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Sul grottesco parapiglia in cui si è arenata la discussione parlamentare sul reato di apologia di fascismo abbiamo chiesto un parere a Marcello Veneziani, un intellettuale abituato a pensare oltre i meri spot ornamentali, elettorali. La proposta di legge di Fiano e del suo partito di mandare al carcere chi vende gadget fascisti o divulga in rete immagini del Duce nasconde una insana nostalgia verso le ideologie. Nelle pagine di Storia non ci sono innocenti e non si possono eleggere «giusti» per legge. Lei come la pensa?

«C'è innanzitutto qualcosa di sproporzionato, di mostruoso, nel demonizzare per 72 anni (e non è finita) un'esperienza che è durata poco più di venti. C'è poi una ricerca ossessiva di rassicurazioni identitarie per rianimare la sinistra dispersa: l'antifascismo funziona in questo senso da sala rianimazione, restituisce un nemico assoluto a un'area che non sa vivere senza un rancore verso qualcuno (Berlusconi, la destra, il populismo) e appena ne declina uno, bisogna rimettere in piedi l'Eterno Fascismo (Ur-fascismo diceva Eco). E non si distingue più tra il neofascismo politico di una volta e il folclore, il vintage, la civetteria di esibire cimeli fascisti che non hanno alcuna ricaduta politica, ma solo sentimentale e commerciale. Cominciai a seguire la politica nei primi anni Settanta. Da allora ciclicamente ma ininterrottamente, sento parlare di un imminente pericolo fascista che serpeggia nella società. Una leggenda metropolitana che serve per rianimare la mobilitazione antifascista».

Perché fa così paura il Ventennio? Perché non studiamo a dovere cosa è stato il fascismo? A proposito, cosa è stato?

«Il fascismo non si può ridurre solo a qualcosa di criminale. Non lo farei neanche per il comunismo che per estensione, durata, vicinanza temporale, numero di vittime (in tempo di pace, si badi bene) ha prodotto crimini inarrivabili. C'è poi da chiedersi perché ancora tanta gente ha un giudizio positivo del fascismo. Non si può ricordare del fascismo la violenza, la guerra, la persecuzione razziale (che riguarda il nazismo e solo di riflesso, in modo infame e caricaturale l'ultima fase del fascismo) dimenticando le opere realizzate, la tutela sociale, l'integrazione nazionale, i passi da gigante compiuti dall'Italia nel segno della modernizzazione, la forte passione ideale e civile, il consenso... Durante il fascismo gli italiani ebbero in assoluto il maggior attaccamento allo Stato e maggior fiducia nelle istituzioni, e potrei continuare. Il fascismo fu una rivoluzione conservatrice che modernizzò il paese nel nome di valori e primati tradizionali, cercando di accordare l'avvenire del socialismo con l'eredità della nazione».

Perché, poi, simili posizioni non si esprimono nei riguardi dell'apologia del comunismo o dell'islamismo, a questo punto?

«Il paradosso è che questa ennesima ondata contro il fascismo sorge nell'anno in cui ricorrono i cent'anni dalla Rivoluzione bolscevica. Sul piano storico, è il comunismo il tema di quest'anno, la sua parabola, i suoi orrori, la stretta linea di continuità tra Lenin e Stalin, il fallimento di ogni comunismo in ogni paese e in ogni tempo, i residui tossici che sono rimasti, il passaggio dal Pc al Pd, nel senso del politically correct, il comunismo dei nostri anni. Invece il comunismo è totalmente rimosso, confinato in una dimenticata antichità, salvo qualche reperto mitico, come il Che o da noi come Gramsci e Berlinguer. Gli unici miti spendibili perché sono due comunisti che (per fortuna) non andarono al potere. Come diceva Gomez Davila, gli unici comunisti da rispettare sono quelli che non sono andati al potere».

Le manganellate contro l'apologia di fascismo ricordano simili punizioni inflitte a personaggi ritenuti scomodi. La cultura è ancora strumentalizzata per puri fini di partito ed elettorali?

«La cultura strumentalizzata rientrava ancora in una fase eroica in cui si riteneva che annettersi un autore o condannarne un altro avesse un'incidenza effettiva, e un significato. Oggi la cultura è considerata una zavorra molesta e obsoleta, irrilevante. E nei confronti degli intellettuali non riconducibili alla dominazione corrente non si pratica più la denuncia e la demonizzazione ma, peggio, il silenzio, la finzione d'inesistenza, la non considerazione come autori e scrittori. Non potendo più eliminare fisicamente il dissidente o il nemico, come accadeva ai tempi di Florenskij e di Gentile, lo si elimina moralmente, si certifica con il silenzio la sua morte civile...».

La Boldrini ha dichiarato che i monumenti fascisti urtano la sensibilità dei partigiani. Non ci resta che distruggere i monumenti e l'arte fascista, giusto?

«Se dovessimo realizzare il proposito della Boldrini dovremmo dichiarare inagibili quasi tutte le città italiane. Ovunque c'è l'impronta del fascismo e persino nelle zone rase al suolo dal sisma hanno resistito solo gli edifici fascisti. Se non c'è riuscito un terremoto ad abbatterli, figuriamoci se ci riesce un coccodè, sia pure isterico».

EMANUELE FIANO IL "DEMOLITORE". Scrive il 17 Settembre 2017 Claudio Scaccianoce su “L’Inkiesta". Premessa. Io non sono leghista, piddino, forzista, penta stellato, centrista, radicale, verde, giallo o blù… (rossonero si!). Non sono assolutamente un qualunquista ma cerco di non farmi influenzare dalle mie opinioni quando scrivo. Nessuna sponsorizzazione occulta quindi in questo mio scritto. Guardate, vi prego, alla luna e non al dito che la indica. Dito che in questo frangente è la mia tastiera. Emanuele Fiano è un parlamentare del PD. Uno che pesa alla Camera dei Deputati. Non è uno dei cosiddetti peones, ma è un esponente di primo piano nella compagine renziana. Ha la personalità giusta per fare il frontman quando si devono affrontare con fermezza i temi più delicati, quelli che spaccano, quelli che scatenano azioni e reazioni anche borderline. Non me vorrà Fiano, ma non posso non notare che ha anche un’altra caratteristica. Riesce a risultare a pelle antipatico a moltissime persone che lo vedono per la prima volta, sui social oppure in televisione. Ed infatti è uno dei bersagli preferiti degli haters da tastiera e dei militanti di base delle opposte parti politiche. Probabilmente lo è perché parla con pochi ammortizzatori verbali e punta sempre al cuore del problema. Atteggiamento onesto ma pruriginoso. E poi, in video sorride troppo poco alle telecamere. Lo conosco un cicinin essendo di Milano e rossonero come me ed avendolo intervistato (per i non milanesi un cicinin significa … un pochino) e posso dire che invece è un uomo cordiale anche se non particolarmente espansivo, ed è un uomo decisamente ironico.

Allora, come dicevamo, Fiano è per moltissime persone uno dei più illustri iscritti - suo malgrado - al club “i più odiati dagli italiani”, insieme alla Boldrini, alla Fornero etc etc. Ultimamente si è fatto promotore di una legge che rende illegale la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli fascisti etc etc. Facciamo così. Riportiamo integralmente il testo della proposta di legge, così non lasciamo adito ad interpretazioni sul testo stesso: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque propaganda i contenuti propri dell'ideologia del Partito fascista e del Partito nazionalsocialista tedesco, ovvero dei relativi metodi sovversivi del sistema democratico, anche attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero fa chiaramente propaganda richiamandone pubblicamente la simbologia o la gestualità, è punito con la reclusione da 6 mesi a un anno. La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici.”

Non l’avesse mai fatto. Il web, i giornali, i social si sono riempiti di commenti ironici, di commenti crudi, di attacchi politici e personali. I meme sono fioriti come primule a primavera. Se ascoltiamo queste voci Fiano vorrebbe demolire gli obelischi del ventennio. Abbattere il quartiere Eur, demolire la Stazione Centrale di Milano. Radere al suolo Latina (ex Littoria), Sabaudia, Pomezia e Guidonia. E si dice, vietare per legge il colore nero per vetture motocicli. E meno male che gli italiani disegnano male, altrimenti avremmo il web pieno anche di novelli Vauro o Krancic (che però deo gratias oltre ad una bella mano hanno anche un bel cervello ed un senso della satira molto sviluppato). Ovviamente ai più queste sparate del web sono subito apparse affidabili quanto le migliori fake news, ma purtroppo qualche benpensante se ne è servito per fare battaglia d’opinione. Era già da qualche giorno che pensavo di contattare Emanuele Fiano per sentire e riportare un suo commento diretto. Ma due ore fa ha pubblicato direttamente lui una nota a margine su FB. Bene mi ha risparmiato una telefonata, nel giorno che abitualmente amo dedicare alla famiglia ed al mio Milan. Riporto le sue parole.

"Questo è il testo della mia Legge, parliamo di questo, non di altre interpretazioni. In questo testo di Legge approvato alla Camera non c'è nessun riferimento alla libera espressione di un opinione, giustamente difeso dall'Art. 21 della Costituzione. Se uno oggi in Italia o domani qualora fosse approvata questa Legge, si dichiarasse fascista, non infrangerebbe nessuna legge, starebbe esprimendo la sua opinione, sarebbe all'interno di uno dei cardini della Democrazia. Se domani qualcuno comprasse o vendesse, francobolli dell'epoca o bottiglie o busti, ma per scopo personale, non starebbe facendo propaganda, non ricadrebbe in questa Legge. In questo testo di Legge, non c'è nessun riferimento a beni culturali o architettonici, di qualsiasi tipo, né alla cancellazione di scritte o altro. Non propongo e non voglio cancellare niente. Non è il mio pensiero. Mi interessa la propaganda fascista non altro. In questo nostro tempo in cui un contesto sociale fragile e disagiato, con tanti problemi irrisolti, produce rabbia e protesta, io voglio impedire che antiche cattive lezioni propongano ancora le loro terribili soluzioni. Per quanto riguarda chi mi dice che ci sono altre priorità, rispondo che nel corso di questa legislatura sono stato relatore della Legge sulla riforma del PA, sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, sulla riforma costituzionale, sulla Legge elettorale, sul riordino delle carriere delle FFOO, dei VVFF, ho seguito la Legge antiterrorismo, la legge per il contrasto alla radicalizzazione islamica, la Legge sulla Sicurezza Urbana, la Legge sull'immigrazione Minniti-Orlando, la legge sul conflitto d'interessi, la Legge sui Partiti. Due anni fa ho presentato questa Legge. Dirmi che non mi occupo d'altro è folle. Detto questo, il compito di contrastare la propaganda di valori legati a quelle ideologie, che la nostra costituzione contrasta, può essere assolto unicamente con dei divieti? Certo che no. Sono la cultura, la formazione e la capacità politica di soluzione dei problemi che devono offrire l'antidoto più determinante in questo campo. Questo vuol dire che allora non c'è bisogno di alcun divieto? Non è la mia opinione. In 72 anni in Germania è rinata una delle nazioni più forti del mondo, la Democrazia tedesca prima nella parte Ovest, con la sua classe dirigente socialdemocratica, ha associato dall'inizio del dopoguerra in poi, una grande capacità di investimento culturale e politico sulla Democrazia ad alcuni ferrei limiti al propagarsi della cultura neonazista. Nessuno ha mai pensato che ciò fosse lesivo della Libertà o della Democrazia. A chi mi risponde che questo divieto già esisteva rispondo che non è così. La Legge Scelba punisce l'apologia di fascismo ma solo nel caso si riferisca ad un progetto di ricostituzione del partito fascista. Oggi il nostro paese conta troppi episodi di propaganda fascista di persone che non hanno nessuna intenzione di organizzare un Partito, e allora? Gliela lasciamo fare? Io non sono ossessionato dal fascismo. Anzi vorrei personalmente uscire dalla dinamica di contrapposizione permanente tra parti. Lo auspico, ma questo può avvenire solo con un lavoro culturale e pubblico di grande profondità, onesto, che faccia quello che in Germania hanno fatto sul Nazismo. La capacità autentica da parte di tutti di guardare alla Storia con onestà. In Italia la conclusione del fascismo e del coinvolgimento degli apparati dello Stato si celebrò con una famosa amnistia. Una cancellazione. È invece un discorso su questo paese e la sua storia che sarebbe più utile, invece che qualsiasi cancellazione. La Libertà di espressione di ognuno di noi non si tocca certo, ma va appunto difesa dalla propaganda di quelle ideologie che vorrebbero negarla, giacché noi rimaniamo figli della definizione di Matteotti, che li fascismo non fu un'idea, ma un crimine. Difendiamo la libertà, difendiamoci dai crimini."

SIC ET SIMPLICITER. Io non aggiungo alcun commento, positivo o critico. Il suo pensiero si può condividere, si può criticare, si può osteggiare con ogni mezzo democratico, si può rilanciare cum laude. Ho deciso di riportarlo solo perché da cronista odio senza mezze misure le fake news e le pseudo testate che distribuiscono spazzatura, animate da falsi giornalisti che pensano che il termine deontologia professionale rappresenti un ingrediente per lo sformato di vitello alla bulgara. Buona domenica.

Vittorio Sgarbi e il fascismo, disintegra Fiano e Laura Boldrini: "Pensate ai comunisti", scrive il 27 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Un Vittorio Sgarbi "a braccio teso" contro la Legge Fiano, Laura Boldrini e chi vive ogni giorno con l'ossessione per il Fascismo di 80 anni fa. Nella sua rubrica quotidiana sul Quotidiano nazionale, "Sgarbi vs Capre", il critico più famoso d'Italia non va per il sottile e svela tutte le ipocrisie della "inutile legge sulla propaganda fascista che ricalca la legge Scelba". Perché, invece, suggerisce, non "perseguire gli imperterriti difensori del comunismo reale"? La proposta del professore è semplice ed efficace: "Richiamare gli ambasciatori italiani da Cuba e Pechino, gli atti di queste dittature sono oggettivamente identici alle violenze contro i diritti umani perpetrate dal fascismo". E anche le ingerenze in Italia sono insopportabili: ad esempio, quando Milano ha ricevuto il Dalai Lama tra le minacce e le intimidazioni del governo cinese. "Ma Fiano - ironizza Sgarbi - si preoccupa delle scritte fasciste sulla spiaggia di Chioggia".

Sala lancia l'allarme nazi. E scorda i centri sociali. Sindaco: "I neofascisti a Milano si rafforzano". Il centrodestra: "No global liberi di occupare", scrive Chiara Campo, Domenica 03/12/2017, su "Il Giornale". «Senza drammatizzare, ma la situazione credo che sia grave. Anche a Milano ci sono segni che il mondo neonazista e neofascista si sta rafforzando e sta entrando nelle fasce più deboli». Il sindaco Beppe Sala lancia l'allarme naziskin. Parteciperà «senz'altro» se potrà alla manifestazione organizzata dal Pd a Como il 9 dicembre dopo il blitz di un gruppo di ultradestra veneto nella sede di un'associazione pro migranti e ha già appoggiato la mozione che approderà domani in Consiglio (primo firmatario David Gentili di Insieme x Milano) che chiede alla giunta di non concedere spazi e patrocini a chi non sottoscrive una carta dei valori antifascisti. Il Comune non potrà vietare le piazze perchè è competenza della questura e Sala si adegua, «solleciterò alla massima attenzione. É chiaro che non possiamo pensare a una città militarizzata ma serve grande vigilanza perchè questi movimenti non prendano piede». Incalza «tutti i partiti, dalla Lega a M5S» sulle liste, «siccome siamo vicini alle elezione dico che queste persone non vanno fatte entrare, da una parte e dall'altra». E ricorda la polemica che scoppiò intorno al nome di Stefano Pavesi, consigliere vicino a Lealta è Azione eletto con la Lega nel Municipio 7. «Leggo anche sui quotidiani che lo hanno trovato a fare il bagarino. Siede ancora in consiglio, continua a chiedermi di dimettermi, ma si dimetta lui». Si riferisce al Daspo inflitto una decina di giorni fa a Pavesi dai vigili, lo avrebbero colto a vendere biglietti per una partita di hockey sul ghiaccio in via Piranesi. Se la propaganda antifascista di Sala scalda la platea della sinistra riunita alla «leopoldina» promossa ieri in zona Certosa dal candidato Pd in Regione Giorgio Gori, il centrodestra richiama invece a concentrarsi sulle priorità e ad accorgersi anche di quei movimenti no global cari alla sinistra che occupano indisturbati palazzi e capannoni. Il capogruppo della Lega Alessandro Morelli intanto difende Pavesi con «le stesse parole che usò Sala quando fu pizzicato sulle varie amnesie nella dichiarazione dei redditi, se ci sarà una multa da pagare la pagherò, Pavesi farà lo stesso anche se mi pare che abbia fatto ricorso contro il Daspo. E mi sembra singolare che il sindaco invochi il garantismo nei propri confronti e non lo pratichi sugli altri». Invece «di demonizzare alcuni ambienti su cui la questura non ha mai ritenuto di intervenire - avverte -, il sindaco e la sinistra pensino piuttosto a sgomberare il centro sociale Cantiere che occupa da anni una sede del Comune e ha pure un ristorante completamente abusivo. L'Annonaria stranamente non se ne è accorta nonostante le numerose denunce. O sgomberi Cascina Ronchetto, la Lega ha depositato anche un esposto in Procura». Il Carroccio boccerà la mozione antifascista perchè «esiste già una legge nazionale e non spetta certo al commissario Gentili il compito di dare in maniera discrezionale la bolla di fascista o oltranzista ai vari gruppi». Il capogruppo Fdi in Regione Riccardo De Corato richiama il sindaco: «La città è ostaggio dei clandestini, i centri sociali fanno il bello e il cattivo tempo, siamo in fondo alle classifiche della sicurezza nelle città e l'unica fissazione di Sala è imbavagliare l'estrema destra».

Skinhead a Como, Meloni: «Intimidazione, ma la violenza è dei centri sociali», scrive Mariano Folgori giovedì 30 novembre 2017 su "Il Secolo D’Italia". «Secondo me quello è un atto di intimidazione e per me l’intimidazione è inaccettabile. Mi consenta però di dire che trovo abbastanza ridicolo l’appello di Matteo Renzi, perché la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como: è un atto di intimidazione ma non è un atto di violenza». Giorgia Meloni invita a vedere nella giusta dimensione, senza strumentalizzazioni politiche e forzature ideologiche, l’irruzione di un gruppo di naziskin venetia Como in un centro pro migranti. «La violenza – afferma la Meloni a L’Aria che tira – noi l’abbiamo invece vista un sacco di volte dai compagni dei centri sociali, quelli che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani, e nessuno ha mai fatto gli appelli per la condanna delle violenze dei centri sociali. Quello si può fare. Perché è gente di sinistra e le città si possono distruggere, si può dare fuoco alle macchine della gente, si può dare fuoco alle edicole».  La leader di FdI risponde a Renzi che ha tentato di rilanciare l’ennesima mobilitazione antifascista. «Qualsiasi gesto di violenza – ha detto il leader del Pd va condannato senza se e senza ma. Intimidazioni e provocazioni di segno fascistoide vanno respinti non solo dalla sinistra ma da tutta la comunità politica nazionale, senza eccezione alcuna. Su questi temi non si scherza». Salvini: «Il problema è Renzi non i presunti fascisti». Sulla la stessa linea della Meloni è Matteo Salvini: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti. Lui – dice Salvini – si occupa di fake news e del ritorno del fascismo che non esiste». «Certo che entrare in casa di altri non invitati non è elegante – ma il tema dell’invasione dei migranti sottolineato dai skinheads è evidente».

Appello Renzi, Meloni: e Centri sociali? Scrive il 30 novembre 2017 "Rai News". "Secondo me è un atto di intimidazione e per me l'intimidazione è inaccettabile. Ma trovo abbastanza ridicolo l'appello di Renzi, perchè la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como". Così la leader di FdI. Il blitz dei naziskin in un circolo Pd di sostegno ai migranti "è un atto di intimidazione, non di violenza. La violenza noi invece l'abbiamo vista un sacco di volte dai compagni dei Centri sociali che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani e nessuno ha mai fatto appelli...".

Bologna, raid dei centri sociali: uova e minacce su sede di destra. Il blitz dei centri sociali del Collettivo Polvere Rossa contro la sede di Azione Universitaria a Bologna, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Un raid notturno dei centri sociali. Mentre a sinistra si sgolano per "l'irruzione" di Veneto Fronte Skinheads all’assemblea di Como Senza Frontiere, nella rossa Bologna la sede di Azione Universitaria in via Turati viene presa d'assalto dal Collettivo Polvere Rossa. Questa mattina i militanti dell'associazione universitaria di destra si sono ritrovati la porta imbrattata dalle uova con annesso volantino minaccioso, già rimosso dalla Digos. "Non è che un pretesto per concedervi dieci minuti di riflessione - si legge nel proclama - Perché mentre pulirete questa vetrina, anche solo per dieci secondi, vi sentirete disprezzati e non tollerati, proprio nello stesso modo in cui voi fate sentire chi diverge dalla vostra idiozia. Non ci aspettiamo che voi capiate e tantomeno che cambiate. Ci basta lasciarvi questo messaggio con la coscienza di chi anche di giorno vi affronta a viso aperto, con il divertimento di chi vi mette alla berlina in una fredda notte d'autunno. Italiano è chi ha fede nella Costituzione. Italiano è che ha memoria degli ideali della Resistenza. Italiano è chi lotta per il progresso della Patria. Fuori i fascisti da Bologna". La sede di via Turati 25 a Bologna è un luogo storico di aggregazione della destra. Soprattutto in ambito universitario. Dibattiti, discussioni politiche, volantini da stampare, colla e bandiere. Poi la foto di Almirante rivolta verso i presenti e la scritta: "Noi possiamo guardarti negli occhi". Niente di pericoloso insomma, chi scrive lo sa per esperienza. Nessun "rigurgito fascista", onde nere, nazismi alle porte. Anzi: tutto democratico, visto che AU da anni partecipa alle elezioni studentesche, eleggendo pure propri rappresentanti. "Due mesi fa abbiamo subìto un'intimidazione ad un nostro convegno sulla Siria e nessuno è stato punito - racconta Dalila Ansalone, Responsabile Azione Universitaria Bologna - A quanto ci risulta, nessuna Istituzione ha preso provvedimenti seri nei confronti di questi soggetti che vivono nell'illegalità permanente. Visto che nessuno gli si oppone, si sentono onnipotenti e tranquilli nel compiere atti di violenza senza subire alcun tipo di sanzione". Il timore è che le azioni degli antagonisti possano degenerare. "Se non la pensi come loro, usano la violenza - attacca Stefano Cavedagna, Dirigente Nazionale Azione Universitaria - Esattamente come facevano i partigiani in queste zone rosse dopo la guerra. Se non eri con loro, facevi una brutta fine. Non abbiamo timore, rimaniamo solo molto tristi nel vedere fino a dove si possono spingere certi soggetti che fanno della libertà di pensiero il loro mantra, ma poi con la violenza cercano di reprimere idee differenti dalle loro". E mentre sugli skinhead i quotidiani discettano da giorni e Matteo Renzi chiede addirittura "condanna unanime" del gesto, difficilmente il raid degli antagonisti scatenerà pari indignazione e preoccupazione. Si sa: alcune uova e minacce risultano meno aggressive di altre. Sono politicamente corrette. "La Repubblica dice che con acqua e sapone si rimedia, come se il gesto intimidatorio non esistesse e non ci fosse nulla da condannare - attacca Galeazzo Bignami, capogruppo in Regione di Forza Italia - Chissà cosa sarebbe successo se degli estremisti di Destra avessero lanciato delle uova marce contro Repubblica. Avremmo già i manifesti firmati dagli intellettuali radical chic, girotondi arcobaleno, manifestazioni antifasciste e così via". Per la senatrice Anna Maria Bernini (FI) si tratta di "un grave atto intimidatorio, che meriterebbe un'indignazione profonda" e invece "viene curiosamente minimizzato, declinato ad 'una ragazzata'". Solito doppiopesismo della sinistra. "Le forme di intimidazione e violenza - dice infatti Maurizio Gasparri - vanno condannate in egual misura dalle istituzioni e da tutti coloro che credono nei valori della democrazia e della legalità". Duro anche il deputato di Forza Italia Elio Massimo Palmizio, che definisce il raid degli antagonisti "inaccettabile" tanto da costituire "una grave compressione della liberta' di espressione individuale e collettiva garantita dalla nostra Costituzione".

EIA EIA, MA VA' LA. Il Duce unisce più di Renzi: bastano quattro cretini per fare gridare la sinistra al nuovo Ventennio. Ma è silenzio sulle violenze dei centri sociali, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Ogni tanto, ma sempre più spesso, scatta l'allarme dell'«all'armi son fascisti». Questa estate la goliardia canaglia di un bagnino di Chioggia che aveva tappezzato il suo lido con frasi mussoliniane era stata spacciata come l'inizio di un nuovo Ventennio. Il malcapitato ha perso il lavoro e si è riciclato come opinionista di avanspettacolo destrorso nelle radio e tv venete dopo essere stato completamente scagionato dai magistrati che avevano aperto un'inchiesta. Nessun tentativo di ricostituire il Partito fascista - hanno concluso i saggi pm - ma solo una gigantesca burla. Adesso ci risiamo con la storia dei quattro ragazzotti di destra che hanno fatto irruzione in un circolo pacifista di Como per leggere ai presenti un comunicato sulla «patria minacciata dagli immigrati». Deplorevole (la violazione di domicilio privato), ridicolo (il gesto), a tratti delirante (il testo), ma comunque fatto anche questo ascrivibile più all'idiozia giovanile che alla fascistizzazione dell'Italia. Il codice penale attuale mi sembra attrezzato a punire eventuali reati che questi ragazzotti possano avere commesso, con i fatti e con le parole, e la cosa dovrebbe finire lì. E invece no, puntuale come la morte arriva da Repubblica il grido di allarme sul pericolo destre. E la panna monta, manco stessimo parlando di un attentato dell'Isis. Facendo una ricerca con Google si scopre che dall'inizio dell'anno i giornali del gruppo Espresso hanno fatto scattare «l'allarme fascismo» 492 volte. Siamo cioè all'antifascismo militante che amplifica ed esalta stupidi episodi e persone ignoranti che sono numericamente, politicamente e socialmente più che marginali. Certamente meno significativi dell'allarme che dovrebbero destare le occupazioni, gli abusi e a volte le devastazioni urbane di quei simpatici ragazzi dei centri sociali; sicuramente meno preoccupanti delle milizie di estrema sinistra che impediscono con la forza la presentazione dei libri di Giampaolo Pansa sul revisionismo della Resistenza, di Magdi Allam sull'islam o una conferenza di Angelo Panebianco all'università di Bologna perché «professore non abbastanza pacifista». Più stupidi dei neofascistelli ci sono solo i tromboni dell'antifascismo a tempo pieno, i quali non si indignano che il leader della Lega Matteo Salvini - democraticamente eletto - possa apparire in pubblico solo se scortato, a volte blindato. A questi tromboni andrebbe ricordato - ironia della sorte - che ancora oggi il nostro codice penale a pagina uno porta in grassetto la firma di chi l'ha promulgato, cioè «Sua Eccellenza Benito Mussolini», come ben sanno studenti di giurisprudenza e addetti ai lavori. Che facciamo, chiudiamo i tribunali, mettiamo al rogo in piazza la tavola delle leggi e proclamiamo la mobilitazione generale? La verità è che il Duce riesce dove ha fallito Matteo Renzi. Cioè unire la sinistra, che - non avendo né presente né futuro - per dare l'impressione di esistere deve per forza attaccarsi ai fantasmi del passato. Diciamolo, i veri nostalgici sono proprio loro.

Assalti, censure e violenze in università. I blitz dei centri sociali non scandalizzano. Da Pansa zittito a Panebianco contestato, le vittime dell'intolleranza rossa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 1/12/2017, su "Il Giornale".  Clima da Repubblica di Weimar, nazismo alle porte, l'ombra nera sull'Italia. Il blitz degli skinhead ha svariati precedenti, ma a sinistra. La sinistra unita solo con la caccia al fascista. Aggressioni, minacce, lanci di uova, però più politicamente corretti rispetto a quattro teste rasate, e quindi non meritevoli di allarme per la democrazia in pericolo. Eppure a lungo, per un giornalista come Giampaolo Pansa colpevole di aver messo in discussione la vulgata partigiana sulla guerra civile italiana dopo l'8 settembre, è stato quasi impossibile presentare un semplice libro, considerato negazionista dall'estremismo rosso che accoglieva le presentazioni con insulti, minacce, propaganda a pugni chiusi. Qualche cenno di solidarietà in privato dai leader di sinistra, ma mai pubblico, perché Pansa è un diffamatore della Resistenza, un nemico del popolo. Identica sorte toccata ad Angelo Panebianco, editorialista del Corriere e docente all'Università di Bologna: «Fuori i baroni dalla guerra», gli hanno urlato i collettivi lo scorso febbraio, durante la sua lezione. «Panebianco cuore nero», la scritta lasciata dai centri sociali sulla porta del suo ufficio anni fa. Imbarazzo, silenzio e poco altro anche per Salvini, nel mirino dei centri sociali, più violenti degli skin head, ma col lasciapassare politico. Il leader della Lega è stato aggredito più di una volta, a Bologna gli hanno sfasciato il vetro dell'auto, in Umbria gli antagonisti lo hanno accolto a sputi e cori «stronzo», a Napoli hanno scatenato una guerriglia con sassi e molotov, violenze annunciate con la massima tranquillità alla vigilia («Non assicuriamo un corteo pacifico») senza creare indignazione, anzi (il sindaco de Magistris è con i centri sociali). A Milano sempre i centri sociali hanno distrutto un gazebo della Lega e malmenato due militanti. Scene che si ripetono, senza che mai si parli di un «allarme centri sociali», mentre quattro skin bastano per mobilitare le massime istituzioni. A Daniela Santanchè, donna di destra quindi meno rispettabile, ha raccontato in diretta, mentre discuteva di ius soli con Fiano del Pd (il deputato che vuol mettere in carcere chi ha una immagine di Mussolini in casa) di aver ricevuto un tremendo insulto più minaccia di morte come se niente fosse («Mi è appena arrivato su Twitter Sei una put... da uccidere»). Ancora a Napoli l'ex candidato sindaco di centrodestra, Gianni Lettieri, denunciò un'aggressione per strada da parte degli attivisti di una casa occupata. Ne sanno qualcosa gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, bersaglio prediletto degli attivisti e centri sociali per le battaglie sui furbetti della pubblica amministrazione e sulla scuola, feudo della contestazione di sinistra. Brunetta, durante un convegno, fu vittima di un blitz della «Rete dei precari» fischi, insulti, striscioni a cui replicò definendoli «l'Italia peggiore». Non l'avesse mai fatto: «Diecimila post di insulti, minacce, addirittura pallottole, sul mio profilo Facebook. Molti legati anche alla mia statura fisica» calcolò l'allora ministro, sempre preciso anche nella contabilità degli insulti ricevuti. Per la Gelmini, si inventò persino un No Gelmini Day, con i collettivi studenteschi in piazza, al grido «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli», ma pure senza un chiaro nesso logico «Siamo tutti antirazzisti e antifascisti». Coi fumogeni e i lanci di uova. Tanto i fascisti sono solo a destra.

Ecco il dossier "centri sociali": quelli pericolosi sono 200. Dal Veneto alla Sicilia la mappa delle occupazioni pubbliche e private. E i delinquenti napoletani fermati dopo gli scontri sono già liberi, scrive Luca Rocca su "Il Tempo” il 14 Marzo 2017. Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui "nemici", impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i "centri sociali" più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze. Circa 200 strutture autogestite, quelle monitorate dall’Antiterrorismo. Ma sono migliaia i luoghi dove nasce l’odio e cresce la violenza. Negli ultimi tempi a far parlare prepotentemente di sé sono stati quelli di Milano (Conchetta, Cantiere, Soy Mendel, Mandragola), Cremona (Dordoni), Napoli (Insurgencia, Ex Opg Occupato-Je so pazzo), Roma (Macchia Rossa innanzitutto, ma nella Capitale ce ne sono 65, 27 dei quali controllati più da vicino da polizia e carabinieri), Torino (Askatasuna), Palermo (Spazio Anomalia-Ex Karcere), Padova (Pedro), Rimini (Casa Madiba), Brescia (Magazzino 47) e molti altri ancora sparsi in tutta la Penisola. Sono dappertutto e vogliono comandare. Al di là della legge, al di là delle regole. Dei 200 della black list l’Antiterrorismo evidenzia 11 centri in Lombardia, 7 in Piemonte, 4 nelle Marche, 12 in Veneto e altrettanti in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 8 in Liguria, 4 in Trentino, oltre 20 in Campania, 6 in Calabria e 3 in Sicilia.

CENTRI (POCO) SOCIALI. Solo rifacendoci agli ultimi due anni e mezzo, ad esempio, gli "antagonisti" si sono resi protagonisti di scorribande devastanti. Due anni fa a Cremona gli appartenenti al centro sociale "Dordoni" si scontrano con quelli di CasaPound. Molti sono i feriti. Gravissimo un antagonista, Emilio Visigalli (che poi verrà arrestato poco prima della sua rappresaglia). Otto persone finiscono indagate (e un militante bresciano del collettivo "Magazzino 47" arrestato). Pochi giorni dopo oltre 2mila persone, in testa i "black bloc", scendono in strada per solidarizzare coi loro "compagni", lanciando pietre, bottiglie e bombe-carta contro le forze dell’ordine. Nelle stesse settimane, stavolta a Padova, alcuni componenti del centro sociale «Pedro», nell’ambito di un’inchiesta sull’aggressione a un dirigente della Squadra Mobile, subiscono l’obbligo di dimora (uno finisce ai domiciliari). Nel corso delle perquisizioni nelle loro abitazioni la polizia trova fumogeni, una maglia metallica anti-coltello, fionde e un’arma giapponese usata nelle arti marziali. Stesso dicasi per l’operazioni nei confronti di 17 componenti del movimento antagonista "Spazio Anomalia/Ex Karcere" che ricevono l’obbligo di firma (poi annullata dal giudice) per aver devastato alcuni esercizi commerciali a Palermo (ferendo alcuni poliziotti). I reati contestati: associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l’ordine pubblico, violenza, minaccia, lesioni personali.

VIOLENZA "ANTAGONISTA". Nello stesso periodo otto componenti del centro sociale "Cantiere" di Milano vengono condannati per gli scontri scoppiati nel dicembre del 2010 durante una manifestazione in occasione della "prima" della Scala, mentre alcuni esponenti milanesi di Forza Italia subiscono delle intimidazioni subito dopo lo sgombero del "Soy Mendel". A rendersi protagonista, per anni, di scontri violentissimi, è il centro sociale di Torino "Askatasuna", che nell’ultimo biennio non ha cambiato abitudini. Sempre in prima linea nei cortei No-Tav, uno dei suoi militanti, nel dicembre scorso, finisce in carcere per aver violato i domiciliari ottenuti per gli scontri con la polizia in Val di Susa. Pochi mesi prima sette manifestanti legati alla sinistra antagonista No-Tav vengono identificati durante una protesta e fra essi ancora militanti di Askatasuna. Che di violenti ne sforna a iosa, tanto da subire arresti, fermi, indagini, condanne. Quando poi il leader della Lega Nord Matteo Salvini si reca a Macerata per una visita elettorale, gli appartenenti al centro sociale "Sisma" lo accolgono com’è loro tradizione. Lo scontro con la polizia è inevitabile. Il maggio 2015 è segnato dalle manifestazioni No-Expo alle quali partecipano i membri del "Mandragola". Bastoni in mano, passamontagna in testa e la devastazione di Milano è assicurata.

RABBIA "COLLETTIVA". Nell’agosto del 2015 la Digos di Bologna notifica un divieto di dimora per Gianmarco De Pieri, leader del centro sociale "Tpo", che nel corso degli scontri con le forze dell’ordine, avvenuti in seguito allo sgombero di una villa occupata, aveva aggredito un sostituto commissario e lanciato una grossa trave contro un agente. Poche settimane dopo cinque giovani di Askatasuna vengono raggiunti da misure cautelari per le violenze messe in atto durante un comizio di Salvini a Torino, mentre la procura di Bologna punterà i fari su15 appartenenti al centro sociale "Tpo", protagonisti di violenze scatenate durante la manifestazione degli "Indignati". Passa poco tempo e sono ancora i militanti di "Askatasuna" a mettere in atto scontri violentissimi nell’Università di Torino. Di sé fa parlare anche l’"Ex Opg Occupato-Je so pazzo" di Napoli (fra i movimenti antagonisti anti-Salvini dei giorni scorsi), che mesi fa ha portato in piazza i "suoi" per lanciare uova e pietre verso la Mostra d’Oltremare dove l’allora premier Matteo Renzi stava per recarsi. Gli stessi militanti si sono scontrati e pestati con quelli di CasaPound. Rissa violenta, anche quella scatenata, nell’aprile scorso, dai membri del centro sociale "Casa Madiba" di Rimini contro gli esponenti di Forza Nuova.

"MACCHIA" FURIOSA. E proteste rabbiose anche da parte degli appartenenti a "Insurgencia" di Napoli e dei membri di "Macchia Rossa" a Roma, che nel novembre scorso, armati di mazze, spranghe e bombe-carta, si sono scontrati con quelli di Forza Nuova. Nel gennaio tati condannati due appartenenti al centro sociale "Kavarna" di Cremona. A febbraio scorso, infine, i militanti del centro sociale "Zam" e "Cantiere" di Milano si sono azzuffati con la polizia all’esterno del Municipio 4, dove era in corso un incontro sul Giorno del ricordo delle Foibe. Stesso episodio, ma con protagonisti da una parte CasaPound e dall’altra militanti del centro sociale "Bruno", anche a Trento. Ancora una volta per infangare i morti delle Foibe.

Centri sociali: sono legali? Scrive Mariano Acquaviva il 7 dicembre 2017. Breve analisi di un fenomeno controverso: i centri sociali sono legali? Negli ultimi tempi si sente sempre più parlare di centri sociali, soprattutto in riferimento ad episodi di violenza e vandalismo. Cosa sono i centri sociali? In senso generico, si tratta di associazioni che intendono fornire alla collettività alcuni servizi socialmente utili, come ad esempio attività ricreative, culturali o sportive. Nella pratica, però, non è sempre così. In Italia, i centri sociali nascono quale centro di aggregazione politica extraistituzionale, cioè con sede diversa da quella parlamentare. Lo spirito che li agita è sicuramente di protesta ma, come vedremo, bisogna distinguere la protesta pacifica da quella illegale. In realtà, i centri sociali individuano anche un altro fenomeno: quello di un movimento indipendente, di ribellione all’ordine costituito, che si concretizza in atti ai limiti della legalità, quali occupazioni di spazi pubblici o privati, manifestazioni non autorizzate e contestazioni varie. Purtroppo è proprio l’aspetto più riprovevole dei centri sociali ad essere messo in risalto dai mass media, a causa della spirale di violenza che innescano. Analizziamo meglio il fenomeno e spieghiamo se i centri sociali sono legali.

Centri sociali e diritto ad associarsi. Secondo la Costituzione italiana, i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono però proibite tutte le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. La Costituzione è chiara: tutti hanno il diritto di associarsi liberamente, senza seguire nessuna procedura particolare (salva quella prevista dal codice civile e dalle leggi speciali per ottenere la personalità giuridica), purché l’associazione non persegua scopi penalmente illeciti. Il codice penale, infatti, punisce l’associazione che abbia quale scopo quello di commettere delitti. Perciò, fino a quando i centri sociali assumono la forma di associazione o, comunque, di libera aggregazione per finalità culturali, sportive o, in senso più ampio, pacifiche, la loro esistenza sarà perfettamente legale. Diversamente accade se i centri sociali nascono per perseguire scopi sovversivi o violenti: in questo caso l’associazione sarebbe illegale e perseguibile secondo le norme penali. In Italia, molti centri sociali sono stati legalizzati pur avendo origini tutt’altro che lecite: si pensi a quei centri che si sono visti assegnare le strutture che, in precedenza, avevano abusivamente occupato.

Il problema è che difficilmente un centro sociale sarà costituito con lo scopo dichiarato di compiere reati; normalmente, la nascita di questi organismi avverrà per perseguire finalità perfettamente lecite. Si ricordi, poi, che la contestazione pacifica è sempre ammessa, in quanto rientra tra le espressioni del principio di libera manifestazione del proprio pensiero. Pertanto, un movimento di opposizione alla maggioranza politica, ad esempio, non sarà sicuramente perseguibile dalla legge.

Centri sociali e diritto di riunirsi. La Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto di riunirsi, purché pacificamente e senza armi. Per le riunioni non è richiesto preavviso, salvo per quelle organizzate in luogo pubblico: in questo caso, le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. Anche in questo caso, i cortei e gli assembramenti, quando pacifici, sono assolutamente legali; l’unico limite è quello dell’evento organizzato in luogo pubblico, per il quale la legge chiede sia dato un preavviso di almeno tre giorni alla questura competente. Ma quando una manifestazione può diventare sediziosa e, perciò, illegale? Secondo la legge, quando, in occasione di riunioni o di assembramenti in luogo pubblico o aperto al pubblico, avvengono manifestazioni o grida rivoltose o lesive del prestigio dell’autorità, o che comunque possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini, ovvero quando nelle riunioni o nei cortei predetti sono commessi delitti, le riunioni e gli assembramenti possono essere disciolti. È sempre considerata manifestazione sediziosa l’esposizione di bandiere o emblemi, che sono simbolo di sovversione sociale o di rivolta o di vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità. È manifestazione sediziosa anche la esposizione di distintivi di associazioni faziose. Per la giurisprudenza, è sedizioso quell’atteggiamento che implica ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni, ovvero che esprime ribellione, sfida e insofferenza verso i pubblici poteri e verso gli organi dello Stato a cui è demandato il compito di esercitarli.

Centri sociali: sono legali? Da quanto detto finora si evince che i centri sociali sono legali se perseguono le loro attività conformandosi ai basilari principi di non violenza del nostro ordinamento. In caso contrario, essi devono ritenersi assolutamente illegali e, pertanto, non hanno diritto di esistere. La questione è che, molte volte, lo Stato tollera il modo di agire dei centri sociali, tanto che, come sopra detto, è successo più volte che i beni abusivamente invasi fossero poi assegnati agli occupanti stessi. Alcune di queste aggregazioni, poi, sono diventate dei movimenti politici a tutti gli effetti. Il vero problema, allora, è la risposta che lo Stato intende dare al fenomeno in questione.

La sindrome del compagno che sbaglia. L'indignazione non si registra mai quando i No Tav aggrediscono le forze dell'ordine, quando i "ragazzi" dei centri sociali devastano le città, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 9/12/2017, su "Il Giornale". Ci sono cretini e cretini. Alla macabra borsa dei crimini, secondo Repubblica, un fumogeno lanciato da quattro cretini contro la propria sede vale molto di più di una bomba fatta esplodere da altri loro colleghi cretini contro i carabinieri. Perché, dicevamo, ci sono cretini e cretini e i cretini fascisti - chissà come mai! - sono sempre più pericolosi di quelli anarchici o di quelli comunisti. Così ieri il quotidiano di Mario Calabresi ha dedicato 3 pagine 3 al ritorno dell'«onda nera», grande battaglia mediatica che vede Repubblica impegnata nel tentativo di riportare il calendario del Paese agli Anni Venti. Invece le bombe contro i carabinieri di giovedì a Roma, rivendicate dagli anarchici come un atto «di guerra contro lo Sato» sono scivolate in un misero articolo a pagina 26. Tra i fattacci di cronaca nera. Come se l'eversione anarchica o rossa, quella che piazza l'esplosivo e prende a sassate i poliziotti, non fosse un problema politico, ma una bagattella, lo sfogo di quattro teste calde. Ognuno, legittimamente, ha la propria gerarchia di notizie, la propria scala di valori, ma è bene sapere che, dunque, un braccio teso mette a rischio la democrazia più di una bomba potenzialmente letale. Il giornale fondato da Scalfari è dalla scorsa primavera impegnato nella creazione di una grande fake news: il ritorno del fascismo. Tutto ebbe inizio con l'emergenza democratica dello stabilimento balneare di Chioggia, il lido fascista che per settimane ha tenuto banco come se fosse il trailer dell'arrivo delle squadracce nere pronte a marciare sulla capitale. Un allarme talmente infondato che persino la procura ha archiviato il caso come folklore. E da lì in poi un crescendo quotidiano di allarmi per la tenuta democratica del Paese: dalla vendita di gadget del Ventennio all'irruzione a Como. Atto idiota e deprecabile ma - non prendiamoci in giro - non certo il preludio di un ritorno delle camicie nere. E, a forza di insistere, la fake news si è auto avverata e quattro cretini in maschera si sono presentati sotto la sede di Repubblica per leggere i loro proclami deliranti. Solidarietà e indignazione generale. Giustamente. Peccato che questa indignazione non si registri mai quando i No Tav aggrediscono le forze dell'ordine, quando i «ragazzi» dei centri sociali devastano le città distruggendo auto e vetrine di incolpevoli cittadini e quando gli anarchici mettono le bombe per diffondere le loro idee criminali. Perché quelli, alla fine, sono sempre compagni che sbagliano e comunque sbagliano sempre meno dei camerati. Ma sottovalutare il pericolo dei cretini è proprio da cretini.

Salvini: "No ai naziskin, ma i volontari non fanno un buon servizio".  Matteo Salvini a "Otto e Mezzo" parla degli ultimi episodi che hanno visto protagonisti i naziskin e nega che oggi esista un pericolo fascismo, scrive M. Ribechini su "Blastingnews.com". In occasione della puntata di questo giovedì 7 dicembre di "Otto e Mezzo" su La7 è intervenuto Matteo Salvini, leader della #Lega Nord. Vediamo le parti salienti di quello che ha dichiarato. Salvini si sente più vicino ai naziskin oppure ai volontari dei centri di accoglienza? "Né agli uni, né agli altri". A una specifica domanda di Lilli Gruber sul fatto che la Lega chiede o meno il voto ai neofascisti, Salvini ha risposto: "Io chiedo il voto a sessanta milioni di Italiani, non mi interessa il voto dei #naziskin, non chiedo il loro voto. La gente voterà per noi perché siamo l'unico argine all'#immigrazione clandestina, ma lo facciamo senza far casino andando in giro coi fumogeni a interrompere le riunioni o minacciare i giornalisti: noi lo facciamo coi Sindaci e con i Governatori. Noi portiamo avanti il "prima gli italiani" democraticamente. Penso ai terremotati e ai disabili, non mi interessano le pagliacciate: le violenze vanno condannate da qualsiasi parte arrivino. Che ci sia un problema sull'immigrazione clandestina è un problema evidente". Mentre alla domanda della conduttrice, se si senta più vicino ai naziskin che hanno fatto irruzione a Como oppure ai volontari dei centri di accoglienza, Salvini ha risposto: "Né agli uni, né agli altri. Perché non si interrompono le riunioni altrui e non si entra in casa altrui senza essere invitati, così come non stanno facendo un buon servizio agli italiani e agli immigrati perbene tutte quelle associazioni e cooperative che dicono 'avanti tutti'. Io non ho la testa rasata e non entro in casa altrui, il fascismo e il comunismo sono morti e condannati della storia. Vanno condannati tutti quelli che usano violenza, come gli anarchici che oggi hanno lanciato una bomba davanti a una stazione dei carabinieri". Riguardo all'avvicinamento alla destra più radicale verso le prossime elezioni, Salvini ha detto: "Ma davvero si pensa che ci sia il pericolo del fascismo e del nazismo in Italia? Si pensa che nel 2018 ci sia l'invasione dei fascisti, degli alieni o dei russi? Io non credo. Io escludo che ci sia il pericolo del fascismo, del nazismo e del comunismo in Italia. Punto a capo. Anzi ritengo che qualcuno usi questi argomenti per non parlare di altri problemi: tasse, mutui, lavoro e pensioni. Comunque mi ha fatto specie anche il sindaco di Milano che si è fatto il selfie col pugno chiuso: il comunismo ha fatto centinaia di milioni di morti. Lasciamo stare fascismo e comunismo, torniamo alla vita vera".

Fascisti e comunisti sono tornati (e se li ghettizzate gli fate un favore). Anche in Italia, così come in tutta Europa, le ideologie simbolo del Novecento, che credevamo sepolte dalla Storia, stanno tornando. Chi pensa basti ignorare o reprimere, però, commette un grave errore. Farci i conti vuol dire innanzitutto ragionare sulle cause che le hanno rigenerate, scrive Francesco Cancellato su “L’Inkiesta” il 5 Dicembre 2017. «Il problema vero non sono quattro ragazzi, ma l'immigrazione fuori controllo». Così Matteo Salvini ha commentato l’irruzione compiuta qualche giorno fa dai militanti del Veneto Fronte Skinhead a Como, durante una riunione della rete di associazioni impegnata nell’assistenza ai migranti. Un’affermazione sgradevole, non c’è dubbio. Strumentale, sicuramente. Ma con un fondo di verità che faremmo bene a non sottovalutare e, anzi, a piantarci bene in testa. Che anziché scandalizzarci degli effetti, dovremmo occuparci delle cause che scatenano fenomeni politici nuovi. Ecco, per l’appunto: l’ascesa delle destre nazionaliste e xenofobe a discapito delle destre liberali è un fenomeno politico nuovo. Così come lo è, del resto, pure l’ascesa delle sinistre radicali e anti-sistema. Così come lo è, pure, la nuova improvvisa popolarità di istanze autonomiste e indipendentiste come quelle scozzesi, catalane, corse, lombardo-venete. Fate pure finta di non vederle, ma questo è quel che sta accadendo. Chiamatelo come volete, destra e sinistra, fascismo e socialismo, coscienza di luogo e coscienza di classe, ciò che credevamo irrimediabilmente novecentesco e sepolto dalla Storia sta tornando. A destra, con Orban e Jobbik in Ungheria, Duda in Polonia, Alba Dorata in Grecia, Marine Le Pen in Francia, Alternative fur Deutschland in Germania. E a sinistra, con Tsipras e Varoufakis in Grecia, Pablo Iglesias e Podemos in Spagna, Antonio Costa in Portogallo, Jean Luc Melenchon in Francia. Ognuno di loro non è che un frammento - grande o piccolo, giovane o vecchio, con molteplici gradazioni di estremismo - di un medesimo fenomeno continentale. Figlio a scoppio ritardato dello scongelamento dell’Europa a seguito della caduta del muro di Berlino, e poi della globalizzazione e dalla doppia recessione del 2008 e del 2011: l’allargamento dello spettro politico oltre i confini della liberaldemocrazia e della socialdemocrazia e delle loro ormai endemiche grandi coalizioni. È un problema? Sì, lo è. Perché queste due ideologie - e lo sappiamo bene, l’abbiamo vissuto – portano fisiologicamente con loro lo scontro sociale, azione e reazione, tra popoli o tra classi, tra cittadini e stranieri, tra poveri e ricchi, giusti o sbagliati che siano. E a noi europei occidentali che abbiamo vissuto cinquanta e rotti anni di pace – anni di piombo esclusi, Jugoslavia esclusa - e che pensavamo di perpetrare questa condizione sine die grazie alla chimera dell’Europa Unita, ci ritroviamo al punto di partenza, spaventati e inorriditi dall’inevitabile ciclicità della Storia, maestra di vita fino a un certo punto. Spoiler: quell’Europa è morta. Ed è finita la nostra infanzia felice di popoli rinati dalle ceneri di due conflitti mondiali. Oggi siamo nel pieno di una turbolenta adolescenza senza punti di riferimento, né ancoraggi sociali, siano essi la fabbrica, la famiglia, il partito, il popolo, la nazione, la razza. Siamo meticci e inermi. E poco ci importa, in fondo, se il mondo nel suo complesso sta meglio, se l’economia gira, se non c’è mai stato tanto lavoro, se tutto sommato si tiene botta con l’assistenza sociale più generosa del pianeta e una speranza di vita che tira verso i cento anni, inimmaginabile solo poche decine di anni fa. È il come che non funziona e ci destabilizza. Perché siamo inermi di fronte a processi più grandi di noi – la libera circolazione dei soldi, delle merci, delle persone, delle fabbriche – e perché affrontiamo tutto questo da soli, incapaci di trovare una rappresentazione collettiva in cui rifugiarci. Spoiler: quell’Europa è morta. Ed è finita la nostra infanzia felice di popoli rinati dalle ceneri di due conflitti mondiali. Oggi siamo nel pieno di una turbolenta adolescenza senza punti di riferimento, né ancoraggi sociali, siano essi la fabbrica, la famiglia, il partito, il popolo, la nazione, la razza. Siamo meticci e inermi. E poco ci importa, in fondo, se il mondo nel suo complesso sta meglio. Ed ecco allora che tutto torna: le vecchie bandiere, i vecchi slogan, le vecchie ideologie. Non solo a destra, peraltro: dal nuovo, vecchio Labour di Jeremy Corbyn che anche nella sua iconografia riprende i temi e le immagini delle antiche lotte sindacali degli anni ’70 e ’80, prima che Blair rompesse con le Trade Union, sino alla testuggine di Casa Pound, le bandiere prussiane che sventolano nei cortei tedeschi e troneggiano appese nelle caserme fiorentine, la bandiera verde della falange nazional radicale polacca degli anni ’30, dalle forti connotazioni antisemite, sventolata nel maxi corteo di Varsavia contro l’invasione straniera – in un Paese che ha meno del 2% di stranieri residenti – dello scorso 11 novembre. Spoiler, parte seconda: l’approdo alla nostra età adulta, l’esito della nostra perturbante adolescenza, dipende da come sapremo reagire a questi sommovimenti. Di fronte abbiamo due strade, nessuna delle quali è esente da rischi. Se li ghettizzeremo come scarti del passato, se ne negheremo la cittadinanza politica fino a escluderli da ogni rappresentazione politica e mediatica, se rifiuteremo di misurarci con loro, daremo loro un formidabile strumento di legittimazione tra le masse impaurite, rancorose e rabbiose. Se invece daremo loro piena legittimità a esistere, accettando il confronto con le loro idee e con le loro ricette estreme dovremo essere capaci, da liberaldemocratici e socialdemocratici, di essere all’altezza del dibattito. Altrimenti, senza scomodare il passato, rischiamo di finire come l’Ungheria e la Polonia. Non è una scelta semplice, ma la risposta giusta esiste ed è la seconda. Perché ci impone di agire sulle cause dello stato in cui siamo, anziché semplicemente biasimarne gli effetti. Intendiamoci: agire sulle cause non vuol dire non reprimere chi predica o pratica la violenza e l’intolleranza verso le idee altrui. Nè vuole dire, banalmente, buttare a mare la globalizzazione e il libero mercato. Né chiudere le frontiere e rispedire tutti i migranti a casa loro. Al contrario, consiste nel guardare in faccia alla realtà, nell’accettare il fatto che qualcosa non abbia funzionato, che la Storia non è finita, che il malessere ha più di qualche fondamento. E avere il coraggio di correggere quel qualcosa che non va, anche a costo di generare nuovi squilibri, anche a costo di buttare a mare qualche dogma e qualche certezza. Ad esempio, far pagare le tasse ad Apple e Amazon è una buona idea, tanto per cominciare. E organizzare un sistema di accoglienza dei richiedenti asilo come si deve, senza lasciare che sia un prefetto che decida di ammassarli a caso nell'albergo o nel rudere sfitto del primo palazzinaro che si offre volontario, pure. Non abbiamo abbastanza lungimiranza, né tantomeno una visione politica all’altezza di questa sfida, ma sappiamo che va affrontata. Per farlo bisogna ascoltare pure loro, i nuovi estremisti? Probabilmente sì. È necessario dialogarci, anche a costo di diventarne cassa di risonanza? Altrettanto. È rischioso? Sì, molto. Ma non c’è adolescenza che non lo sia. E non c’è adulto che è realmente tale senza esserci in qualche modo passato in mezzo. Oggi tocca a noi. Prima ce ne facciamo una ragione, meglio è.

Il vero fascismo. Che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri, da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice: era di sinistra, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 08/12/2017, su "Il Giornale". Devo ricredermi, ha ragione La Repubblica a lanciare l'allarme su un pericoloso rigurgito di fascismo in Italia. Ma non perché - come enfatizza il quotidiano diretto da Mario Calabresi - cinque cretini di Forza Nuova leggono un volantino in un centro culturale pacifista e altrettanti agitano fumogeni sotto la sede del suo giornale mascherati manco fosse carnevale. Stiamo diventando un Paese fascista perché un anziano e malato detenuto viene tenuto in carcere nonostante i medici abbiano certificato che le sue condizioni di salute sono senza dubbio incompatibili con il regime di detenzione. Anzi, per la verità Mussolini gli oppositori politici li mandava al confino nella splendida isola di Ventotene o in esilio, come capitò anche a Indro Montanelli, futuro fondatore di questo Giornale. La decisione di ieri del tribunale di sorveglianza di negare cure adeguate in luoghi adeguati a Marcello Dell'Utri, 76 anni, malato di tumore e ad alto rischio cardiopatico, suona come una condanna a morte di Stato. Condanna che l'imputato ha accettato annunciando di sospendere volontariamente e da subito anche le poche terapie che gli vengono somministrate in carcere. Noi quella condanna non la accettiamo e la cosa dovrebbe fare inorridire anche i sinceri democratici antifascisti che si agitano tanto per le pagliacciate di quattro ragazzotti in cerca di pubblicità (facendo così peraltro il loro gioco) ma che appaiono indifferenti alle violenze fasciste della giustizia. Tanto accanimento, direi odio, nei confronti di Dell'Utri non può che avere radici politiche, perché il codice penale permetterebbe ben altre soluzioni. Tipo quelle trovate per Adriano Sofri, icona della sinistra salottiera e rivoluzionaria, che condannato per l'omicidio del commissario Calabresi (padre dell'attuale direttore della Repubblica) scontò metà di una misera pena (15 anni) nel comodo di casa sua per «motivi di salute». Chiedo ai signori giudici: che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri (che per di più non ha mai ucciso nessuno), da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice. Sofri era di sinistra (e che sinistra), Dell'Utri è stato a lungo il braccio destro di Berlusconi, e per questo può morire in cella come un cane. Se dovesse succedere, e mi auguro di no, chiunque può fare qualche cosa per fermare questo «fascismo» giudiziario - dal ministro della Giustizia al presidente della Repubblica - e se ne lava le mani dovrà risponderne. Agli uomini liberi da pregiudizi e alla propria coscienza, per tutta la vita.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate.

Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa.

Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno.

L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa in considerazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.

"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo

In Italia - Fabri Fibra 

Ci sono cose che nessuno ti dirà… 

Ci sono cose che nessuno ti darà… 

Sei nato e morto qua 

Nato e morto qua 

Nato nel paese delle mezza verità 

Dove fuggi? In Italia 

Pistole in macchine in Italia 

Machiavelli e Foscolo in Italia 

I campioni del mondo sono in Italia 

Benvenuto in Italia 

Fatti una vacanza al mare in Italia 

Meglio non farsi operare in Italia 

Non andare all'ospedale in Italia 

La bella vita in Italia 

Le grandi serate e i gala in Italia 

Fai affari con la mala in Italia 

Il vicino che ti spara in Italia 

Ci sono cose che nessuno ti dirà… 

Ci sono cose che nessuno ti darà… 

Sei nato e morto qua 

Sei nato e morto qua 

Nato nel paese delle mezza verità 

Dove fuggi? In Italia

I veri mafiosi sono in Italia 

I più pericolosi sono in Italia 

Le ragazze nella strada in Italia 

Mangi pasta fatta in casa in Italia 

Poi ti entrano i ladri in casa in Italia 

Non trovi un lavoro fisso in Italia 

Ma baci il crocifisso in Italia 

I monumenti in Italia 

Le chiese con i dipinti in Italia 

Gente con dei sentimenti in Italia 

La campagna e i rapimenti in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà… 

Ci sono cose che nessuno ti darà… 

Sei nato e morto qua 

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità 

Dove fuggi? In Italia 

Le ragazze corteggiate in Italia 

Le donne fotografate in Italia 

Le modelle ricattate in Italia 

Impara l'arte in Italia 

Gente che legge le carte in Italia 

Assassini mai scoperti in Italia 

Volti persi e voti certi in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà… 

Ci sono cose che nessuno ti darà… 

Sei nato e morto qua 

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità 

Dove fuggi…Dove fuggi...

La bandiera neonazista, scrive il 4 Dicembre 2017 maicolengel su "Butac". Durante il weekend mi avete chiesto in tanti di trattare la storia della bandiera definita neonazista dalle tante testate che hanno riportato il fatto. BUTAC, come sa la maggioranza de lettori abituali, da sempre, se non per qualche commento da moderare, durante il weekend va in vacanza. Nel frattempo si era già adoperato l’amico e collega David Puente, con l’aggiornato articolo che potete trovare qui. Per quelli che non hanno la più pallida idea di cosa si stia parlando facciamo un passo indietro. Sabato su moltissime testate appare la notizia che a Firenze, nella caserma Baldissera, sarebbe stata trovata una bandiera neonazista.  La notizia non è sbagliata, non è una bufala come tanti sembrano sostenere, è corretto definire la bandiera imperiale del Reich una bandiera neonazista visto che è usata abitualmente nei cortei xenofobi e neonazisti tedeschi. Non sono io a dirlo, e neppure il buon David, ce lo racconta la stessa NATO, che nel suo articolo sulla propaganda e la disinformazione online pubblica la foto qui sopra con questa didascalia: Supporters of anti-immigration rightwing movement PEGIDA (Patriotic Europeans Against the Islamisation of the West) carry various versions of the Imperial War Flag during a march in Cologne, Germany, in January 2016. © Reuters. La Ministra della difesa Roberta Pinotti si è subito espressa in merito tramite la sua pagina Facebook: La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l’Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera neonazista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso. È un’offesa a tutte le donne e gli uomini dei Carabinieri e delle Forze Armate che quotidianamente condividono i valori della democrazia. Ho trovato gente in giro accusarla di aver detto una bufala visto che quella non è la bandiera del Terzo Reich, ma lei non aveva minimamente menzionato un Reich preciso, e quella è la bandiera del Secondo Reich. L’errore che aveva fatto era nella prima versione di quel post, in cui aveva scritto: Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ma il testo è rimasto così per soli sei minuti, venendo subito corretto con quel “neonazista” che avete visto sopra. Sia chiaro, è vero che storicamente parlando non rappresenta l’ideologia nazista, ma poco importa, la bandiera viene usata oggi perlopiù in quel contesto. Ci sono altre curiosità che vanno raccontate, nel video de Il Sito di Firenze, che per primo lanciava la storia, viene mostrata meglio la parete in questione, a fianco della bandiera imperiale appare anche un poster, quello di Call of Salveenee. Per chi non l'avesse mai sentito nominare si tratta di un gioco dove il personaggio da interpretare è Salvini che va al salvataggio dei Marò. Non è una mitizzazione del personaggio ma nella testa dell'autore si tratta di una presa in giro, peccato non tutti se ne rendano conto. La Lega stessa si sentì offesa dal videogioco. Nei commenti al post di Roberta Pinotti troviamo: Signora Pinotti, tutto bello, ma quella NON é una bandiera nazista, ma la bandiera di guerra del paese con il quale eravamo alleati nella Terza Guerra di Indipendenza, paese senza il quale il Veneto non sarebbe mai tornato sotto il tricolore, ed il poster é il poster di un videogame. Cosí, tanto per dire che ha preso una cantonata pazzesca e dovrebbe quanto meno chiedere scusa ai Carabinieri che sta mettendo in croce totalmente a caso con accuse addirittura di nazismo. Ma il meglio viene dall’articolo de Il Giornale, dove viene esposto in maniera corretta cosa sia quella bandiera e come venga usata oggi, ma nei commenti chi si è limitato a leggere il titolo o poco più si è espresso così: Solo qualche demente (persona priva di senno) poteva confondere la bandiera della Marina da guerra tedesca con una bandiera nazista. Che poi questa bandiera venga usata da degli imbecilli (persone con scarsa capacità di discernimento) negli stadi per sostenere la propria squadra non significa nulla se non la loro insipienza. Io utilizzo sempre la bandiera rossa, avendola posta nel mio bagno privato, per detergermi le terga dopo avere espletato le mie funzioni fisiologiche mattutine, mentre le bandiere della R.S.I. e della X MAS hanno il loro posto d’onore, sopra il camino nel mio soggiorno, ai lati del busto del Duce. Camerateschi saluti! La domanda che sorge spontanea è: chi ha attaccato quel poster l’ha fatto conscio della presa in giro? O l’ha attaccato convinto si tratti di mitizzazione del populismo Salviniano? E la bandiera? Il ragazzo colpevole dei fatti si è così giustificato in tarda serata come riportano il Corriere e altre testate: «Mi sono iscritto alla facoltà di Storia dell’università La Sapienza di Roma e voglio laurearmi lavorando. Quella bandiera per me rappresenta solo un periodo storico al quale mi sono appassionato, niente di più. Chiedo scusa se ho violato i regolamenti”. Ognuno a mio avviso può avere quello che gli pare appeso in camera propria (se di quella si tratta), basta che dimostri coi fatti di essere una persona al di sopra d’ogni sospetto di ideologie estremiste. Io ho un poster di un convegno delle scie chimiche nel BUTACbunker, ma questo vi posso assicurare che non significa che creda nell’esistenza delle stesse. Però il cielo è sempre più striato, non trovate?

Firenze, bandiera neonazista nella caserma dei Carabinieri. Una bandiera usata dai gruppi neonazisti appesa in un alloggio della caserma dei carabinieri, a Firenze e visibile dalla strada con una sciarpa della Roma e un fotomontaggio del leader della Lega Matteo Salvini. Il video, pubblicato da Matteo Calì de "Il sito di Firenze", ha subito fatto nascere un'indagine interna nella caserma Baldissera. Il giovane militare proprietario della bandiera ora rischia pesanti sanzioni disciplinari ed eventuali conseguenze penali. Sulla vicenda è intervenuta, durissima, anche la ministra della difesa Pinotti: "La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l'Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l'esposizione della bandiera neonazista all'interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso". Video pubblicato su “Repubblica Tv del 2 dicembre 2017

Bandiere naziste o bandiere delle Marina imperiale tedesca, quando l’ignoranza vince e diventa una bufala, scrive Simone Spiga il 3 dicembre 2017. Un giornale online di Firenze ha accusato l’arma dei Carabinieri che all’interno di una caserma, la Baldissera, vi sia una bandiera utilizzata dai gruppi neonazisti di tutta Europa e subito è scoppiato in caos in tutta Italia. Interventi di ministri, intellettuali, giornalisti e opinionisti di ogni genere. Peccato, però, che la bandiera in questione era dell’Impero Tedesco: una monarchia costituzionale e potenza economica nata nella seconda metà del XIX secolo ed opera del cancelliere Bismarck. La Kaiserliche Marine o Marina imperiale fu la marina militare creata alla formazione dell’Impero tedesco. Esistette fra il 1871 ed il 1919, prendendo avvio dall’unificazione fra marina prussiana e marina della Confederazione Tedesca del Nord (Norddeutsche Bundesmarine). Ovviamente ci si chiede che ci facesse una bandiera del genere in una caserma dei Carabinieri, ma questa è una domanda che ha una sola risposta, l’ignoranza, anche questa volta sovrana.

Come ti creo una fake news: la “bandiera nazista” nella caserma dei Carabinieri, scrive il 3 dicembre 2017 "Primato nazionale". Non bastasse la spiaggia fascista di Chioggia – che nonostante la cagnara mediatica sollevata la scorsa estate ha visto il titolare venire assolto con formula piena – ora arriva il nuovo allarme: la bandiera nazista (o neonazista a seconda delle interpretazioni) in una caserma dei Carabinieri. Siamo a Firenze, la caserma (in realtà l’alloggio di un militare) è la Baldissera sul lungarno Guglielmo Pecori Giraldi e il video di questa presunta bandiera, diffuso dalla pagina Il Sito di Firenze, è immediatamente ripreso e amplificato da tutti i quotidiani italiani. “Firenze, bandiera neonazista dentro la caserma dei carabinieri”, titola Repubblica. “Bandiera nazista in una caserma dei carabinieri di Firenze”, rilancia La Stampa. “Firenze, “bandiera nazista appesa nella caserma dei carabinieri”. La Pinotti: “Chiarimenti rapidi e misure rigorose””, chiosa Il Fatto Quotidiano. Ed ecco che la fake news targata repubblica è bell’e confezionata. Con codazzo di polemiche e vesti stracciate: da Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana che reputa “indecente che una bandiera neonazista sia esposta in una caserma dei carabinieri a Firenze”, al ministro della Difesa Pinotti che definisce “grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei carabinieri”, chiedendo “chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso”. Peccato che la bandiera nazista – o neonazista, o addirittura “simbolo – si legge – di gruppi neonazisti antisemiti” – sia tutto tranne che una bandiera nazista. A meno di non voler retrodatare – ma dalle parti delle redazioni e non solo devono avere qualche problema con la cronologia storica – l’ascesa del partito nazionalsocialista fino ad inizio secolo. Perché quella bandiera, in realtà, è la bandiera della Kaiserliche Marine, la marina imperiale tedesca, creata dal kaiser Guglielmo II e in servizio dal 1871 fino alla sconfitta nella prima guerra mondiale. Siamo dunque ben lontani sia dal 1933 che, a voler essere generosi, anche dal Putsch di Monaco del 1923 quando Hitler si affacciò per la prima volta sulla scena politica di Germania. Un po’ troppo per associare la bandiera incriminata al nazismo o al neonazismo. Ma in tempi di fake news e di ministero della Verità, sembra bastino tre colori – un nero un bianco e un rosso – disposti in un qualche ordine per montare subito il caso. Anche se questo fa a pugni con la storia.

Fake news della Pinotti: "Bandiera neonazista". Ma è stemma prussiano. Il ministro contro il carabiniere di Firenze che espone il vessillo. Ma il caso si sgonfia, scrive Massimo Malpica, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". Una bandiera tedesca della prima guerra mondiale appesa al muro. Subito sopra, una sciarpa della Roma. Lì accanto il poster di un videogame ironico ispirato al leader leghista Salvini (Call of Salveenee) che tra l'altro prende per i fondelli proprio il politico lombardo. Si può certamente discutere sulle scelte d'arredamento, sulla coerenza stilistica, sull'intelligenza e sul senso dell'opportunità del giovane carabiniere che vive in quella stanza della caserma Baldissera di Firenze, ma forse evocare il pericolo dell'«onda nera» per una bandiera di cent'anni fa appesa sopra al letto può risultare ridicolo, in un mondo dove - in molte curve di stadi, per dirne una - fanno bella mostra di sé svastiche e simboli nazisti propriamente detti. E invece quel video girato dalla strada e pubblicato da un sito fiorentino ha scatenato un putiferio. È arrivata a scomodarsi persino il ministro Pinotti, attaccando il militare sbandieratore con notevole violenza verbale: «Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle forze armate essendo venuto meno a quel giuramento». Non è scontato che alla Pinotti sia chiaro di quale Reich sia quel simbolo. Probabilmente pensa che sia il Terzo, perché il ministro insiste e definisce «grave» l'esposizione in una caserma dei carabinieri di una «bandiera nazifascista». Ma quello immortalato è in realtà il vessillo di guerra del Secondo Reich, dunque non certamente un simbolo della Germania nazista: niente svastiche, ma l'aquila prussiana al centro di una croce nera su fondo bianco, con la croce nordica con il tricolore rosso bianco-nero imperiale tedesco nel quarto superiore sinistro. Più coerente, insomma, accusare il carabiniere di «tradimento» del giuramento di fedeltà alla Nazione. «Quella» Germania, in effetti, era nostra nemica sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. Dunque di intelligenza col nemico (passato) il ministro può certamente parlare. Fake news, dunque? Dipende dai punti di vista. Perché anche se col regime nazista quel simbolo c'entra poco, è anche vero che da tempo i gruppi neonazisti non disdegnano di accostare la Reichskriegsflagge alle bandiere con la svastica, visto che già negli anni della Repubblica di Weimar il vecchio vessillo era usato con entusiasmo da revisionisti e ultra-destra contro il governo in carica. Tanto che, oggi, non è difficile vedere anche quella bandiera tra le svastiche appese in curva, per esempio in quella dei tifosi romanisti. Probabilmente perché in Germania ancora oggi le bandiere con la svastica sono proibite, mentre quella non lo è, ed è dunque tra le preferite anche dai gruppi neonazisti tedeschi. Guarda caso, proprio la sciarpa giallorossa appesa su quel muro potrebbe spiegare dove il carabiniere abbia trovato ispirazione per decorarsi l'alloggio. Più che sui libri di storia, all'Olimpico. Certo, un simbolo come quello non dovrebbe trovare spazio all'interno di una caserma. Ma utilizzare il caso per rilanciare lo spauracchio dell'«onda nera» appare strumentale. Se invece della Kriegsflagge imperiale il militare avesse appeso la bandiera Confederata, che pure negli Usa è al centro di dibattiti e polemiche, la Pinotti avrebbe accusato il carabiniere di suprematismo bianco? E quella foto «rubata» dalla finestra avrebbe fatto tanto rumore?

Una bandiera del Kaiser fa impazzire la sinistra, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". In una caserma dei carabinieri di Firenze «è spuntata» una bandiera con croce nera in campo bianco, al centro aquila imperiale. Nel quarto alto una croce (...) (...) ferrea si sovrappone ai colori dell'Impero tedesco (quelli in uso dal 1867 al 1918). È subito partita una polemica al vetriolo, tutta incentrata sul fatto che sia un simbolo neonazista. Tolto l'ovvio assunto che in una caserma italiana è meglio che ci sia solo il vessillo italiano, quello europeo - se e quando previsto - e poco altro, va però detto che una bandiera è un sacco di cose, molte delle quali stanno solo negli occhi di chi guarda. Per rendersene conto basterebbe dare una sfogliata ad un recente e bel saggio di Bruno Cianci intitolato La stoffa delle nazioni: storie di bandiere (Odoya, 2016). Limitandoci al contingente, però, la prima cosa da dire è la seguente: quella bandiera è la bandiera da guerra dell'Impero tedesco (sembrerebbe nel formato utilizzato dalla Kaiserliche Marine, la marina militare del Kaiser) che l'ultima volta sventolò, ufficialmente, nel corso della Prima guerra mondiale. L'aquila è quella che campeggiava sulla bandiera Prussiana, la croce nordica riprende i colori e la tradizione dei cavalieri teutonici, così come l'altra piccola croce posta in alto sui colori imperiali. È considerabile, di per sé, un simbolo neonazista? No, esisteva quando il nazismo non era nemmeno un'idea. Sì, certo, qualche gruppo di estrema destra l'ha utilizzata per aggirare i vari divieti all'utilizzo di veri simboli del Terzo Reich. Insomma, in mancanza di meglio si sono aggrappati al Secondo Reich (incuranti del fatto che un qualunque junker prussiano li considererebbe, con tutta probabilità, solo plebaglia rumoreggiante). Questa però è solo la prova di quanto siano inutili le norme, sempre aggirabili, di cui la proposta legislativa di Emanuele Fiano vorrebbe condensare i rigorismi più inutili. Nulla ci dice sulle intenzioni di chi quel vessillo, che nazista automaticamente non è e nemmeno automaticamente è considerabile di ultradestra, ha appeso. Se al posto di quella fosse stata esposta la bandiera gigliata della Marine Royale (che, per quanto più elegante, sarebbe sempre meglio non esporre in una caserma italiana) si potrebbe accusare, senza altra prova, chi la espone di essere un fanatico dell'antico regime e di Luigi XVI? Di complottare contro la democrazia? La risposta è probabilmente no, in questo caso come nel precedente. Si è insomma costretti a dover indovinare cos'è quella bandiera per chi la guarda. Un esercizio spesso faticoso e inutile. Allora forse meglio insistere senza troppi isterismi sul fatto che nei luoghi pubblici il nostro tricolorino (qui scritto con lo stesso diminutivo affettivo che usava Cavour) basta e avanza. Per il resto la caccia ai simboli lascia il tempo che trova. Se espongo un fascio littorio in campo verde magari sono un neofascista daltonico (o pusillanime) ma magari amo solo il cantone di San Gallo (Svizzera) che lo ha come simbolo. E non può deciderlo nessuno.

Bandiera prussiana, il carabiniere: "Non sapevo fosse neonazista". Il carabiniere si difende. Avviata un'indagine interna e una dalla procura militare. Inviata una relazione alla magistratura ordinaria, scrive Luca Romano, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". La bandiera della marina militare prussiana affissa in una stanza della caserma Baldissera a Firenze ha fatto parecchio discutere in questi giorni. Dopo le polemiche, parla il carabiniere che ha deciso di esporla e prova a spiegare il motivo della sua scelta: "Non sapevo che fosse un simbolo neonazista". Questa la giustificazione fornita ai suoi superiori. Il militare è un carabiniere in ferma breve ed è originario di Rieti. Il militare avrebbe anche chiesto scusa per quel gesto e ha anche rivelato di essere un appassionato della storia della prima guerra mondiale e di avere così acquistato sul web il vessillo contestato. Il carabiniere frequenterebbe anche l'università La Sapienza e l'interesse per quel periodo storico potrebbe essere nato proprio durante i suoi studi. Intanto a quanto pare sarebbero già scattati alcuni accertamenti interni per valutare l'ipotesi di una sanzione disciplinare. Il comandante del sesto battaglione, il tenente colonnello Alessandro Parisi ha definito "grave il comportamento posto in essere dal militare". Anche la procura militare ha predisposto l'avvio di un'indagine. Infine è stata anche inviata una relazione alla magistratura.

Roberta Pinotti: Fake News dal Ministero della Difesa, scrive Nicolò Gebbia il 4 dicembre 2017. Voyerismo di Stato e Fake News, altro non è l’accanimento a cui stiamo assistendo in queste ore da parte di media e politica per la bandiera esposta nella caserma Baldisserra, sul lungarno a Firenze. Dodici euro e 37 centesimi. Questa la somma pagata su ebay per acquistare e farsi spedire dall’Inghilterra, Epic Outdoor il venditore, la bandiera nazista che un carabiniere ventenne aveva appeso sopra la sua branda, nella stanzetta che condivideva con altri 3 giovani colleghi, effettivi come lui al Sesto Battaglione Carabinieri, di stanza a Firenze. Le vendono su internet solo dall’Inghilterra, notoriamente paese d’origine del nazismo. Peccato che non si tratti di una bandiera nazista, ma del vessillo della marina militare prussiana fino al 1919. Quella Prussia con la quale combattemmo come alleati la terza guerra d’indipendenza, contro l’impero austroungarico. Noi fummo sconfitti sul campo, mentre i nostri alleati, vittoriosi, ci cedettero il Veneto, che l’Austria rifiutò di concedere direttamente ad un nemico che aveva vinto militarmente, soprattutto con la sua flotta, nella battaglia di Lissa, al termine della quale l’ammiraglio Teghetoff, rivolgendosi al suo equipaggio dal ponte di comando, gridò “FIOI, GHAVEMO VINTO.” Ed i marinai lanciarono in aria il loro berretto, urlando VIVA SAN MARCO. Infatti la flotta austriaca era tutta formata da veneziani e triestini. Che diffusione ha questa bandiera in Germania? Su ogni nave militare ce ne è in dotazione una, che viene issata una volta l’anno, in occasione dell’anniversario della più grande battaglia navale della storia, quella dello Jutland, nella quale la flotta prussiana, grande la metà di quella inglese, inflisse ad essa perdite pari al doppio di quelle che subì. La stessa bandiera è molto presente anche all’annuale festival musicale di Bayereuth, sventolata dagli appassionati wagneriani. Ora che la cappellata è stata commessa, si cerca di accreditare quella bandiera come simbolo criptico del neonazismo, ma è una fake new. Sfugge a tutti, comunque, la cosa più grave, il voyeurismo di stato. Quello che ha avallato uno scatto carpito di nascosto per chiedere a quel povero ventenne contezza dei suoi gusti più privati. Arrivati a questo punto mi sembra doveroso completare l’indagine, chiedendogli delle sue tendenze sessuali. Perché è evidente che se preferisce gli uomini, questo è un ulteriore indizio del suo neonazismo, atteso che, a partire da Hitler stesso, i nazisti puri e duri erano tutti gay. Quale sarà’ la conseguenza indesiderata di ciò? Quel carabiniere si affitterà una stanza fuori dalla caserma, dentro la quale non resterà a dormire più nessuno. In caso d’emergenza lui e tutti gli altri bisognerà’ cercarli a casa propria, come si faceva ai miei tempi con il Piano di recupero ammogliati, visto che i celibi avevano l’obbligo di pernottare in caserma. Ministra Pinotti, ora che ti abbiamo scoperta voyer, noi carabinieri d’Italia ti preghiamo di completare l’opera con un sopralluogo in viale Romania, al nostro Comando Generale, nei cui corridoi vedrai campeggiare una bandiera dell’Italia fascista. E’ quella del Primo Gruppo Carabinieri Mobilitato, sterminato in Etiopia nel 1941 dalle truppe del Commonwealth. Quando fu fatto prigioniero il Duca D’Aosta, gli inglesi gli chiesero di consegnare loro l’unica bandiera britannica mai caduta in mano nostra, quella del governatorato di Berbera, preda bellica del generale Nasi. In cambio gli fecero scegliere una delle tante dei nostri reparti sconfitti. Lui volle quella dei carabinieri perchè considerava il loro sacrificio un gesto di eroismo collettivo irripetibile. Ma quando il Duca morì in Kenia, della bandiera non si trovò traccia. Solo trent’anni dopo, una distinta signora sudafricana, adempiendo alle volontà’ testamentarie del marito, il maggiore Grey, ce la restituì’. Appredemmo così che Gray l’aveva rubata al Duca perchè, scaramanticamente, riteneva che finche’ essa fosse rimasta in mano britannica, l’Inghilterra nulla avrebbe avuto più a temere dall’Italia. Ricordo che al comandante del battaglione, il maggiore Serranti, il soldato keniota che lo trucidò, strappò il cuore dal petto e se lo mangiò, nel convincimento tribale che in tal modo il coraggio del nemico sarebbe transitato a lui. Anche dalla parte di noi carabinieri, una buona metà era rappresentata da soldati di colore, che andavano all’assalto gridando PER IL DUCE E PER ALLAH. Onorevole Fiano, quando lo chiuderemo questo covo di pericolosi fascisti? A quando la riunificazione sotto il nome di POFICA, polizia finanza e carabinieri?

La bufala della bandiera prussiana dimostra la morte della stampa di centrodestra, scrive Augusto Grandi il 4 dicembre 2017 su "Il Secolo Trentino". Tutti indignati, sui social, contro l’ignobile bufala della bandiera prussiana spacciata per vessillo nazista dai media di servizio. Peccato che la disinformazione di regime se ne freghi dell’indignazione popolare e insista con le bufale dell’antifascismo militante. Con in testa il ministro Pinotti. E fa benissimo. Il regime dispone dei media ed è sacrosanto che li utilizzi per difendersi, per garantirsi il potere. L’unica arma rimasta, di fronte alla rabbia popolare per i disastri del governo, è rappresentata dall’antifascismo e, dunque, la utilizza in ogni occasione. Approfittando di tutti i media a disposizione. D’altronde chi ha impedito all’opposizione di dotarsi di giornali, radio, tv di successo? Nessuno, se non la totale stupidità e ignoranza di questa opposizione che ha preferito utilizzare i denari in modo diverso. Quando il centro destra era al governo non è stato capace di occupare la Rai con direttori e dirigenti di area, intelligenti e competenti. Non ha occupato le redazioni con i propri giornalisti. Non ha fatto crescere quotidiani di successo perché i giornali di centro destra puntavano solo al risparmio e non assumevano i migliori ma solo i più disperati che accettavano retribuzioni più basse. La qualità ne risentiva ed i giornali perdevano lettori. Nel frattempo Berlusconi puntava sull’ammiraglia di Canale 5 riempiendola di conduttori politicamente corretti e di giornalisti che oggi sostengono in modo indecente il governo Gentiloni dopo aver tifato spudoratamente per il bugiardissimo e prima ancora per Monti e Fornero. E più a destra? Spariti dalle edicole Il Secolo d’Italia e la Padania, niente radio e tv mentre i quotidiani online sono organi di partito e non di informazione. Però, di fronte alle proprie scelte ed alla propria incapacità, si attaccano gli avversari colpevoli di far bene il lavoro di disinformazione. Perché mai Repubblica, il Corriere o il Fatto quotidiano dovrebbero tutelare il centro destra se sono schierati su posizioni opposte? Se la bufala della bandiera nazista viene riproposta dal Tg5 senza che gli alleati protestino con Berlusconi significa che dell’informazione continuano a fregarsene, colpevolmente. Dunque dovremo rassegnarci a bufale continue per alzare il livello della tensione. Dovremo sorbirci le chiacchiere inutili di Mattarella a favore dell’invasione ed il suo silenzio sulle violenze compiute dagli allogeni a danno degli italiani, donne e bambini compresi. Ma si eviti di accusare i media di servizio perché svolgono il loro lavoro, appunto di servizio. E invece di dedicarsi all’onanismo intellettuale sulla modifica di un simbolo di partito, il centro destra si interroghi sulla propria incapacità di informare.

La Pinotti cambi mestiere perche è totalmente inopportuna nel gestire il Ministero della Difesa, io sto dalla parte del Carabiniere di Firenze, scrive il 5 dicembre 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". Fake news. In buona sostanza farse o meglio come scrive Marcello Veneziani, nel suo ultimo articolo, “il pericolo farsista”. La stampa politicamente corretta ha una fantasia smisurata, infinita, che questa volta colpisce un giovane carabiniere, di 23 anni ed iscritto alla facoltà di storia dell’Università La Sapienza di Roma, per aver esposto una “bandiera nazista” nella sua camerata di Firenze. Gli autori dello “scoop” del secolo, sulla falsa riga di quelli messi in piedi da L’Espresso su CasaPound ed affini, nonché parole al vento per delegittimare chi legittimamente si impegna ogni giorno nel sociale e nella politica a favore degli italiani, sono i tipi de Il sito di Firenze. Giornalisti d’avanguardia. Isaac Asimov intrisi di 1984. Passato, presente e futuro mischiati senza basi e senza senso. Facciamo un passo indietro e leggiamo cosa scrive Luigi Di Stefano sulle colonne de Il Primato Nazionale: “Già il primo giorno mentre sui media generalisti esplodeva il caso della bandiera nazista su Facebook i cultori di storia e gli esperti di araldica chiarivano che questa bandiera non è affatto nazista, ma il vessillo della marina militare del Kaiser introdotta nel 1871 (20 anni prima che Hitler nascesse) e dismessa nel 1919 (14 anni prima che Hitler salisse al potere)”. Pugno alla bocca dello stomaco dei pennivendoli che non conoscono la storia, ma pretendono di insegnare civiltà. Leggiamo ancora: “In realtà la bandiera incriminata è appunto il simbolo della tradizione prussiana tedesca ante Hitler, e se proprio la vogliamo simbolizzare è più corretto legarla al Conte Klaus Von Stauffenberg, il prussiano eroe di guerra che il 20 luglio 1944 piazzò una bomba sotto i piedi di Hitler, la famosa “Operazione Valkiria” organizzata dai vertici prussiani della Wermacth per porre fine alla guerra, gente del calibro di Ludwig Beck, Henning Von Tresckow, o lo stesso Erwin Rommel che non potendo essere giustiziato come gli altri cospiratori (circa 5.000 arrestati di cui circa 200 giustiziati) fu costretto al suicidio. E quindi semmai la bandiera esposta nella stanza di alloggio del giovane carabiniere può essere assunta a simbolo antinazista, non il contrario. E il carabiniere seppur giovanissimo lo sapeva, infatti ieri lo ha chiarito spiegando che avvolto in quella bandiera un ufficiale della marina tedesca si suicidò nel 1939 in opposizione alla decisione di Hitler a scatenare la II Guerra Mondiale”. Ma come la usano i “suprematisti” bianchi di PEGIDA non può che essere un vessillo hitleriano. L’abbiamo vista nelle curve infuocate dal Fascismo di ritorno degli anni 2000. Quindi? Non è una bandiera che fa rima con il Terzo Reich, caso mai con il Secondo. E tanti saluti ai professori senza abilitazioni. Non ci rimangano male i seguaci di Otto von Bismarck. Qualcuno è pronto a mettere in dubbio le mie citazioni, allora sfodero Enrico Mentana: “La bandiera tedesca esposta non può certo essere neonazista, visto che è quella militare della prima guerra mondiale. Comunque un nemico dell’Italia, ma in ogni senso tutta un’altra storia”, Facebook docet. Quanta fatica per chi vuole insegnarci ad essere perfetti interpreti della reductio ad Hitlerum, dove tutto ricade ai piedi del dittatore natio di Braunau am Inn. Isterici fricchettoni ripuliti con giacca e cravatta ci spigano cosa fare, cosa pensare, ma soprattutto di cosa ossessionarci. Pericoli estremisti ad ogni lato, la destra radicale che avanza e lascia senza fiato la libertà d’espressione. Facendo due rapidi conti ci accorgiamo che negli ultimi 72 anni, i fascisti non hanno governato neanche un giorno l’Italia, anzi, ed il leader che diceva di aver scritto “fascista in fronte”, Giorgio Almirante, raggiunse al massimo punte del 10% con il Movimento Sociale Italiano. Cacciatori di fantasmi, politici e personali. Accaniti usurpatori della libertà altrui, forse il reato più grave. Così come per gli skinhead di Como, che seppur truci e truculenti hanno dissentito pacificamente leggendo un comunicato stampa a chi, fattivamente, vuole veder sostituito il nostro popolo da una massa proveniente dai più disparati angoli del globo. Cacciatori di fantasmi dicevamo. Ghostbuster da blockbuster di serie C. Attori in cerca di successo, ma senza talento se non per le bugie. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”, a proposito di nazisti, visto che questa frase venne impropriamente attribuita a Joseph Göbbels. Intanto l’appartenente alle Forze dell’Ordine è stato messo spalle al muro, ma non tutti ci stanno. Celestino D’Angeli, presidente dell’Associazione Nuova Difesa, ha scritto: “Bisogna informarsi prima di richiedere provvedimenti così drastici, anche perché, prima di destituire un Carabiniere bisogna analizzare attentamente i fatti e avere motivi più che validi. Strumentalizzare un qualcosa ai fini politici è sbagliatissimo. Un ministro serio e competente dovrebbe prima di rilasciare dichiarazioni, appurare la veridicità di quanto si dice e informarsi a livello storico in questo caso. Non chiedere la testa di un appartenente alle forze dell’ordine ed in particolare di un appartenente ad un corpo che da sempre rappresenta uno dei fiori all’occhiello della nostra Nazione l’Arma dei Carabinieri e che Il ministro dovrebbe difendere, tutelare e proteggere non alla prima occasione delegittimare. I carabinieri come del resto tutti gli appartenenti al ministero della Difesa dovrebbero ritrovare nel proprio ministro un padre, un amico, una persona che lotta tutti i giorni per difendere quel comparto, dovrebbe amarlo e rispettarlo e non cercare appena possibile di delegittimarne gli appartenenti. Che vergogna! Fino a quando la politica sceglierà persone come il ministro Pinotti per guidare un comparto di cui non conosce proprio nulla, finiremo sempre a discutere di queste stupidaggini trasformandole in cose serie e delegittimando le istituzioni sane. Penso che ci sia una mentalità che tende a destabilizzare le Forze dell’Ordine, per far perdere loro credibilità, e denigrarle non dando loro più fiducia e lasciandole allo sbando. Fa veramente molto pensare che alla nostra classe politica, persone che dovrebbero rappresentare lo Stato, basti davvero così poco per inquisire le forze armate. Non basta una chiacchiera da bar per cacciare un carabiniere”. In questo marasma, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti ha gettato benzina sul fuoco, portando al pubblico ludibrio un uomo preposto alla tutela dello Stato, gettandolo in pasto ai pescecani benpensanti. “La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento”. Ma adesso bisognerebbe pensare ai giuramenti prestati nei confronti della Nazione, fatti dai nostri benemeriti politici, non ai vessilli appesi nelle camerate di giovani Carabinieri pronti a difendere, in ogni istanza, questo lembo di terra. 

Pinotti, alle sue spalle c'è una foto con l'ufficiale nazista: la polemica sul web, scrive il 7 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". A pochi giorni dal polverone sollevato per la bandiera del Secondo Reich nella stanza di un carabiniere a Firenze, la psicosi sulla caccia ai simboli nazisti ha travolto anche l'indignatissima ministra della Difesa Roberta Pinotti. Sull'esponente del Pd si sono scatenati centinaia di utenti sui social per una serie di foto istituzionali che hanno rivelato un'immagine, puntualmente alle spalle della ministra, non proprio in linea con la sua battaglia sul passato storico imbarazzante. Sulla parete del suo ufficio campeggia una foto con un ufficiale del Deutsche Afrika Korps, cioè il corpo di spedizione che nel 1941 provò ad aiutare gli alleati italiani contro l'Ottava armata inglese. Nello scatto dietro le spalle della Pinotti quindi non ci sono solo ufficiali italiani, seppur di epoca fascista. Come ha scoperto il Quotidiano nazionale, grazie alla consulenza di un esperto di uniformi, è emerso che in quella foto c'è anche un ufficiale nazista, un Oberleutnant, cioè un tenente. Sulla tasca destra, il militare tedesco mostra con orgoglio l'aquila con la svastica, le spalline hanno il classico "chiodo" e con sé ha il berretto da campo, il tipico Feldmutze. A rendere tutta questa vicenda un po' più grottesca, emerge anche che a donare quella foto al ministero fosse stato l'ex ministro Ignazio La Russa, una sorta di polpetta politica avvelenata a lungo termine.

Psicosi Weimar ma è solo l’Italia prima del voto, scrive Paolo Delgado il 12 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un gruppetto esiguo di scervellati con testa rasata e la camicia in tinta orbace legge un proclama a Como, poi sparacchia alla cieca qualche lacrimogeno sotto la sede di Repubblica. Per ricreare il clima della Repubblica di Weimar i produttori della serie Babylon Berlin hanno spesso fior di milioni. Pivelli. In Italia ci riusciamo meglio e spendendo quattro soldi, con l’ulteriore vantaggio che qui non squaderniamo solo fiction ma creiamo un intreccio inestricabile con la realtà: al punto che distinguere i due piani è impresa proibitiva. Un gruppetto esiguo di scervellati con testa rasata e la camicia in tinta orbace legge un proclama a Como, poi sparacchia alla cieca qualche lacrimogeno sotto la sede di Repubblica. Sarebbe più che altro roba da ricovero coatto, invece pare che al confronto gli assalti all’Avanti! del 1919 e del 1922 fossero goliardate. Il quotidiano offeso strapazza a piacimento i dati di un sondaggio e annuncia che un italiano su due teme il ritorno delle camicie nere: Marcia su Roma parte seconda in uscita nelle sale per Natale, a fianco di Guerre Stellari 8. A Como le forze antifasciste manifestano con il dovuto allarme contro le risorte squadracce e il Pd cavalca l’ondata resistenziale, con toni più appropriati alla situazione di Stalingrado 1942 che a quelli di Como 2017, per motivi sin troppo ovvi. Scoperto sul fianco sinistro, tanto più dopo la débacle di Pisapia, il Nazareno si affida al tema che da sempre garantisce la massima presa emotiva su quel fronte. E se di fascisti propriamente detti nella penisola ce ne sono pochini non importa. L’importante è evocare l’onnipresente rischio. Per lo stesso motivo il segretario del Pd bersaglia Grasso e Boldrini accostandoli alla figura di Gianfranco Fini, presidente della camera e capopartito: «Sono sulle sue orme». Per la verità anche su quelle di Pier Casini e Fausto Bertinotti e prima ancora di Irene Pivetti. Nell’Italia della Seconda Repubblica l’impegno politico e il ruolo istituzionale non sono mai stati incompatibili, ma tant’è. Se Renzi le dà di santa ragione anche a costo di picchiare a casaccio, le prende anche con la stessa logica. M5S martella sulle banche: l’accusa di ladrocinio non è esplicita poco ci manca e comunque tutti capiscono l’antifona. Salvini non ha di queste sottigliezze: «Metteremo in galera i complici di queste truffe. Secondo Renzi il Pd può andare a testa alta? Vuol dire che pagheranno a testa alta». Il meno greve, secondo il nuovo corso moderatissimo inaugurato per l’occasione, è Silvio Berlusconi. Si limita ad accusare l’ex socio del Nazareno di totale inettitudine. La replica è sullo stesso piano: «Non faremo mai governi con mr. Spread- Berlusconi». Come dire: «Facciamo a chi è più capra?». Metà almeno della campagna elettorale già si gioca sul tema eterno del voto utile, ché è sempre meglio chiedere il voto contro qualcuno che per qualcosa. Berlusconi vuole i voti perché, parola sua, «Siamo gli unici che possano fermare M5S». Renzi restituisce con gli interessi: «La sfida è tra noi e M5S». Senza dimenticare che tuttavia la destra ancora esiste e anzi capita che sia in testa alla corsa nei sondaggi: «Ogni voto a LiberiEuguali è un voto regalato alla destra. Noi combatteremo casa per casa». Stalingrado, appunto…Si aggiunga una spruzzata abbondante di ambiguità. Berlusconi spiega al colto e all’inclita che il Vallo anti- populismo è stato eretto ad Arcore. Però il suo principale alleato, Matteo Salvini, è anche il principale rappresentante del demoniaco «populismo» di cui sopra. Particolari ininfluenti. Renzi non è da meno con la sua promessa di non allearsi in nessun caso con Berlusconi, nonostante il progetto sia praticamente di dominio pubblico. La lista ormai ufficialmente “di Piero Grasso” civetta con i 5S ma strizza l’occhio anche al Pd, ove dovesse liberarsi dell’aborrito Renzi. Leghisti e pentastellati ringhiano al solo sentirsi nominare ma in privato non mettono limiti alla provvidenza. Per afferrare in pieno il quadro occorre infine guardare quel palco da campagna appena camuffato che è la commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche, convocata improvvidamente a un centimetro dall’apertura delle urne. M5S la usa per processare Renzi e il suo governo. Renzi stesso la adopera nella speranza di mettere al muro le istituzioni di sorveglianza bancaria, Consob e a maggior ragione Bankitalia, le quali a loro volta si scannano accollandosi reciprocamente svariate colpe. Tutti, poi, martellano sulle banche venete, in modo che sul banco degli imputati finisca anche la destra. Per comprensibile equanimità. E’ campagna elettorale e si sa che in Italia l’iperbole in questi frangenti è pane quotidiano. Da noi all’accusa di incarnare il nuovo duce, da Craxi a Berlusconi a Renzi, non è sfuggito quasi nessuno e persino il pacioso Romano Prodi fu accusato a suo tempo di stare edificando addirittura ‘ un regime’. Il punto dolente è che le parole dette in campagna elettorale, se non sono pietre, non sono però neppure piume. Insistere nel dipingere una situazione weimariana, con le forze politiche impegnate nel delegittimarsi reciprocamente non per le politiche che propongono ma per la loro identità e nel descrivere una Repubblica minacciata da forze oscure, rischia di creare il clima adatto perché quelle profezie sinistre si realizzino davvero.

Gli antifascisti non si indignano se il vessillo è di Lotta Continua. Da Repubblica al Pd, bocche cucite sulla bandiera nell'ufficio del commissario. Il questore: indaghiamo, scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 13/12/2017 su "Il Giornale". Un bagnino nostalgico del Ventennio è diventato l'emergenza nazionale la scorsa estate, la bandiera della Marina imperiale tedesca trovata in una caserma dei carabinieri il preavviso del nazismo alle porte, invece per un manifesto di Lotta Continua appeso in un ufficio della Questura di Pisa nessun allarme, zero domande, silenzio tombale da chi fomenta da mesi la campagna sulla fantomatica «onda nera» neofascista in Italia. Ieri il Giornale ha raccontato il fatto: un pugno chiuso su fondo rosso con la scritta Lotta Continua incorniciato dietro alla scrivania di un sottocommissario della Polizia («È un trofeo di guerra» è stata la risposta abbozzata e poco esaustiva). Quantomeno qualche interrogativo potrebbe sollevarlo, dopo aver dichiarato pericolo pubblico il bagnino di Chioggia per l'imitazione di Mussolini in versione balneare (subito indagato, poi tutto archiviato dalla Procura), invece sulla vicenda di Lotta Continua si registra la calma piatta. Anche se Pisa non è un luogo neutro per Lc, che nasce dal Potere operaio pisano, dove era attivo appunto Adriano Sofri leader del movimento di estrema sinistra (e mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi secondo la sentenza). Invece neanche una riga su Repubblica, neppure nelle pagine locali toscane, storia completamente ignorata dal quotidiano altrimenti molto attento a segnalare allarmi estremisti. Il Tirreno riporta invece che il questore Alberto Francini ha invitato l'agente a rimuovere il quadro e ha avviato una verifica interna («Sul valore del sostituto commissario nulla da dire. È stato premiato per aver contribuito alle indagini che hanno smantellato le nuove brigate rosse contribuendo all'arresto della Lioce quando era alla Digos di Firenze. Sull'opportunità di avere quel drappo ricordo in ufficio si faranno le necessarie valutazione e saranno presi eventualmente i conseguenti provvedimenti»). Probabile si tratti solo di una scelta inopportuna del poliziotto, che però non solleva il polverone che invece ha travolto il giovane carabiniere che a Firenze (e neppure nell'ufficio) aveva una bandiera della marina del Secondo Reich, comprata su internet come altre insegne militari di cui è appassionato. «È stata una leggerezza, non sapevo che fosse un simbolo dei neonazisti. Mi sono iscritto alla facoltà di storia dell'Università La Sapienza di Roma e voglio laurearmi - ha spiegato il 23enne militare dell'Arma -. Chiedo scusa - avrebbe anche detto - se ho violato i regolamenti». Ma su di lui si sono scatenate le reazioni immediate anche ai massimi livelli. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha chiesto al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri «chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi» mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha parlato di «fatto inquietante rispetto al quale bisogna reagire». Stessa linea dei giornali di sinistra e del Pd, che hanno cavalcato lo spettro del rischio nazifascista. Neppure una parola invece sulla bandiere di Lotta Continua nella questura di Pisa, nemmeno di circostanza, per chiedere un chiarimento rapido ai vertici della Polizia. Se ne sono accorti i social network, che chiedono alla Pinotti (e alla Boldrini) di intervenire sulla vicenda, inutilmente. Altri tweet: «Dove sono tutti quelli che protestavano contro i simboli politici nei luoghi istituzionali? Tutti zitti come cani addomesticati? È normale una bandiera di Lotta Continua in una #Questura? Vi scandalizzate a giorni alterni in base ai vostri porci comodi?». Oppure: «Una settimana di polemica per una pseudo bandiera nazista; nessun clamore per il manifesto in questura di LottaContinua. Benvenuti in Italia, il paese dei due pesi e due misure».

Quei maestrini dell'odio di classe che hanno fatto scuola ai terroristi. Il gruppo di Sofri propagandava la rivoluzione con campagne mediatiche violente. Da Calabresi allo sberleffo sui parà morti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 13/12/2017, su "Il Giornale". Una sola, doverosa ammissione: quelli di Lotta Continua erano più simpatici. Mentre nelle bande di picchiatori dell'ultrasinistra degli anni '70 si respirava un cupo clima militare, e a Milano si favoleggiava persino che uno dei «servizi d'ordine» facesse pratica spaccando i crani ai morti all'obitorio, nel gruppo che ruotava intorno a Adriano Sofri una certa ironia di fondo, un'amore per la trasgressione preservava da eccessi di seriosità, e tenne poi aperte le porte agli esiti individuali più disparati: chi finì nel Psi, chi nei monasteri indiani, chi nella lotta armata. D'altronde erano dei bei cervelli: tanto per fare un paragone, gli unici del Movimento Lavoratori per il Socialismo - arcinemici di Lc, e protagonisti di selvaggi pestaggi ai suoi danni - a fare poi carriera sono stati i fratelli Boeri, mentre Lotta Continua ha espresso una bella fetta della nomenklatura della Seconda Repubblica, da Gad Lerner a Gianfranco Miccichè. Fine dei complimenti. Perché il manifesto che svetta in un ufficio della questura di Pisa non racconta la storia di un gruppo di raffinati intellettuali, ma di quelli che un bel libro di Aldo Cazzullo definisce «i ragazzi che volevano fare la rivoluzione». Gente effettivamente convinta che l'Italia degli anni Settanta potesse e dovesse trasformarsi in un paese comunista, e che per raggiungere l'obiettivo ogni violenza fosse lecita. L'odio di classe come carburante dello scontro finale. Della carica di odio che accompagnò la campagna più celebre di Lotta Continua, quella contro il commissario Luigi Calabresi - campagna prima mediatica e poi militare, culminata con l'assassinio da parte di un commando di Lc - si sa tutto. Ma forse ancora più abominevole e più significativo fu il titolo con cui il 10 novembre 1971 Lotta Continua annunciò in prima pagina l'incidente aereo in cui, a bordo di un Hercules inglese, avevano perso la vita 46 paracadutisti della Folgore. Erano ragazzi sui vent'anni, il più alto in grado un sottotenente. «Quarantasei fascisti in meno»: sembra di sentirli ridere, Sofri e il suo staff, mentre in redazione confezionano il giornale. L'intelligenza non impediva il fanatismo, e anzi ne aggravava le conseguenze. Non è un caso che nessun gruppo extraparlamentare abbia fornito tanti militanti al terrorismo quanti, a partire dalla metà degli anni Settanta, ne espresse Lotta Continua. In pratica, metà del gruppo dirigente di Prima Linea - da Roberto Sandalo a Sergio Segio a Marco Donat Cattin - veniva dalla fucina di Lc. E questa provenienza fu una delle cause della diffidenza da parte delle Brigate Rosse, che dall'alto della loro ortodossia leninista non potevano apprezza il pastiche ideologico in cui Lotta Continua si era formata. Della piega che prendevano le cose, dello smottamento progressivo dalla violenza di piazza alla lotta armata, Sofri si rese perfettamente conto, e fece forse l'unica scelta possibile: a Rimini, nel novembre 1976, accompagnò Lotta Continua verso lo scioglimento. Fu un «rompete le righe», il via alla diaspora: da quel giorno i «ragazzi che volevano fare la rivoluzione» presero la loro strada nella vecchia politica, nel giornalismo, negli affari. Sofri, e di questo bisogna dargli atto, spinse in questa direzione per evitare guai peggiori. Ma ormai il danno era fatto.

"Io, carabiniere anti islam, congedato per mie idee". Maresciallo scrittore che si è espresso contro l'islam viene congedato dall'Arma. Il caso di Prisciano, che ora attende l'espressione del Tar, scrive Francesco Boezi, Sabato 16/09/2017, su "Il Giornale".  Il maresciallo Riccardo Prisciano è stato congedato. Durante luglio del 2015, gli era stato notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Sentito da Il Giornale.it, il maresciallo ha dichiarato in merito alla sua vicenda: "Sono stato congedato per aver espresso idee di destra, libero dal servizio e nella normale dialettica democratica, riguardanti l'incostituzionalità dell'islam, la mia contrarietà ai matrimonio omosessuali, all'adozione di bambini da parte di persone dello stesso sesso, alla pratica dell'utero in affitto, all'attuale legge sull'aborto e per aver espresso perplessità sull'operato politico di Boldrini, Alfano, Renzi e Napolitano". "In due anni - aggiunge Prisciano - sono stato umiliato in ogni modo: sanzioni disciplinari, denunce (poi ovviamente archiviate), visite psicologiche, trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, note caratteristiche umilianti e financo il congedo per "non meritevolezza". Secondo quanto riferito dal maresciallo, prima del congedo ci sarebbero stati tre procedimenti disciplinari: 7 giorni di consegna con rigore e il trasferimento d'autorità in Sardegna, un provvedimento derivante dalla pubblicazione del suo libro "Nazislamismo", infine una denuncia da parte dei suoi superiori presso la Procura Militare di Roma per "insubordinazione con ingiuria" e "diffamazione militare aggravata". Queste ultime accuse sarebbero state archiviate. Il maresciallo sostiene di aver subito questi provvedimenti a causa delle sue prese di posizione. L'inizio della vicenda, infatti, risale a quando Prisciano, in qualità di scrittore, partecipò ad un convegno sulla "incostituzionalità dell'islam". Il 12 ottobre 2017 il Tar del Lazio dovrebbe esprimersi sul congedo. Il Consiglio di Stato, secondo un documento inviatoci da Prisciano, aveva ribaltato le sospensive precedentemente concesse dal Tar. Il maresciallo dichiara di essere in congedo da dieci mesi, di non percepire stipendio e di avere una figlia di 6 anni e un altro figlio in arrivo.

È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.

Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.

Ma non è la prima volta che cala la scure della censura.

Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.

Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Azione Liberale”.

Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive il 9 marzo 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini.

Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.

Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015.

Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?

«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».

Perché allora questa difformità di trattamento?

«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».

La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?

«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».

Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?

«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:

– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.

– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.

– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.

– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;

– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;

– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;

– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.

Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».

Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.

Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.

Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»

Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.

Giudizio (negativo) sull'islam: sospeso il prof. Critica il ramadan, una studentessa protesta. E la preside lo punisce: stipendio tagliato, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale". Vietato dare giudizi (negativi) sull'islam. Lo sa bene Pietro Marinelli, 61enne docente di Diritto ed Economia all'Istituto superiore “Falcone-Righi” di Corsico, piccolo comune nell'hinterland milanese. Marinelli vanta oltre 30 anni di carriera, la laurea in Giurisprudenza, un'altra in Scienze religiose e un curriculum di tutto rispetto. Cui però ora dovrà aggiungere le accuse di islamofobia. Tutto inizia il 31 maggio scorso. Il professore entra in una classe quinta per la lezione di diritto internazionale. Tema: lo Stato Islamico. E visto che al “Falcone-Righi” ancora si rispettano le buone maniere, quando il prof entra in classe gli studenti si alzano in piedi. Tutti, tranne lei: un'alunna 18enne di origine egiziana che si giustifica affermando di essere in periodo di ramadan. “Una pratica religiosa non ti dà certo diritto di non rispettare una consuetudine dell'Istituto”, fa notare il docente. Ma tant'è. “Per sviluppare il suo senso critico ho provato a chiederle cosa significasse il ramadan. E lei sosteneva fosse solo un periodo di riflessione. Le ho detto che non è così. Che viene celebrato per ricordare la discesa dal cielo del Corano, parola increata di Allah”. Ne nasce allora una discussione in cui Marinelli spiega l'origine e il significato del rito musulmano, accennando però valutazioni critiche nei confronti dell'islam e di una pratica di digiuno che “non mi sembra umana”. Apriti cielo. La studentessa esce dalla classe senza permesso, salta la lezione sull'Isis e si becca una nota. Ma non è lei a doversi preoccupare. Poche ore dopo la madre scrive una lettera alla preside, Maria Vittoria Amantea, denunciando “un terribile" fatto "di intolleranza religiosa”. Nella missiva vengono riportate alcune frasi che Marinelli avrebbe pronunciato al fine di “offendere e sminuire" la fede musulmana: l'islam è una religione priva di senso; il Corano è una ridicolaggine insensata; il Ramadan è disumano; l'islam dovrebbe essere vietato dalla legge e via dicendo. “Alcune sono state palesemente esagerate – dice il professore – altre totalmente inventate”. Fatto sta che ragazza presenta pure un esposto ai carabinieri e lo stesso farà la preside “a tutela dell'onorabilità dell'istituto”. Nemmeno si trattasse di lesa maestà, scatta il procedimento disciplinare: Marinelli è accusato di aver offeso l'alunna e di essere venuto meno “al suo principale dovere come docente e educatore”. “Prima di avviare l'iter non hanno neppure tenuto conto della mia dichiarazione, protocollandola volutamente in ritardo”, denuncia lui, che in tutta risposta ha depositato due contro-esposti (la preside, contattata per telefono e mail, non è ancora risultata reperibile). Il 24 giugno il caso finisce in presidenza per l'audizione in difesa. Obiezioni, spiegazioni, precisazioni: tutto inutile. Arriva una punizione esemplare: sette giorni di sospensione e relativa decurtazione dello stipendio. Marinelli però rivendica “libertà di opinione”: “Io non ho offeso, ho solo dato una mia valutazione dell'islam alla luce dei miei studi. Una cosa sono le affermazioni sulle persone, altro quelle sulla religione. Credo rientri nei miei obblighi educativi stimolare gli studenti ad avere una visione critica della vita, anche rispetto alle proprie tradizioni religiose". Difficile dargli torto. "Come i cristiani ascoltano le lezioni sulle crociate o sull'Inquisizione e non presentano esposti contro i docenti - continua - così devono fare pure gli islamici. Anche quando si dice che l'Isis è il vero riferimento del mondo islamico oppure che nell'islam ci sono meno libertà rispetto al cristianesimo”. Il ragionamento non fa una piega. Ma non aiuta: condannato per aver violato gli articoli 3 e 19 della Costituzione (uguaglianza e libertà di culto) e due articoli del codice deontologico. “Io non ho insultato nessuno né limitato la libertà di alcuno. Ho solo espresso un giudizio sull'islam”. Tradotto: critichi Maometto e finisci nei guai.

Raitre profana la tomba di Mussolini: cosa si sono spinti i fare i "rossi" in diretta, scrive il 12 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". "Mussolini profanato". La polemica parte dopo un servizio di Agorà. Un'inviata del programma mattutino di Raitre è andata a Predappio, cittadina romagnola che diede i natali a Benito. Li ci sono la tomba e la casa d'infanzia. A un certo punto da studio la conduttrice Serena Bortone dà la linea all'inviata Irene Benassi. "La vera differenza che separa noi dagli altri Paesi Europei è la tomba di Mussolini", dice la giornalista, introducendo il collegamento. La Benassi dalla cripta dove è sepolto Mussolini e i familiari, parla di "luogo molto evocativo". In un pezzo sul Tempo si sottolinea l'enfasi con cui l'inviata racconta quello che vede. A un certo punto sfoglia il famoso libro degli ospiti dove sono scritti inni al Duce, frasi che lo idolatrano e che sperano nella sua resurrezione "per mettere le cose a posto". Roba di 60 anni fa, fantasie, visto che come tutti sanno per fortuna non ci sono state più marce su Roma. Ci sono due ospiti. Uno è il sindaco Frassineti e l'altro è Miro Gori, presidente Anpi Forlì-Cesena, che si lamenta perché la tomba è meta di turismo nostalgico e boccia il progetto del museo-centro studi a Predappio. Dopo la puntata, insorge la Mussolini, nipote del Duce. Annuncia che la famiglia "ha dato mandato ai propri legali per agire nei confronti della Rai, del presidente dell'Anpi Forlì-Cesena, Miro Gori, e del sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti (Pd), a seguito della trasmissione Agorà di RaiTre andata in onda questa mattina, che ha svolto riprese e interviste all' interno della Cripta Mussolini senza alcuna autorizzazione". Frassineti spiega al Tempo: "Non ci sono divieti specifici per fare video o foto nella tomba. E ogni anno migliaia di persone che la visitano si fanno selfies, riprese e magari mettono tutto sul web".

I Mussolini querelano la Rai: "Violata la tomba di famiglia". L'ira della nipote del Duce, Alessandra: "Comizio non autorizzato di Agorà insieme all'Anpi", scrive Fabrizio Boschi, Mercoledì 13/12/2017 su "Il Giornale". Questa volta si è oltrepassato il segno. Il servizio pubblico della Rai si è trasformato in diffamazione. È sempre Agorà l'imputata, trasmissione mattutina di RaiTre, famosa per la sua faziosità, superiore anche a quella di Fabio Fazio e Bianca Berlinguer. La troupe va a Predappio per raccontare dell'iniziativa del sindaco Pd, Giorgio Frassineti, di trasformare l'ex Casa del Fascio, oggi abbandonata, in un centro studi sui totalitarismi e dittature del Novecento. Lunedì mattina Agorà è andata in diretta col sindaco, il presidente dell'Anpi di Forlì-Cesena, Miro Gori, dalla Cripta Mussolini in cui si trovano le tombe del padre dell'onorevole Alessandra Mussolini, Romano, ma anche degli zii, di nonna Rachele e del nonno Benito Mussolini. «Risponderanno in tribunale di questa gravissima provocazione. La cripta è privata e loro non potevano andarci senza autorizzazione e quelle sono tutte persone sgradite alla famiglia», commenta l'europarlamentare di Forza Italia annunciando querela contro la Rai, l'Anpi e il sindaco di Predappio (che ieri si è scusato sul Tempo), ricordando che quel posto è, al di là del valore simbolico, il luogo «dove sono seppelliti i miei cari». «Sono addolorata per quello che è successo - commenta la Mussolini - e con me anche mia cugina Edda Negri Mussolini, la figlia di Anna Maria, perché il braccio armato della sinistra, ovvero Agorà, ha commesso un oltraggio senza precedenti. La cosa grave è che questi cialtroni pur di fare un po' di ascolto, pur di creare un collante nella sinistra dell'antifascismo rampante e folkloristico, non esitano a profanare un luogo sacro». Una diretta infamante. Già nell'introduzione delirante della conduttrice di Agorà, Serena Bortone: «La vera differenza che separa noi dal resto dei Paesi europei è la tomba di Mussolini». Dimenticandosi che Stalin è sepolto ai piedi del Cremlino e a Francisco Franco è stato dedicato un mausoleo. Ma peggio fa l'inviata, Irene Benassi, che con un'aria superba e insolente, tocca corone e ricordi lasciati dai visitatori, ponendo l'accento sugli omaggi fascisti portati dalla gente al Duce. Poi il rappresentante dell'Anpi denuncia la «notizia sensazionale» che la tomba sia meta di turismo nostalgico e che «io non mi trovo tanto bene qui» (chi gli ha ordinato di andarci?). «La Benassi si è anche permessa di sfogliare il libro degli ospiti dove io dieci giorni fa ho messo una firma di affetto per mio padre - continua la Mussolini -. Hanno portato lì cavi e luci e appoggiato i loro gomiti sulle tombe come se si trattasse del bancone di una macelleria. È come se si entrasse a casa di qualcuno senza chiedere il permesso e questa è l'ennesima porcata fatta da Agorà, la trasmissione peggiore che ci possa essere, mandata in onda con i soldi del servizio pubblico, che pago anche io». La Mussolini ha ricevuto migliaia di post di gente schifata e disgustata per l'affronto di Agorà. «È una questione di rispetto, questi hanno profanato una tomba, sputando i loro insulti in faccia ai morti. Ma i defunti sono sacri, non ci sono defunti di serie A e di serie B. Di fronte a questa strumentalizzazione violenta, la gente è indignata. Boldrini&Co. generano odio e odio hanno». Malgrado tutto questo è arrivata la difesa di Usigrai, d'intesa con la Fnsi, alle due giornaliste: «Ormai chi si occupa del neofascismo diventa obiettivo di minacce e insulti. Necessario rilanciare tutte le inchieste che si occupano della riemersione del fascismo». Se questo è giornalismo.

L’ignoranza degli italiani inizia sui giornali, scrive il 16.01.15 Massimiliano Calì su "La Voce.info". L’Italia ha il dubbio primato di paese peggio informato. Un risultato preoccupante perché il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche. Le “colpe” dei media poco indipendenti.

GLI ITALIANI E L’INDICE DI IGNORANZA. Diceva lo scrittore e medico umanista François Rabelais che l’ignoranza è la madre di tutti i mali. Se credessimo ai ricercatori britannici di Ipsos Mori, secondo il cui sondaggio internazionale gli italiani risultano i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese, avremmo ottime ragioni per preoccuparci ulteriormente. L’indagine si basa su interviste a un campione di oltre 11mila individui in quattordici nazioni ad alto reddito per misurare le percezioni su caratteristiche sociali, demografiche ed economiche del proprio paese, quali la percentuale di immigrati, il tasso di disoccupazione, la percentuale di musulmani e di cristiani e l’affluenza elettorale alle ultime elezioni. I risultati mostrano come le percezioni degli individui siano in genere piuttosto lontane dalla realtà in cui essi vivono. Per esempio, in tutti i paesi, gli intervistati ritengono in media che la percentuale di immigrati sia molto più alta di quella reale. Si va dagli australiani che pensano che gli immigrati siano il 35 per cento contro il 28 per cento effettivo, agli italiani che li valutano il 30 per cento della popolazione quando il dato reale è solo il 7 per cento. Allo stesso modo in tutti i paesi il campione sottovaluta il tasso effettivo di partecipazione elettorale. Gli americani sono quelli più informati (indicano il 57 per cento invece che il reale 58 per cento), mentre i francesi hanno la percezione più distorta (57 per cento contro l’80 per cento reale). Una delle aeree in cui l’opinione del pubblico è più lontana dalla realtà è il tasso di disoccupazione. Gli italiani sono di nuovo i meno informati, ritenendo in media che un concittadino su due sia disoccupato, quando invece il tasso di disoccupazione è del 12 per cento. Ma anche i tedeschi, che hanno la percezione più precisa, sbagliano di molto: 20 per cento contro il 6 per cento effettivo. Aggregando le discrepanze tra percezione e realtà tra tutte le domande, i ricercatori hanno creato un indice – chiamato “indice di ignoranza” – che classifica i paesi dal meno al più informato sulle propria situazione sociale, demografica e politica. L’Italia conquista il dubbio primato di paese peggio informato, seguito dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud. I più informati (o meglio i meno "ignoranti") sono tedeschi e svedesi. Il risultato è preoccupante visto che nelle democrazie il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità di politica pubblica e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche.

IL REDDITO NON C’ENTRA. Per cominciare a capire da che cosa sia determinato questo grado di "ignoranza" si possono calcolare delle semplici correlazioni tra la classifica dell’indice Ipsos e quella ottenuta sulla base di alcune possibili variabili esplicative. La figura 1a mostra la correlazione con la classifica sulla base del reddito pro-capite nel 2013. L’ipotesi è che il livello e la qualità dell’informazione dei cittadini vadano di pari passo con il reddito. La relazione tra le due classifiche è negativa (come ci si aspetterebbe), ma debole e non statisticamente significativa. La relazione rimane debole anche quando si utilizza il valore in dollari del reddito pro capite invece che la classifica dei paesi (figura 1b). Fonte: World Bank (World Development Indicators)

LA QUALITÀ DELL’INFORMAZIONE. Un’altra possibile ipotesi è che sia la qualità dell’informazione a determinare quanto il pubblico sia informato sulla realtà nazionale. In mancanza di una misura diretta, è possibile utilizzare l’indice della libertà dell’informazione giornalistica prodotto annualmente dall’associazione Reporters Without Borders. Oltre a misurare la libertà e l’indipendenza delle testate e dei giornalisti, l’indice prende in considerazione anche la trasparenza della regolamentazione dei media da parte del legislatore e dell’esecutivo e il grado di concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione. Al contrario di quanto avviene con il reddito, la figura 2 mostra una relazione con il grado di "ignoranza" negativa e statisticamente molto significativa. L’Italia, la Polonia e la Corea hanno indici di libertà di informazione tra i più bassi e livelli di "ignoranza" tra i più alti del campione. Esattamente il contrario di Svezia, Germania e Giappone. Quasi due terzi della variazione nella classifica di "ignoranza" sono spiegati solamente dalla variazione nella classifica della libertà dell’informazione. E aggiungendo il livello di reddito pro-capite si raggiunge un potere esplicativo dell’80 per cento (con il coefficiente della libertà di informazione che rimane altamente significativo). I nuovi media dovrebbero permettere ai cittadini di informarsi direttamente attraverso una molteplicità di fonti anche estere, bypassando l’informazione tradizionale. In effetti, paesi con più alta percentuale di utenti internet tendono in genere ad avere più bassi indici di "ignoranza"’ . Per esempio, l’Italia ha la più bassa penetrazione di internet del campione, mentre la Svezia, ultima nell’indice di ‘ignoranza’, ha quella più alta. Tuttavia, la classifica di penetrazione di internet smette di essere correlata con quella dell’indice di ignoranza una volta che si include nell’analisi statistica anche la classifica della libertà di informazione. Un’ulteriore ipotesi è che sia la qualità del sistema educativo a formare cittadini informati fornendo loro gli strumenti per essere aggiornati sulla propria realtà. La blanda correlazione (e statisticamente non significativa) tra la classifica dell’Ipsos e la classifica delle competenze di lettura nel test Pisa (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse non corrobora questa ipotesi. E l’assenza di correlazione persiste anche quando nell’analisi si inserisce questa variabile assieme a quelle precedenti. Questi risultati sono da prendere con molta cautela visto il basso numero di paesi considerati e la mancanza di un’analisi causale. Tuttavia forniscono una prima ipotesi su cosa determina il grado di informazione dei cittadini nei paesi ad alto reddito. Quando il giornalismo non è pienamente indipendente dal potere politico ed economico e la legislazione che regola i mezzi di informazione non è trasparente, stampa, tg e nuovi media non informano i cittadini adeguatamente anche su temi sociali e politici di centrale importanza per la società. E visto che gran parte dei cittadini attingono queste informazioni principalmente dai media (tradizionali), finiscono per essere male informati. Suona familiare?

DEMOCRAZIA POLITICA, DITTATURA SOCIALE. Scrive Valerio Passeri. Fonte: visto su Ecco Cosa Vedo del 3 gennaio 2011. Siamo in democrazia. Sentiamo costantemente questa affermazione come risposta a qualsiasi questione che possa mettere in discussione il governo eletto dal popolo e il suo operato. Essa è una certezza imperturbabile, nulla la può minare. Nonostante ciò può risultare arduo dare una definizione generale al termine democrazia, poiché ne esistono molti tipi in tutto il mondo. Possiamo però trovare dei caratteri generali comuni a tutte: sovranità popolare, suffragio universale, pacifiche elezioni, principio di maggioranza, cambiamento dei governi, responsabilità dei governanti davanti ai governati. La storia insegna che il maggior pericolo per una democrazia è il tramutarsi nel suo esatto opposto, ovvero in uno stato totalitario, una dittatura. La dittatura è una forma di governo in cui tutti i poteri sono incentrati nelle mani di un solo uomo e degli uomini a lui fedeli. A differenza delle monarchie e tirannie del passato però, la dittatura è fondata come la democrazia sul consenso popolare, prima di passare, e solo se si è “costretti”, alla repressione con la forza. Troviamo quindi al centro di due forme di governo opposte, che sono accomunate solo dall’esser nate assieme alla società di massa, un carattere comune, l’opinione pubblica. Quando tutto il popolo, o la gran parte, vuole cacciare il dittatore, in un modo o nell’altro esso viene spodestato, quando un governo non ha più i consensi della maggioranza esso viene rimpiazzato. Ovvio che i meccanismi sono molto diversi, ma il risultato generale possiamo dire esser molto simile. Tutto questo discorso può sembrar avere solo aspetti positivi, il popolo è sempre sovrano, la maggioranza vince sempre. Eppure va considerata un’altra forma di governo che pur mantenendo gli stessi caratteri descritti prima di democrazia ne ha degli altri comuni alla dittatura. E’ definita da alcuni “post-democrazia” o addirittura “contro-democrazia”. In essa l’opinione pubblica è solo un canale di consensi, non serve a moderare l’attività politica dei suoi rappresentanti. Il campo d’azione dell’individuo e della società intera è una scelta tra opzioni definite da chi detiene il potere, non può proporre nulla di nuovo. Il cittadino elettore non è parte attiva della politica, ma solo un consumatore, ha l’unico potere di scegliere cosa “acquistare” dal cesto della politica mettendo una croce sulla scheda, il suo campo d’azione termina uscito dalle urne. Lo stato non detiene più le sovranità che gli spetterebbero come quella monetaria o sui mezzi di comunicazione. “Pubblico sovrano” diventano parole vuote adatte solo a talk o reality show. In uno stato come questo, chi detiene il controllo sul maggior numero di media, può facilmente manipolare l’opinione pubblica, quindi il consenso ed il voto. Teorici della democrazia come Tocqueville avevano, già due secoli fa, compreso lucidamente molto di tutto questo. Egli stesso scrive a riguardo: “…vedo una folla innumerevole di individui simili ed eguali, che incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la propria anima. Ognuno di essi, ritratto in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri…  Al di sopra di costoro si eleva un potere immenso e tutelare, che, da solo si incarica di assicurare loro piaceri e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, capillare, regolare, previdente e dolce… gli piace che i cittadini siano contenti, a condizione che pensino solo ad essere contenti… prevede ed assicura la soddisfazione dei loro bisogni…”. Tutto questo è quindi definibile come una sorta di “dittatura sociale” che è assai più temibile di quella politica almeno per quanto riguarda l’aspetto temporale. Se nella mente della maggioranza delle persone si creano nuovi stereotipi e mode che fanno sì da mantenere un consenso “semi-libero”, poiché indotto, a favore del governo in questione, esso diventerà molto più duraturo di quello imposto con la forza e più difficilmente spodestabile. Anche se siamo in democrazia, non pensiamo che questo da solo assicuri la nostra libertà, la democrazia è una condizione indispensabile ma non sufficiente. E’ essenziale informarsi, diventare persone consapevoli e diffondere questa conoscenza, non tenerla per se’ per magari sentirsi superiori. Che qualcosa abbia il consenso della maggioranza non vuol dire sia la migliore, ma se la maggioranza è consapevole, è più facile che lo sia.

LA TELEVISIONE È LA DETENTRICE DELLA VERITÀ? Scrive Rolando Tavolieri. Fonte da Più Che Puoi del 14 novembre 2012. In tanti anni di televisione, di programmi seguiti, di talk show, di approfondimenti ed altro, possiamo notare come tutto ciò che viene detto, commentato e scandito dai programmi televisivi viene accettato per vero, viene recepito come reale, senza però accertarci se questa o quella notizia sia vera. In pratica da tanti anni ciò che ascoltiamo in televisione attraverso vari programmi televisivi, nei talk show, nei programmi di intrattenimento, nei telegiornali, nei programmi di informazione o di approfondimento, tutte le informazioni che ci vengono date, tutto ciò che viene detto o riferito, i dibattiti che ne seguono e le interpretazioni di ciò che accade da parte di presentatori, giornalisti, politici, persone coinvolte ed altri, viene accettato in modo passivo come reale, come vero. Ad esempio ti è mai capitato di sentire diverse persone affermare:

– “questa cosa è vera, l’hanno detta in tv!”

– “dobbiamo comprare quel farmaco, l’ha detto un medico in tv”

– “dobbiamo mangiare quel cibo, l’ho sentito dire in quel programma”

– “domani piove, l’ho ascoltato in tv!”

– “hai seguito il caso di quell’omicidio? Sicuramente è stata la tal persona, perché l’hanno detto in televisione”. Potrei andare avanti facendo centinaia di altri esempi in cui puoi constatare come la televisione è diventata ERRONEAMENTE la detentrice della verità, questo fenomeno di percepire le notizie e le interpretazioni che vengono fatte come reali, spesso è un fenomeno inconscio, ad esempio quando un personaggio famoso, politico, sportivo o del mondo del cinema viene “indagato”, la prima impressione che possiamo avere è che sia “colpevole”, in pratica scambiamo le indagini in corso fatte su una persona per sapere se è realmente colpevole o se è innocente, per colpevolezza prima ancora che le indagini vengano fatte o approfondite. Certo lo facciamo inconsciamente, inconsapevolmente, ma una volta che questo processo viene innescato, è difficile controllarlo, perché il messaggio che viene assorbito dalla mente inconscia è quello in cui crederemo dopo, quindi se il messaggio che la parola “indagato” equivale per noi a “colpevole”, quel messaggio sarà per noi la realtà, quindi il “Messaggio” che la parola usata in tv o la notizia data ha per noi diventa la nostra verità e la nostra realtà. La cosa importante che possiamo fare è quella di “Prenderne Coscienza”, cioè di prenderne atto a livello cosciente e riflettere bene su cosa stiamo pensando, perché una cosa è avere un’impressione su una persona e un’altra è essere certi della sua innocenza o della sua colpevolezza, la differenza la può fare il fatto di informarsi a 360 gradi, verificare tramite altre persone, tramite il web, seguire da vicino le indagini, avere più notizie ed informazioni e verificarle tutte, solo dopo tante verifiche, le informazioni ricevute e la capacità di “discernere” (separare) le informazioni vere da quelle false, solo allora possiamo pian piano affermare con attenzione e sempre con un margine di potenziale errore se quella notizia è vera o falsa o se quella persona è innocente o colpevole. Il fatto che molte persone credano immediatamente a questa o a quella notizia, il fatto di dare subito un’interpretazione o di giudicare quella situazione di cui si parla, o addirittura di criticare o giudicare immediatamente quella persona di cui si parla senza approfondire o verificare se quelle notizie su di lui sono reali, dipende da vari fattori, vediamo assieme quali sono:

–  Intanto i programmi televisivi vengono seguiti da milioni di persone, sia nel nostro paese che in altri stati, grazie alle potenzialità tecnologiche come il decoder, internet, ed altro ancora, e tutto ciò che viene visto, ascoltato e seguito da tantissime persone, è come se ci “unisse” un poco, è come se vedendo gli stessi programmi ed ascoltando gli stessi discorsi o dialoghi di approfondimento in tempo reale, tutti noi telespettatori avessimo qualcosa in comune, qualcosa che ci unisce , come una condivisione mediatica del mondo.

– Quando i riflettori della tv vengono puntati su questa o quella persona, è come se mettesse noi spettatori nella posizione di diventare i “critici” o i “giudici” dei soggetti in questione, di ciò che accade e di ciò di cui si parla.

– La notizia data in tv viene spesso amplificata in quanto qualcosa che è vista e sentita da milioni di persone assume in un certo qual modo un potere forte, in positivo o in negativo, dipende dalla connotazione che le viene data, mettere l’accento su questa o su quella notizia le conferisce potere ed anche per questo viene amplificata. Ecco perché il fatto di parlare tanto e per tanto tempo di qualcuno, gli porta potere se se ne parla bene o può infangarlo se se ne parla male.

– La tv ha il potere di “dirigere” l’attenzione del telespettatore passivo, verso questo o quel fatto, verso questo o quel personaggio, ed ovviamente dirigendo l’attenzione verso una situazione, la distoglie da un’altra notizia che magari è più importante o che non si vuole approfondire in quel momento per vari motivi. In questo modo la tv può monopolizzare l’attenzione delle persone a piacimento, e questo è un grande potere, che però noi possiamo imparare a gestire e controllare attraverso un po’ di riflessione e di analisi.

– Anche la “Ripetitività” di una notizia le conferisce potere, perché più una notizia viene ripetuta e approfondita e più se ne parla, più questo circolo vizioso tende ad aumentare e ad amplificarsi. Ecco perché una notizia di cronaca nera sembra non finire mai, viene data e ripetuta anche per anni, addirittura si sono inventate trasmissioni apposite per approfondirne ancora di più i contenuti come se i tg non bastassero, questo perché l’audience aumenta gli introiti, è le notizie sono dunque legate anche ai soldi che si possono ricavare da esse.

– Il fatto di ascoltare una notizia ci mette nella posizione di assumere il ruolo di “critico” o di “giudice”, e quindi di sentenziare, di accusare o di dare clemenza al personaggio di turno, in questo modo possiamo “liberarci” inconsciamente delle nostre azioni sbagliate, delle nostre “colpevolezze”, del fango che c’è dentro di noi proiettandolo sugli altri, in questo caso sui soggetti protagonisti di questa o quella situazione del momento. Infatti scagliare accuse su una persona è come se ci liberasse o ci distogliesse dalle accuse che dovremo a volte dirigere su noi stessi, anche questo fenomeno è inconscio (ma forse non sempre).

Come puoi notare le implicazioni su ciò che accade a livello psicologico e sociale quando diventiamo spettatori spesso “passivi” di una notizia raccontata in tv, sono implicazioni “sottili” ma potentissime ed a volte “inconsce”, di cui cioè non ci rendiamo conto a livello cosciente, ma che seguono una direzione ben precisa e raggiungono l’obiettivo. Come possiamo dunque “Controllare” tutto questo? Come possiamo “Gestire” noi telespettatori questi fenomeni complessi al fine di non venirne trasportati come da un fiume in piena? Ecco alcuni consigli Pratici ed Utili che puoi seguire prima di accingerti ad assumere il ruolo di spettatore:

– Intanto diventa giorno dopo giorno uno spettatore “Attivo”, come? Avendo la mente aperta, evitando cioè di credere ciecamente ad una notizia senza averla prima approfondita, verificata ed assorbita a 360 gradi, osserva la notizia da più punti di vista, soprattutto mi riferisco ai fatti importanti, tralasciando il gossip, o le notizie inutili che parlano di pettegolezzi su questo o quel personaggio.

– Ascolta le “parole” che vengono usate per dare una notizia, infatti anche “Come” viene data una notizia è importante, a volte più del contenuto, perché “Come” viene data una notizia può amplificarla o ridurla, mettere l’accento sulla notizia o lasciarla sfuggire nel dimenticatoio, “Trasmettere Emozioni” o renderla insignificante.

– Chiediti perché viene dato risalto ad una notizia e viene tralasciata un’altra notizia più importante. Ogni tanto le notizie vengono pilotate in una direzione particolare, alcune possono aumentare gli ascolti, altre meno, così il metro di misura diventa l’audience, il denaro che si può ricavare attraverso le pubblicità associate a notizie forse poco importanti ma che, se producono altissimi ascolti arricchiscono chi sta dietro le quinte, anziché privilegiare l’importanza di alcuni fatti, o l’impatto sociale che possono avere sulla popolazione, anziché stimolare l’interesse degli ascoltatori verso notizie di pubblica utilità o innovative in campo scientifico, nella fisica, nella medicina, nella psicologia, ed altro ancora.

– Ascolta le notizie che ti vengono date in modo “neutrale”, senza far pendere la bilancia delle tue credenze da una parte o dall’altra, cerca di essere il più obiettivo possibile, anche quando ti sembra che quella notizia particolare sia vera, reale, o difficile da confutare, lasciati sempre un margine di “possibilità contraria”, cioè la tua mente deve essere sempre aperta ai colpi di scena, alle sorprese, al fatto che puoi sbagliarti, ok?

– Cambia l’Atteggiamento con cui segui le trasmissioni ed ascolti le notizie. Con questo intendo dire che se il tuo atteggiamento con cui sei abituato ad ascoltare le notizie, le informazioni, gli approfondimenti è quello di credere subito in ciò che ti viene detto solo perché lo sta facendo la televisione, se la tua prima impressione sui fatti raccontati è quella di darne subito un giudizio a priori, fermati un attimo, rifletti e poniti delle “domande Costruttive” come ad esempio:

“cosa mi fa pensare che quella notizia sia vera?”

“cosa mi porta a dare subito un giudizio su ciò che ho ascoltato?”

“cosa mi porta a giudicare questa o quella persona?”

“cosa mi fa dire che quel personaggio sia colpevole o innocente?”

“ho approfondito la notizia?”

“ho verificato ciò che ho appreso dalla tv?”

Ecco, rispondi a domande come queste e poi Sicuramente il tuo Atteggiamento nei confronti di ciò che ascolti e di ciò vedi in tv Cambierà. Spero di averti dato alcuni argomenti di Riflessione per analizzare cosa accade quando ascoltiamo la tv e quando ci facciamo un’idea riguardo a ciò che ascoltiamo ed alle persone coinvolte in una situazione particolare.

Ricorda quindi i seguenti punti Importanti:

– Sii una persona con la mente Aperta

– Cambia Atteggiamento nel modo di ascoltare o credere alle notizie

– Cerca di avere un “Ascolto Neutrale”, il più obiettivo possibile

– Verifica ed Approfondisci le notizie in 1000 modi diversi

– Percepisci una situazione da più punti di vista per averne una visione a 360 gradi

– Chiediti se il tuo giudizio o le tue credenze hanno dei riferimenti validi

– Ascolta “Come” vengono date le notizie

– Sii una persona Attiva nell’ascolto

– Dirigi tu la tua attenzione sui vari fatti, e non lasciare che sia la tv a farlo.

COME GLI SPIN DOCTOR MANIPOLANO I GIORNALISTI USANDO IL “FRAME”. Scrive Marcello Foa. Fonte: visto su BYOBLU il 22 marzo 2013. Sono Marcello Foa e sono un giornalista di scuola montanelliana. Oggi dirigo il gruppo editoriale del Corriere il Ticino, in Svizzera, insegno anche giornalismo e comunicazione sia all’USI di Lugano sia in Cattolica e ho incentrato le mie ricerche e la mia analisi, anche quotidiana, sul modo in cui i governi e le istituzioni riescono ad orientare i media, spesso all’insaputa sia dei giornalisti e sia dell’opinione pubblica. Sulla base di queste analisi, mi sono accorto di un’anomalia molto frequente, ovvero che i giornali e i media in generale ripetono tutti gli stessi errori, hanno la stessa visione della realtà, dei fatti. Senza mai differenziarsi, indipendentemente dal loro colore politico. Quando scoppia una grande crisi, quando c’è un grande evento, voi prendete il Corriere, il Giornale, la Repubblica, ma anche grandi giornali stranieri come la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine, il New York Times, il Times, eccetera, e vi accorgerete come i fatti che vengono riportati siano quasi sempre gli stessi. Allora a metà degli anni 2000 mi sono chiesto: ma com’è possibile che i giornalisti, in democrazia, si comportino sempre tutti allo stesso modo? E ho trovato la risposta in una parola che negli ultimi tempi è diventata di moda, ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto, ovvero negli spin doctor.

GLI SPIN DOCTOR. Gli spin doctor cosa sono, per la maggior parte del pubblico? Sono coloro che organizzano le campagne elettorali, e questo è tecnicamente giusto. Però c’è un passaggio che sfugge a quasi tutti i giornalisti e che è fondamentale: quando la campagna elettorale finisce, lo spin doctor in democrazia dovrebbe riconsegnare le chiavi dell’ufficio elettorale al suo leader e dirgli “ci vediamo tra quattro o cinque anni”. Questo non accade. Invece, lo spin doctor cosa fa? Entra nel palazzo con il politico. E questa è una sottigliezza. La maggior parte del pubblico dice “va beh, cosa cambia?”. Cambia tantissimo perché lo spin doctor è di fatto un manipolatore, colui che deve in una certa misura convincere l’elettore e il pubblico a votare per un candidato dandogli in pasto quel che il pubblico vuole sentirsi dire. Quando sei al governo però tu devi avere un approccio e un rispetto della verità istituzionale – la credibilità delle istituzioni di cui tanti si riempiono le bocche, spesso a sproposito – che lo spin doctor non rispetta. Lo spin doctor adotta dentro le istituzioni le stesse logiche della campagna elettorale. Ovvero è parziale, tende a manipolare, non rispetta l’oggettività dell’informazione e questo ha degli effetti devastanti, soprattutto se si considera un elemento che ancora una volta sfugge, quasi sempre, alla coscienza pubblica e anche dei giornalisti. Oggi se voi andate ad analizzare quali sono le fonti a cui attingono i giornalisti, sono le agenzie di stampa, i comunicati stampa. Il che è formalmente corretto, però c’è qualcosa di più. Il 70, l’80, talvolta anche il 90% delle volte l’origine di una notizia è dentro alle istituzioni, anche per gli episodi più banali. Esempio: incidente a Milano. Il giornalista va sul posto, vede le due macchine che si sono scontrate. Poi chi gli dice che cosa è accaduto? Sono i vigili, sono gli infermieri degli ospedali, sono i carabinieri e, sulla base dei report che ottiene da queste persone, che sono rappresentanti delle istituzioni, scrive l’articolo e l’opinione pubblica viene informata. Questo è un esempio banale, ma viene applicato su larga scala anche a temi nazionali e internazionali. Abbinando il tutto a tecniche sia di conoscenza del modo in cui giornalisti operano, sia di psicologia sociale, ottieni un fenomeno di condizionamento esplicito delle masse che è abbastanza preoccupante e a cui i giornalisti stessi molto spesso non si sottraggono. Prendiamo il mito delle donne che fumano. La donna che fuma è il simbolo di ribellione femminile. In origine, negli anni ’50, ma anche oggi nei paesi in via di sviluppo, quando volevi rompere gli schemi delle società conservatrici, le donne iniziavano a fumare e a portare i pantaloni e questo rappresentava un segnale molto forte di ribellione sociale. Io ero convinto fino a poco tempo fa che fosse un fenomeno sociale, che poi ad esempio i media, soprattutto il cinema, hanno propagato. Il fumo ha anche un ruolo sensuale. Ma dagli studi che ho fatto emerge che il fumo come simbolo di emancipazione femminile non è affatto un fenomeno spontaneo, ma fu impiantato ad arte dal padre degli spin doctor, Barneys, nel 1918. Se non ricordo male, su mandato di una grande fabbrica di sigarette che aveva voglia all’epoca di propagare e diffondere l’uso delle sigarette. All’epoca non c’era televisione e nemmeno il cinema: era agli esordi. Allora questo Barneys cosa fece? Poteva fare una campagna tradizionale, che all’epoca significava qualche articolo sui giornali e un po’ di cartellonistica, oppure inventarsi qualcosa di nuovo. Così, attese il giorno di Pasqua, perché c’era la sfilata delle varie comunità a New York, un po’ come accade ancora oggi in molti paesi da noi e in molti villaggi. Alla fiaccolata della brigata della libertà iscrisse e fece sfilare delle modelle bellissime, vestite in maniera molto provocatoria per l’epoca, cioè con dei pantaloni, camicetta, bretelle, un basco in testa reclinato. Bellissime, altezzose, affascinanti, e le fece sfilare fumando ostentatamente. Guardate anche il significato delle parole: la brigata ha una valenza positiva, la libertà nella società americana è un valore positivo, la fiaccolata evoca la sigaretta. Risultato: polemiche infinite, articoli infuriati sulla stampa, “è il decadimento dei tempi”, “dove andremo a finire?”, eccetera. Risultato immediato: quadruplicate le vendite delle sigarette e questa idea di ribellione associata al fumo che è entrata nella coscienza collettiva. Siamo nel 2013, è passato quasi un secolo e questo concetto è ancora molto forte. Perché vi dico racconto questo aneddoto, che è conosciuto agli esperti di comunicazione? Perché quando voi abbinate la conoscenza delle tecniche del giornalismo e della comunicazione con le tecniche della psicologia, create un’arma che è un’autentica arma di distruzione di massa, perché riesce a manipolare le masse senza che le masse stesse se ne rendano conto e provocando degli effetti a breve termine che sono devastanti sulla verità, e nel lungo periodo ti creano delle idee e degli stereotipi che difficilmente riesci ad estirpare.

LA PIRAMIDE DELL’INFORMAZIONE. Oggi un esempio molto importante per far capire come funzionano i media, è appunto la piramide dell’informazione. Le notizie non sono tutte uguali. Se la notizia viene data da un grande media, mettiamo in Italia il Corriere della Sera piuttosto che il TG5, oppure in America il New York Times, ha un peso molto diverso rispetto al caso in cui la stessa notizia venga data da un giornale locale o da un piccolo sito sconosciuto. Perché questo? Un po’ è implicito, perché ovviamente c’è la credibilità di un’istituzione, di un giornale che fa premio. Ma non è solo questo. I giornalisti hanno un atteggiamento tendenzialmente conformista, cioè sono pochi i giornalisti che tendono a pensare con la propria testa. La maggior parte tende invece a replicare quella che ritengono l’opinione condivisa o l’opinione legittima istituzionale. Allora quando tu fai passare un concetto molto forte su un media riconosciuto, provochi quello che è un effetto a cascata nella piramide dell’informazione, ovvero più il media è in alto nella piramide, più la notizia è sensazionale, più tutti i media simultaneamente parleranno di quell’argomento. È la stessa tecnica che viene usata, ad esempio, per le grandi crisi internazionali. Prendete la suina, l’aviaria, la guerra in Iraq, le crisi per il gas, il nucleare, l’ambiente, la capacità di fare aprire i cancelli dell’informazione e far sì che tutto il mondo dell’informazione parli simultaneamente di questo argomento è talvolta spontanea: scoppia la centrale di Fukushima e ne parliamo tutti, c’è un terremoto a L’Aquila e ne parliamo tutti. Ma quanti sono gli eventi che meritano un’attenzione così forte? Pochissimi. Se tu hai uno spin doctor che è dentro al governo, ovvero che è in cima alla piramide dell’informazione, tu hai qualcuno che conosce le tecniche per far sì che i media parlino simultaneamente, col taglio che vuoi tu, della notizia che lui ha scelto molto spesso arbitrariamente. E questo è pericolosissimo, perché l’effetto ultimo è che la nostra percezione molto spesso è falsata, è deviata addirittura. Tu parli molto spesso di argomenti che pensi siano molto importanti, su basi che pensi i tuoi governi ti diano in modo credibile, e in realtà alla fonte c’è qualcuno che sta giocando con la tua buonafede. L’effetto ultimo di queste tecniche è un fenomeno che io vedo da molto tempo, che ho denunciato in coda a un libro che ho scritto su questa tematica e che sta in questo momento rivelandosi molto fondato, ovvero: a forza di manipolare le masse, le masse tendono a non credere più alle istituzioni, che invece dovrebbero essere il collante del nostro convivere civile. Dunque si formano dei movimenti di protesta molto forti, che se indirizzati in modo virtuoso possono rappresentare un fenomeno di rigenerazione della democrazia, ma se vengono usati in maniera arbitraria o finiscono con dei leader che non sono rispettabili o comunque credibili, il rischio è che poi lo sbocco ultimo possa essere anche una dittatura. La nostra storia recente è ricca di questi episodi. Hitler e Mussolini sono nati su onde di disgusto. Negli ultimi tempi la capacità di persuasione di queste tecniche è un po’ diminuita, nel senso che è aumentato a dismisura il numero di persone che oggi non crede più all’informazione ufficiale. A volte lo fa razionalmente perché si è documentata, a volte istintivamente. Questo è secondo me positivo, perché sta rimettendo in gioco le dinamiche più autentiche della democrazia. Io, che sono di matrice di studio montanelliano e sono un liberale, ma sono fondamentalmente, innanzitutto, un democratico, credo che la volontà del popolo debba sempre essere rispettata. Per me il concetto di sovranità è fondamentale.

IL FRAME. Noi viviamo in una società in cui si è creato un nuovo frame, e questo è un concetto molto importante, che pochi osano sfidare. Cos’è il frame? Il frame è una cornice, un concetto molto forte che automaticamente si impianta nella mia psicologia, nei miei valori. Una volta creato questo meccanismo, tutto quello che rientra dentro la cornice rafforza la mia percezione del mondo e mi rassicura. Le notizie, anche vere, che escono dalla cornice, automaticamente tendo a scartarle o minimizzarle o ignorarle. Quando tu crei un frame molto forte, ad esempio il frame dell’euro, quando dicono cioè che “l’euro è fondamentale per il nostro benessere” (lo dissero quando venne adottato in Europa e ancora oggi chi lo mette in dubbio viene considerato come un destabilizzatore che mette a repentaglio il futuro dell’Europa), tu vai a toccare un frame molto forte, una parte molto ampia della popolazione. Se tu vai a toccare questo frame, il riflesso condizionato delle maggior parte delle persone è: io rifiuto o comunque mi spavento di fronte a questa critica perché va a mettere in dubbio l’esistenza stessa. Vale anche per la religione. Se tu vai a mettere in dubbio alcuni dogmi di qualunque religione, cattolica, ebraica, musulmana, chi crede molto le rifiuta automaticamente, anche se l’evidenza dovrebbe portarlo perlomeno a farsi qualche domanda. Lo stesso vale per la politica, vale per il nostro convivere sociale.

L’UOMO-HITLER. Tutto questo, tornando ai media, fa sì che la maggior parte dei media tenda ad assecondare, a rafforzare questo frame anziché dare ai cittadini gli strumenti per valutare autonomamente e indipendentemente quello che accade loro intorno. Ed è questa la ragione per cui, ad esempio, è molto facile orientare le masse in occasione delle grandi crisi internazionali. Quando vuoi demonizzare qualcuno, la cosa che puoi fare è dirgli che è un nemico della libertà, è un nemico delle istituzioni, oppure, in casi estremi, un uomo-Hitler. Quando attribuisci a qualcuno un’etichetta, automaticamente screditi questa persona, screditando automaticamente anche le tesi che porta con sé. Sono tecniche che sono state usate molto, e che vengono usate ancora oggi molto frequentemente. Gli spin doctor sono delle persone estremamente intelligenti, molto spesso sono degli ex giornalisti o dei comunicatori professionali di grandissima intelligenza e hanno delle squadre di psicologi, fanno studi di psicologia che permettono loro di affinare l’approccio. Queste stesse persone si rendono conto oggi che le tecniche che in larga misura sono ancora valide e applicate, non bastano più per procedere a un condizionamento delle masse che fino a qualche tempo aveva un risultato quasi perfetto. Prima era un procedimento quasi matematico. Ovviamente a provocare questo turbamento, questo scombussolamento, è internet.

RIVOLUZIONI PROVOCATE AD ARTE. Internet è un’esperienza molto positiva. Il blog dal quale io in questo momento sto parlando ne è testimone. Questo blog, qualche anno fa, sarebbe stato inimmaginabile. Il blog di Beppe Grillo… tante esperienze belle… una buona informazione su internet la trovi. Però attenzione: su internet gli spin doctor stanno applicando nuove tecniche per raggiungere i loro scopi, dissimulando le loro intenzioni. In questo momento ci sono tante esperienze positive, ma ci sono anche delle tecniche che ti permettono di orientare le masse e spaccarle. Ci sono tecniche per le quali a volte tu pensi che qualcuno che ti è amico lo sia davvero, e invece non lo è affatto, ma viene lì per cercare di distogliere l’attenzione da alcuni obiettivi. Esempio: che fine ha fatto il movimento Occupy Wall Street? Per questo movimento io ho avuto molta simpatia, perché portava alla luce del sole un sentimento molto giusto, di disgusto e di ingiustizia. È successo che l’hanno spaccato usando due metodi. Io diffido sempre quando un personaggio di estrema intelligenza ma di grande cinismo, come Soros, si interessa di certi movimenti. Soros passa per essere un filantropo. Secondo me invece è uno che usa la filantropia per fini non sempre dichiarati. Faccio una piccola parentesi sulle rivoluzioni che hanno scosso l’Est Europa negli anni ’90-2000, in particolare il movimento che ha fatto cadere Milosevich: la Rivoluzione Arancione. In Ucraina, vi ricorderete l’appassionante Natale in cui noi tutti parteggiammo per gli arancioni contro i russi, la rivoluzione spontanea in Georgia. La finta primavera araba non è stata un movimento di massa spontaneo, assolutamente no! Questi movimenti hanno tratto origine dalle teorie di un professore americano che le ha applicate per la prima volta nell’ex Jugoslavia, col fortissimo appoggio dei gruppi di Soros. Lì hanno messo per la prima volta a punto una tecnica per rovesciare i regimi usando le piazze. Per cui di fatto, in parole povere, è come se fossero dei colpi di stato senza l’uso tradizionale del colpo di Stato, cioè l’occupazione. E ha avuto molto successo.  La Rivoluzione Arancione fu una rivoluzione pianificata ad arte, pianificata dai movimenti che erano legati a Soros (ma non solo), e che insieme costituivano la think tank che ha finanziato e pianificato quella rivoluzione, che era una messa in scena. Ci sono alcuni dettagli dai quali tu puoi decriptare quando ci sono delle messe in scena e quando i movimenti sono autentici. Se c’è un movimento di piazza spontaneo, noi scendiamo in piazza così come siamo vestiti in quel momento: io ho la mia maglia blu, c’è chi ha la maglia verde eccetera… Anche se fai un passaparola del tipo “andiamo tutti con la maglia arancione”, uno arriverà con l’arancione chiaro, un altro con l’arancione dell’Olanda, un altro ancora con l’arancione della maglietta che ha preso al mare… Per cui sarà un caleidoscopio di arancioni: non saranno tutti uguali. Alla Rivoluzione Arancione, invece, se andate a riprendere su internet le immagini, vi accorgerete che l’arancione era uniforme, che c’erano le sciarpe, che c’erano le tende: c’era tutto! In quel caso tu devi drizzare un po’ le orecchie e dire “ma com’è possibile che una protesta di piazza abbia questo impatto scenografico che televisivamente renderà moltissimo, se è davvero spontanea? Infatti non era spontanea: era una cosa pianificata. Pochi mesi dopo ci fu una protesta spontanea analoga a Minsk, in Bielorussia, contro il dittatore Lukashenko. Non c’erano dietro degli spin doctor. Di quella protesta nessuno ha memoria oggi, durò pochi giorni e finì come quasi tutte le proteste, ovvero con l’arresto e la detenzione di chi l’aveva organizzata. Tornando a Occupy Wall Street, quando Soros ha cominciato a interessarsi e a portare finanziamenti alle persone dentro al movimento, per me quello era il segnale chiarissimo che c’era in corso un tentativo di destabilizzare il movimento dall’interno. Quando c’è un movimento di massa che ti preoccupa, puoi spaccarlo in due maniere: attaccarlo per distruggerlo frontalmente oppure – Sun Tzu in “L’arte della guerra” lo insegna molto bene, parliamo di un manuale di oltre 2000 anni fa – puoi cercare di infiltrarlo per spaccarlo dall’interno. Una volta che l’hai spaccato dall’interno, il movimento perde la sua funzione vitale e quasi sempre, se è basato sulla spontaneità, muore di morte naturale. Esattamente quello che è successo con Occupy Wall Street. Con un’aggravante: articoli usciti sulla stampa americana, e ripresi anche dalla stampa italiana, dimostrano come le grandi banche d’affari americane chiesero e ottennero l’intervento dell’FBI per usare quei metodi tipici non dello scontro frontale, ma insomma con la destabilizzazione che può fare una grande polizia, un grande servizio segreto. Il movimento Occupy Wall Street infatti si inaridì spontaneamente, quasi per inerzia: in realtà è stato spento in maniera che sembrasse un’inerzia.

TECNICHE DI CONDIZIONAMENTO IMPLICITO. Perché dico tutto questo? Perché oggi si può leggere l’attualità nazionale e internazionale in due modi possibili. Il primo è quello del filtro classico dei giornali, i quali ragionano secondo il concetto del frame, ovvero hanno una visione della realtà e tendono a riconfermarla costantemente. Attenzione, non è che i giornalisti ricevono una telefonata da qualcuno che gli dice “devi scrivere così”. Talvolta capita (a me, devo dire, in venti anni di carriera non è mai capitato), ma non è necessario. Una volta che tu, spin doctor, hai stabilito la cornice, gli scopi, e hai stabilito una visione che è legittimamente corretta mentre tutte le altre non lo sono, tutto il resto viene automaticamente: i giornalisti vanno in modo inerziale nella direzione che crea consenso intorno a loro, consenso nei confronti del pubblico, nei confronti del proprio elettorato e nei confronti dei propri colleghi. Accade in quasi tutti i giornali del mondo. Questo meccanismo poi si alimenta da solo: se compri tanti giornali o guardi molti telegiornali, sei colpito dal fatto che la scelta delle notizie sia quasi sempre la stessa, e trattata nella stessa maniera. Prendete le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali: hanno sempre gli stessi titoli e sempre gli stessi argomenti. Ma voi sapete quanti lanci di agenzia arrivano in un giornale ogni giorno? Tra i sei e i diecimila (per un giornale di media grandezza). Hanno diecimila notizie a cui attingere eppure la scelta cade sempre su quelle dieci che finiscono in prima pagina e vengono trattate sempre alla stessa maniera. Questo non è possibile condizionando i giornalisti: è possibile applicando queste tecniche di condizionamento implicito che hanno un effetto straordinario.

BEPPE GRILLO. Un esempio secondo me classico, da cui la stampa non esce bene (alcuni lo dicono, oggi, ma bisognava dirlo qualche tempo fa), è il modo in cui il fenomeno di Beppe Grillo è stato trattato. Non mi riferisco né alla campagna elettorale né a quel che sta accadendo in queste ore, ma prima. Cioè Beppe Grillo è stato un fenomeno sociale giornalistico interessantissimo: ha dato voce, ha interpretato un malessere diffuso della società italiana. Non era difficile, non era un mistero interpretare quel malessere. Però, se andate a vedere gli archivi dei quotidiani, magari facendo una ricerca online, non troverete se non occasionalmente articoli in cui i giornalisti hanno cercato di spiegare chi era Beppe Grillo davvero, così come il perché della sua evoluzione da comico a capopopolo, o che cosa lui dicesse nei suoi comizi, quale fosse il pubblico che andava a trovarlo, quali erano le aspettative, un’analisi anche economica scientifica delle sue teorie, giuste o sbagliate che fossero, ovvero un meccanismo di buon giornalismo di inchiesta. Non è stato fatto. Di tanto in tanto, quando lui fece il Vaffaday a Bologna qualche tempo fa, dove ci fu una folla immensa, i giornali e i media con grande fastidio, con grande ritrosia si occuparono dell’argomento, ma solo per liquidarlo in poche righe come populista e poi non occuparsene più. Perché questo? Perché Beppe Grillo non rientrava in nessun frame: non poteva essere considerato berlusconiano, non poteva essere considerato tipico della sinistra antiberlusconiana, non poteva essere considerato leghista, non era rifondarolo, non era vendoliano, non era dipietrista. Era una cosa strana, ibrida, che usciva sia dagli schemi classici del giornalismo e sia dalla politica. Qual è stato il riflesso condizionato dell’insieme dei giornali? Una cosa strana, anomala: non parlarne. Sentivano che questo fenomeno rompeva il loro schema, rompeva il loro mondo, rompeva il loro frame, non era gradito ai partiti politici. Hanno cercato di applicare una tecnica, riprendendo un libro molto azzeccato in America il cui titolo era “La peggior punizione che tu puoi fare a qualcuno è il silenzio”. Ecco, nel caso di Beppe Grillo è stata applicata la tecnica del silenzio. Non parlavano di Beppe Grillo e pensavano che se nessuno ne avesse parlato lui sarebbe stato destinato – secondo le vecchie regole – ad afflosciarsi. In realtà questo era vero finché i giornalisti – questa è un’altra grandissima rivoluzione – avevano il monopolio di quel che si poteva denunciare o meno sulla stampa….

ECCO TUTTE LE TATTICHE CHE MEDIA, GIORNALI E TV USANO PER MANIPOLARE L’OPINIONE PUBBLICA. Fonte Salto Quantico. Manipolare l’opinione pubblica. Ecco tutte le tattiche di disinformazione che media, giornali e tv usano per manipolare l’opinione pubblica, inducendo le persone a pensarla in modo surreale. Ci sono tattiche precise che i maestri della disinformazione tendono ad applicare, ve ne sveleremo 25 in questo articolo. Le persone possono essere comprate, intimorite, o addirittura ricattate con lo scopo di diffondere disinformazione, così anche le “persone perbene” in molti casi, possono diventare sospette. E’ compito di un professionista della disinformazione è interferire con queste valutazioni, perlomeno per indurre le persone a pensare che i collegamenti siano deboli o spezzati quando, in realtà, non lo sono… O presentare soluzioni alternative che allontanino dalla verità. Molto spesso la verità viene “rallentata” attraverso tattiche di disinformazione, un risultato assicurato perché l’apatia cresce con il passare del tempo e con la retorica.

Le accuse non dovrebbero essere “abusate” tienile per i colpevoli recidivi e per quelli che usano tattiche multiple.

Le repliche non devono mai cadere nelle trappole dell’emozione o deviare dalle informazioni, a parte che non ci sia qualche osservatore venga facilmente distratto dall’inganno. 

ECCO QUI DI SEGUITO LE VENTICINQUE REGOLE DELLA DISINFORMAZIONE.

1) Elusione: Non Vedo, Non Sento, Non Parlo. Indipendentemente da quello che sai, evita di parlarne in particolar modo se sei un personaggio pubblico, un conduttore televisivo, ecc. Se non viene riportato, non è accaduto, e tu non devi mai parlarne e mai affrontare il problema.

2) Diventa Incredulo e Indignato: Non discutere questioni chiave, al contrario concentrati su notizie marginali che possano essere usate per dimostrare come l’argomento di altri gruppi o temi, altrimenti ritenute veritiere diventato invece criticabili. Questa mossa è chiamata: “Come ti permetti!”.

3) Crea Persone Che Diffondono Pettegolezzi: Evita di parlare dei problemi entrando in merito alle accuse, non considerare il luogo o le prove, falli passare come semplici pettegolezzi e accuse fantasiose. Questi metodi funzionano in modo particolare con una stampa imbavagliata, perché l’unico modo in cui il pubblico viene a conoscenza dei fatti è attraverso “dicerie discutibili”. Se hai la possibilità di associare il materiale con Internet, sfrutta il web per dichiarare che si tratta di un “pettegolezzo infondato” proveniente da un “gruppo” di ragazzini che giocano su internet” che non può avere nessun fondamento su fatti concreti.

4) La Logica di Alice Nel Paese Delle Meraviglie: Evita la discussione dei problemi ragionando a ritroso o con un’apparente logica deduttiva; tralascia tutti i fatti concreti.

5) Confondi: Invoca, reclama la tua autorità o chiama in causa qualcuno che la abbia e presenta la tua tesi con “linguaggio tecnico” e “sottigliezze” sufficienti per mostrare che sei “uno persona che sa”, e dì semplicemente che le cose non stanno così senza parlare dei problemi o dimostrando concretamente il perché oppure citando fonti.

6) Fai Finta di Non Sapere: Non preoccuparti di fornire prove o argomenti logici, evita di discuterne tranne che con la negazione che tali questioni abbiano qualche credibilità, qualche scopo, forniscano qualche prova, contengano o diano un senso, abbiano una logica. “Impasta” bene per il massimo effetto!

7) Gli Enigmi Non Hanno Soluzioni: Facendo riferimento all’insieme di scenari che fanno parte del crimine ed al gran numero di protagonisti e di eventi, traccia un quadro della situazione tale da farla apparire troppo complessa per essere risolta. Questo fa sì che quelli che altrimenti seguirebbero la questione inizino a disinteressarsene più rapidamente senza aver affrontato concretamente la questione.

8) Cambia il Soggetto: In connessione con una delle altre tattiche elencate qui, trova un modo di deviare la discussione con commenti caustici o controversi, cerca di spostare l’attenzione su un argomento nuovo e più gestibile. Questa tecnica funziona particolarmente bene con complici che riescano a “litigare” con te sul nuovo argomento e polarizzare lo spazio di discussione con lo scopo di evitare che si affrontino i problemi chiave.

9) Non dar retta alle Prove Presentate, Chiedi Prove Impossibili: Questa è forse una variante della regola “Fai finta di non sapere”. Ignora il materiale presentato da un antagonista nei forum pubblici, dichiara che il materiale fornito è irrilevante e richiedi prove impossibili da ottenere per l’avversario (possono esistere ma non essere a sua disposizione, o può trattarsi di qualcosa che, si sa con certezza, è andata distrutta o è nascosta in luogo sicuro, ad esempio l’arma usata per un delitto). Per evitare completamente di discutere dei problemi, potrebbe essere necessario che tu debba criticare e negare che i media e libri siano fonti attendibili, negare che i testimoni siano degni di fiducia, o anche negare che dichiarazioni fatte dal governo o altre autorità abbiano qualche significato o rilevanza.

10) Inventa Distrazioni Più Grandi: Per distogliere l’attenzione da problemi delicati, o per prevenire coperture mediatiche indesiderate di eventi inarrestabili come i processi, crea notizie di cronaca più importanti (o presentale come se lo fossero) per distrarre la gente.

11) Attacca: Puoi utilizzare un Fantoccio trova o crea un elemento credibile della tesi dei tuoi avversari che puoi facilmente buttare giù per farti sembrare dalla parte della ragione e mettere in cattiva luce l’informatore. Oppure tira fuori una questione della quale puoi con sicurezza insinuare l’esistenza basata sulla tua interpretazione dell’informatore, dei sui argomenti, della situazione, oppure seleziona l’aspetto più debole delle accuse più deboli. Amplifica il loro significato e distruggile in un modo che sembri ridicolizzare, allo stesso modo, tutte le accuse reali e costruite, evitando inoltre che la discussione si sposti effettivamente su problemi concreti.

12) Distrai Gli Avversari con Insulti e Ridicolizzandoli: Viene chiamata: “attacca il messaggero”. Associa gli avversari a titoli impopolari come “pazzi”, “conservatori”, “liberali”, “di sinistra”, “terroristi”, “fanatici della cospirazione”, “radicali”, “fascisti”, “razzisti”, “fanatici religiosi”, “maniaci sessuali” e così via. Questo spinge gli altri a ritirarsi dal sostenerli per paura di venire etichettati allo stesso modo, e tu eviti di confrontarti con i problemi.

13) Colpisci e Scappa: In ogni forum pubblico, e social, fai un breve attacco ai tuoi avversari o alla posizione avversa e poi scappa via prima che ti rispondano o più semplicemente ignora ogni risposta. Questa tattica funziona benissimo su Internet nelle lettere alle redazioni dove un flusso regolare di nuove identità può essere utilizzato senza dover spiegare critiche, ragionamenti – semplicemente lanciando accuse o altri attacchi, senza mai discutere problemi, e senza mai rispondere ad ogni replica successiva, perché quello darebbe dignità al punto di vista degli avversari.

14) Associa le Accuse Degli Avversari Con Vecchi Avvenimenti: Una tattica derivata da quella del fantoccio, va bene in qualunque situazione dove si abbia grande visibilità, qualcuno all’inizio farà accuse sulle quali si può discutere o si è già probabilmente discusso un tipo di investimento per il futuro qualora la situazione non fosse facilmente controllabile. Dove puoi prevederlo, crea un problema “fantoccio” e trattalo come una parte contingente del piano iniziale. Le accuse successive, indipendentemente dalla loro validità o dalla scoperta di nuovi elementi, possono poi di solito essere associate con l’accusa originale e liquidate come un rimaneggiamento della stessa senza bisogno di affrontare problemi attuali – ancora meglio se l’avversario è, o è stato coinvolto, con la fonte originale.

15) Richiedi Soluzioni Complete: Evita le questioni chiedendo agli avversari di risolvere totalmente il problema, tale strategia funziona meglio trattando temi del tipo “Associa alle accuse agli avversari vecchie notizie”.

16) Impressiona, Contrasta e Pungola Gli Avversari: Se non puoi fare nient’altro, rimprovera e schernisci i tuoi avversari e trascinali a risposte emotive che tenderanno a farli sembrare stupidi ed eccessivamente motivati, e generalmente rendono il loro materiale in qualche modo meno coerente. Non solo eviterai di dover discutere i problemi in prima istanza, ma inoltre se la loro risposta emotiva riguarda la questione, puoi evitare ulteriormente i problemi focalizzandoti su quanto “siano suscettibili alle critiche”.

17) Falsifica: Metti in dubbio tutto; distorci o amplifica ogni fatto che può essere utilizzato per insinuare che l’avversario agisce in base a secondi fini nascosti o altre faziosità. Questo evita che si discuta dei problemi e costringe l’avversario sulla difensiva.

18) Crea e Fai Affidamento su Una Via d’Uscita: Utilizzando un aspetto o un elemento secondario della notizia segui la “retta via” e “confessa” con candore che qualche errore in buona fede, col senno del poi, in realtà è stato commesso, ma gli avversari ne hanno approfittato per ingrandirlo in modo esagerato ed insinuare il dubbio di un notizia più grave, solo che “non è così”. Altri in seguito possono rafforzare questa tesi a nome tuo, ed anche chiedere pubblicamente che “si ponga fine a certe dicerie” perché tu hai già “fatto la cosa giusta”. Eseguita in modo corretto, questa tattica può farti ottenere comprensione e rispetto per aver “detto la verità” e “confessato” i tuoi errori senza dover affrontare problemi più seri.

19) Adatta i Fatti a Conclusioni Alternative: E’ richiesto di pensare in modo “creativo” a meno che il “crimine” non sia stato pianificato con idonee previsioni dei possibili sviluppi.

20) Crea Prove False: Dove puoi presenta fatti nuovi o indizi progettati e creati per essere in contrasto con quelli presentati dagli “avversari” come strumenti utili per neutralizzare problemi delicati oppure impedirne la soluzione. Questo funziona meglio quando il crimine è stato progettato tenendo conto delle peculiarità adatte allo scopo, e i fatti non possono essere separati facilmente dalle menzogne.

21) Costruisci Una Nuova Verità: Crea i tuoi esperti, i tuoi promotori, i tuoi leader o condiziona qualcuno già esistente disposto a forgiare una nuova verità tramite ricerche scientifiche, investigative o sociali o una testimonianza che si concluda a tuo favore. In questo modo, se devi effettivamente affrontare i problemi, puoi farlo con autorevolezza.

22) Nascondi le Prove: Fai Sparire Prove e Testimonianze. Se non esiste, non è un fatto e tu non dovrai affrontare il problema.

23) Fai Appello a un Grand Jury, a un Procuratore Speciale, o ad un Altro Corpo Investigativo Autorizzato: Sovverti (il processo) a tuo favore e neutralizza efficacemente tutti i problemi più delicati senza una discussione aperta. E’ necessario che le prove e le testimonianze, se trattate correttamente, restino segrete una volta che sono state raccolte. Per esempio, se controlli il procuratore, questo può assicurarti che il Grand Jury non prenderà in esame le prove più utili ed anche il loro occultamento in modo che non siano disponibili per gli investigatori. Una volta che hai ottenuto un verdetto favorevole, la questione può essere considerata ufficialmente chiusa. Di solito questa tecnica è applicata per far assolvere un colpevole, ma può essere utilizzata anche per acquisire accuse quando si cerca di incastrare un innocente.

24) Fai Tacere i Critici: Se i metodi descritti non funzionano, valuta la possibilità di togliere gli avversari dalla circolazione con qualche soluzione definitiva in modo che non ci sia più bisogno di affrontare i problemi. Questa soluzione può essere la loro morte, l’arresto e la detenzione, il ricatto o la rovina della loro reputazione con la diffusione di informazioni compromettenti, o semplicemente puoi distruggerli dal punto di vista finanziario, psicologico o danneggiare gravemente la loro salute.

25) Sparisci: Se custodisci segreti chiave o sei comunque al corrente di dettagli non noti.

Cinque fantastiche fake-news…scrive Piero Sansonetti l'1 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby, Spada, casi diversi accomunati dallo stesso metodo: il totale travisamento della realtà. Si dice così: fake news. Cioè notizie false, disinformazia, come la chiamavano una volta i sovietici. Fake news però non sono solo le notizie false ma è anche quel genere di informazione, molto diffuso, costruito su presupposti di non verità. Talvolta questa non verità è prodotta da apparati che vivono esattamente con questo scopo (appunto come erano i centri organizzati dallo spionaggio e dal controspionaggio sovietico, ma anche americano e di altri), talvolta invece è prodotta dai partiti e dalle loro macchine della propaganda. Fantastiche fake: Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby…Talvolta viene direttamente dalle istituzioni o dai giornali o dalla Tv.

In genere le notizie false – trattate in un certo modo dal sistema dell’informazione e dai partiti – finiscono per avere un valore sociale esattamente uguale a quello delle notizie vere. Perché vengono ripetute, e ripetute, e ripetute, in barba a qualunque smentita, finché l’opinione pubblica non si convince che se una cosa è detta così tante volte deve essere necessariamente almeno un po’ vera. (Questo meccanismo massmediologico fu studiato e definito molto bene, negli anni trenta, da un giornalista e politico tedesco di grande ingegno, Joseph Goebbels, che fu il braccio destro di Adolf Hitler). Vogliamo vedere qualche caso, recente, di informazione fondata sulla non verità? Casi molto diversi tra loro ma tutti saldamente ancorati all’idea che la verità è quella che un apparato informativo o politico riesce a imporre, non è la realtà delle cose.

IUS SOLI. E’ diffusissima l’idea che il Pd voglia lo Ius soli per ottenere il voto di migliaia di immigrati. Ma è del tutto falso. Lo Ius soli concede la cittadinanza ai bambini che sono nati qui, che sono ancora piccoli, che non si sognano nemmeno di votare, e che quando saranno grandi, e avranno l’età per votare, comunque potranno avere la cittadinanza, anche con la legge attuale, senza Ius soli, perché dopo dieci anni di residenza regolare tutti possono avere la cittadinanza. Così come è diffusa l’idea che lo Ius soli possa attirare in Italia orde di africani. Nessun africano prende un gommone e mette a rischio la sua vita (i dati statistici dicono che ha il 3 per cento di possibilità di morire affogato in quel viaggio) per un calcolo sulla futura cittadinanza di bambini che ancora non sono nati e neppure concepiti. Nessuno. Eppure per rendere chiara l’idea che non esiste alcuna ragione plausibile per opporsi allo Ius soli è stato necessario l’impegno di un uomo dello spettacolo come Fabio Volo. Che è andato da Berlusconi e da Renzi (cioè da due dei leader politici più moderati e meno ostili a politiche di accoglienza, ma entrambi timorosi della potenza di fuoco della propaganda leghista e grillina e populista) e ha chiesto loro perché non riescono a capire una cosa così facile da capire che l’ha capita anche suo figlio di quattro anni. E cioè che i bambini neri sono bambini come i bambini bianchi e vanno trattati con umanità. Berlusconi e Renzi non hanno risposto. Perché non hanno risposto? Perché tutti e due sanno che Volo ha ragione, ma tutti e due sanno che lus soli è un principio che è stato abbattuto da una raffica di fake news, e che è molto difficile da difendere senza perdere voti. E la raffica di fake news è stata possibile perché nessun giornalista, finora, ha posto a Berlusconi e Renzi la domanda semplice e quasi ingenua che ha posto Volo.

CARIDI. Ne ho parlato e scritto molte altre volte di questo senatore della Repubblica che da un anno e mezzo vive, disperato, in una cella di Rebibbia. Non mi è mai tornata indietro neppure una eco flebile flebile delle mie proteste. Nessuno le ha riprese e nessuno ha avuto la faccia tosta di respingerle. Su Antonio Caridi si son abbattute le fake news guidate dalla magistratura. Che è giunta a immaginarlo come il capo di una supercupola inter-mafiosa. Cioè, in parole povere, il capo dei capi di tutta la criminalità organizzata. Altro che Riina! Altro che Liggio! Poi l’accusa è scivolata un po’, hanno capito che era troppo grossa la balla, e hanno ammesso che forse non è proprio il capo, ma insomma qualcosa c’entra… Prove d’accusa? Le parole di un pentito, cose vecchie di 14 anni, già prese in esame e scartate come infondate da vari magistrati, ma che ora sono tornate a galla e sono state sufficienti ad arrestarlo. Col beneplacito di un Senato fifone e infingardo, che si è lavato le mani e ha detto ai giudici: «Prendetelo pure e fatene quel che volete». E sebbene la Corte di Cassazione abbia definito non motivato l’arresto, nessuno ha avuto il coraggio di sollevare un’obiezione, di fare una domanda. Chissà, forse lo farà di nuovo Fabio Volo… E Caridi, il senatore Caridi, resta in galera, per via delle fake news istituzionalizzate. In occidente – inteso nel senso più ampio – non ci sono molti casi di parlamentari in galera. Non vorrei sbagliarmi ma credo che ci siano situazioni simili solo in Venezuela e in Turchia.

IMMIGRAZIONE. Ancora ieri il capo della Lega, Matteo Salvini, per giustificare l’irruzione dei naziskin in un circolo lombardo che aiuta i profughi, ha detto che il problema non sono i naziskin ma il problema è Renzi e che nessuno può negare che i naziskin dicano una cosa vera quando parlano di una invasione degli africani. Mi interessano poco le simpatie naziste di Salvini, sono sempre stato contro i reati di opinione e per la più assoluta e completa libertà di idee e di pensiero e di parola e di scrittura. Sono contro le leggi che condannano l’apologia. Anche l’apologia di fascismo e di razzismo, eccetera eccetera. Mi limito a osservare che Salvini di nuovo costruisce il suo ragionamento su una fake news, e che nessuno gliela contesta, perché è stata ripetuta talmente tante volte, questa fake news, che ormai è vera anche se non corrisponde alla realtà. La fake news sull’invasione in atto. Sul continuo aumento degli arrivi dall’Africa. La realtà sono i dati. Ecco i dati: nel 2016 gli sbarchi sulle coste italiane furono 173 mila (da gennaio a novembre) quest’anno, nello stesso periodo, sono stati 117.000. Oltre il 30 per cento in meno. Di questi, più della metà non si ferma in Italia. Circa 50 mila, forse meno, si fermano da noi. Cioè meno dello 0,09% della popolazione italiana.

SPADA. L’altro giorno un ragazzone di 29 anni che aveva staccato a morsi l’orecchio a un tassista, e poi gli aveva spaccato il naso e la clavicola, è stato mandato agli arresti domiciliari. Qualche settimana fa un certo Roberto Spada, che aveva spaccato il naso a un giornalista (ma solo il naso, risparmiandogli l’orecchio e la clavicola) è stato mandato al carcere duro di massima sicurezza. Perché? Perché, hanno detto i magistrati, il primo delitto è stato commesso in modalità semplice, il secondo in modalità mafiosa. Roberto Spada è un mafioso? Ha precedenti per mafia? No. Ecco, la mafiosità del delitto di Spada è una fake news. Messa in giro dalla stampa, che ha preteso l’arresto di Spada anche se impossibile a rigor di legge, e lo ha ottenuto. Perché anche la magistratura, intimidita dalla stampa, ha accettato la fake news.

RUBY. La fake news originaria durò pochi minuti ma diventò famosissima. Era quella detta da Berlusconi che sostenne che Ruby fosse nipote di Mubarak. Fu subito smentita e svanì, trasformandosi in argomento di scherzi e lazzi. Poi prevalse la fake news del decennio. Quella che Berlusconi avrebbe commesso un reato molto grave invitando a casa sua un po’ di ragazze. Fu processato e condannato a una lunga pena detentiva per concussione e prostituzione minorile. Le giudici che emisero la condanna aumentarono la pena rispetto a quella richiesta dalla terribile Boccassini. Poi la Corte d’Appello, sorridendo, annullò la condanna per assenza evidente del reato. E la Cassazione fece lo stesso. Ma la fake news restò viva. Non solo sui giornali e nell’opinione pubblica ma in molti palazzi di giustizia. Nacque il processo Ruby- bis e il processo Ruby- ter. E successivamente il processo Ruby- ter si spezzò in tanti filoni, il Rubiter propriamente detto, il Ruby- ter- bis, il Ruby- terter, il ter-quater, eccetera eccetera fino al ter- septies. Nessuno sa quanti soldi siano stati buttati al vento per questa scemenza. Nessuno sa quanto durerà ancora. Si sa solamente che alcuni di questi processi si svolgeranno in campagna elettorale e qualcuno, malizioso, pensa che si tratti di giustizia ad orologeria. Ad orologeria o meno, il fatto è che è accertato (e certificato dalla Cassazione) che il reato era un fake-reato. Ma se dici reato, reato, reato, alla fine il reato, comunque, c’è.

Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.

(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).

Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13). 

Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.

A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system“, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata.  Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.

Falsi servizi per Striscia. Mingo rinviato a giudizio, scrive il 28 Novembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il gup del Tribunale di Bari Annachiara Mastrorilli ha rinviato a giudizio Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio), per i reati di truffa, simulazione di reato, falso, calunnia e diffamazione. Stando all’ipotesi accusatoria, Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia, avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie, facendosi pagare 10 servizi relativi a fatti inventati e invece spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori. L’importo complessivo delle due truffe ipotizzate dalla magistratura barese ammonta a oltre 170 mila euro. Nel procedimento Mediaset si è costituita parte civile. La prima presunta truffa, quantificata in 21 mila euro (percepiti come compensi aggiuntivi rispetto al forfettario di 160 mila euro previsti dal contratto fra Mec e Mediaset) e relativa al periodo compreso fra dicembre 2012 e dicembre 2013, è contestata a De Pasquale e Martino e riguarda dieci servizi "risultati artefatti, simulando fatti, personaggi, circostanze e condizioni, frutto della fantasia degli indagati» secondo il pm Isabella Ginefra. Dal falso avvocato al falso agente interinale, dalla sedicente maga sudamericana capace di guarire malattie in cambio di denaro al falso assicuratore, al falso medico, al falso manager aziendale che assumeva giovani lavoratori in cambio di prestazioni sessuali: per la Procura di Bari si sarebbe trattato in tutti questi casi di attori ingaggiati per simulare eventi e in alcuni casi percosse in danno di Mingo e della troupe. La seconda truffa, dell’importo di 151 mila euro, è contestata alla sola Martino e fa riferimento a presunte false prestazioni lavorative di figuranti/attori rimborsate da Mediaset. Al termine dell’udienza preliminare il giudice ha prosciolto un’altra imputata, ritenuta la segretaria della società Mec, che era accusata di favoreggiamento. Il processo nei confronti di Mingo e sua moglie inizierà il 3 aprile 2018 dinanzi al Tribunale Monocratico di Bari. «Siamo certi che le ipotesi accusatorie saranno smentite nel corso del dibattimento». In una nota a firma del difensore Francesco Maria Colonna Venisti, gli imputati commentano la notizia del loro rinvio a giudizio. «Saranno contrastate efficacemente le notizie diffuse nel corso di questi mesi - prosegue la nota - che non sono riuscite ad infangare la reputazione di un professionista le cui qualità, non solo artistiche, ultra ventennali, non sono state mai discusse. Un professionista che continua a trovare apprezzamento e stima in Italia e all’estero. La fase delle indagini preliminari, e l’udienza preliminare stessa, non possono essere valutate con presunzione di colpevolezza e fungere così da gogna mediatica. Nel corso dell’udienza preliminare, attraverso la produzione di una copiosa memoria difensiva, documentata, e di una lunga discussione, sono state prospettate ricostruzioni diverse da quelle effettuate dalla pubblica accusa che troveranno il loro riscontro nel corso del dibattimento. Il confronto in aula - concludono - consentirà di citare tutti coloro che potranno attestare la correttezza dei comportamenti e delle persone».

La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani). Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne. Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo. Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani).

Quando vengono colpiti esponenti della maggioranza scatta la richiesta di una legge che blocchi le «storie false». In realtà basta applicare le norme attuali, senza pensare a provvedimenti liberticidi, scrive su "Libero Quotidiano" Filippo Facci il 28 Novembre 2017. Facciamo un esempio serio e uno meno serio. Il primo: ieri Repubblica titolava in apertura di prima pagina: «Una legge contro le fake news». Sottotitolo: «Renzi: M5S e Lega, vi abbiamo sgamati». Qualsiasi persona normale capisce che il governo sta facendo una legge sulle fake news e che c’è lo zampino di Renzi. Invece basta voltare pagina e la notizia diventa «Fake news, legge del Pd» (titolo) e si legge che Renzi ha detto: «Non pensiamo a nuove leggi, figuriamoci» e che semmai sta valutando di pubblicare un report quindicinale sulle schifezze in rete. Quindi domanda - quella di Repubblica è una fake news? Risposta: sì e no, dipende, anche perché nello stesso articolo, effettivamente, si parla anche di una legge sulle fake news che altri piddini stanno preparando. Insomma, è anche una questione di opinioni, roba che non si può incasellare banalmente in fake news sì/fake news no, perché significherebbe sindacare il modo personale di interpretare la realtà, e, in questo caso, di interpretare un articolo di giornale. Per casi più gravi o manifesti, in compenso, in Italia la legge punisce già chi pubblichi il falso o il diffamatorio o il manifestamente ingannevole. Di che stiamo parlando, allora? Non lo si capisce neanche dal secondo esempio, quello meno serio: c’è una frase di ieri tratta del blog di Grillo, l’inchiesta sulle fake news è una bufala», che in concreto significa che «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», il che trasforma in potenziale fake news anche il contraddirla come fa l’articolo che state leggendo (questo) in cui sosteniamo che la frase del blog di Grillo, «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», in pratica è una fake news. Nota: non stiamo facendo gli spiritosi. Per complicare un po’ le cose, ieri, il presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che, sul tema, ignora se lo strumento più adeguato sia una legge: però, poi, ne è spuntata subito una chiamata Disegno Zanda-Filippin, anche se non è stata ancora depositata. La norma parla di «delitti contro la Repubblica» e si rivolge principalmente ai social network affinché raccolgano reclami sulle «fake news» e decidano entro 24 ore (o una settimana, nei casi più controversi) se rimuovere uno scritto e «bloccare» l’autore. Se impropriamente non lo faranno, le sanzioni varieranno da mezzo milione a cinque milioni di euro. Le rimozioni potranno essere chieste anche da un pubblico ministero. Una struttura come Facebook, per dire, secondo questa legge dovrebbe vagliare i contenuti di due miliardi di persone, ogni santo giorno, quindi soppesarli, valutarli, ergo decidere entro poche ore ciò che un processo per falso o diffamazione impiega qualche anno a sentenziare, almeno da noi. Limitiamoci a dire questo: per una parte dei contenuti, che si limitano a riprendere articoli o video già pubblicati, la legge esiste già, ed è appunto quella che punisce la diffamazione o il falso a mezzo stampa; per tutti gli altri contenuti, pubblicati da privati, il sistema di vigilanza dei social network non potrebbe che essere - moltiplicato - quello che in parte esiste già: un algoritmo-filtro che blocchi automaticamente testi e immagini basandosi su parole o icone chiave. Ciò che oggi, per dire, già blocca quasi simultaneamente ogni titolo di post privato che contenga la parola «Boldrini» oppure ogni immagine di nudo che appartenesse a notissime opere d’arte. Allo scrittore di questo articolo o ad altri colleghi - che pure sono professionisti dello scrivere - è capitato spesso, come pure non c’è singolo articolo su argomenti nevralgici che non trovi un balordo disposto a denunciare una «fake news» e che, in generale, veda fake news dappertutto. I social sarebbero sommersi dai reclami di milioni di rompicoglioni giustizieri, neo leoni da tastiera. Insomma, il rischio che dall’anarchia della rete si passi a un liberticidio non è fantascienza, anche se certo lo scenario è cambiato e i vecchi strumenti legislativi probabilmente non bastano più, o intervengono quando l’effetto o il danno di ogni fake news è sortito. Se, com’è successo, circola una foto che ritrae Maria Elena Boschi e Laura Boldrini al funerale di Totò Riina, chiaramente un falso, c’è da capire se sia stata una fake news professionale, una satira anonima o solo il cretinismo di un grillino - com’era vero - che però non apparteneva strettamente al Partito. Se ci sono dei siti che danneggiano o promuovono forze politiche pubblicando dei falsi smaccati, pure, c’è da capire il ruolo delle forze politiche in tutto questo. La magistratura ce l’abbiamo, una legge aggiornata no: ma certamente non sembra quella che il Pd ha abborracciato in questi giorni. Così assurda che, se fosse una fake news, per una volta non dispiacerebbe.

Fake news, le principali sono quelle istituzionali, scrive Riccardo Ruggeri, il 28 Novembre 2017 sul blog di Nicola Porro. “Pd: pronta una legge anti fake news”. Mi sfugge perché l’establishment voglia fare una legge anti fake news. Un cittadino comune non crede certamente ad alcune delle balle che ci sono sulla rete, sono talmente eccessive da apparire ridicole, anche a una prima lettura. La storia insegna che dalla notte dei tempi le principali fake news sono quelle istituzionali, ma da sempre non vengono considerate tali dai potenti. Dal mazzo ne estraggo cinque storiche (poi hanno figliato in modo impressionante):

1 Le armi di distruzione di massa di Saddam; 2 Il processo comunicazionale di Obama, Sarkozy, Cameron (e relative consorti) per arrivare all’assassinio di Gheddafi e al disastro che ne è seguito; 3 L’ente Onu IPCC con i dati sul clima manipolati; 4 Motivazioni dei premi Nobel a Al Gore e a Obama; 5 Presunto esodo biblico dall’Africa di 100 milioni di neri, una balla talmente colossale che per fortuna si è subito sgonfiata quando, con 3 mld di euro dati da Merkel a Erdogan, l’esodo biblico in un paio di settimane si è bloccato in Turchia.

2 “Will done girls”. Per questo “Ben fatto, ragazze”, il professor Sutcliffe, docente nell’Oxfordshire, è stato sospeso perché si è dimenticato di contare fino a 10 prima di tacere, come previsto dai protocolli del mondo politicamente corretto. Pur sapendo che fra le allieve c’era una affetta da disforia di genere (lei si percepiva maschio) ha usato questa frase. Le immediate scuse, appena gli hanno fatto notare la scivolata, non sono bastate. Out.

3 “Al Black Friday, il Piemonte risponde con il Bagna Cauda Day 2017“. È stato festeggiato in tutto il mondo, cito solo Mara e Rocco che, lasciata Cavour, si sono trasferiti a Tonga e Helene Solomom e suo marito Bill Stein che nella loro grande villa di Boston hanno chiamato il celebre cuoco (Chef sarebbe offensivo) Matteo Morra di Barolo a prepararla e Sonia Speroni per l’abbinamento con i vini.

4 “Scientific articles pubblished, 2016”. Questo dato numerico, non avrà un valore assoluto, perché i contenuti possono fare la differenza, pensiamo solo che l’articolo sulla “teoria dei giochi” secondo questa classifica sarebbe valso 1, però è un indicatore. Al vertice, in solitudine, troviamo a 25.000 articoli gli Stati Uniti, Cina 10.000, Germania e UK 9.000, Francia e Giappone 5.000, a 3.000 Italia, Spagna, Canada, Svizzera, Australia, Olanda. Alcune curiosità: rispetto agli abitanti la Svizzera sarebbe la prima, l’Europa unita sarebbe il leader mondiale, gli scandinavi, decaduti, non entrano neppure in classifica.

5 “Volkswagen: Maggiolino elettrico a trazione posteriore”. L’articolo più intelligente e ironico, sulle auto tedesche, sulle elettriche, su Tesla, lo trovate sul Blog di Francesco Paternò “Carblogger.it”. Gli dedico lo spazio che avevo riservato al dibattito alla Leopolda: non c’è stato, erano tutti d’accordo.

1 L’ultima generazione del Maggiolino non va granché, tanto che si sussurra di un fine carriera.

2 Ecco allora un Maggiolino elettrico a trazione posteriore (per molti di noi la trazione mito) che verrà affiancato da un Minibus a batteria (il Bulli) entro il 2022.

3 Maggiolino e Bulli alla nascita (1938) hanno avuto un padre prestigioso: Adolf Hitler. Copiò Benito Mussolini, noto come il padre della Topolino (nel 1930 convocò Agnelli, gli impose le specifiche dell’auto e un target prezzo di 5.000 lire: un successo planetario). Furono i primi markettari passati dall’auto alla politica.

4 Maggiolino e Bulli saranno amate alla follia dai californiani hippies. L’importatore per motivare la rete di vendita disse: “Ragazzi, dobbiamo vendere auto naziste in una città di ebrei”. Ci riuscirono. Riccardo Ruggeri, 28 Novembre 2017

Così Dante spiegava le «fake news». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese, scrive il 27 novembre 2017 Paolo Di Stefano su "Il Corriere della Sera". Si parla di «fake news» e si potrebbe parlare più semplicemente di «notizie false» o di «bufale». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese. Nel Convivio innalzò una delle sue invettive «a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano». Ciò accadeva, secondo l’Alighieri, per cinque «abominevoli cagioni».

1. La «cechità di discrezione», ovvero l’incapacità di distinguere;

2. la «maliziata escusatione» di chi si ritiene maestro e aggira la propria ignoranza adducendo scuse ingannevoli;

3. la «cupidità di vanagloria» di coloro che, sapendo parlare la lingua straniera, la lodano per essere più ammirati; 4. l’«argomento di invidia» di quelli che, essendo incapaci di usare il proprio volgare, lo disprezzano per infangare chi lo possiede;

5. la «pusillanimità», ovvero la viltà d’animo di quelli che snobbano le cose domestiche per esaltare quelle degli altri.

Lascio al lettore il giudizio su quante di queste «abominevoli cagioni» siano ancora ben vive nell’antropologia italiana anche al di là della questione linguistica. Ma insomma, Renzi e Di Maio preferiscono parlare di «fake news» e raramente di «bufala», parola italianissima, efficacemente utilizzata nell’accezione metaforica della panzana: «menata per il naso come una bufala», come mostra il linguista Massimo Arcangeli, compare già in una commedia secentesca. Dante avverte che se qualcosa di vile ha la lingua italiana è il dover risuonare sulla «bocca meretrice» degli «adulteri» che la odiano. Mica male. Tornando al punto 1, l’Alighieri vide ben prima di noi non solo le «fake news» ma il conformismo e la mancanza di spirito critico di tanti ciechi privi del «lume de la discrezione»: sono coloro che si lasciano attrarre dal primo «gridatore» di passaggio, non importa se cieco a sua volta o «mentitore». Il quale urlando raccoglierà eserciti di «pecore». Perché, aggiunge Dante, «questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché, se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro…». E se una pecora salta, le altre saltano pur in assenza di ostacoli da saltare: «E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò». Ne sappiamo qualcosa. Passati sette secoli, siamo sempre lì.

"La storia è fatta di fake. Dalla mano di Scevola alle bugie dei sovietici". Il giornalista: "Manipolazioni sempre esistite e la sinistra ne ha abusato. Una legge? Follia", scrive Matteo Sacchi, Martedì 28/11/2017, su "Il Giornale". Il dibattito politico di questi giorni diventa al calor bianco quando si parla di fake news: il Pd vorrebbe addirittura far approvare una legge in materia. Però le fake news sono tutt'altro che una novità, come spiega a il Giornale Lorenzo Del Boca da poco in libreria con un volume che fa le pulci alle molte false notizie che hanno costellato la storia italiana (Il maledetto libro di Storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere, Piemme).

Del Boca, le fake news sono un fenomeno antico o moderno?

«Esistono dalla notte dei tempi, la Storia ne è piena, solo che una volta le chiamavamo balle. Sono, spesso, generate dal potere che può usarle o per vezzeggiarsi o per difendersi. Faccio un esempio: Tito Livio ci descrive un Muzio Scevola che mette una mano su un braciere ardente senza fare una piega... Ovviamente è una cosa senza senso, è solo il modo di glorificare la forza di Roma. Altre volte invece la falsa notizia è funzionale a uno scopo immediato. Amplificare l'irredentismo lo era, altro esempio, all'entrare nella Prima guerra mondiale. Esistono poi fake news che si basano sostanzialmente sull'omissione. Come quando Togliatti impose al partito di silenziare i crimini di Stalin anche se Kruscev li stava rendendo pubblici...».

Ma ha senso immaginare una legge contro le fake news come stanno facendo alcuni esponenti del Pd?

«L'idea di una legge mi fa morire dal ridere. Si creano fake news sul pericolo delle fake news e il potere le usa per mantenere se stesso. Una volta fatta la legge, poi, chi controllerà i controllori? E poi ragioniamo, ma davvero non esistono in questo Paese problemi più gravi? Si suicidano per debiti due persone al giorno e noi ci preoccupiamo di notizie inquinate e ius soli? Davvero non c'è altro su cui legiferare? O come al solito è una legge che serve a distrarre?».

Del resto leggendo il suo libro si capisce che quanto a fake news la sinistra italiana non ha affatto la coscienza pulita...

«Tutta la storia del comunismo sovietico ha prosperato su notizie false. Il Pci sposò in pieno la metodica e la mise in pratica nel caso dell'invasione dell'Ungheria nel 1956 e poi dell'invasione della Cecoslovacchia. Come dicevo prima, Togliatti con Stalin la applicò alla perfezione... Il Pd a sua volta l'ha applicata quando gli è servito».

Resta il fatto che il Movimento 5 stelle con una serie bufale figlie della rete, dall'antivaccinismo alle scie chimiche flirta...

«Il Movimento di Grillo è nato in rapporto strettissimo con la Rete partendo dall'assioma che le nuove tecnologie fossero una panacea. E ora paga il prezzo di quella scelta. La Rete è piena di fake news, e ovviamente distinguere il vero dal verosimile è difficile».

Soluzioni?

«Alla fine era più difficile smascherare una fake news pubblicata da un giornale dei primi del '900, per come la vedo io. Ora la Rete consente molteplici controlli. Però bisogna essere disposti a farli. Un campanello d'allarme è sempre la notizia troppo netta, troppo bianca o nera. Se poi non vuol fermarsi a ragionare sul fatto che in 5mila anni certe malattie ci hanno massacrato e da quando esistono i vaccini invece no...».

Ma quali sono le fake news più pericolose?

«Quelle economiche. Sono difficili da individuare. Ce ne furono al tempo dello scandalo della Banca di Roma e ce ne sono state nei recenti scandali bancari. Ci sono un sacco di similitudini, dalle omissioni di informazione agli strani suicidi su cui è difficile sapere la verità».

Le peggiori fake news della storia italiana?

«Quelle usate per portarci in guerra, come l'irredentismo. Le faccio solo un esempio: il Ce lo chiede l'Europa inizia quando c'era ancora il regno di Sardegna. Lo usò Cavour per trascinarci nella Guerra di Crimea. Una guerra lontanissima e senza senso per noi. Solo per poter presenziare al congresso delle potenze europee, nel 1856, e dichiararci oppressi. Tutto per un ruolo di terza fila come quelli recitati oggi da Gentiloni o Renzi. Era ed è sudditanza allo straniero, nient'altro».

Fake news: cinquecento anni fa si scoprì la più grande bugia storica. Nel 1517 veniva dato alle stampe il testo che smascherava la Donazione di Costantino. Da Napoleone ucciso dai cosacchi ai Savi di Sion, la lunga tradizione dei falsi storici, scrive Gian Antonio Stella il 28 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. Finché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino. Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero». In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre». Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa. Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa, la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice…»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri. La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblicane in Oriente». Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni…E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su… Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo. Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses, le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (…) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari». Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»…Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion. Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 del Novecento dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah…E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.

Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (…). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».

"Da Moro al terrorismo Quante fake news negli intrighi politici". L'ex ministro dell'Interno Scotti: "Spesso la disinformatia è gestita da uomini di Stato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 29/11/2017, su "Il Giornale". Le fake news come strumento di lotta politica. «Ci sono sempre state - attacca Enzo Scotti - anzi noto una certa analogia fra quello che capita oggi e quanto successe ai tempi del sequestro Moro. Certo quello fu un passaggio drammatico senza paragoni, ma allora come oggi c'era chi voleva intorbidare le acque. È la disinformatia, tecnica collaudatissima. E antichissima». Scotti sorride: a 84 anni l'ex ministro dell'Interno e sindaco di Napoli è presidente della Link Campus University. Ma quel che avviene nell'arena del potere è sempre il suo pane quotidiano. Come nel 1978. «Ero da pochi giorni ministro del Lavoro nel governo Andreotti. Qualcuno mise in giro la storia che Moro era tenuto prigioniero a Gradoli. La notizia era falsa ma era anche vera perché in realtà le Brigate rosse avevano un covo importantissimo in via Gradoli a Roma. In ogni caso quella voce era verosimile, credibile per un'opinione pubblica ipnotizzata e frastornata, incapace in quella fase di avanzare obiezioni critiche». Quel che colpisce è che quel nome, Gradoli, spuntò ufficialmente al termine di una seduta spiritica cui prese parte, nientemeno, Romano Prodi. «Sembra impossibile, ma quella spiegazione fu presa per buona nel clima di esasperazione e disperazione che attanagliava il Paese. Non solo - aggiunge Scotti che fu titolare del Viminale nei primi mesi cruciali del '92 - quella trama fini con il sovrapporsi ad un'altra macchinazione, quella che portò al falso comunicato numero 7 delle Brigate rosse e alla convinzione che il corpo di Moro fosse nel lago della Duchessa». Alla fine, le due storie si risolsero lo stesso giorno, il 18 aprile. Dopo ricerche estenuanti ed errori di ogni genere, le forze di polizia entrarono nel covo di via Gradoli negli stessi momenti in cui i sub si immergevano inutilmente sotto la superficie ghiacciata del lago. Difficile raccapezzarsi. «Io ero ministro del Lavoro, osservavo con sgomento quel che succedeva, era difficile tenere la rotta e non perdere i punti di riferimento in quel continuo alternarsi di indiscrezioni. Nebbia, nebbia, ancora nebbia: soggetti diversi conducevano quel gioco che poteva avere contemporaneamente più obiettivi». D'accordo, chi poteva avere interesse a confondere le carte, ma anche a far arrivare singoli messaggi a diversi destinatari? Scotti si fa prudente: «Non si può parlare di disinformatia di Stato, ma si può sostenere che in quel vespaio abbiano messo le mani uomini dello Stato». Distinzioni sottili. Ragionamenti complessi su crinali scivolosissimi. «Si può pensare - riprende il navigatissimo leader, fra i big della Dc - che il piattino di Prodi sia servito per nascondere una fonte ben accreditata ai confini della galassia terroristica, ma si può anche ipotizzare che qualcuno abbia manovrato per non far arrivare subito la mano delle istituzioni al cuore delle Br. Ancora si può sostenere che il depistaggio della Duchessa sia servito prima per testare le reazioni della gente all'eventuale morte di Moro, poi per rilanciare un filo di speranza nel Paese». Mistero. Fumo. Visioni. Sempre in bilico, come in molte storie italiane, fra banalità e dietrologia. «L'operazione Gradoli e quella della Duchessa - sostiene un brigatista di rango come Alberto Franceschini - vanno tenute insieme. E sono un messaggio ai terroristi: vi abbiamo in pugno». Chissà. Scotti non si pronuncia: «Ormai quella è storia. Le diverse interpretazioni coesistono. Noto - è la conclusione non proprio ottimistica - che anche oggi i pozzi sono avvelenati e nessuna legge può purificare le fonti inquinate. Ci vorrebbe la buona politica». Ma a 84 anni è arduo coltivare illusioni.

Le Fake News e la Pravda, scrive il 27 novembre 2017 "Il Giornale". La Repubblica di oggi annuncia trionfante la prossima nuova legge sulla Fake News. Non ci sarebbe che da felicitarsi per la realizzazione di una norma riguardante il selvaggio web, luogo in cui dilaga la diffamazione e la violenza verbale grazie all’anonimato e all’immunità garantita. Però, a questa giusta opera di legiferare sull’odio via etere, si affianca un’opera di contrasto alle notizie false, le cosiddette Fake News, le cui finalità restano dubbie. Anzi pare siano proprio queste ultime il punto cruciale della questione. I media spiegano che l’esigenza di avere una regolamentazione di internet nasce proprio dalla necessità di porre un freno a tali Fake news. Un’esigenza, spiegano tanti analisti, nata dopo la vittoria della Brexit, di Trump e in parte dalla vittoria del No al referendum italiano sulla riforma costituzionale. Quindi la legge ha una valenza politica molto stretta. Insomma, l’odio dilagante sul web non aveva mosso i fautori della “legislazione eterea”, mentre si muovono in conseguenza a inattesi rovesci politici. Detto questo, imputare alle Fake News tali rovesci appare alquanto offensivo per l’intelligenza dei cittadini, che hanno attinto dal web Fake dell’una e dell’altra parte. Ma più offensivo ancora per l’intelligenza dei cittadini è il quadro che va delineandosi, dove non si capisce chi garantisca che una notizia sia una Fake o meno. Un esempio su tutti: i media che oggi tuonano contro le Fake sono gli stessi che hanno propalato la balla dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Una balla che ha causato milioni di morti ammazzati. Nessun direttore di giornale si è dimesso dopo che è stata scoperta l’infondatezza dell’accusa. E nessun giornalista. Nessuno ha chiesto scusa o si è mortificato per le nefandezze di allora. Anzi tanti di loro oggi pontificano, dai loro scranni più o meno nuovi, sulla necessità di arginare le Fake news.

Altra considerazione: se allora qualcuno avesse messo in dubbio la notizia delle armi di distruzione di massa (come ho fatto io nel mio piccolo), sarebbe stato bollato come produttore di Fake News. E come tale censurato e sanzionato. Una cosa che può ripetersi, oggi come allora. Oggi che l’informazione vive di Fake News, di narrazioni più o meno congeniali a gruppi di potere, essere voce discorde è a rischio. Si pensi alla narrazione sulla Siria. Tutti i media mainstream hanno cantato la ballata della primavera araba. La “guerra civile” siriana nasce come repressione della rivolta dei cittadini siriani da parte del regime dittatoriale di Assad, che ha massacrato il suo popolo. Da qui la ballata, dove eroi della libertà hanno combattuto, con l’aiuto dell’Occidente, contro un regime sanguinario. Una ballata distonica con quanto abbiamo riportato sul nostro sito, riprendendo anche le osservazioni di tutti i patriarchi e vescovi siriani. Testimoni oculari del massacro quotidiano, essi hanno invece parlato di una “guerra incivile”, stante che i siriani armati contro Damasco erano davvero pochi rispetto alla legione straniera arruolata in tutto il mondo da sauditi e Occidente per essere scatenata in Siria. Una guerra nata per guadagnare ai nemici regionali e internazionali di Assad il regime-change, come fu per Saddam. Testimoni che hanno anche spiegato che c’è una indistinzione di fondo tra la cosiddetta opposizione moderata e le bande armate dichiaratamente terroriste. La voce dei patriarchi e vescovi siriani sarebbe stata quindi classificata tra le Fake News. E se non la loro, sicuramente altre meno autorevoli che, attingendo a fonti diverse da quelle mainstream, hanno spiegato la “guerra incivile” siriana in altro modo rispetto alla ballata dominante. Da notare anche l’altra trovata: chi sarà a decidere in maniera insindacabile chi ha prodotto Fake? Le aziende Facebook e Twitter che dovranno rimuovere tali notizie, pena sanzioni salatissime: da mezzo a cinque milioni di euro.

Insomma, lo Stato demanda a un privato il giudizio e la sanzione, proprie della sua potestà. Un privato deciderà quindi le sorti dell’informazione, pilastro fondante della democrazia. Si tratta di un mostro giuridico. In base a tale riforma, di quel che scriveremo sul nostro sito non dovremo rispondere ai lettori o, eventualmente, ai magistrati, ma a un privato. Che ha i suoi interessi privati. Per inciso, e per assurdo, da alcuni mesi circola la notizia che alle prossime elezioni presidenziali si presenterà mister Facebook, ovvero Mark Elliot Zuckerberg. Nel caso avvenisse, sarebbe lui (per interposta persona, stante che si dimetterebbe dalla carica) a vigilare su come verrà descritta la corsa alla Casa Bianca, competizione dove in genere abbondano le Fake incrociate…Un esempio di libera informazione notevole. Detto questo, al di là dell’allucinante e ancora aleatorio scenario Zuckerberg, è assurdo immaginare la privatizzazione del monitoraggio informativo e l’instaurazione di una pubblica censura. Un servizio peraltro che sarà attivato per delazione. Infatti a indicare le possibili Fake saranno (anche) gli utenti di Facebook e Twitter. Alimentare la delazione è proprio dei meccanismi totalitari, come da spiegazione di diversi storici.

Detto questo, il giudizio insindacabile resterà a un team di esperti di Facebook o Twitter. Esperti di cosa? Il fatto poi che tali esperti, nel caso fallissero, provocherebbero danni patrimoniali all’azienda, sarà un ulteriore incentivo a usare la mannaia. Perché infatti rischiare? Insomma, chi scrive è più che perplesso sulla bontà della legge e sulla sua applicazione. Ma il mondo va in questa direzione. Va cioè verso la sovietizzazione dell’informazione. Non è un’accusa o un allarme, semplicemente una banale constatazione. Se esiste un’informazione consegnata alle Fake esiste, necessariamente e di converso, un’informazione che produce Verità. Come l’organo ufficiale dell’Unione sovietica, che si chiamava appunto Pravda, ovvero Verità. Questo il bollino che avrà tutta la stampa mainstream, che appunto è, e sarà, depositaria della Verità. Altri organi di informazioni, quelli che sono nati e vivono nel web, non solo per esigenze di modernità, ma anche perché non hanno i soldi per produrre giornali cartacei o per creare una redazione, saranno monitorati. E, nel caso non rispettassero i criteri dettati dalla Pravda, censurati.

Gli apparati di regime e l'argomento "bufale": "Non sottovalutiamo la portata di questo attacco", scrive Mauro Gemma, Direttore di Marx 21, su “L’Antidiplomatico" il 02/01/2017. E' in atto la campagna per la creazione del "Ministero della verità" di orwelliana memoria. E in prima fila, come al solito, sono impegnati gli apparati di regime. Basta osservare l'accanimento (sull'argomento "bufale") che caratterizza i commenti di gerarchi e gerarchetti del PD in molti dei loro profili facebook. I veri propagatori di menzogne e bufale macroscopiche, funzionali a tutte le operazioni di destabilizzazione, guerra e aggressione, stanno cercando di imporre le loro regole a colpi di autentico fascismo mediatico, con l'introduzione di strumenti di controllo nei confronti di chi non si sottomette alla versione "ufficiale" di fatti e misfatti, che non deve più essere messa in discussione. E intendono agire anche attraverso l'utilizzo di misure censorie e repressive. I gerarchi dell'establishment, in Italia e in Europa, cercheranno di riparare in questo modo ai rovesci subiti dalla volontà popolare. Non sottovalutiamo la portata di questo attacco. Prepariamoci, nel 2017, a fronteggiare una micidiale offensiva contro la libertà di opinione sferrata nel tentativo di imporre come "verità rivelata", anche in nome della lotta alle cosiddette "bufale", le versioni menzognere che quotidianamente ci vengono propinate dal mainstream dominante.

Il Regime: “LE BUFALE SONO MIE”. Giù le mani dalla Rete! Scrive Giorgio Cremaschi su Micro Mega -L’Espresso il 3 gennaio 2017. La campagna contro le cosiddette bufale della Rete è la reazione in malafede di tutti i poteri politici, economici, militari, dell’informazione, che temono di perdere il loro “monopolio della Verità”. Certo sulla rete viaggia di tutto, anche invenzioni e fesserie, ma nessuna di queste “bufale” ha mai superato il controllo e la contestazione della rete stessa. Perché nella rete ci sono milioni di persone in carne ed ossa che contribuiscono alla sua funzione critica, a volte pagando di persona proprio per questo. Al contrario le falsità del palazzo sono sempre state sostenute ed amplificate dal sistema dei mass media e dagli intellettuali complici, con danni drammatici per tutti noi. Ricordate il Segretario di Stato di Bush, Colin Powell, mostrare all’ ONU la fiala che avrebbe dovuto contenere le prove delle armi chimiche di Saddam Hussein? Era un falso voluto dal governo USA per giustificare l’invasione dell’Iraq. Tutti i governi occidentali, tutti i mass media, tutti i commentatori dei grandi giornali, fecero propria questa colossale menzogna e gli USA scatenarono quella guerra che ancora oggi fa strage ovunque, da ultimo nelle discoteche di Istanbul. Per anni il regime della grande finanza internazionale ha potuto presentare i suoi più sfacciati interessi e affari come una necessità comune. E questo grazie alla stessa Propaganda, che esaltava la guerra come strumento di esportazione della democrazia. Mentre l’Unione Europea distruggeva ovunque lo stato sociale e sottoponeva la Grecia ad una dittatura coloniale, tutto il regime mediatico vantava la bellezza dell’europeismo. Le élites politico economiche hanno potuto nascondere il loro dominio sulle nostre vite presentando il loro potere come la più nuova e moderna delle democrazie. Per anni il dominio della bugia a reti unificate ha determinato i passaggi fondamentali delle nostre società, fino a che ad un certo punto la macchina del consenso si è inceppata. La crisi è nata dal divario enorme e crescente tra la propaganda ufficiale ed i risultati reali. La guerra che doveva liberarci dal terrorismo lo ha importato nelle nostre città, la crisi economica sempre più pesante e discriminatoria nei suoi effetti, ha mostrato la vacuità degli inni alla ripresa. La rete non ha prodotto nulla di proprio, ma ha registrato e diffuso la crescente insoddisfazione di massa e reso sempre più insopportabili e ridicole le bugie di regime. Il sistema di propaganda ufficiale è diventato meno credibile, e dal referendum greco a quello sulla Brexit, dall’ elezione di Trump alla vittoria del NO in Italia, ha potuto solo registrare pesanti sconfitte. I pronunciamenti popolari sono stati diversi, opposti anche, ma in comune hanno avuto il rifiuto e persino il dileggio delle bufale della propaganda dei governi e del mondo degli affari. È questa sconfitta che ha indotto i poteri forti, i signori della propaganda e i loro servi sciocchi a lanciare la campagna per il controllo della rete. Da noi il massimo della sfacciataggine lo ha toccato la presidente della Camera in piena campagna referendaria. Mentre tutte le TV e il 98% dei giornali sostenevano fanaticamente il SI, Boldrini ha convocato un convegno per denunciare i rischi per la democrazia provenienti dalla rete. Poi, dopo il presidente dell’antitrust che avrebbe ben altro da fare, anche il presidente Mattarella ha auspicato un controllo sulla comunicazione in internet. Vorrebbero che la rete funzionasse come la Rai, Mediaset, Sky, o come quasi tutti i quotidiani, vorrebbero che la rete fosse cosa loro. Tutti questi censori, da quelli di casa nostra a Obama al Parlamento Europeo, non vogliono capire che la loro verità è andata in crisi non per colpa della rete, ma perché troppo lontana dalla realtà. Cercando di imbrigliare nei loro giochi la rete, essi dimostrano soltanto di non aver capito nulla della crisi attuale e di voler continuare con le politiche disastrose sin qui seguite, cercando solo di silenziare il dissenso. Le élites hanno trasferito nella comunicazione la loro campagna contro il populismo. Per loro è populista tutto ciò che non accetta il loro potere ed è contrario ad una corretta informazione tutto ciò che smentisce le loro verità. La rete non è il paradiso della libertà, anzi anche lì bisogna lottare perché le verità nascoste emergano, ma il regime della bugia che ci ha finora governato non tollera neppure parziali spiragli di luce e vuole controllare tutto. Per questo bisogna dire a questi imbroglioni: giù le mani dalla rete!

I TELEGIORNALI DI PULCINELLA. La manipolazione dell'opinione pubblica nei Tg italiani, scrive Antonella Randazzo su disinformazione.it il 19 febbraio 2007. Autrice del libro: "DITTATURE: LA STORIA OCCULTA". I giornalisti dei nostri telegiornali sono diventati presentatori e pubblicitari. Altre competenze, ben diverse dall'informazione obiettiva e "sul campo". I servizi giornalistici sembrano creati ad arte per mostrare alcune cose e nasconderne altre. In un paese in cui sempre meno persone leggono i giornali, l'informazione televisiva rappresenta per la maggior parte della popolazione l'unica fonte d'informazione. Molte di queste persone credono che i telegiornali li informino su ciò che accade nel mondo, e si troverebbero increduli di fronte al solo pensiero che i Tg possano essere utilizzati per manipolare le loro opinioni. Eppure ciò appare sempre più evidente, dall'omissione di elementi indispensabili per capire i fatti, dall'alterazione di alcune notizie e dall'assenza di altre.

L'opinione pubblica è fondamentale per la stabilità di un sistema, e nel nostro sistema viene formata attraverso il bombardamento mediatico. Per mantenere la stabilità, nell'attuale assetto politico-economico, occorre che l'opinione pubblica sia piegata a ciò che è funzionale al sistema e non apprenda alcune verità. Ciò rende il potere mediatico notevolmente importante. Il controllo da parte del potere avviene oggi all'interno delle nostre case, attraverso la Tv. La manipolazione dell'informazione è sempre più sistematica, progettata per essere efficace e per rimanere nascosta agli occhi dei cittadini. Le agenzie internazionali (americane, europee o giapponesi) che forniscono le informazioni, sono supportate da agenzie di propaganda, soprattutto americane, che pianificano non soltanto cosa rendere noto ma soprattutto "come" dare informazione. La quantità di notizie viene sfoltita e ridotta al 5/10% del totale.  

La verifica delle fonti e l'utilizzo del senso critico sono ormai capacità atrofizzate dall'assumere passivamente il punto di vista delle poche agenzie che informano centinaia di paesi, come la Adnkronos e l'Ansa. Considerando come assolute alcune fonti e ignorandone altre, l'informazione è già alterata in origine, derivando da un unico punto di vista, che nel contesto appare oggettivo.  Di tanto in tanto, nei nostri Tg, appare qualche debole critica, ad esempio contro il governo statunitense. Si tratta delle cosiddette “fessure controllate”, cioè critiche fatte ad oc per generare fiducia nel Tg, ma che risultano vaghe e discordanti. Alcune notizie assumono nei Tg un certo rilievo, soprattutto quelle che evocano emozioni. Suscitare associazioni emotive e commozione è diventato uno degli scopi principali dei Tg. I fatti di cronaca, specie se si tratta di delitti contro bambini, si prestano a questo scopo, e quindi talvolta occupano uno spazio ampio dei telegiornali. Si tratta di un modo per distrarre l’attenzione pubblica da altri fatti assai più importanti per la vita dei cittadini. In altre parole, vengono amplificate notizie (di solito di cronaca o relative ad uno specifico problema) che non mettono in pericolo il sistema, per evitare di trattare altri argomenti "scottanti" e pericolosi per l'assetto che i politici hanno il compito di proteggere. Ad esempio, siamo stati indotti a parlare a lungo dei Pacs (una legge che sarebbe stato ovvio approvare senza tanti problemi), mentre si occultavano, tra le altre cose, le spese ingenti per la "difesa". Nessun telegiornale ha detto che parte del Tfr dei lavoratori andrà per spese belliche.

In questi ultimi tempi, un altro argomento, che viene utilizzato dai Tg per dirottare l'attenzione su fatti non pericolosi per il sistema, è quello dei malati gravi che chiedono l'eutanasia. Invece di approvare una legge che ponga fine al problema, il nostro sistema utilizza questi casi disperati (ieri quello di Welby, oggi quello di Nuvoli), per riempire spazi e suscitare angoscia e commozione. Si stimola la parte emotiva dei telespettatori, per coinvolgere in una questione umana drammatica, senza far capire che il potere di risolvere il problema è nelle mani proprio di chi sta strumentalizzando cinicamente il fatto.

Spesso alcune notizie sono oggetto di "sovrinformazione", cioè se ne parla in molti programmi e abbondantemente. Ciò avviene o per focalizzare l'attenzione soltanto su alcuni aspetti e fare in modo che i cittadini si sentano abbastanza informati e non vadano ad informarsi altrove (come nel caso della finanziaria o del Tfr), oppure per dare l'impressione che ci sia un'abbondante informazione. Ma si tratta di informazioni ripetitive, che non spiegano davvero la questione e talvolta la manipolano. Paradossalmente, il cittadino viene sommerso di "informazione" per fare in modo che rimanga disinformato. La sovrinformazionze può riguardare anche temi banali, come la separazione di una coppia nota, o l'uso di droga da parte di un personaggio famoso. In questi casi si tratta di distogliere l'attenzione da decisioni o eventi politici che stanno accadendo nel paese, e di cui occorrerebbe parlare, ma non risulta conveniente al sistema. Si sta affermando sempre più il metodo americano di creare trasmissioni giornalistiche o televisive organizzate da agenzie di Pubbliche Relazioni, per manipolare l'opinione pubblica su un determinato argomento. L'argomento di solito è emerso all'attenzione pubblica senza che il sistema potesse impedirlo (ad esempio, la Tv spazzatura o la violenza giovanile). A queste trasmissioni partecipano personaggi accuratamente selezionati, che in apparenza sembrano avere opinioni diverse, ma in realtà esprimono tutti un unico punto di vista, che si vuole far apparire come unica verità. Talvolta è l'assunto di base della conversazione ad essere errato, ma viene acquisito come vero da tutti i partecipanti. Spesso si utilizza la figura dell'"esperto" che è abbastanza persuasiva, rappresentando il mondo della "scienza", che si intende come fonte di verità oggettiva.

L'informazione dei Tg viene falsata in maniera sempre più sottile e manipolatoria. Quando vengono sollevate smentite, soltanto in pochi casi viene reso pubblico. Lo spazio e l'ordine dato ad un'informazione sono molto importanti per valorizzare la notizia o sminuirla. Alcune notizie passano inosservate perché vengono dette per ultime e frettolosamente, mentre ad altre si dedica molto tempo all'inizio del Tg. Si stabilisce quindi una gerarchia in ordine all'importanza e al rilievo che si vuole dare alla notizia. Si privilegiano alcune notizie, altre vengono emarginate e altre ancora occultate. L'informazione obiettiva è quella contestualizzata, verificata alla fonte e commentata da opinionisti di diverse tendenze. Sentire le opinioni dei politici di entrambi gli schieramenti serve a dare l'idea che si stanno sentendo più punti di vista, ma ciò spesso non è vero, perché la maggior parte dei politici non attua una vera critica al sistema, e si limita a spiegare le divergenze rispetto all'altro schieramento. Il sistema politico-economico attuale è sempre più intoccabile, e coloro che lo criticano appaiono sempre meno in televisione. Nei Tg, le notizie vengono date come fatti isolati dal contesto, per impedire una comprensione approfondita. Si tende ad esagerarne un aspetto, che è sempre quello più emotivo. Lo stesso titolo talvolta è già gran parte della mistificazione, perché da esso si inferisce se si tratta di una cosa giusta o sbagliata, da approvare o da disapprovare. Ad esempio, quando si danno notizie sull'Iran si tende a far apparire questo paese colpevole di qualcosa, e i titoli sono "L'Iran sfida la comunità internazionale", oppure "L'Iran si ostina sul programma nucleare". I paesi indicati dalle autorità Usa come nemici diventano automaticamente nemici anche per le nostre autorità, che li criminalizzano in modo impietoso, evitando di menzionare le continue minacce e la preparazione alla guerra contro l'Iran da parte degli Stati Uniti. Si manipola l'opinione pubblica italiana a pensarla come le autorità americane, e a ritenere che alcuni paesi debbano essere colpiti perché "pericolosi". Non si danno notizie sui numerosi crimini e attentati terroristici attuati dalle autorità Usa nel mondo, se non quando ciò risulta inevitabile. I nostri telegiornali si limitano a parlare di "attentati terroristici" in Iraq, Afghanistan o in altri paesi, senza raccontare la situazione vera. Ad esempio, non parlano mai della resistenza irachena e afghana, anche se ormai molti sanno che questi paesi sono occupati e che la popolazione cerca in tutti i modi di resistere (anche con metodi pacifici) all'invasore. Difficilmente le notizie su paesi in guerra vengono spiegate in maniera approfondita, fornendo gli antecedenti politici, economici, internazionali, ecc. che possano far capire i fatti e le situazioni attuali. La decontestualizzazione è quindi uno dei modi per disinformare dando l'impressione opposta.  Il fatto viene slegato da altri fatti che lo renderebbero più comprensibile. Ad esempio la violenza negli stadi viene slegata dal fenomeno della violenza nei giovani e dalle pressioni mediatiche che incitano alla violenza. Il tono e il tipo di linguaggio utilizzato influiscono su come l'informazione viene percepita. Il tono può essere dispregiativo, di condanna, oppure enfatico ed entusiasta. Il tono dà un significato positivo o negativo alla notizia. La scelta delle parole è molto importante nel lavoro propagandistico, perché ogni parola è evocativa di significati o di emozioni e quindi deve essere scelta accuratamente per ottenere gli effetti voluti. Ad esempio, per trasmettere un senso di negatività, i gruppi considerati pericolosi per il sistema, come gli ambientalisti, i no-global o i comunisti, vengono definiti come "radicali", "fanatici" o "estremisti". La polizia viene chiamata "forza dell'ordine" anche quando reprime. Coloro che sono repressi vengono chiamati "ribelli" o "giovani estremisti". La violenza di Stato, anche quando uccide brutalmente, viene definita "sicurezza" o "difesa". I violenti sono sempre coloro che protestano contro il sistema e mai le autorità dello Stato, anche quando comandano una dura repressione, com'è accaduto al G8 di Genova. 

Anche le immagini utilizzate hanno scopo manipolativo. Le immagini servono a dare un'impronta negativa o positiva a luoghi, situazioni o concetti. Ad esempio, quando si parla di cultura araba si mostrano le donne con il burqa oppure immagini di fanatismo e violenza, per indurre un'associazione negativa. Un altro mezzo efficace per manipolare l'informazione è l'uso di cifre. Le analisi statistiche sono relative al campione scelto e al modello utilizzato. Le statistiche possono essere utilizzate come un dato inoppugnabile e incontestabile. Ma basta selezionare un determinato campione che possa alterare i risultati, per dare l'informazione che si vuole. Le notizie sono spiegate dallo stesso punto di vista in tutti i telegiornali. I poteri al vertice del sistema, cioè le banche e le corporation, appaiono sempre più raramente, e soltanto nei casi in cui si annuncia una fusione, l'acquisto di un'azienda o la nomina di un direttore amministrativo. Quando una corporation viene denunciata per gravi reati come l'uccisione di sindacalisti, la schiavizzazione dei bambini o altri crimini contro i diritti umani, non viene quasi mai notificato dai nostri telegiornali.

Fino all'inizio degli anni Ottanta esisteva l'inchiesta televisiva obiettiva, che mostrava la società nella sua verità e complessità. Oggi, invece, la mistificazione mediatica riguarda anche la società stessa. Non appaiono quasi più i lavoratori mentre stanno faticando. Lo spazio dedicato alle proteste sindacali è ridotto al minimo. Alcune manifestazioni di protesta non vengono documentate. Si manipola persino l'immagine della società civile, che deve apparire accondiscendente anche quando non lo è. Non si va mai alla radice delle questioni lavorative o sindacali e non si fa comprendere abbastanza per poter giungere alla soluzione (che richiederebbe cambiamenti al sistema) del problema. Le notizie sul dissenso alla politica di governo sono pregne di accenti nefasti. Spesso vengono utilizzate categorie stereotipate o etichette per puntare il dito contro chi mette in dubbio l'operato politico del governo. I telegiornali fanno in modo che gli oppositori appaiano come poche persone che non vogliono la "modernizzazione", il "progresso" oppure come persone emarginate, fanatiche e "antiamericane". Ciò è accaduto nel caso della Tav in Val di Susa e della Base americana a Vicenza. Nei telegiornali si mostravano singole persone intervistate che esprimevano pareri contrapposti, per far capire che c'erano pareri discordanti e occultare che la stragrande maggioranza dei cittadini era contraria alle decisioni di governo. Si vuole nascondere che il potere dei cittadini è continuamente svilito dal sistema. E che quest'ultimo è distante da ciò che la gente vuole. Le questioni che stanno a cuore alla cittadinanza, come l'ambiente, la pace e la libertà di decidere sul proprio territorio, vengono denigrate dall'informazione tendenziosa e manipolatoria dei Tg. Ad esempio, i cittadini della Val di Susa che protestavano venivano mostrati come un gruppo sparuto di persone che avevano paura di avere il "treno che gli passa sotto casa". La verità che si cercava di occultare era che sotto al Musinè c'è l'amianto. Inoltre, nella Val di Susa esiste già una linea ferroviaria Torino-Lione, attualmente sottoutilizzata, in grado di poter reggere il traffico.

Un'altra tecnica, utilizzata dai Tg, per deviare l'attenzione sulla questione del dissenso e per semplificare i fatti (per non far emergere altri aspetti), è di connotare ideologicamente il problema con "destra" e "sinistra". Quando i cittadini si oppongono ad una questione lo fanno per motivi razionali, ma il telegiornale tende a far credere che siano motivi ideologici, oppure irrazionali e non accettabili. Nelle questioni in cui gli Usa impongono un severo diktat, come nel caso delle truppe in Afghanistan e della base militare a Vicenza, i giornalisti assumono un tono allarmato verso il dissenso. In particolare, nel caso di Vicenza, mettevano in evidenza che anche all'interno della maggioranza c'erano coloro che avversavano la scelta del governo. Il sistema dei due schieramenti è stato creato per impedire un vero esercizio di sovranità. I giornalisti reggono questo gioco e si mostrano stupiti che lo schieramento al potere possa avere persone che ragionano con la propria testa e non eseguono passivamente "l'ordine". I Tg colpevolizzano queste persone facendole sentire responsabili di "indebolire il governo" o di metterne in pericolo la stabilità. Ciò nasconde che i nostri politici non prendono scelte sulla base del benessere dei cittadini, ma per tutelare e rafforzare il sistema stesso. I nostri giornalisti hanno dimenticato che l'essenza della democrazia è proprio il pluralismo. Si sono allineati al sistema in cui tutti gli schieramenti politici sono obbligati ad obbedire ai veri padroni del paese: l'élite economico-finanziaria.

In questi giorni i Tg gridavano "allarme" per la manifestazione di protesta organizzata per il 17 febbraio contro la nuova base militare di Vicenza. Ma in quale democrazia i giornalisti mettono in allarme i cittadini per una manifestazione che esprime la volontà di quasi tutta la cittadinanza?  Il 16 febbraio, annunciando la manifestazione di protesta del giorno successivo, i telegiornali dicevano "si temono violenze", come se chi protesta contro il militarismo è violento. Siamo al paradosso di definire violento chi è contro la guerra e il militarismo, e non chi vuole nuove basi per meglio fare la guerra. Un modo manipolatorio di dare notizie relative a proteste o a sgomberi violenti è quello di mettere vicina una notizia di criminalità, in modo da indurre l'associazione fra "delinquente" e chi protesta contro il sistema. Il 17 febbraio i telegiornali annunciavano: "Manifestazione di Vicenza... Imponenti misure di sicurezza". Trasmettevano anche un appello di Prodi: "Le manifestazioni sono il sale della democrazia ma siate pacifici". Il tono era quello del buon padre di famiglia, e non traspariva affatto che la realtà era esattamente l'opposto. Cioè coloro che stavano manifestando erano contro la violenza e il bellicismo americano, mentre Prodi era il politico che, lungi dall'avere a cuore il bene dei cittadini, stava sostenendo gli interessi bellici americani contro la volontà della maggior parte dei cittadini di Vicenza. Quindi, si trattava di scelte politiche non democratiche prese dal governo, ma i Tg facevano in modo da creare allarme attorno a coloro che stavano pacificamente, e giustamente, protestando. Qualche telegiornale osava un "Si temono infiltrazioni", ma non spiegava che soltanto il sistema difeso dai politici ha interesse ad infiltrare falsi manifestanti che creino disordine e violenza (com'è accaduto nel G8 di Genova), per poterli far apparire violenti ed estremisti, come cercavano di descriverli i Tg attraverso messaggi allarmanti.  Il Tg3 precisava che le forze dell'ordine erano "a difesa del centro storico della città", come se i manifestanti fossero pericolosi e distruttivi. Poi aggiungeva: "c'è anche chi è preoccupato" e si intervistava una persona anziana che appariva confusa per le tante persone arrivate in città. Il porre l'accento sul "pericolo di violenze" serviva anche a distogliere l'attenzione dal valore che la protesta avrebbe avuto sulle scelte del governo, e a nascondere che la volontà dei cittadini non conta nulla di fronte alle imposizioni americane. Non essendoci state violenze, il giornalista del Tg2 ha messo in evidenza uno striscione che definiva di "solidarietà con i terroristi arrestati". Un altro modo per dirottare l'attenzione e per criminalizzare il dissenso. Impegnati com'erano a colpevolizzare chi protestava contro la nuova base americana, i giornalisti dei Tg hanno omesso la notizia che la nuova base sarà pagata da noi per il 41% delle spese di mantenimento (anche per le altre basi paghiamo parte delle spese). Chi è contrario alla guerra è diventato un "estremista radicale". Chi denuncia i crimini come la tortura è un "antiamericano". Viene messo sotto processo chi avversa le guerre, e non chi le organizza. Nello stesso telegiornale (Tg2, ma anche gli altri erano pressoché uguali) del 17 febbraio appariva Prodi in posa accanto al presidente afghano Hamid Karzai, come se quest'ultimo fosse un vero rappresentante politico del popolo afghano e non un personaggio foraggiato da Washington. Quando i telegiornali notificano gli attentati terroristici in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan, in Turchia o in altri paesi, danno soltanto la stima dei morti e il luogo dov'è avvenuto lo scoppio, e non spiegano la situazione del paese. Talvolta menzionano al Qaeda associandola all'attentato, senza indicare le prove a sostegno di ciò. 

Le notizie dall'Africa, dall'Asia o dal Sud America arrivano soltanto se c'è un problema che riguarda i nostri connazionali (rapimenti, uccisioni ecc.), oppure quando ci sono le elezioni politiche, che ormai nel nostro sistema sono diventate il simbolo stesso della "democrazia". Come a dire che se non documentassimo le elezioni (che si svolgono ovunque, persino in Iraq e in Afghanistan), non troveremmo altro modo per provare che la "democrazia" esista. Quelle poche volte che i telegiornali parlano delle guerre in Africa, lo fanno in modo confuso e impreciso, parlando di "conflitti etnici", e senza precisare chi organizza i gruppi in lotta e chi li arma. Non viene detto che nella maggior parte dei casi si tratta dei governi e dei servizi segreti europei e americani, che organizzano le guerre per controllare il territorio e saccheggiarne le risorse. Le grandi metropoli e periferie del sud Italia appaiono nei Tg nel loro degrado ambientale, appare anche la microcriminalità e la disperazione dei giovani disoccupati. Tutto questo è descritto in modo fatalistico, come se i governi si trovassero impotenti di fronte a questi problemi. Quando a Napoli c'era il problema dei rifiuti, i telegiornali mostravano la città sommersa dalla sporcizia e dall'immondizia, ma non dicevano che questo stava accadendo perché il servizio era stato privatizzato e si impediva ai vecchi impiegati di operare, negando loro i mezzi idonei alla raccolta dei rifiuti. Per avvantaggiare i privati si stava organizzando il servizio diversamente. I cittadini apparivano "colpevoli" di qualcosa, ma in realtà ricevevano le bollette da pagare senza ottenere alcun servizio. Nessun telegiornale trasmise la manifestazione degli operatori ecologici napoletani che protestavano perché non erano messi in grado di lavorare. I cartelli che essi mostravano avrebbero potuto far capire la vera situazione, mentre i telegiornali rendevano impossibile capirla alla radice. C'è una serie di argomenti "riservati", di cui i telegiornali non parlano. Ad esempio, delle stragi che l'Agip attua in Nigeria, oppure della produzione di armi (ad esempio le cluster bomb), in diverse fabbriche italiane. Armi che vengono esportate in molti paesi, compresi quelli in cui c'è guerra. I Tg non parlano mai di Signoraggio, che è il metodo utilizzato dalle banche per saccheggiare i paesi. Non si parla nemmeno degli statuti delle banche e del sistema bancario della Banca Europea, che ha sottratto all'Italia ben il 38% della finanziaria, impedendo al paese una crescita economica significativa. Sono state tagliate le spese per la scuola e la sanità ed è stata aumentata la pressione fiscale, per pagare le banche e sostenere gli Usa nelle guerre. Quando si è parlato della finanziaria, nonostante lo spazio dedicato a quest'argomento, i telegiornali hanno accuratamente evitato di notificare le ingenti risorse che le banche sottraggono al paese. La trasmissione Ballarò è stata l'unica a rivelare il fatto (ma senza metterlo in evidenza). Un altro argomento tabù è quello delle regole e dell'operato delle istituzioni come il Wto, la Banca mondiale (Bm) e Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Nessun telegiornale ha mai spiegato che a causa di queste organizzazioni, negli ultimi venti anni, la miseria e la fame sono aumentate, e che il collasso economico di molti paesi, compresa l'Argentina, è stato causato dalle misure imposte proprio dalla Bm e dal Fmi. Moltissimi altri argomenti non vengono trattati, ad esempio, la situazione di disuguaglianza degli immigrati, le gravi discriminazioni che essi subiscono, le persecuzioni di cittadini africani da parte dei governi fantoccio al soldo degli Usa, i massacri in Somalia, in Etiopia, in Nigeria, ad Haiti e in molti altri luoghi. Un altro argomento tabù è il denaro che lo Stato dà alle grandi aziende, somme spesso molto elevate.

Il telegiornale parla di droga soltanto quando comunica la notizia che le forze dell'ordine sono riuscite a sequestrare quantitativi di stupefacenti. Ma non parla mai delle implicazioni e connivenze delle corporation e dei governi nei commerci internazionali di droga. Si parla di mafia quando si arresta qualche presunto mafioso o quando avvengono delitti, ma non si spiega cos'è davvero la mafia, e come essa sia in espansione grazie alle liberalizzazioni finanziarie, che hanno spianato la strada al riciclaggio facile. I minuti di politica interna, nei Tg, si risolvono nelle brevi interviste ad esponenti di destra e sinistra, per mostrare come ci sia una questione, una disputa, e come i duellanti siano decisi e forti. Le differenti opinioni sembrano battute teatrali, in uno scenario sempre più avvilente e assurdo. Le questioni sono trattate sempre in modo marginale e superficiale, anche quando si tratta di questioni serie, come l'invio di soldati in Afghanistan. L'informazione si riduce all'opinione dei politici, la maggior parte dei quali non oserebbe sfidare il sistema nemmeno nelle questioni minime.

Alcune questioni interne non sono divulgate. Ad esempio, nel 2002, il Parlamento, quasi all'unanimità, approvò una legge che permette di abolire il tetto massimo di spesa per il "rimborso ai partiti".  I cittadini italiani avevano espresso la loro volontà di non dare denaro pubblico ai partiti, attraverso il referendum del 1993, in cui oltre il 90% degli elettori votò contro. La gente crede che oggi questa volontà venga rispettata e non è stata informata quando, nel 1999 è stata approvata una legge che di fatto reintroduceva il finanziamento pubblico ai partiti chiamandolo "rimborso elettorale". Nel 2002 tutti gli schieramenti, ad eccezione dei radicali, votarono a favore di una nuova legge, la n. 156 del 26 luglio 2002, che titolava "Disposizioni in materia di Rimborsi Elettorali". La legge abbassava il quorum di accesso al rimborso dal 4% all'1% e aboliva il tetto di spesa, permettendo a quasi tutti i partiti di ricevere somme molto alte di denaro pubblico. Ad esempio, Berlusconi ha incassato, l'anno scorso, 41 milioni di euro per Forza Italia, la Margherita ne ha presi 20 milioni, l'Udc 15 milioni, i Ds 35 milioni, An 23 milioni, Rifondazione 10 milioni, ecc. Dato l'ingente costo pubblico che ci sarebbe stato, l'approvazione della legge era una questione molto importante per l'opinione pubblica, ma non è stata sottoposta all'attenzione di tutti noi. I Tg non ne hanno nemmeno fatto cenno. Le questioni spinose, come la malasanità o il costo pubblico di aziende privatizzate (come le ferrovie e le autostrade) vengono trattate come se il problema non fosse risolvibile e senza una sufficiente documentazione. Ad esempio, si parla superficialmente dei tagli alla sanità che stanno causando gravissimi problemi nella gestione delle strutture, oppure dei contratti truffaldini che importanti imprenditori (come Benetton) hanno stipulato con lo Stato. Questi contratti potrebbero essere rescissi se il governo volesse. Molti cittadini se lo aspettavano, dato che in precedenza erano stati duramente criticati dall'attuale maggioranza. La povertà o la precarietà lavorativa sono diventate nei telegiornali o nelle rubriche di approfondimento una specie di calamità naturale. I poveri ragazzi trentenni vengono intervistati per sapere quanto guadagnano e che tipo di contratto hanno nei call center, nelle fabbriche o addirittura negli uffici pubblici. Si mette in evidenza che queste persone sono spesso laureate e molto preparate, e alcune di esse svolgono funzioni essenziali nel settore pubblico. Ma non si parla delle leggi che permettono il lavoro precario. Di quando sono state approvate e da chi, e di come sono state peggiorate nel tempo.

Poi ci sono i servizi giornalistici che hanno il compito di prepararci ad accettare il peggio. Ad esempio, quelli che ci allarmano sulla "crisi energetica" (per prepararci all'aumento della bolletta), quelli che ci mostrano i giovani delle gang di Londra, o quelli che documentano gli strani fenomeni atmosferici. Anche in questi casi non si va alla radice e non si spiega come è stato creato il problema e da chi. In un servizio del 17 febbraio, il Tg3 informava sull'omicidio di un ragazzo ad opera delle gang giovanili dei sobborghi di Londra. Il giornalista diceva: "Il problema sono le condizioni sociali... le famiglie non sono in grado, a causa della povertà, di fronteggiare il problema, allora c'è l'alcol, la droga o le armi da fuoco". Nessun cenno alla situazione politico-economica, e al bombardamento mediatico che esalta sempre più la violenza. Anche l'allarme Sars rientrava nelle notizie che avevano l'obiettivo di preoccupare. Per alcuni mesi siamo stati bombardati da notizie allarmanti su presunti casi di questa malattia. Quello che non si diceva era che la Sars è nata da un esperimento avvenuto nell'aprile del 2003 a Toronto, ad opera di associazioni governative statunitensi e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sostenuti finanziariamente dalla famiglia Rockefeller, dalla Carnegie Foundation, e da importanti produttori di farmaci. L'obiettivo era quello di ridurre la popolazione e far acquistare nuovi farmaci, come spiega il Dott. Leonard Horowitz: La SARS e l'attuale timore per l'influenza aviaria ricevono l'approvazione dei capitani delle industrie militar-medico-farmaceutico-petrolchimiche, che parimenti in molti casi documentati operano al di sopra delle leggi... consideriamo il fatto che il flusso delle informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa è stato pesantemente influenzato, se non interamente controllato, dai garanti delle imprese multinazionali, che hanno protetto e fatto avanzare gli interessi di un gruppo relativamente ristretto di imprese globali...  Avendo testimoniato di fronte al Congresso USA, ho personalmente verificato come le prime donne dell'industria farmaceutica dirigono dal punto di vista economico e politico i nostri rappresentanti al governo. Le malattie che stanno emergendo sono di complemento alla politica della "Guerra contro il Terrorismo" e alla nostra cultura influenzata dal bioterrorismo. Questa agenda serve per due obiettivi principali: il profitto e la riduzione della popolazione. Realtà politica contro i miti mass-mediologici. Quando è emerso che l'allarme aviaria in Europa aveva lo scopo di indurre ad acquistare il farmaco Tamiflu, e che la sicurezza e l'efficacia del farmaco non erano mai state provate, le notizie allarmanti sono sparite. In questi ultimi giorni stanno ritornando altre notizie sulla variante H5N1 dell'aviaria. Probabilmente è stato prodotto un nuovo farmaco. Nei nostri Tg, dopo pochi minuti di notizie di politica interna ed estera, arriva la parte più lunga della cronaca e dell'attualità. La scelta spesso cade su notizie riguardanti nuovi prodotti per la calvizie, la bellezza o tecnologici. Giuseppe Altamore, nel suo libro I padroni delle notizie, spiega che sempre più spesso i giornalisti televisivi presentano pubbliredazionali come fossero semplici notizie. Si tratta di presentare in modo enfatico prodotti che vanno dal nuovo tipo di telefonino a nuovi cosmetici, capi di abbigliamento e addirittura farmaci. Dopo l'impiccagione di Saddam, il Tg2 annunciò la creazione negli Stati Uniti di un nuovo giocattolo: il pupazzo Saddam corredato da cappio. Il giornalista si curò di precisare anche il prezzo e la possibilità di acquistarlo via Internet. 

La cronaca rosa ha il suo spazio nei Tg, sempre più ampio: matrimoni o divorzi fra vip, se Madonna adotta un nuovo bimbo, oppure se un'attrice si è gonfiata di silicone o si droga. I servizi sulla moda, sull'elezione di Miss Italia o di Miss Universo non mancano. Talvolta i Tg riempiono spazio raccontando la storia di un animale o spiegando l'esecuzione di una ricetta. Viene documentato persino il "Raduno internazionale delle Mongolfiere", e ci informano anche sugli ultimi modelli dei vestitini per cani e gatti. Si tratta di modi per confondere su ciò che dovrebbe essere veramente la comunicazione giornalistica, che negli ultimi venti anni è stata declassata e fuorviata nel modo stesso di intenderla.

L'informazione dei Tg segue ormai il "pensiero unico" e anche la regia è unica. Si tratta delle grandi agenzie di propaganda americane, come la Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute e il Manhattan Institute. Le agenzie di propaganda americane provvedono affinché l'opinione pubblica subisca pesanti manipolazioni, che rendano difficile una vera consapevolezza di quello che sta accadendo nel mondo di oggi. Per riuscire a capire occorre utilizzare Internet e leggere le notizie dal mondo. E' una cosa che soltanto pochi si possono permettere di fare; e di solito non si tratta di anziani, casalinghe o persone che lavorano per molte ore al giorno, e che non hanno tempo materiale di informarsi se non attraverso la Tv. Per queste persone c'è soltanto quell'informazione "emotiva" e distorta che serve a renderli docili e incapaci di difendere i propri diritti. Come osserva Sartori: "Sostenere che la cittadinanza dell'era elettronica è caratterizzata dalla possibilità di accedere a infinite informazioni... sarebbe come dire che la cittadinanza nel capitalismo consente a tutti di diventare capitalisti… È vero che un'immagine può valere più di mille parole. Ma è ancor più vero che un milione di immagini non danno un solo concetto".

I telegiornali sono ormai rotocalchi di una realtà che non è quella in cui viviamo. Sono sempre più orientati allo spettacolo, all'appiattimento e alla banalità. Come in un circo, ognuno fa il suo numero, con l'obiettivo di emozionare, catturare l'attenzione, intrattenere e persino fare divertire. Mentre gli eventi occultati diventano sempre più inaccettabili:  quei due terzi del mondo ridotti in estrema miseria, quei milioni di bambini che per mangiare devono cercare nella spazzatura, le nostre regioni soggette al potere mafioso implacabile e crudele, le guerre contro i popoli, le dure persecuzioni contro chi lotta per la giustizia e i diritti umani... Finché il potere mediatico sarà quasi completamente nelle mani di chi vuole un sistema politico-economico basato sulla legge del più forte e sul controllo dei popoli,  è ingenuo credere che le risorse umane, spirituali e culturali degli individui stiano ricevendo impulso alla loro libera realizzazione. Le sottili tecniche di coercizione, di diseducazione e di appiattimento culturale sono dirette contro ognuno di noi, come un ulteriore affronto alle nostre menti e alla nostra dignità di cittadini.

Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittatore. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).

La proposta di Grillo contro le bufale di giornali e Tv. "Sono i primi fabbricatori notizie false, ma tutti contro il Web", scrive il 3 gennaio 2017 Askanews. “Tutti contro Internet. Prima Renzi, Gentiloni, Napolitano e Pitruzzella, poi il ministro della Giustizia Orlando e infine il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno. Tutti puntano il dito sulle balle che girano sul web, sull’esigenza di ristabilire la verità tramite il nuovo tribunale dell’inquisizione proposto dal presidente dell’Antitrust. Così il governo decide cosa è vero e cosa è falso su Internet. E alle balle propinate ogni giorno da tv e giornali chi ci pensa?” Lo scrive Beppe Grillo, in un post pubblicato sul suo blog. “I giornali e i tg – accusa il fondatore M5s – sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa”.

Grillo, nel post, cita anche due “esempi” di notizie non vere pubblicate. “Il quotidiano La Stampa – scrive – ha diffuso un articolo sulla fantomatica propaganda M5s capitanata da Beatrice Di Maio, notizia ripresa da tutti i giornali e i tg, poi si è scoperto che era tutto falso. La Stampa non ha chiesto neppure scusa e nessuna sanzione è stata applicata nei suoi confronti, nè degli altri giornali e telegiornali che hanno ripreso la bufala senza fare opportune verifiche. Poi fresca di oggi la bufala in prima pagina del Giornale di Berlusconi: ‘Affari a 5 stelle. Grillo vuole una banca’. Una falsità totale che stravolge un fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l’Ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l’innovazione tecnologica utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sula Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative. Capite come lavorano i media? Aspettiamo ancora le scuse del direttore de La Stampa e di tutti coloro che hanno ripreso acriticamente un articolo provato falso”.

I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime, scrive Stefano Davidson domenica, 20 novembre 2016, su "Imola Oggi". È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due.

Le bufale di regime, scrive maicolengel su Butacmag il 23/11/2016. ImolaOggi e Byoblu in pochi giorni hanno deciso di sferrare un piccolo attacco mediatico ai siti antibufala. Un attacco che onestamente vale la pena discutere insieme, giusto per capire quanti di voi abbiano imparato a distinguere la rava dalla fava. Così titolava ImolaOggi il 20 novembre 2016: I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime. Onestamente non capisco esattamente quali siano le “bufale di regime”, e credo che anche Stefano Davidson, che firma l’articolo su ImolaOggi, non abbia le idee chiare, visto che invece che fare “fact checking” pubblica un articoletto dove evita attentamente qualsivoglia esempio. Vi riporto le sue parole per intero, perché credo vadano conservate a futura memoria: È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due. Quindi secondo Stefano i siti antibufala non trattano mai notizie pubblicate dai quotidiani nazionali. È davvero così? Non mi pare, ovviamente io parlo per BUTAC, ma credo che i colleghi possano dimostrare lo stesso sui loro portali. Facciamo una veloce ricerca su BUTAC con i nomi di alcune delle testate giornalistiche italiane più lette:

Il Giornale – ad oggi 66 articoli

La Repubblica – ad oggi 34 articoli

Il Corriere della sera – ad oggi 21 articoli

il Fatto Quotidiano – ad oggi 13 articoli

Libero – ad oggi 13 articoli

La Stampa – ad oggi 10 articoli

Il Messaggero – ad oggi 10 articoli

Purtroppo non tutti gli articoli che pubblichiamo hanno i tag corretti per cui è facile che gli articoli che trattano testate nazionali siano ancora di più. Quello che sarebbe importante capire, e che i veri lettori dei siti antibufale sanno, è che i nostri articoli vengono dalle vostre segnalazioni, quindi basterebbe per Stefano Davidson e i suoi amichetti di ImolaOggi cominciare a segnalare, usando i canali corretti per trovare (se ce ne fosse bisogno) sbufalate anche di altre testate, e altri articoli. Quello che è importante invece comprendere è che loro sanno benissimo come funzionano le cose e scrivono articoletti come quello che vi ho riportato qui sopra proprio per cercare di delegittimare quanto facciamo noi senza portare alcuna prova. Sanno bene che i loro lettori hanno solo bisogno di sentirsi rassicurati; sono lettori che hanno bisogno di leggere quello che già pensano, lettori incapaci di fare la benché minima verifica dei fatti, lettori che potremmo tranquillamente classificare come analfabeti funzionali. Ma passiamo oltre, perché dopo ImolaOggi abbiamo anche il sempre simpatico e affabile Claudio Messora, che pochi giorni fa, senza far nomi, ha pubblicato un video dove attacca a sua volta tutti i siti antibufala. Il video è lunghetto, e non ho granché voglia di dargli visibilità, l’accusa però è ben precisa: secondo Messora quasi tutti i siti antibufale italiani sono gestiti da soggetti fuoriusciti da partiti politici. Onestamente non conosco a sufficienza i miei colleghi per parlare di loro, ma vorrei che aveste tutti ben chiaro che Messora è supporter di un partito ben preciso (lo stesso – guardacaso – che supporta anche Stefano Davidson, che firmava l’articolo qui sopra); non ne fa segreto, sia chiaro, ma sentire accuse lanciate da chi da anni non fa altro che spargere fango su chiunque non la pensi come lui è quantomeno sospetto. Dopo il video di Messora, con l’amico e collega Maurizio Perrone abbiamo cercato di avere risposte da Claudio, capire a chi stesse rivolgendo le sue accuse, e capire anche quali fossero esattamente le accuse, ma pur essendo stato taggato nel post di Maurizio il buon Claudio ad oggi si è fatto di nebbia. Cosa strana se si considera che Messora è una star del web, e che usa i social network costantemente. Che abbia paura di venire sbugiardato pubblicamente? Che abbia il timore di aver cagato fuori dal vaso? Non lo so, e onestamente poco m’importa. Non sento il bisogno di difendermi, chi legge Butac dalla sua nascita (e chi mi conosce da prima) sa bene che non ho una fede politica da difendere. Come spiego da tempo ritengo che tutti i politicanti italiani siano soggetti incapaci, sia gli ultimi arrivati sia quelli che sono lì da decenni. Non vedo la luce in fondo al tunnel perché nel nostro Paese gli interessi nascosti difesi dai politici sono troppi, l’unica via sarebbe un sano commissariamento europeo del nostro Paese. Ma è un sogno che non vedrò mai realizzarsi. Purtroppo come i politici sono incapaci, non molto diversi sono quelli che dovrebbero mostrarvi le loro incapacità, quindi se siete lettori delle testate nazionali più note non troverete mai attacchi tout court, ma solo editoriali politici dove si attacca l’antagonista, difendendo spesso l’indifendibile, pur di portare acqua al proprio mulino. È triste ma è lo stato delle cose.

Boschi e Boldrini ai falsi funerali del boss Riina: bufala sui siti M5s, scrive martedì 28/11/2017 su "Il Giornale". Sicuramente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La punta di un iceberg di bufale. La foto ritrae Laura Boldrini, presidente della Camera, Maria Elena Boschi (Pd), sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il senatore dem Francesco Verducci e l'eurodeputato David Sassoli (Pd) con una scritta che dice esplicitamente che i quattro politici si trovavano al funerale del boss mafioso Totò Riina. L'immagine viene condivisa su Facebook il 21 novembre e rapidamente fa il giro del web, ripresa anche dalla pagina «Virus 5 Stelle». In realtà la tumulazione della salma di Riina (senza funerali, erano stati vietati) è stata il giorno successivo alla prima pubblicazione della foto. Che invece è un'immagine scattata durante i funerali del giovane nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, morto a Fermo nel luglio scorso dopo una rissa. Dopo le segnalazioni e oltre 1600 condivisioni sui social network, è arrivata la reazione della Boschi che ha parlato di «schifezza» e «assurda vergogna». Poi la crociata di Matteo Renzi alla Leopolda.

Fake news, Salvini: “Mi difendo coi social dalle bufale di regime”, scrive il 27 novembre 2017 "Dire". “Mai presa una lira da Berlusconi, non vado a chiedere elemosine.” Ad affermarlo è Matteo Salvini (segretario della Lega) intervistato da Luca Telese e Oscar Giannino ai microfoni di 24Mattino su Radio 24. Parlando del sequestro dei conti della Lega, Telese gli chiede: “Lei non accetterebbe neanche un prestito? Ha paura di un condizionamento politico?”. E Salvini non ha dubbi: “No, da nessuno, da Renzi o da Berlusconi. I prestiti li chiedo alle banche se me li danno. Per principio”. “Renzi ha speso 400mila euro per andare in giro in treno. Si vede che a lui ci sono banche che fanno credito, si vede che ha un buon rapporto con alcune banche, mettiamola così”, aggiunge poi Salvini a proposito delle difficoltà finanziarie della Lega e delle accuse mosse da Renzi sugli introiti che la Lega avrebbe dalla diffusione di bufale online. “Noi non abbiamo mai incassato una lira dalla pubblicità. Provo a usare Facebook e social per avere un minimo di voce, per contrastare il Tg1 e il TG5 e le bufale di regime”, è invece la replica di Salvini, “bufale contro cui io non ho nessuna voce. Posso usare i due quattrini che ho in tasca per fare due post su Facebook e Twitter”.

Di Maio: fake news su di me da Severgnini. Attendo che si scusi. Crozza lo ha fatto, scrive Domenica 26 novembre 2017 Luigi Di Maio su beppegrillo.it. riportato da "Affari Italiani". Il gesto di Maurizio Crozza Official in questo video è bellissimo. Ha ammesso di aver creduto a una fake news sul mio conto diffusa da Beppe Severgnini e di aver fatto una gag prendendola per buona. Ma poi, quando se ne è reso conto, ha chiesto scusa in diretta tv. Scuse ovviamente accettate! È difficile distinguere il vero dal falso soprattutto quando delle fake news vengono diffuse da giornalisti accreditati. Grazie Maurizio! Spero che ora arrivino anche le scuse dei giornalisti che hanno diffuso la fake news sui giornali e in tv. Intanto diffondiamo il più possibile questo video che aiuta a ristabilire la verità!

M5S: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Renzi: "Strani legami con la Lega, dimostrino trasparenza". Secondo il blog di Grillo, che prende di mira il renziano Marco Carrai per il legame con l'informatico che ha scoperto le connessioni tra i siti della Lega e quelli pro M5S, "si tratta di un giochino apparecchiato dal Pd". Ma Carrai ha già smentito: "Io non c'entro nulla". E Renzi in serata ribatte: "M5s grida al complotto? Stanno messi male. Serve trasparenza", scrive Annalisa Cuzzocrea il 27 novembre 2017 su "La Repubblica". I 5 stelle reagiscono alle accuse di fake news piovute dal Partito democratico. "E' una follia ritenerci coinvolti", scrivono sul blog di Beppe Grillo accusando anche New York Times e Buzzfeed: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Frasi a cui in serata replica Matteo Renzi con un post sulla sua eNews: "Davanti alle prove del New York Times, il blog di Beppe Grillo ha reagito con il consueto stile gridando al complotto, ovviamente complotto “degli amici di Renzi”. Stanno messi male, non c'è dubbio". E lancia la sfida: "La battaglia politica acquisisce più significato dopo che è emerso uno strano rapporto che lega adepti del M5s a sostenitori di Salvini. A noi basta solo una riflessione: chi vuole inquinare il dibattito politico ci troverà fermamente dalla parte della verità. Se gli altri partiti politici vogliono fare altrettanto non importa che gridino al complotto: basta che dimostrino la propria trasparenza. Sono in grado di farla? Me lo auguro, glielo auguro". Nel post sul blog di Beppe Grillo, pubblicato in mattinata, si legge: "Si parla di siti web sensazionalistici, a sostegno di una o l'altra forza politica, che riporterebbero i medesimi codici di Analytics e di Adsense. E non ci vuole un genio a capire che questi siti nascono spontaneamente. Sul web ognuno, anche per mero scopo di guadagno attraverso la pubblicità, chiuso nella sua stanza può scegliere di aprire più di una piattaforma e pubblicare quel che vuole. Ma ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento della forza politica di riferimento". E ancora: "Se sono un tifoso di calcio e apro una pagina in cui diffondo notizie false sul Torino non significa che io sia a libro paga della Juventus. E' una follia solo pensarlo. Speriamo di esserci spiegati. E speriamo che il New York Times e Buzzfeed tornino finalmente ad occuparsi di vero giornalismo". "Le due inchieste - scrive il blog - arrivano alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, quest'anno dedicata proprio alle fake news. Entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono però da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa, che di fatti viene citato nei due articoli". I 5 stelle accusano Stroppa di essere "arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Marco Carrai", "braccio destro di Renzi e sostenitore delle sue campagne elettorali". Ma è lo stesso Carrai oggi sul Corriere della Sera a chiarire: "Non c'entro niente con l'inchiesta del New York Times, questo è un esempio di fake news. Stroppa lo conosco e per un periodo ha collaborato con una mia società. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui". E anche Andrea Stroppa, l'autore del report che ha provato come due siti pro M5S (News 5 stelle e Video a 5 Stelle) e il sito della Lega Noi con Salvini abbiano gli stessi Google id per il controllo del traffico e la pubblicità, aveva spiegato ieri in un lungo post su Facebook la sua posizione, rispondendo agli articoli del Fatto quotidiano e al suo direttore Marco Travaglio: "Vengo definito da una sua giornalista parte dei “Carrai boys”, “pupillo di Carrai”, e lo comprendo. Quando non si è liberi, si cerca di mettere le catene anche agli altri". Sulle fake news è intervenuto stamattina a Circo Massimo, su Radio Capital, anche Matteo Orfini: "La Lega e i 5 stelle devono dare spiegazioni sulle connessioni tra i loro siti - ha detto il presidente Pd - l'internet inquinato dalle bufale è un problema per la democrazia".

Chi controlla l’informazione? Scrive Alessandro Gazoia il 19 febbraio 2016 su "Prismomag.com". In anteprima per Prismo un estratto da Senza Filtro, il nuovo libro di Alessandro Gazoia dedicato a come il ricambio tecnologico, i social media e il web stanno modificando non solo le forme della comunicazione, ma il nostro stesso rapporto con l'informazione, la politica, la democrazia. In questi giorni minimum fax manda in libreria Senza Filtro – Chi controlla l’informazione, il nuovo saggio dello scrittore Alessandro Gazoia. Ringraziando autore ed editore, ne pubblichiamo un estratto che racconta come, in pochi anni e pur tra molti fraintendimenti e ritardi, l’uso invasivo dei social media sia diventato una costante anche nella politica italiana, da Monti a Salvini, da Grillo a Renzi.

Il 21 dicembre 2012, dopo aver guidato per oltre un anno un “governo tecnico”, Mario Monti si dimette da Presidente del Consiglio. Passati alcuni giorni sceglie Twitter e non l’Ansa, il Tg1 o il Corriere della Sera per rendere più chiaro il suo diretto impegno politico futuro: “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro. Ora va rinnovata la politica. Lamentarsi non serve, spendersi si [sic]. ‘Saliamo in politica!”. Il tweet viene lanciato il 25 dicembre 2012 alle 23.31, orario troppo tardivo per comparire (se non con una “ribattuta”) sui quotidiani del giorno successivo, che però non bucano la notizia, il 26 non sono infatti in edicola, mentre il giornalismo online e anche i mezzi tradizionali come radio e tv subito commentano il messaggio e il mezzo. Quell’elaborato tweet, in bilico tra un plurale maiestatico e una comunità elettorale in via di definizione, è in affannata e legnosa rincorsa sulla strategia web di Grillo (“va rinnovata la politica” ma “lamentarsi non serve”) e in diretta polemica con il declinante Berlusconi. “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro” allude all’opera di Monti, e viene contrapposto all’ultima fase del governo precedente, con il famigerato spread (la differenza in punti percentuali tra gli interessi di obbligazioni di stato tedesche e italiane) alle stelle. L’espressione inusuale, marcata pure dalle virgolette, salire in politica richiama in filigrana e per contrasto lo storico scendere in campo dell’imprenditore, nel messaggio registrato su videocassetta e inviato ai telegiornali nel 1994.

In Italia la comunicazione politica, senza o oltre il giornalismo professionale, l’ha fatta per vent’anni Silvio Berlusconi, in una forma estrema e paradossale: si manifestava per monologhi – espliciti, come la videocassetta per proporsi leader del centrodestra, o impliciti, come le tante interviste concesse a Porta a Porta e alle sue televisioni – e, nelle rare occasioni in cui si trovava esposto a domande non servite per la facile replica, preferiva dare le sue risposte, spesso con grande abilità e autorità. Berlusconi, al pari del comico Grillo dotato di un gusto per la battuta vivo, seppur non sempre felice, e molto attento alla comunione empatica con l’elettorato, faceva spettacolo coi suoi assoli, e disintermediava l’informazione dall’alto. La “calza” davanti alla telecamera del messaggio della discesa in campo, il filtro rozzo e analogico che rendeva il leader levigato e luminoso, era il correlativo oggettivo dell’immagine magnanima e imperiale che Berlusconi si proponeva di costruire, nei confronti della stampa e dei cittadini (telespettatori). Si doveva al tempo stesso marcare la distanza derivante dall’efficienza, competenza e ricchezza di quell’uomo eccezionale, e creare l’illusione dell’accesso diretto e non filtrato per ciascuno: Berlusconi toccava e rassicurava l’elettore, parlava al cuore della gente (utilizzo qui la retorica delle parole semplici e vere di tanti slogan pubblicitari di Forza Italia ed evoluzioni successive). Quando, verso l’inizio di questo decennio, sia per gli eccessi dovuti alla troppa sicurezza e alla cerchia di assoluto consenso (la “bolla” privata) dentro cui il leader viveva, sia per il logoramento degli schemi di narrazione e contenimento applicati a eventi (personali e collettivi) sempre più problematici, la calza si strappa e il filtro plebiscitario si rompe, un enorme spazio resta aperto per Beppe Grillo, Matteo Salvini e Mario Monti che presto scomparirà, lasciando a propria volta campo libero, ovvero facile salita, nel centro-sinistra a Matteo Renzi.

Col tweet di Monti del dicembre 2012, l’importanza dei social network e della relazione che offrono con l’elettore comincia a essere pienamente riconosciuta. In quella fine del 2012 Renzi è ancora sindaco di Firenze, e Monti all’apice della sua influenza intende disintermediare, ora che, conclusa l’esperienza del “governo tecnico”, si ritrova a dover conquistare i voti degli elettori. Non è certo la necessità a spingerlo verso Twitter, a partire dal basso, dato che ha a disposizione le colonne e il pieno sostegno del Corriere della Sera (del quale è da lungo tempo editorialista di grande peso) per esprimere la sua idea dell’Italia e convincere i millecinquecento lettori che contano di Forcella. Ma nel giorno di Natale e in apertura di campagna elettorale preferisce il social network, l’immediatezza e il tocco personale: vuole produrre quell’empatia che molti gli rimproverano di non saper neppure imitare (il tweet inizia con un significativo “insieme”). L’importanza delle nuove piattaforme digitali e della relazione che offrono con l’elettore comincia infatti a essere pienamente riconosciuta, i politici di primo piano comprendono la necessità di operare anche in questo ambiente e il nostro giornalismo parlamentare deve adattarsi a non considerarlo più una curiosità buona per un pezzo di colore, tra folklore grillino e moda americana. Giusto alcuni mesi prima Pierferdinando Casini aveva compiuto un piccolo ma significativo gesto: dimostrava l’unità della maggioranza governativa di cui faceva parte postando su Twitter una foto che lo ritraeva in una riunione ufficiale e privata con Monti, Alfano e Bersani. Il testo proclamava: “Siamo tutti qui! Nessuna defezione!”, in raddoppio sugli esclamativi e con un noi più ristretto rispetto al tweet di Monti. La foto non era chiaramente scattata dal politico, che sorrideva seduto a destra nell’inquadratura ma venne definita un selfie (parola che stava diventando allora popolarissima), sia perché inviata a Twitter dallo stesso Casini sia per il suo proporsi come testimonianza personale.

Il fantomatico “selfie” di Pierferdinando Casini. Per alcuni professionisti la disintermediazione del giornalista e del fotografo praticata da quel tweet è insieme un mistero, un pericolo e un oltraggio, come spiega, nel contesto di una più ampia riflessione, Michele Smargiassi: “Dirsi come fa Alessandro Di Meo dell’Ansa, forse uno tra i fotografi professionali che assediavano Palazzo Chigi l’altra sera, che è “uno scatto che funziona, ma perché non chiamare noi, che seguiamo notte e giorno i politici?”, è già avere la risposta: perché quello scatto funziona, e funziona proprio perché è un autoritratto del potere che si presenta in modo inconsueto, diverso dalle ingessature dei ritratti ufficiali. Questa fotografia “ufficiosa” che simula una familiarità da tag di Facebook (tipo “Ragazzi guardate, siamo qui, a Palazzo Chigiiii! Con Monti! Wow!”) è sicuramente un fatto nuovo nella comunicazione politica italiana. Ma questa fotografia è tutt’altro che innocente e spontanea, e lo capisce chiunque. Il potere rappresenta se stesso”. Monti e Casini decidono di comunicare attraverso Twitter oltre che con agenzie, giornali, radio e TV, perché è ormai sentita come un’esigenza non procrastinabile l’“orientamento della conversazione” che si sviluppa sui social network e da lì passa nei canali tradizionali. Il tweet ha preso il posto della breve d’agenzia e il post su Facebook del comunicato stampa, ma i politici disintermediano in piena continuità con quanto hanno sempre tentato di fare nell’era delle comunicazioni di massa. La familiarità e spontaneità della comunicazione in rete è un’estensione e un aggiornamento del tradizionale primo lavoro del politico: stringere le mani, baciare i bambini e farsi riprendere mentre compie queste azioni, senza filtro, oltre le “ingessature dei ritratti ufficiali”.

La pizza di Salvini. Quando, alle otto di sera del 24 febbraio 2014, Matteo Salvini invia con lo smartphone a Facebook la foto della sua pizza casalinga fa notizia e lavoro politico: quel piatto è una sorta di gesto di pacificazione con il Sud e segnala la nuova vocazione nazionale della Lega. Buona parte del pubblico lo sa, a cominciare da quelli che lo criticano per la forma – invero peculiare – della pizza e quindi lo accusano, implicitamente o meno, di volersi appropriare di qualcosa che non gli appartiene. L’uso dei social network di Salvini, con le aperture sulla propria vita privata, il linguaggio molto diretto e le frequenti domande retoriche che invitano a uno specifico commento di approvazione per il leader o di denuncia degli avversari, non è meno codificato e strutturato di un comizio degli anni Settanta e vuole ottenere la stessa comunione e “condivisione” con il singolo elettore. Negli anni Trenta i discorsi al caminetto del presidente americano Roosevelt alla radio, il primo mezzo di comunicazione di massa con la diretta, volevano essere un messaggio personale, capace di toccare ogni singolo cittadino: disintermediavano e coinvolgevano empaticamente. Costituivano la risposta democratica alle orazioni fasciste trasmesse alla radio di Mussolini e Hitler che, a propria volta, sussumevano il singolo in una superiore unità – il Popolo, la Nazione – e lo rendevano, in questo movimento, in forma diversa speciale. Vediamo lo stesso desiderio di congiungere la massima copertura in broadcast e la massima individuazione dell’elettore nel messaggio per la discesa in campo di Berlusconi, e nell’uso massiccio da parte di Obama di new e social media. Salvini su Facebook e Twitter non fa nulla di radicalmente nuovo, e la sincerità e l’immediatezza del singolo gesto – il desiderio di cliccare invia sullo smartphone e condividere subito una certa immagine sui social network, esattamente come accade a noi comuni cittadini – non cambiano ma confermano il contesto di cura dell’elettorato e della propria immagine.

Il numero di professionisti della comunicazione politica aumenta e le loro competenze si fanno più varie, ora che i potenziali elettori sono facilmente conoscibili grazie ai social media. Il politico di rilievo, così come la star, è oggi sempre notiziabile, o meglio vorrebbe esserlo sempre e nel modo da lui favorito, e lavora a questo fine attraverso l’attività in rete. Questa comunicazione salta alcune mediazioni tradizionali – nel caso della foto di Casini il fotografo parlamentare, nel caso di Salvini il fotografo privato che Berlusconi utilizzava per mostrare la sua villa e la sua famiglia agli italiani – ma rimane fondamentale l’assistenza degli esperti. Anche sul web, e pure in questo aspetto possiamo dire che Grillo e Casaleggio sono stati fonti di ispirazione. I professionisti dell’informazione vengono coinvolti e “orientati” come un tempo e i professionisti della comunicazione politica continuano a essere impiegati, anzi il loro numero aumenta, le loro competenze si fanno più varie e il loro lavoro più sofisticato, ora che i potenziali elettori, proprio grazie all’attività sui social network, sono facilmente conoscibili in molte preferenze. È quindi possibile andare incontro al voto individuale, in maniera non troppo distante dalla personalizzazione di un sito. I social network sono stati integrati perfettamente nella grande macchina delle due campagne presidenziali di Barack Obama, dove si sono dimostrati utili anche per la definizione di un accurato profilo degli elettori che, all’occorrenza, diventano bersagli di un marketing politico miratissimo. Semplificando diremo che per vincere un certo voto in un determinato luogo si potranno accentuare alcuni temi e mettere la sordina ad altri, come da regola in campagna elettorale in un grande e variegato paese quale è l’America, ma sulla base di una quantità molto più ampia e al tempo stesso molto più raffinata di dati rispetto ai tradizionali sondaggi. Non a caso vi è ormai in America un rapporto molto stretto e pure un flusso di personale tra protagonisti dei social network e della politica. Nicholas Lemann lo spiega attraverso l’esempio di LinkedIn, il social network per l’attività professionale con oltre 375 milioni di iscritti, e del suo ceo Reid Hoffman: “LinkedIn ha fornito alla Casa Bianca una parte della miniera di dati collezionati sull’attività degli utenti nel mercato del lavoro, che sono quindi stati utilizzati nel rapporto economico annuale del Presidente. All’inizio di quest’anno, un ex dirigente di LinkedIn, DJ Patil, è stato nominato chief data scientist alla Casa Bianca. A luglio Hoffman ha organizzato un incontro con persone coinvolte nella nuova fondazione di Obama su come sfruttare al meglio la forza dei social network[…]”.

Selfie con la nazionale di pallavolo prima del summit europeo sull'occupazione. La stretta relazione tra Hoffman e la Casa Bianca non è limitata al suo ruolo di grande political donor. Lui e quelli come lui hanno qualcosa di più potente del denaro da offrire: un modo per gli officials di connettersi con il pubblico più largo possibile. Nel diciannovesimo secolo, questo ruolo lo svolgevano i capi delle macchine elettorali; nel ventesimo, i capitani dei media, specialmente nel broadcasting e nei giornali; nel ventunesimo lo fanno le persone che hanno creato grandi reti sociali online. Il rapporto coi signori delle grandi piattaforme online è molto ricercato pure dai politici italiani che amano volare verso il futuro e la Silicon Valley – e nel pezzo appena citato si parla anche di una cena tra Larry Page (Google) e l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino che desiderava “creare un piccolo gruppo qui”. Le sofisticate forme di profilazione dell’elettorato non sono ancora del tutto sviluppate nel nostro paese e il più frequente travaso di personale verso la politica continua a essere quello molto tradizionale dei giornalisti. Filippo Sensi – ex vicedirettore del piccolo quotidiano Europa (legato al PD e chiuso alla fine del 2014), oltre che famoso blogger e influencer su Twitter – ha acquisito un ruolo strategico nella gestione della comunicazione di Matteo Renzi, e l’enorme interesse che la sua figura suscita sui giornali è dovuto in parte al meccanismo abituale e forzoso del Grande Vecchio o almeno dell’Eminenza Grigia, favorito nell’applicazione alla rete dall’esempio di Grillo e Casaleggio; ma deriva anche da un certo ritardo del nostro contesto, dallo stupore di fronte a una comunicazione politica condotta con grande professionalità e aggiornamento tecnico su tutti i media, di fronte a uno spinning che include e anzi mette in evidenza i social network. Nell’attività di Sensi si individua tuttavia una forte continuità con pratiche antiche, a cominciare dalla piena consapevolezza del ruolo della stampa nel nostro paese: la solerzia con cui ricerca e cura il filtro dei singoli giornalisti e intellettuali è almeno pari all’ingegno profuso nella “disintermediazione” via hashtag arguti di Renzi. Con il governo Renzi si è superata una nuova soglia: la costante e insistente attività sui social fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica e apertura al nuovo. Mario Monti alla fine del 2012 annunciava la sua intenzione di salire in politica su Twitter, Matteo Renzi nel febbraio 2014 sale al Quirinale per presentare la lista dei ministri a Napolitano e durante il lungo colloquio col presidente della Repubblica twitta impaziente il messaggio politico dell’energia e dell’ottimismo: “Arrivo, arrivo! #lavoltabuona”. Con il governo Renzi si è appunto superata una nuova soglia, poiché la costante e insistente attività sui social media fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica, apertura al nuovo e trasparenza del politico. La strategia è ancora una volta orientata alla personalizzazione, sia nel senso dell’enfasi sul leader sempre attivo e presente, sia del singolo cittadino a cui in principio si presta ascolto, e anzi se ne sollecita il contributo sulle reti sociali, con un appello all’unità e alla buona volontà oltre le differenze, per far ripartire il paese. Renzi opta per l’uso sistematico e primario di Facebook e Twitter come agenzia politica, anzi governativa, e al pari di Grillo e Casaleggio, ma in forme più misurate ed eleganti, segue un’ideologia della rete e dell’innovazione. Ritiene quindi un progresso comunicare stabilmente notizie di rilievo per la nazione in prima istanza su quei social network, piattaforme private di proprietà di aziende americane, e le promuove così, nell’ideale della comunicazione empatica, a bene comune – e nel concreto economico e digitale della Silicon Valley, a meta di pellegrinaggio politico.

Tre gradi di separazione, scrive Giovanna Baer su Paginauno n. 18, giugno - settembre 2010. Chi possiede o controlla, seduto nei Consigli di amministrazione, i principali quotidiani italiani? Inchiesta sulla longa manus della banche e dell’industria nella carta stampata. Il doppio livello di lettura dei giornali italiani. Nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce da chi viene: la proprietà della testata, gli interessi che rappresenta e soprattutto le relazioni di potere, espresse nei consigli di amministrazione. E nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce come viene "offerta" al lettore: il posizionamento all'interno del giornale e le parole usate. Perché ogni quotidiano ha un doppio livello di lettura: visibile e invisibile. E lo si può leggere in modo passivo, da semplici fruitori di notizie, o con spirito critico, sapendo riconoscere, tra le righe, il modo in cui i poteri economico e politico usano l'informazione per indirizzare la pubblica opinione... (leggi...)

La teoria dei "sei gradi di separazione" è un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altro abitante del globo terrestre attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Proposta per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Karinthy in un racconto breve intitolato Catene, venne confermata nel 1967 dal sociologo americano Stanley Milgram e più tardi, nel 2001, da Duncan Watts della Columbia University. La ricerca di Watts, pubblicata su Science nel 2003, permise l’applicazione della teoria dei sei gradi di separazione anche in aree differenti, tra cui l’analisi delle reti informatiche ed elettriche, la trasmissione delle malattie, la teoria dei grafi, le telecomunicazioni e la progettazione della componentistica dei computer. La nostra inchiesta vuole dimostrare che la legge di Watts non si applica alle relazioni fra le principali testate giornalistiche italiane e il capitalismo industriale-finanziario, o più precisamente che, analizzando i legami esistenti, andrebbe corretta al ribasso, in non più di tre gradi di separazione.

Con quali effetti sulla libertà di informazione? La cosiddetta linea editoriale è ciò che distingue in sostanza una testata giornalistica da un’altra. Rappresenta, diremmo in linguaggio aziendale, una sorta di missione strategica, l’ipotesi di fondo a partire dalla quale si scelgono e si analizzano le notizie. Dall’esistenza di linee editoriali diverse – il cosiddetto pluralismo informativo – dipende la qualità dell’informazione, perché il pluralismo garantisce al cittadino/lettore la possibilità di conoscere notizie differenti lette da punti di vista differenti. Non solo. Dal pluralismo informativo dipende anche la possibilità che uno Stato possa dirsi democratico, dal momento che un elettore adeguatamente informato è messo in condizione di esercitare un voto consapevole. Il caso opposto, quello cioè di una rappresentazione univoca della realtà socio-politico-economica di un Paese (pensiamo alla Pravda di staliniana memoria), impedisce la corretta formazione del consenso, e quindi il libero esplicarsi dei meccanismi democratici.

Ciò detto, dove si forma la linea editoriale di una testata? Come suggerisce il termine, è espressione della visione dell’editore, e si forma nel luogo in cui questi (che è il proprietario del giornale) prende le sue decisioni strategiche. Nelle moderne società capitalistiche questo luogo è il Consiglio di amministrazione. Diamo quindi un’occhiata a chi siede nei Cda dei principali giornali italiani e valutiamo di quali tipi di interessi siano portatori, dal momento che sulla base degli interessi del Consiglio si forma la linea editoriale.

Partiamo dal più importante quotidiano a diffusione nazionale, il Corriere della Sera. Il suo editore è il gruppo RCS (Rizzoli Corriere della Sera), quotato in borsa. Il Corsera ha fama di essere il giornale super partes per definizione, quello che meglio rappresenta il tipo di linea editoriale tipico dell’informazione anglosassone (come si dice di solito, ‘all’americana’), per definizione indipendente da interessi particolari. Ma, analizzando il suo Cda, più che super partes dovremmo definirlo inter partes: in esso siedono infatti John Elkann, presidente di Fiat e di Exor (la holding finanziaria della famiglia Agnelli); Franzo Grande Stevens, avvocato storico di casa Agnelli, ex vicepresidente Fiat e attualmente presidente della Fondazione San Paolo; Carlo Pesenti, consigliere di Italcementi, Unicredit, Italmobiliare e Mediobanca; Berardino Libonati, consigliere di Telecom Italia e Pirelli; Jonella Ligresti, consigliere di Fondiaria, Italmobiliare e Mediobanca; Diego Della Valle, consigliere di Tod’s, Marcolin e Generali Assicurazioni; Renato Pagliaro, consigliere di Telecom Italia, Pirelli e Mediobanca; Giuseppe Lucchini delle omonime acciaierie; Paolo Merloni, CEO (Chief Executive Officer, ossia amministratore delegato) di Merloni Finanziaria, gruppo Indesit Company; Enrico Salza, consigliere di Intesa San Paolo; Raffaele Agrusti, consigliere di Assicurazioni Generali; Roberto Bertazzoni, consigliere di Mediobanca; e Claudio De Conto, di Pirelli Real Estate. Fra Corsera e Fiat, Pirelli, Telecom Italia, Mediobanca, Intesa, e tutte le altre aziende citate, ci sono zero gradi di separazione, cioè sono direttamente collegate fra loro. Grande finanza, banche, assicurazioni, automotive, telecomunicazioni, cementifici, acciaierie, pneumatici, immobili, moda, elettrodomestici: non c’è praticamente nessun settore del made in Italy che non possa dire la sua sui contenuti e sulla posizione del giornale. Viene da dire che in Italia essere indipendenti coincide col dipendere da tutti, nessuno escluso: la linea editoriale del Corrierone nazionale risentirà quindi delle esigenze e degli accordi reciproci fra le aziende che siedono in Consiglio: nessuna visione strategica a prescindere, e una pletora di manovre tattiche in risposta alle necessità del momento.

Meno compromessa, ma solo all’apparenza, La Repubblica, che fa parte del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti. Nel Cda de L’Espresso troviamo Sergio Erede, amministratore di Luxottica; Luca Paravicini Crespi, consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il quale a sua volta è anche nel Cda della Tod’s di Diego Della Valle) e figlio di Giulia Maria Crespi, ex direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma Marcegaglia) e della Saras di Massimo Moratti (già rappresentato nel Cda del Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli).

Massimo Moratti rappresenta inoltre il trait d’union fra il Gruppo L’Espresso e la famiglia Berlusconi, poiché siede, oltre che nel Cda della Saras, anche in quello della Pirelli, accanto a Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e amministratore Mediaset.

La famiglia Berlusconi controlla direttamente Il Giornale, edito dal gruppo Mondadori, mentre la famiglia Agnelli è proprietaria del quotidiano La Stampa di Torino. 

Il Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia e il Nuovo Quotidiano di Puglia sono editi dalla Caltagirone Editore, di proprietà della famiglia Caltagirone (grandi opere, cementifici, immobili): fra gli altri, siedono nel Cda di Caltagirone Editore, Azzurra Caltagirone, moglie di Pier Ferdinando Casini, e Francesco Gaetano Caltagirone, consigliere di Monte dei Paschi e di Generali Assicurazioni.

Il Resto del Carlino di Bologna, la Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano sono invece posseduti dalla Poligrafici Editoriale, collegata con due gradi di separazione a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina (attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci); e con tre gradi di separazione (attraverso Roberto Tunioli, Sergio Marchese e Giuseppe Lazzaroni), alla Premafin della famiglia Ligresti.

Infine una notazione quasi umoristica. Libero, l’aggressiva testata di destra e Il Riformista, quotidiano timidamente di sinistra, hanno lo stesso editore (e quindi zero gradi di separazione!): Giampaolo Angelucci, proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui l’ospedale S. Raffaele di Roma), e messo agli arresti domiciliari il 9 febbraio dello scorso anno per falso e truffa ai danni delle Asl.

La situazione non migliora, anzi se possibile peggiora, quando si analizzano i quotidiani finanziari. Il Sole 24 Ore, come è noto, è appannaggio dell’universo Confindustria, quindi diretta espressione dei desiderata dei principali gruppi industriali del Paese. Nel suo Cda siedono, fra gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione di Saras; Luigi Abete, presidente di Bnl (gruppo Paribas), fratello di Giancarlo Abete (presidente della Figc) e consigliere anche della Tod’s di Diego Della Valle; e Antonio Favrin, collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca.

A proposito dei legami fra industria, editoria e sport, è interessante notare come quattro delle principali squadre di calcio italiane appartengono a gruppi industriali che possiedono, o amministrano più o meno direttamente, almeno un quotidiano generalista: la Juventus degli Agnelli (che influenzano la Stampa e il Corriere), il Milan di Berlusconi (Il Giornale), la Fiorentina dei fratelli Della Valle (il Corriere), e infine l’Inter di Massimo Moratti (il Corriere e La Repubblica).

Milano Finanza e Italia Oggi, quotidiani economici molto conosciuti fra gli addetti ai lavori, sono invece editi dalla Class dei fratelli Panerai, e nel Cda del gruppo “leader nell’informazione finanziaria, nel lifestyle e nei luxury good products” (come si autodefinisce), siedono Maurizio Carfagna, consigliere di Mediolanum, e Victor Uckmar, il più celebre fiscalista italiano, i cui servigi sono stati richiesti in passato da ogni possibile gruppo industriale, e che oggi è amministratore della Tiscali di Renato Soru. Non sorprende quindi che gli analisti finanziari italiani lamentino l’impossibilità di rintracciare informazioni equilibrate sulla base delle quali valutare i bilanci delle società, o che scandali come quello della Cirio o della Parmalat siano stati tenuti nascosti finché non è stato troppo tardi perché i piccoli investitori (ma non le grandi banche!) potessero rendersi conto della reale situazione.

E qui è necessario notare un dettaglio sconcertante. Tiscali è l’editore de L’Unità – il quotidiano del principale partito di sinistra del Paese, il Pd – che risulta pertanto a un solo grado di separazione da Milano Finanza e Capital (attraverso Uckmar); e a due gradi di separazione (lo stesso Uckmar e Carfagna), dalla Mediolanum di Berlusconi.

Esiste poi un Consiglio di amministrazione dove tutti i gruppi industriali e bancari citati, a eccezione della famiglia De Benedetti, si incontrano, ed è quello di Mediobanca, ai tempi di Enrico Cuccia – suo fondatore – il ‘salotto buono’ della grande finanza, quella che dirigeva i destini dell’economia italiana sulla base di un preciso progetto strategico (più o meno condivisibile, per carità, ma almeno un progetto c’era), e ora trasformato in enclave di ogni possibile mediazione. Nessuno stupore che l’economia italiana navighi, per la verità a ritmi piuttosto bassi, alla deriva, priva com’è di un timoniere (una volta questo era il ruolo dei politici), in grado di darle una rotta qualsiasi.

E ora tiriamo le somme: se sei sono i gradi di separazione fra due entità qualsiasi prese a caso, è evidente che tre, due, uno, o nessun grado di separazione non rappresentano un legame casuale. Esiste quindi la precisa volontà da parte di industria e finanza di controllare le notizie. Prova ne sia l’ostinazione con cui tanti imprenditori e manager italiani (un esempio per tutti – senza scomodare Silvio Berlusconi – è Diego Della Valle, che si è sottoposto ad anni di paziente anticamera pur di essere ammesso al Cda del Corsera), cercano di forzare la porta dei circuiti informativi. Ovviamente non è prudente che il legame sia sempre diretto, perché una situazione di controllo trasparente potrebbe far nascere qualche lecito dubbio nella mente dei cittadini lettori/elettori sull’attendibilità di quel che apprendono nella lettura dei quotidiani o addirittura potrebbe obbligare i direttori e le redazioni dei grandi giornali a fare i conti con il loro ruolo di utili idioti (ovviamente in buona fede, non ne abbiano a male per la definizione). Divengono quindi necessari degli ‘intermediari’ che intorbidino le acque nascondendo gli interessi reali, e che nello stesso tempo costituiscano il trait d’union fra quelli che devono apparire come opposti estremismi. Il profilo tipico di questa figura essenziale è quello del ‘tecnico’: avvocato, consulente, commercialista, revisore, sempre al corrente dei panni sporchi di famiglia (di più famiglie), al contempo confessore e uomo di fiducia, vincolato, più o meno direttamente, al segreto professionale. Come Berardino Libonati (classe 1934), titolare dello studio legale Jaeger-Libonati e ordinario di diritto commerciale all’Università La Sapienza di Roma, che ha ricoperto la carica di presidente del Cda del Banco di Sicilia dal 1994 al 1997; dal 1998 al 1999 e stato presidente di Telecom Italia e di Tim; ha fatto parte del collegio sindacale di Eni dal 1992 al 1995; dal 2003 al 2007 è stato membro del Cda della Nomisma di Romano Prodi; dal 2001 al 2007 è stato consigliere di amministrazione di Mediobanca; è stato presidente del Cda di Alitalia dal febbraio al luglio 2007, e presidente del Cda di Banca di Roma dal 2002 al 2007. Attualmente, oltre a far parte dei Cda di Pirelli, Telecom e RCS, è vicepresidente del gruppo Unicredit. Nel suo curriculum vitae pubblicato sul sito di Pirelli, in una nota particolarmente umoristica, si legge che “è in possesso dei requisiti contemplati dal codice di autodisciplina delle società quotate per essere qualificato come indipendente”.

Un altro super tecnico è Mario Greco (classe 1957), consigliere del gruppo l’Espresso, di Saras, di Indesit Company, di Fastweb e di Banca Fideuram, laureato con lode in economia all’Università di Roma. Partner fino al 1994 di McKinsey&Company, la più importante società mondiale di consulenza strategica, è stato amministratore delegato e CEO di Ras dal 1998 fino al 2005. Poi c’è Carlo Secchi (classe 1944), professore ordinario di Politica economica europea all’Università Commerciale Luigi Bocconi (è stato il diciassettesimo rettore della stessa università dal 2000 al 2004), attualmente nel Consiglio di amministrazione di cinque aziende quotate in borsa: Pirelli, Italcementi, Mediaset, Allianz-Ras e Parmalat, nonché di Fondazione Teatro alla Scala, TEM Tangenziali Esterne di Milano, Milano Serravalle, La Centrale Sviluppo del Mediterraneo, Premuda, e futuro consigliere della società che dovrà organizzare l’Expo 2015 a Milano. Uomini potenti perché – loro sì – informati, ma nello stesso tempo condannati a servire il sistema, indispensabili ma sostituibili, schiavi delle beghe piccole e grandi e dei capricci degli imprenditori di cui sono al soldo, con la loro indubbia statura professionale che basta a stento a ritoccare la facciata.

Quali sono gli effetti di questa tragica analisi sulla libertà di informazione? 7 aprile 2010. Poco prima delle 10.30 decolla dall’aerodromo militare di Payerne il primo aereo alimentato esclusivamente a energia solare. Si chiama Solar Impulse e ha sorvolato per due ore la Svizzera occidentale. L’aereo è stato progettato per volare giorno e notte senza produrre alcuna emissione. Sulle ali del Solar Impulse, costruito in fibra di carbonio, sono installate 12mila cellule fotovoltaiche. L’aereo è a elica ed è spinto da quattro motori elettrici. Il velivolo, per la cui costruzione sono stati impiegati sei anni, è il prototipo di un aeroplano che secondo i programmi compirà il giro del mondo senza carburante nel 2012. Si tratta di un aereo dalle vaste dimensioni, ha infatti l’apertura alare di un Airbus A340, ma il suo peso è equivalente a quello di un’auto di medie dimensioni. In un periodo in cui il prezzo del petrolio è in brusca risalita e il tema della sostenibilità ambientale sempre più trattato, ci si immagina che questa notizia debba ricevere gli onori della cronaca e che venga salutata con entusiasmo. Invece no, in Italia nemmeno una parola, né in televisione né sui giornali, con l’eccezione di un articoletto sul Sole 24 Ore pubblicato sull’inserto online Nuove energie e di un pezzo su L’Osservatore Romano. Forse perché l’opinione pubblica rimanga convinta dell’insostituibilità dell’oro nero? Quante altre notizie non vengono date? Non possiamo saperlo, ma siamo ragionevolmente certi che le notizie pubblicate sono quelle che non infastidiscono nessuno. Cronaca nera, pettegolezzi politici e non, pochissimo approfondimento e quasi nessuna inchiesta, notizie dall’estero estremamente limitate, e solo quando non se ne può fare a meno: guerre, tsunami, terremoti. Anche la lotta tutta nostrana fra chi è pro e chi contro Berlusconi, fra il partito dell’odio e quello dell’amore, o la querelle fra Stato confessionale e Stato laico, sono comode cortine di fumo per non parlare di altro: la crisi economica, la responsabilità delle banche nel suo perdurare, la grande impresa che non sa che fare.  Emma Marcegaglia chiede al governo, nel corso del convegno degli industriali del 10 aprile 2010, di impegnarsi entro due mesi per un investimento di almeno 1 miliardo di euro su ricerca e innovazione e di circa 1-1,5 miliardi sulle opere infrastrutturali. Ma con i soldi di chi? E tagliando quali costi? E cosa ci darebbe in cambio la grande industria? Emma non lo dice, nessuno glielo chiede. Intrallazzi fra pubblico e privato costantemente oscurati, miliardi che corrono ma nessuno lo sa, accordi sottobanco con la criminalità organizzata, servizi segreti a disposizione di interessi privati: verità solo annusate che è impossibile addentare, mentre leggiamo di pedofilia vaticana, di un federalismo misterioso, dell’ennesima esternazione di un premier che ormai ha superato i confini del bene e del male e della morte prematura di un Presidente polacco. È proprio il caso di dirlo: beata ignoranza! 

SCATENI. Il mistero dei misteri, le non verità. Articolo pubblicato il: 26/11/2017 17 su "Goldwebtv.it". Domani, lunedì 27 novembre, alle 10, il Gran Caffè Gambrinus ospita l’incontro dibattito “Giustizia e memoria, trent’anni di verità nascoste”. Se alla libertà di informazione e al diritto di conoscere la verità fa più danni la censura, l’autocensura o l’aggravante di documenti segretati per nascondere responsabilità istituzionali. E’ la domanda che si fa ogni giornalista democratico se disposto a pagare il prezzo della coerenza è penalizzato senza dolersene, escluso da vantaggi di carriera o remunerativi. E’ un’inezia, ma traslata nel moltiplicatore della sopraffazione generalizzata della libertà di informare, semplifica le dinamiche che regolano il controllo della comunicazione. Era alla guida del Tg1, Vespa, direttore noto per empatia con la destra molto moderata. Nel contatto di prima mattina con la testata mi chiesero di inviare un servizio, tra l’altro senza alcuna implicazione politica. Un’ora prima della messa in onda il caporedattore mi chiese perché non avessi inoltrato anche il testo del servizio. Mi spiegò un esperto di modi d’essere di quel telegiornale che quel fax sarebbe stato sottoposto al responsabile dei rapporti con il partito di riferimento per l’ok alla messa in onda. Ovvio, non ho più collaborato con il Tg1. Che giornali e comunicazione radiotelevisiva siano cinghie di trasmissione dei partiti è noto e nel dettaglio è storicamente accertata la sintonia politica dei tre canali Rai con chi governa e chi è all’opposizione. Altrimenti perché tre telegiornali, tre radiogiornali, tre troupe sullo stesso accadimento, perché Porta a Porta e il suo politicamente opposto Report? Cos’altro ispira la linea editoriale di quotidiani come Libero, Il Giornale, la Repubblica, il Corriere, le reti Mediaset e il rosario di emittenti private foraggiate dal network di Berlusconi con la cessione di pacchetti di pubblicità, se non l’amplificazione degli interessi politici dei rispettivi partiti? L’Italia, ma non solo, è priva del fondamentale contributo all’informazione libera del giornalismo free lance che negli Stati Uniti ha una sua straordinaria consistenza. In quel Paese un redattore indipendente, al top della visibilità conquistata con inchieste e articoli esenti da censura, è parte della coscienza critica del sistema. In Italia le assunzioni sono subordinate all’organicità dell’aspirante giornalista alla linea editoriale (cioè politica) della testata, verificata nel periodo del cosiddetto praticantato. La ricaduta sui mille misteri che nascondono l’accertamento di altrettante verità, sarà evidente in questo incontro per il lavoro di Andrea Cinquegrani, giornalista “eroe del nostro tempo” che ha indagato e smascherato decine di retroscena di scandali, reati di corruzione, trame eversive, rara testimonianza in Italia di giornalismo d’inchiesta. Questo nobile comparto dell’informazione, oramai è consentito solo ai grandi gruppi editoriali, in grado di sostenere l’onere delle spese legali per la difesa da querele facili dei soggetti indagati, gli stessi che hanno spento una delle voci libere della comunicazione. La Voce della Campania, testata storicamente coraggiosa, ha subito la violenza dei poteri forti e in misura rilevante la subordinazione di parte della magistratura a personaggi dei partiti, di potentari analoghi. E’ di Rita Pennarola la conoscenza in dettaglio di questo ignobile capitolo del nostro giornalismo. Coraggio da vendere ha fatto di Michel Moore il giustiziere senza paura di una delle mistificazioni a valle del depistaggio americano che ha impedito la verità su episodi divenuti simbolo della disinformazione. Il docufilm sull’attentato alle torri gemelle è un’impressionante atto d’accusa alla versione ufficiale dell’evento disastroso, viziata da semplificazioni di comodo per assolvere responsabilità istituzionali. Armi decisive per sostenere quel che resta del giornalismo d’inchiesta sono gli archivi delle testate giornalistiche quelli personali. Un esempio probante è il patrimonio di conoscenze messe in memoria di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Il problema è che giornali, periodici e informazione radiotelevisiva, fanno ricorso a ricchissimi archivi e fonti telematiche a loro uso e consumo. Chi ha indotto Milena Gabanelli alle dimissioni, all’esodo dalla Rai? Il chi non è venuto allo scoperto, il perché si intuisce. Le sue inchieste non hanno risparmiato le responsabilità politiche di qualunque segno politico. Il bavaglio ai grandi temi scottanti della società contemporanea si affida ad omertà imposte o autosancite per molteplici convenienze: copre le trame delle commistioni mafia-politica, stragi, i retroscena del terrorismo. Fanno testo il lato oscuro del rapimento di Moro, gli assassini di Ilaria Alpi, di Regeni, altri che l’incontro ricorderà per dare consistenza al progetto Giustizia e memoria, promosso dalla Camera di Giustizia europea, dalla Voce delle Voci con il supporto di Meridonare. La domanda a monte di questo incontro-dibattito: ci sono responsabilità del sistema giudiziario, di singoli magistrati e del loro braccio operativo se tanti misteri rimangono insoluti o il controllo blindato della politica è determinante nell’impedire l’accertamento della verità? Chi meglio di alti magistrati può dare risposta a questa legittima richiesta? E non è certo un caso se relatori di questo incontro saranno Nicola Cioffi, Antonio Esposito e Bruno Spagna Musso, magistrati di cassazione, la giurista Manuela Mazzi e la direttrice della Voce delle Voci Rita Pannarola.

Fake news e libertà di stampa, la disinformazione all’italiana in quattro punti, scrive Tiziana Ciavardini il 28 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sarà pur vero, come riportato dall’annuale rapporto di Reporters sans Frontieres, che il nostro Paese ha migliorato e di molto la propria condizione relativa alla libertà di informazione, balzando dal 77° al 52° posto nella classifica mondiale. Nonostante questo, l’Italia si colloca agli ultimi posti nell’Unione Europea. Il primato, invece, continua ad appartenere alla Finlandia, paese in cui le condizioni di lavoro per i giornalisti sono le migliori al mondo. Sarebbe davvero interessante, poi, stilare una classifica di quali siano i paesi al mondo che continuano, forti della convinzione che la libertà di espressione sia un diritto di tutti, a fare dell’informazione una pratica ‘disinformata’. Proprio così, perché il rischio che all’Italia venga assegnato il primato della disinformazione non è poi così lontano. Ancorati all’etnocentrismo fai da te e convinti che, in quanto liberi, possiamo esprimere qualunque opinione, crediamo di aver acquisito anche il dovere di raccontare ciò che vogliamo, dimenticando troppo spesso che le notizie dovrebbero essere prima verificate. Oggi siamo tutti giornalisti. Qualcuno serio che si attiene alle regole deontologiche per fortuna ancora si trova, ma il vero dramma è che giovani blogger hanno la presunzione di atteggiarsi a giornalisti esperti facendo delle proprie convinzioni dei dati di fatto, per poi far cadere nella trappola migliaia di lettori. Questo genere di informazione falsata diventa “pura disinformazione” ed è ormai all’ordine del giorno: dalle fake news alla manipolazioni delle notizie, spesso i mezzi di comunicazione non ci raccontano la verità. Se oggi molti italiani si trovano ad avere idee confuse su molti temi, quali terrorismo, Islam, immigrazione, politica, sanità e tanti altri, è proprio perché l’informazione ha voluto creare questa realtà. Chissà se riusciremo mai a sapere se in buona o cattiva fede. La comunicazione in senso generale e con essa l’informazione, sia giornalistica sia televisiva, rappresentano un grande potere che porta con sé una responsabilità altrettanto grande. Tale responsabilità è nelle mani degli operatori, siano essi giornalisti, broadcaster o opinion leader, i quali, veicolando un messaggio verso un pubblico di fruitori più o meno vasto, hanno il dovere della completezza, dell’obiettività e dell’imparzialità. Anche quando il messaggio stesso è contestualizzato dall’opinione, legittima, di chi comunica. Elementi, questi, che purtroppo spesso vengono disattesi secondo varie modalità e obbedendo a logiche diverse, lontane dal semplice informare. Il professor Marino D’Amore (esperto di comunicazione e mass media), docente presso la Ludes Hei foundation Malta, campus Lugano, stabilisce 4 punti in cui catalogare la disinformazione all’italiana.

1. In primo luogo – dice – assistiamo costantemente ad un uso strumentale del messaggio: ossia si cerca, a volte, di “colorare” una notizia o di metterla maggiormente in risalto perché funzionale, rispetto ad altre, a perseguire fini di consenso politico, sociale o di semplice popolarità di una classe dirigente o di un gruppo d’influenza. Ad esempio ciò avviene quando in un tg, invece di parlare del tasso disoccupazione in aumento, si punta la lente su un lieve incremento del Pil rispetto all’anno precedente).

2. In secondo luogo, in alcuni casi, emerge una certa superficialità di chi fa informazione, ad esempio nella verifica delle fonti, una delle regole più importanti del giornalismo, e/o dei fatti. Quest’atteggiamento alimenta la totale disinformazione e la nascita delle cosiddette bufale, che si trovano ad essere legittimate dall’autorevolezza del mezzo comunicativo (quotidiano, tv o web) che le veste di veridicità e come tale le diffonde. Si pensi ad esempio a tutte le notizie gravitate intorno alla vicenda dei migranti negli ultimi tempi.

3. Il terzo punto si basa invece sulla ricerca spasmodica del sensazionalismo fine a stesso che segue logiche commerciali, di mercato, fondate sulla spettacolarizzazione della notizia che punta al gossip più basso senza, di fatto, informare. È il caso della fine della relazione di una coppia vip che diventa notizia all’interno di un tg o di un sito d’informazione con tanto di comunicati stampa).

4. Il quarto è ultimo punto gioca sull’autoreferenzialità del mezzo in chiave autoironica. Il web oggi è pieno di siti, pagine social e blog che creano dichiaratamente notizie false, recepite come vere da fruitori o operatori poco attenti, i quali poi si adoperano come mezzi di diffusione. Si tratta quasi di “stakeholder”, i quali, nel migliore dei casi, vengono smentiti poco dopo creando più imbarazzo e perdita di credibilità che informazione. In alcuni casi, tali notizie sono finite addirittura all’interno di tg nazionali, nonché in talk show di prima serata molto seguiti dal pubblico. Quelle sopracitate sono le tipiche situazioni comunicative da interpretare in modo critico ed evitare quando si vuole fare o fruire informazione degna di questo nome. Forse ogni giornalista dovrebbe seguire queste norme, altrimenti troveremo sempre più millantatori che si atteggiano a esperti di tuttologia di cui la rete, la tv, i quotidiani ormai ne sono colmi. Oggi la disinformazione miete le sue vittime ovunque e spesso ci racconta un mondo diverso da quello in cui viviamo, per cui diventa complesso e difficile interagire. Il mondo dell’informazione ci deve garantire trasparenza e certezza della notizia, evitando così di perdere anche quel poco di credibilità che gli è rimasta.

Marcello Veneziani: “La falsa guerra alle bufale”, scrive il 27 novembre 27 2017 su Il Tempo. Ma cosa sono mai le fake news che spaventano l’establishment mondiale e che Renzi ha denunciato in apertura della Leopolda? Sono le notizie false e tendenziose come un tempo si diceva. Non è una novità dei nostri giorni: si chiamava “disinformazia” ai tempi dell’Unione Sovietica, si chiamava manipolazione mediatica o storica negli anni più recenti. La maldicenza, la falsificazione, la disinformazione esistono dacché esiste l’umanità, anzi prima, col serpente biblico. Qual è allora la novità di oggi? Che tra la disinformazione di regime, la propaganda di partito e il pettegolezzo da ballatoio, la maldicenza da bar, si è insinuata una forma nuova, pubblica e privata al tempo stesso: la bufala in rete. Renzi ce l’aveva con i 5Stelle, perché trattandosi di un movimento cresciuto con la Rete si ritiene che sia cresciuto a suon di fake. Ma il discorso ha assunto una grande rilevanza mondiale da quando c’è Donald Trump, che si ritiene il Re delle fake, una specie di Buffalo Bill nel senso delle bufale. Sarebbe facile dimostrare che le notizie incontrollate, sommarie, imprecise, usate dalla propaganda di Trump si equivalgono almeno alla deformazione mediatica e alla falsificazione usata contro di lui dall’apparato mediatico-istituzionale. Trump è stato vittima e artefice delle fake news. E per certi versi anche i movimenti populisti in Europa lo sono. Per dare una spiegazione colta, le fake news sono state definite “postverità”, cioè nell’epoca in cui tramonta la verità, restano solo le interpretazioni soggettive. Ognuno si costruisce la sua verità su misura dei suoi interessi. Vero. Però ci sono da considerare due cose.

1) La prima è che se la rete abbonda di postverità, i media abbondano di pre-falsità, ovvero di falsità costruite a priori, pregiudizi che precedono i fatti e prescindono dai fatti. C’è una vera e propria fabbrica delle notizie corrette e filtrate, dei linguaggi costretti e ipocriti, delle omissioni e delle menzogne organizzate. La Rete è figlia di questo contesto. Una figlia che si ribella a tutto questo ma poi finisce per somigliare tutto a sua madre.

2) La seconda osservazione invece scende a un livello più profondo. Quando sento filosofi, intellettuali, politici e giornalisti che attaccano le post-verità mi ricordo che sono poi gli stessi che nei loro saggi, nella loro militanza, nella loro professione e nella loro esperienza, hanno sempre rifiutato di credere all’esistenza di una verità oggettiva, riconosciuta e universale. Hanno sempre sostenuto che la verità non esiste, è un retaggio della tradizione e della religione, perché le verità sono tante quante sono gli uomini, e di solito rispecchiano i rapporti di potere, servono al potere. Perché, come diceva Mar e ripeteva Gramsci, le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante. Dunque, la verità non esiste. Da questo rifiuto è discesa la condotta dei nostri anni dove tutto è “a modo mio”: non mi devo attenere a una verità e a un canone, ma vivere secondo i miei diritti e desideri. Questa in fondo è l’eredità del ’68. Ora, invece, sorge un nuovo bigottismo, un nuovo clericalismo, che liquida come postverità sia le bufale bell’e buone sia le interpretazioni o addirittura i fatti che non rispecchiano l’ideologia dominante, il pensiero unico (che è una definizione sbagliata perché se un pensiero è unico, e uniforme, non è un pensiero ma un comandamento). Il nuovo bigottismo clericale somministra ai sudditi una rete di falsità prefabbricate. Torno alla realtà d’oggi. Non so se siano peggio le bufale di cui si è nutrita la rete e che ha nutrito il grillismo o le bugie, le promesse mancate, i raggiri e gli annunci da piazzista di Renzi e dei suoi dirimpettai. È malapolitica in ambo i casi. Infine un appello animalista e agroalimentare: è già falso e fuorviante definire bufale le notizie false. Smettetela di diffamare le bufale, animali innocenti e mozzarelle deliziose.

Le vere fake news? Le bufale rosse e a Cinque Stelle. Dalle bugie sullo spread sponsorizzate da Repubblica per far cadere il governo del Cav a quelle sulla macchina del fango su Fini, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 27/11/2017, su "Il Giornale". Si discute di fake news, termine con cui al tempo di internet si definiscono le vecchie «bufale», ovvero notizie false atte a modificare o alterare la realtà per ottenere vantaggi politici o economici, spesso screditando gli avversari. Sinistra e grillini si accusano a vicenda di essere «fabbrica di fake news», e mi sembra come il ladro che dice al collega: ma che fai, rubi a casa mia? Già, perché nella storia tutti i regimi, soprattutto quelli socialisti, hanno fatto loro il motto attribuito a Voltaire: «Mentite, mentite che qualche cosa resterà». Qualche esempio. È oggi accettato scientificamente che furono delle fake news sponsorizzate da La Repubblica le notizie che fecero cadere il governo Berlusconi nel 2011. Non è vero, infatti, che l'Italia era sull'orlo del default e che non c'erano i soldi in cassa per pagare gli stipendi pubblici; è risultata assolutamente infondata l'inchiesta giudiziaria-mediatica sulle notti di Arcore, tanto che Berlusconi è stato poi assolto in tutti i gradi di giudizio. Anche noi, nel nostro piccolo, siamo stati vittime di fake news, quando fummo additati da molti colleghi come «macchina del fango» per aver incastrato Gianfranco Fini - allora utile idiota della sinistra per disarcionare il governo - con lo scandalo della casa di Montecarlo. Oggi sappiamo con certezza che peccammo sì, ma per difetto nel raccontare quei fatti assolutamente veri. E che dire delle fake news grilline? Qualcuno pensa che davvero i parlamentari Cinquestelle non ritirino a fine mese il loro lauto stipendio, che, se coinvolti in fatti giudiziari, si dimettono perché «l'onestà prima di tutto», che da quelle parti «uno vale uno» e tutto viene deciso in modo trasparente dalla rete? Nessuna di queste affermazioni corrisponde a realtà, eppure c'è ancora chi crede, grazie a martellanti fake news, che il mondo di Grillo sia quello. La sinistra ha sempre usato l'arma delle bufale per manipolare l'opinione pubblica e oggi teme solo di perdere l'esclusiva del metodo. Perché in questo, effettivamente, Grillo è un avversario molto temibile. È riuscito pure a fare credere di essere un modello di rettitudine morale e fiscale. Ed è questa la migliore battuta del suo vasto repertorio di comico. La migliore fake news, per rimanere in tema.

Le fake news sono una bufala, la verità è che abbiamo leader stanchi. Le fake news sono le nuove scie chimiche. L’idea che qualche hacker stia influenzando la nostra campagna elettorale è francamente risibile. E mostra tutta la debolezza politica d’Occidente, scrive Flavia Perina il 27 Novembre 2017 su "L’Inkiesta". Torna sugli scudi l'espressione Fake News, e – grazie a due articoli su BuzzFeed e sul New York Times - l'idea che il successo delle forze antisistema europee sia legato alla disinformatia sui social, probabilmente pagata dai russi per destabilizzare l'Occidente. Secondo questa linea di pensiero falsi tweet e falsi post sarebbero stati il motore di eventi di portata planetaria tipo la Brexit, l'elezione di Trump, la rivolta catalana per l'indipendenza. La medesima disinformatia metterebbe ora a rischio le prossime elezioni italiane e in particolare le “forze della responsabilità”, favorendo Cinque Stelle e Lega con la diffusione di notizie allarmistiche, gonfiate, spesso del tutto false, comunque ostili ai partiti “di sistema” e vantaggiose per l'area anti-sistema. Fino a un paio di anni fa questo tipo di accusa veniva rivolta alla televisione. La madre di tutte le battaglie (peraltro mai combattuta fino in fondo) della sinistra fu quella contro il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi, e contro l'anomalia “tecnica” di un candidato premier che controllava tre tv oltreché moltissimi giornali e altri ambiti dell'editoria. Lo spostamento dell'asse polemico in direzione delle Fake News, e quindi della Rete – che non ha specifici padroni ma solo influencer e forse qualche pezzo di intelligence che allunga rubli e/o dollari in giro – stupisce e incuriosisce. Un maligno direbbe che è frutto del famoso Nazareno, la tregua negoziata tra il Pd e il Cavaliere. Ma la tesi più probabile è un'altra, e cioè che questo mondo qui – il mondo della politica Millennial, di quelli nati con lo smartphone nella culla – viva il rapporto con la Rete in modo così viscerale e simbiotico da immaginarla davvero onnipotente strumento di ogni fortuna e disgrazia. Una parte della politica italiana sembra convinta che siamo già lì, e che le reputazioni, il consenso, il successo di un'idea o di un partito non dipendano dalla loro qualità ma siano in balia dell'attivismo digitale. Come se Andreotti o Cossiga avessero legato i loro alti e bassi al moltiplicarsi sui muri, sui volantini, sugli opuscoli universitari e persino nei graffiti a pennarello sugli ascensori. Uno degli episodi più riusciti di Black Mirror racconta una società distopica dove le “quotazioni” sui social – insomma, i «Mi piace» - sono il passaporto di ogni cosa, dall'acquisto di una casa alla carriera nel lavoro. Ecco, una parte della politica italiana – quella che continua a denunciarsi vittima di complotti informatici – sembra convinta che siamo già lì, e che le reputazioni, il consenso, il successo di un'idea o di un partito non dipendano dalla loro qualità ma siano in balia dell'attivismo digitale e possano essere affondate dallo sciame social dei “nemici”. Come se Andreotti o Cossiga avessero legato i loro alti e bassi al moltiplicarsi sui muri, sui volantini, sugli opuscoli universitari e persino nei graffiti a pennarello sugli ascensori, dei “messaggi virali” dell'epoca: Kossiga boia, Andreotti mafioso.

È un grave errore prospettico, che concretizza (forse inconsapevolmente) la distrazione di massa da elementi di disinformatia molto più pervasivi, molto più cogenti anche se veicolati dai media tradizionali.

Guardate qui. Si tratta della galleria di prime pagine mandate in edicola a ridosso del voto della Brexit dal Daily Express: un quotidiano popolare che nel Regno Unito vanta un milione e mezzo di copie cartacee vendute e 14 milioni di “lettori” in Rete. Di recente la sua proprietà è stata colonizzata da una multinazionale cinese della logistica, il gruppo Suning. Che cosa volete che siano i 400 falsi account anti-immigrati e pro-Brexit scoperti dall'Università di Edimburgo rispetto a questa corazzata? D’accordo, quegli account erano collegati (forse) a un server di San Pietroburgo, ma davvero appaiono spiccioli rispetto alla geometrica potenza dei tabloid. In Italia non esistono quotidiani di diffusione paragonabile a questa roba inglese. In compenso abbiamo molte trasmissioni tv che si abbeverano alle stessa fontana. “Quinta Colonna”, su Rete Quattro, ad esempio fa in media 700mila spettatori a sera con titoli di questo tipo: Italia invasa, nessuno vuole fermare gli sbarchi; Emergenza Rom, vivono al campo ma sono milionari; Ecco le rapine più violente degli ultimi mesi; Grand Hotel Immigrati; Nessuna sicurezza in città; Emergenza Rom, ecco uno scippo in diretta; Immigrazione senza controllo, salute a rischio?.

La trasmissione è uno dei gioielli del gruppo Mediaset. Il suo conduttore storico, Paolo Del Debbio, è stato più volte spinto da Silvio Berlusconi ad entrare in politica: è popolarissimo, se avesse accettato la candidatura a Milano probabilmente oggi sarebbe sindaco. Come quelli del Daily, “pompa” un po' le notizie: ad esempio, si scoprì che un suo giornalista aveva pagato uno straniero per false interviste in due occasioni: nella prima lo aveva presentato come ladro Rom («Così rubo le auto agli italiani») e nella seconda come estremista musulmano («Sono d’accordo se fanno lo sterminio»). Entrambi i video, ovviamente, avevano avuto enorme circolazione e condivisione in Rete, contribuendo al discredito per l'azione di governo e all'invettiva collettiva contro l'immigrazione e contro l'Unione europea. La denuncia di BuzzFeed sull'Italia riguarda un'azienda a conduzione familiare (la Web365) titolare di 175 domini e di «alcune pagine Facebook con migliaia di follower». Viene da ridere. Tutto questo per dire che, al momento, in Europa, i mezzi più efficienti per orientare l'opinione restano ancora i media tradizionali, cioè la tv e i giornali. I loro “numeri”, tra l'altro sono certificabili a differenza di quelli della Rete dove i seguaci e i contatti si comprano notoriamente un tanto al chilo e le visualizzazioni indicano soltanto chi ha cliccato su un video o su un testo, non se lo ha visto o letto tutto, oppure se è andato altrove dopo due secondi. La colossale inchiesta Usa sulle interferenze russe nella campagna presidenziale ha individuato 18 canali Youtube “probabilmente legati” a un'agenzia di Mosca, per un totale di 1.108 video, 43 ore di contenuti e 309mila visualizzazioni in 18 mesi. La denuncia di BuzzFeed sull'Italia riguarda un'azienda a conduzione familiare (la Web365) titolare di 175 domini e di «alcune pagine Facebook con migliaia di follower». Viene da ridere pensando che solo in Italia, e solo nel Dossier Mithrokin (l'elenco dei contatti del Kgb sovietico diffuso negli anni '90) c'erano undici tra quotidiani e settimanali di diffusione nazionale e un elenco di giornalisti anche notissimi, che scrivevano su testate da milioni di copie vendute in edicola. Nonostante tutto questo i cosacchi non arrivarono mai ad abbeverarsi nelle fontane di San Pietro, un po' per incapacità loro ma molto per le abilità, le competenze e il professionismo politico degli “altri”, che lasciarono perdere le proposte di censura e fecero battaglia culturale e politica nel Paese. Ricominciare da lì, dall'idea di una politica che faccia il suo lavoro senza inseguire i Meme e gli eserciti dei troll, forse sarebbe una buona idea.

Massimo Cacciari: "Il dovere della sinistra è reagire a tutte le bugie della destra". Il filosofo: "Ho apprezzato il video di Saviano, che ha smontato efficacemente le menzogne sull'immigrazione", scrive Alessandra Longo l'1 settembre 2017 su "La Repubblica". Che cosa fa la sinistra di fronte all'esplosione di violenza verbale, a certe pulsioni xenofobe, razziste della destra? Chiederlo a Massimo Cacciari significa avere risposte tranchant (incluso un attacco a Minniti) tipo questa: "Registro una deriva estremamente pericolosa. La sinistra, chiamiamola così, non reagisce più alle menzogne degli avversari. Anzi, semmai cerca comportamenti che possano soddisfare costoro. E così non li fermerà, così perderemo le elezioni".

Cacciari, la questione immigrazione avanza come un incendio che divora ogni ragionamento...

"E' vero. Siamo passati da una fase di comprensibile timore di fronte all'evidente aggravarsi del problema, con un'Europa impotente e il nuovo protagonismo della destra xenofoba ad una fase - quella di adesso - in cui subiamo passivamente le palle che sparano dall'altra parte. Non c'è reazione, tentativo di controbattere e razionalizzare. Al contrario si cerca di tradurre in "moderatese" quello che certa destra urla in modo forsennato".

Clima brutto.

"Prevalgono parole di odio e violenza. Ed è tipico delle grandi crisi di regime. Le orecchie si chiudono, l'ascolto diventa impossibile. Subentra la logica dell'amico/nemico. La crisi non è più in mano di chi governa. Non sottovaluto la situazione. Siamo in un'epoca di trasformazioni radicali che generano paure e disagi. Dico però che la cosiddetta sinistra non fa nulla per contrastare questo clima".

Cosa dovrebbe fare?

"Deve cambiare la comunicazione, bisogna rappresentare la questione immigrati in modo razionale, evidenziare i punti deboli nella gestione, i suoi tempi lunghi, fornire dati economici, spiegare che non c'è un'invasione che toglie il pane alla gente. C'è un fenomeno epocale che va governato, con una grande progettualità, con i piani di aiuto ai Paesi di provenienza, con l'Europa che si prende le sue responsabilità. Mi è piaciuto il video di Saviano su Repubblica. Non amo sempre l'uomo ma in questo caso ha smontato efficacemente le menzogne della destra, i luoghi comuni. Non è una tragedia se Sesto San Giovanni dovrà accogliere 100 immigrati. La tragedia vera è di quei poveretti che vanno in mare e vengono ricacciati nei lager della Libia. Si è rovesciata totalmente la scala dei valori".

Il ministro Minniti dice di aver temuto per la tenuta del sistema democratico nel momento di massima crisi migratoria.

"Ma scherziamo. Se così fosse vorrebbe dire che l'attuale sistema democratico è marcio e allora merita di finire! Non bisogna temere di perdere voti e creare un clima parossistico. Così vince la destra. Bisogna rappresentare bene la questione. La politica deve essere razionale non è fatta per dire alla gente: "hai ragione", non deve ascoltare le domande e ripeterle. Deve dare risposte e indicare prospettive".

Però bisogna anche rispettare il senso di inquietudine della collettività.

"Certo, per questo serve una buona comunicazione della politica. Bisogna smontare le menzogne che seminano il panico. La percezione di insicurezza non è creata solo dal problema immigrazione. Siamo un Paese con il 35 per cento di giovani disoccupati, con milioni di individui in miseria, con il Meridione in mano alla criminalità organizzata. Se il Pil fosse schizzato al 15 per cento, le reazioni della gente ai migranti sarebbero molto diverse. Ma la realtà un'altra. E allora vince chi grida di più".

Scalfari stana i "pappagalli". Eugenio Scalfari è davvero una carogna, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Eugenio Scalfari è davvero una carogna. Una geniale carogna che ha trovato il modo di rovinare la festa a quello che considera un suo indegno successore alla guida della non più sua Repubblica. Proprio nel giorno in cui il giovane Mario Calabresi girava gli studi televisivi per presentare la nuova veste del giornale debenedettiano, il novantenne predecessore e fondatore se n'è uscito con una frase che ha raggelato il sangue di Calabresi e dei repubblichini (nel senso di giornalisti e lettori): «Dovessi scegliere se votare Di Maio o Berlusconi, tutta la vita Berlusconi». Poche parole che non solo hanno cancellato anni di duro lavoro per espellere Berlusconi dalla vita politica senza se e senza ma, ma che hanno oscurato il costosissimo lancio del restyling. Nei giorni successivi infatti, di Repubblica si è parlato per l'outing di Scalfari pro Berlusconi, non certo per il lavoro tipografico di Calabresi. Scalfari, 94 anni, si è comportato come il nonnetto ritenuto e trattato dai parenti come un rimbambito che al brindisi della cena di Natale in famiglia, per vendetta alza il calice «A quelle zoccole delle mie nuore» raggelando la tavolata. «Scusate, il nonno è andato e straparla, conosco la stima che nutre per tutte voi» è la frase che di solito in queste circostanze, dopo qualche istante di gelo, usa dire il capotavola per sdrammatizzare (esattamente quello che un imbarazzato Calabresi ha fatto nelle ore successive senza peraltro essere creduto). La verità è che il nonno non si inventa le cose, ha sempre saputo delle scappatelle coniugali delle nuore ma ha taciuto fino al giorno in cui il disprezzo per i figli cornuti non ha prevalso sull'onore della famiglia. Scalfari non solo è una carogna, ma pure una canaglia che a Berlusconi gliene ha fatte di tutti i colori. Ma alla sua età può permettersi di ammettere l'ennesimo fallimento della sua lunga e ondivaga vita. È come se non volesse concedere l'onore di continuare la battaglia al suo ultimo nemico storico (Berlusconi) a ragazzini - tipo Calabresi - che non sanno neppure di che cosa e di che pasta d'uomini stiamo parlando. Repubblica incassa il colpo e affida alla penna di un comico decaduto e triste, Michele Serra, il compito di redarguire sul suo giornale nonno Eugenio e ribadire che Berlusconi e Mediaset sono il male assoluto. Compito da studenti mediocri che una volta imparata la lezione a memoria la ripetono all'infinito senza avere mai ben capito che cosa stiano dicendo. Pappagalli dell'antiberlusconismo.

Massimo Cacciari: “L’antiberlusconismo? E’ stato un antidoto del cazzo…” Intervista del 18/02/2015 di Bruno Giurato su "Il Giornale".  Prima il Fondatore di Rep (Eugenio Scalfari: «Tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo»), poi lo strapagato (9 milioni di euro in quattro anni) Fabio Fazio, che ospita Silvio Berlusconi a “Che tempo che fa”: ora la sinistra -compresa la “gauche caviar”, ma solo una parte, quelli sono degli irriducibili nostalgici -rivaluta “il fattore B”, ma il primo in tempi non sospetti a fare “outing” è stato il filosofo Massimo Cacciari, che senza mezzi termini ha detto a noi di OFF che l’antiberlusconismo è  stato una boiata pazzesca (in realtà ha usato un’espressione più colorita: leggere per credere) (Redazione). “È chiaro, una certa battaglia riformistica, io e altri della mia generazione l’abbiamo perduta” racconta Massimo Cacciari a ilgiornaleoff.it. Siamo al festival Pordenonelegge. La lezione magistrale di Cacciari verte sul suo ultimo libro, Labirinto filosofico (Adelphi, pp. 348, euro, 32.30), nel quale l’ex sindaco di Venezia rifà i conti con la tradizione del pensiero occidentale. Temi centrali: ontologia e linguaggio. Autori di riferimento le stelle fisse, i molti eretici e borderline dell’avventura filosofica europea scelti, citati, interpretati. Davanti al teatro Verdi centinaia di persone in fila aspettano la sua lezione e la politica attiva è lontana, lontanissima. Ma riguardo Matteo Renzi e la sinistra che in questo momento è al governo qualche considerazione Cacciari se la lascia scappare: “I discorsi che sento fare sono quelli che facevamo noi 25-30 anni fa. Speriamo che stavolta li realizzino, ma certo i propositi non sono cambiati”.

Qual è stato l’elemento che ha congelato il riformismo in Italia?

«E’ stato l’incartamento dei partiti della prima Repubblica, giunti ad una fase senile, sono stati gli errori clamorosi combinati dall’unico leader che poteva avere futuro, Bettino Craxi. Errori complementari e opposti a quelli dell’allora Partito Comunista, che hanno generato Berlusconi, e da lì, l’anti-berlusconismo».

Non starà dicendo che l’antiberlusconismo è stato il veleno della sinistra?

«No, no. Il veleno è stato Berlusconi. L’antiberlusconismo è stato l’antidoto del cazzo! Berlusconi non doveva essere combattuto né con quello, né tanto meno coi compromessi sottobanco. E poi la Lega. Anche chi ragionava è stato preso tra l’incudine del centralismo romano e il martello dei secessionisti. Ogni riformismo, di destra o di sinistra, è stato battuto e ha passato la palla ai nuovi riformismi. Chissà cosa combineranno…»

Non sembra entusiasta. Renzi ha lanciato molte parole d’ordine, da #cambiaverso a #labuonascuola. Non è che sta innovando solo con le parole, e con l’immagine, in una sorta di gioco linguistico alla ribollita?

«Se l’innovazione è soltanto linguistica, durerà molto poco. È troppo presto per dare giudizi sull’operato del giovane Renzi. Ma non c’è niente di stupefacente nel fatto che esista la parola d’ordine, lo slogan, la frase. La parola in questa veste è sempre esistita. E poi ci sono i filosofi. La loro funzione è la critica. Il lavoro critico è l’unico lavoro che tutti dovrebbero riconoscere come proprio della filosofia».

Bene. Nel suo ultimo libro, però, ci sono prese di posizione molto precise sul linguaggio. Scrive e riscrive che il linguaggio non esaurisce la realtà. Che l’essere è più grande del parlare. Che, banalizzando, non basta la parola per cambiare la cosa.

«È vero che il nostro pensiero si esprime linguisticamente, ma questo non significa che la dimensione linguistica esaurisca la potenza del pensare. Perché ci sono molte cose che non posso esprimere linguisticamente. I pensieri che riesco a dire hanno forma linguistica, ma ciò che riesco ad esprimere non è la totalità di ciò che riesco a pensare».

E a sua volta, anche l’essere eccede il pensare…

«Certo. “Cogitatus ergo est non vale”. Una cosa non esiste davvero solo perché la pensiamo…

Da un po’ di tempo, con il fenomeno del “linguisticamente corretto” (una volta il totem era teologico, poi è diventato la filosofia della storia, ora il linguaggio e la scienza) c’è l’idea che si possa riformare la realtà attraverso delle puntualizzazioni linguistiche. “Non usare queste parole perché sono inappropriate, usa invece un’altra parola, ecc ecc”. Si può usare la leva del linguaggio per riformare la realtà?»

La filosofia è cercare di chiarire l’etimo, il significato, l’uso delle parole che usiamo. Rendercene consapevoli. Questo lavoro di “igiene”, come lo chiamava Ludwig Wittgenstein, rimane fondamentale per la filosofia.

«Sì, ma veniamo alla bieca attualità: se invece di dire “professoressa” dico “professora”, o se invece di dire “sindaco” dico “sindaca” – perché c’è gente che sostiene che si dovrebbe dire “professora” o “sindaca”, sto sostenendo la parità di genere oppure sto dicendo una solenne e pretenziosa stupidaggine? Per me è una stupidaggine».

Ah...

«Ma laddove spieghi invece il significato di termini come “riforma”, allora illustri in che senso si usa questo termine. O “rivoluzione”, o “popolo”, o “democrazia” o “potere”, e ti soffermi su queste parole contestualizzandole vedendole nella storia, vedendole nelle varie declinazioni, fai opera “igienica”».

Invece c’è un altro ramo della filosofia che è il cosiddetto nuovo realismo, di Maurizio Ferraris, che tende ad avere un atteggiamento molto vicino a quello delle verità delle scienze “dure”. Come se la filosofia fosse ancella della scienza. Cosa ne pensa?

«Io contro questo nuovo realismo mi sono limitato a citare personaggini come Erwin Schrödinger, che già avevo frequentato in passato, per esempio nel mio primo Krisis. Non è assolutamente conoscenza della natura questo atteggiamento dei neorealisti. Il problema della grande scienza contemporanea, come della vera filosofia è il superamento del discorso soggetto-oggetto. Non c’è nessun soggetto né oggetto, c’è la relazione».

Per lei non si dà nessuna priorità della scienza sulle forme conoscitive “umanistiche”, quindi…

«La logica è logica di relazione, e la logica di relazione è talmente potente che anche laddove è perfettamente consapevole di non poter mai determinare la cosa in sé, riesce a prevedere in termini probabilistici ecc. con assoluta precisione il caso. Loro, soggetto e oggetto, sono finiti. Non finiti nel senso che non ci sono più. Son finiti in sé, si devono aprire all’altro. E danno vita alla relazione».

Quindi chi riparte da questo dualismo soggetto-oggetto fa un’operazione regressiva?

«Regressiva rispetto alla scienza contemporanea, alla grande scienza della natura, la fisica quantistica».

Veniamo un attimo al movimento del neo marxismo: Diego Fusaro è considerato…

«Uff, Fusaro…»

Insomma, dov’è che i neo marxisti come Fusaro sbagliano?

«Sbagliano tutto perché l’idea di poter recuperare una soggettività rivoluzionaria fuori del sistema, la possibilità di scoprire soggettività alternative e moltitudini alternative fuori dal sistema, mi paiono leggermente utopistiche».

Un Marx, almeno in questo revival, decisamente troppo idealista?

«Il Marx idealista è assolutamente come Hegel: ritiene che lo sviluppo del soggetto dell’intelletto contemporaneo abbia una tale potenza e risplende di una tale energia da poter giungere a una sorta di compimento della Storia. Qui funziona l’idea fichtiana dell’”io artista”, che secondo me Marx interpreta. L’intelletto umano sarebbe tanto potente da trasformare la Storia nella riproduzione della propria energia, l’espressione continua della sua creatività».

In un’intervista recente su Repubblica, ha detto che l’Occidente nega a se stesso che ci sia un elemento di violenza necessario nel discorso politico. Un Occidente “malato di nervi” che non riesce più a porsi in contrasto rispetto ad altre realtà politiche, ad altre potenze?

«Discorso molto delicato. Certo che è proprio una civiltà che si ritira o tende a ritirarsi dall’uso della violenza è qualcosa di molto difficile da comprendere e da definire. Tuttavia è chiaro che questa nostra civiltà ha maturato inevitabilmente attraverso tragedie di ogni genere questa forma mentis. Respinge la violenza. È naturale che sia così. Il problema è uno, comprendere che la tecne politikè ha per forza al suo interno una tecne polemikè. Capire allora come questa tecne polemikè debba essere pensata e concepita alla luce appunto del fatto che l’Occidente una certa violenza per fortuna o per sfortuna non può più esprimerla, perché non ne ha la potenza. Qual è questa forza? Diciamo così, non più violenza ma forza, che l’Occidente può avere?»

Ecco. L’Occidente deve combattere, come dice Giuliano Ferrara? O cos’altro?

«Io ritengo che l’unica “kratos” [la personificazione della potenza nella mitologia greca n.d.r.] è che l’Occidente possa esprimere è la sua parola. Se la parola dell’Occidente è una parola di ospitalità, di riconoscimento dell’altro, di identità propria attraverso il riconoscimento dell’altro, di declinazione diversa dei diritti nel senso, recuperando l’idea di “progresso”, di lotta alle disuguaglianze che non ha niente a che vedere con l’ugualitarismo, se la cultura dell’Occidente presenta un’offerta culturale e di parole e fatti, allora la sua può essere una forza».

Dobbiamo solo accogliere e pacificare?

«Una forza diversa oggi l’Occidente non potrà esprimerla o se tenta di esprimerla sarà comunque debole rispetto a quella che altri possono esprimere nel mondo globale: i poteri imperiali ma anche i cosiddetti poteri terroristici.

Ma non si può aprire a tutti. Sembra una utopia riflessiva anche troppo tipica dell’illuminismo. Con il rischio di perdere la propria identità. Ci sono forti indizi in questo senso: siamo appunto finiti, non di possiamo aprire all’infinito…»

Non devi diventare altro da te, invece devi costruire la tua identità attraverso il riconoscimento e il rapporto con l’altro. Non è che ti perdi nell’altro, se ti perdi nell’altro questo è il discorso del tramonto dell’Occidente.

«Appunto…L’Occidente si perde perché non ha più una potenza individuante. Invece non deve essere così, assolutamente. La tua identità è a partire dai tuoi linguaggi, dalle tue storie e dalla tua cultura. Poi certo, la meticci, la modifichi. Questa è l’unica forza che l’Occidente può offrire oggi. I tentativi di offrirsi come forza imperiale hanno fatto la fine che hanno fatto negli ultimi vent’anni, dalla guerra del Golfo in poi: fallimenti totali. Ma passa attraverso delle pratiche, questo discorso: comunità europea, politica mediterranea, politiche commerciali, politiche di aiuti, e anche praticamente scegliendo i propri alleati».

E i nostri alleati sono ancora gli Usa, la Nato?

«Ma lì non sono gli alleati, quelli sono i membri della famiglia e la famiglia non te la scegli né la molli mai. È la Terza Roma il tuo alleato, nella tua famiglia ci sono gli Stati Uniti. I tuoi alleati sono quelli che della tua famiglia finora non sono stati, il primo dei tuoi alleati è chiaro che è la Terza Roma. La Russia».

VERITÀ E MENZOGNA. Lotta alla fake news: le bufale sono un'industria, scoprirle è sempre più difficile, scrive il 24 Novembre 2017 Francesco Specchia su "Libero Quotidiano". «Perchè sporcare con la verità un così bel racconto?...» ironizzava il Pulitzer Bob Woodward. Il quale riteneva che nel giornalismo - sin dai tempi delle Hoax, i reportage/frottola del cronista Mark Twain- la verità assoluta non esistesse; e che, al massimo, il giornalista potesse impegnarsi nella «miglior versione possibile della verità». Woodward non conosceva il network di Giancarlo Colono. Colono è titolare della Web365, azienda a conduzione familiare composta da sei persone più un team di giornalisti per diffondere in maniera deliberata bufale, notizie copiate e disinformazione. Un vero network di 170 domini Internet e diverse pagine che fa i soldi spacciando per notizie le bufale, i pezzi di carattere religioso oppure post che puntano sul sensazionalismo anti immigrati e sul clickbaiting, (la tecnica di costruire titoli sensazionalistici per attrarre clic dagli utenti). Un' inchiesta di BuzzFed ha smascherato il business. Ma ha anche illuminato la fragilità di noi paladini della libera stampa. Solo l'altro giorno, autorevoli testate nazionali sono cascate nell' inganno della bambina islamica picchiata dal padre e nella cancellazione totale della Domenica in delle Parodi. Non c' è da puntare il ditino, ci saremmo potuti cascare tutti. Il filosofo Maurizio Ferraris nel saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino) ritiene che la predisposizione all' informazione striata di menzogna sia «un'emergenza che definisce una caratteristica essenziale del mondo contemporaneo: l'alleanza tra la potenza modernissima del web e il più antico desiderio umano, quello di aver ragione a tutti i costi». Infatti, Ferraris ha ragione. Certo, noi tutti cronisti di mezz' età, l'ultima generazione cresciuta sul sudore da suole di scarpe e sul riscontro quasi ossessivo delle fonti, potremmo chiudere il discorso imputando l'omesso controllo ai colleghi più giovani inchiodati al desk e alle fatiche del copia- e incolla. Ma sarebbe una soluzione semplicistica al problema. La colpa è molto più diffusa. Ed è vero che le fake news, le bufale, sono sempre esistite. Io stesso, nel 1998, ad una Mostra del Cinema di Venezia lanciai nel deserto di notizie, una fake con la complicità dei colleghi delle agenzie di stampa, su una presunta associazione pseudoreligiosa di maschilisti che voleva mettere a ferro e fuoco il Lido per l'eccessiva presenza di attrice donne. L' associazione Ri. Ma. , Rifondazione maschilista, esisteva (ne facevo parte); ma non aveva la minima intenzione di fare dichiarazioni bellicose. Ricordo che quella sòla fu ripresa da tutti i quotidiani nazionali; il Tg2 ci aprì perfino il suo approfondimento. Quella goliardata, oggi, è caduta in prescrizione, ma le redazioni potevano evitarla. Oggi è diverso. Oggi vige il "giornalismo a rete" (definizione di Charlie Beckett): chiunque può accedere a molte fonti di informazione e allo stesso tempo «creare un contenuto informativo con bassi costi e alte potenzialità di distribuzione». Le fake sono un'industria, il fenomeno oramai è incontrollabile. Chi usa notizie false per influenzare le opinioni politiche o per motivi commerciali può, per esempio, contare sull' «effetto-bolla» dei social network; e Facebook e Google News impaginano le notizie in una modalità omogenea, uguale sia per il Washington Post che per i siti terribili, appunto, di Giancarlo Colono. Quindi la capacità di controllo delle fonti da parte di noi giornalisti è messa a durissima prova. E molti di noi si rendono complici involontari di misinformazione, cioè di condivisione di informazioni false. Altro problema è che i giovani colleghi, privati della consuetudine all' inviatura e inchiodati al pc in un'impaginazione talora ai limiti delle catatonia, sempre più spesso difettano di capacità di factchecking, di controllo immediato dei fatti (figuriamoci, non lo facciamo più, ormai demoralizzati, noi vecchi). Tutto questo ci porta ad un concetto di verità molto più lasco di quello di Bob Wooward...

Perché Buzzfeed ha scoperto il vaso di Pandora della disinformazione. L'inchiesta del sito americano racconta che dobbiamo stare attenti in vista delle elezioni, scrive Matteo Grandi il 22 novembre 2017 su "Agi". ​L'inchiesta di BuzzFeed che porta alla luce un network di pagine Facebook e siti internet italiani intenti a spacciare e diffondere disinformazione e anche fake news di stampo nazionalista e razzista e tutte riconducibili a un imprenditore romano, Giancarlo Colono, è qualcosa di più di un semplice segreto di Pulcinella. Perché se in fondo era risaputo che la disinformazione a orologeria, in particolare quella che ha fatto dei migranti uno strumento di propaganda e ritorno economico, era qualcosa di coordinato con dei fini specifici, grazie all'inchiesta di BuzzFeed si inizia a intravedere una verità più articolata e inquietante. A quanto pare, le finalità del network non erano soltanto economiche (si sa il clic-bait indotto da allarmismo e populismo soldi), ma anche e soprattutto politiche. Ed ecco scoperchiarsi il vaso di Pandora delle bufale 2.0. A fare da perno a questa ragnatela, sempre secondo l'inchiesta di BuzzFeed, ci sarebbe la società Web365, controllata da Colono. Un network a cui sarebbero riconducibili 175 siti internet e un numero imprecisato di pagine Facebook. In rete le informazioni sono scarne. Su infojobs.it, Web365 è accreditata come una srl con sede a Roma “consolidata nel settore dell'editoria online, leader nel settore news, sport, curiosità, food, automotive”, una “realtà molto presente nel mondo dei social network e nel settore della app online”. Così presente che il flusso di contenuti veicolati dai siti di news è incentrato esclusivamente su operazioni di clickbait virale, attraverso titoli ingannevoli su tragedie e notizie morbose oltre che strumentalizzazioni di parte su immigrazione islamofobia. Fra le pagine Facebook più influenti gestite da Web365 risulterebbero pure due fra le pagine di news più seguite su Facebook in Italia: direttanews.it e inews24. La prima con tanto di badge azzurro (il “verificato” di facebook) e quasi 3 milioni di like sulla pagina. Inutile sottolineare il potenziale di interazione che le notizie urlate e pubblicate su queste pagine erano in grado di generare. Negli ultimi 12 mesi la pagina Facebook di DirettaNews ha ingenerato più di 5 milioni di condivisioni, ovvero più della pagina Facebook del Corriere della Sera. Ora Facebook, sull'onda lunga dell'inchiesta di BuzzFeed, ha già preso i primi provvedimenti, oscurando le principali pagine riconducibili a Web365. Ma in questo mix letale di notizie morbose e allarmistiche, fra fake news su immigrati portatori di malattie e sproloqui di Imam fittizi, a farne le spese sono gli utenti, fuorviati e condizionati da bufale e notizie prive di fondamento. Flussi di informazioni capaci di spostare gli equilibri dell'opinione pubblica. Una nuova dimostrazione, anche alle nostre latitudini, che l'informazione di massa oggi può essere manipolata scientificamente attraverso un uso capillare di piattaforme online e social network. In questo caso a tinte catto-integraliste. Non a caso una delle pagine Facebook “vicine” a Colono e alla sua famiglia è la pagina “La Luce di Maria”, 1 milione e mezzo di fan e un flusso di informazioni anti-scientifiche, declinate tra disinformazione medica, ricette per contrastare il diavolo e il malocchio, presunte apparizioni divine e analisi che mettono in correlazione l'aborto con i riti satanici. Un Medioevo 2.0 amplificato e rilanciato da numerose altre pagine gestite dalla società di Colono, in un gioco di specchi innalzato all'ennesima potenza capace di generare disinformazione all'interno di qualunque contesto (il network gestisce fra gli altri pure siti che si occupano di calcio, alimentazione e animali), anche attraverso il ricorso ad account fittizi. Per la credibilità già minata di Facebook questo può essere un vero e proprio terremoto, anche perché siamo di fronte a una forma consapevole e coordinata di manipolazione dell'informazione dall'esterno. Una manipolazione che non ha come unico scopo quello del lucro, come da sempre si sospettava, ma anche quello di spostare gli equilibri dell'opinione pubblica: in attesa di capire se ci siano i margini per degli approfondimenti da parte della magistratura o dell'ordine dei giornalisti, considerando che dietro alle pagine più chiacchierate ci sono delle testate registrate. Di certo siamo di fronte a un terremoto destinato ad avere conseguenze. Non è un caso che Facebook si sia attivata con una velocità insolita – nel tentativo di metterci una pezza - oscurando alcune delle pagine in questione. Sul tappeto però resta in tutta la sua brutalità la vulnerabilità dell'utenza, totalmente indifesa rispetto a fenomeni così profondi, complessi e articolati. Difendersi da una fake news si può, difendersi da uno tsunami di disinformazione coordinata e veicolata in parallelo da una miriade di canali è un'impresa molto complessa. Oggi più che mai occorre uno sforzo di responsabilità a custodia della democrazia da parte degli organi di informazione tradizionali (chiamati a recuperare una credibilità e un rapporto fiduciario perduto con i lettori) e, soprattutto, da parte dei gestori, gli unici che con un controllo serio, costante e capillare possono avere un ruolo attivo in questa partita.

Ecco l’attivista (anche dei 5Stelle) che ha aiutato la Lega sui social network. Il blogger David Puente ha individuato il nome dell’anello di congiunzione fra i pentastellati e il partito di Matteo Salvini di cui si parla nell’articolo del Nyt, scrive Martina Pennisi il 27 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Marco Mignogna, campano, social media manager. Sarebbe lui l’anello di congiunzione fra i siti pro Movimento 5 Stelle e pro Lega cui fa riferimento l’articolo del New York Times di venerdì 24 novembre basato su uno studio dell’esperto italiano di sicurezza informatica Andrea Stroppa. Ad arrivare a nome e cognome dell’intestatario di una ventina di siti è stato il blogger ed ex Casaleggio Associati David Puente. Lo ricerca è partita dal portale info5stelle.info, collegato a una pagina Facebook riconducibile a Mignogna, di Afragola, Napoli. Grazie ai codici di Google Adsense e Analytics — lo stesso metodo usato da Stroppa — Puente ha individuato la connessione fra info5stelle.info e una serie di portali filorussi e le relative pagine Facebook da decine di migliaia di fan, fra i quali noiconsalvini.org, italyfortrump,info, iostoconputin.info e ilsudconsalvini.org. Mignogna ha inoltre utilizzato la mail con cui ha creato alcuni domini anche per dichiararsi attivista del Movimento 5 Stelle e per creare il sito Imprese5s.wordpress.com. Non solo, l’imprenditore campano ha fra le sue amicizie di Facebook il responsabile della comunicazione digitale di Matteo Salvini Luca Morisi, che nel 2015 gli ha dedicato un post lodando la sua attività online, oltre alla sindaca di Roma Virginia Raggi e il candidato premier dei pentastellati Luigi Di Maio. Insomma, come scrive oggi Stroppa sul suo profilo Facebook, sembrerebbe «non proprio un attivista indipendente, ma un personaggio con collegamenti con entrambi i vertici dei due partiti». E, a differenza di quanto dichiarato da Morisi dopo l’articolo della testata americana, Mignogna non sembrerebbe solo un sostenitore di uno o dell’altro partito che ha messo mani ai codici ma un profondo conoscitore delle dinamiche della Rete a fini propagandistici (ed economici, ovviamente). L’indagine di Puente risale a fine febbraio e, spiega Stroppa al Corriere, quando è stata effettuata quella poi citata dal New York Times «le tracce erano già state rimosse».

Vi spiego le bugie del “Fatto Quotidiano”, scrive il 28 Novembre 2017 "Il Dubblio".  La lettera di Andrea Stroppa, 23 anni, autore del report da cui ha preso spunto il New York Times per la sua inchiesta sulle fake news. La lettera di Andrea Stroppa, 23 anni, autore del report da cui ha preso spunto il New York Times per la sua inchiesta sulle fake news. Sul Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, l’altro giorno ci si occupava di me alle pagine 1,2,3 compreso nell’editoriale dello stesso direttore. «[…] Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa, che da minorenne faceva l’hacker per Anonymous Italia durante gli attacchi ai siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale, Guardia costiera e – pensate un po’ – al blog di Grillo; perciò fu imputato e ottenne il perdono giudiziale dal Tribunale dei minori». Apagina 2, un articolo a firma di Virginia della Sala e Carlo di Foggia viene scritto riguardo la mia persona «Non è un tecnico ma può contare su una notevole rete di relazioni». A pagina 3, a firma di Wanda Marra vengo definito «esperto di cyber security».

Partiamo dalla fine, io non credo di essere un esperto, ma credo di saperne qualcosa in tema di cyber security. Dal 2013 ad oggi ho pubblicato numerosi paper e ricerche riguardo temi come le botnet, la contraffazione online, i malware. Il primo a 18 anni su The New York Times. Ho sempre lavorato con persone più brave di me e sono orgoglioso di aver avuto accanto persone che mi hanno insegnato molto, non soltanto dal punto di vista professionale. Solo pochi mesi fa ho pubblicato una ricerca su Associated Press, la quale, in una forma più privata e destinata ad al- tri soggetti, ha permesso l’individuazione di sostenitori dell’Islamic State in Europa. Ho avuto il piacere di confrontarmi con analisti dell’intelligence, ex veterani della CIA, consiglieri di importanti rappresentanti di altri paesi e alti dirigenti delle più importanti società tecnologiche statunitensi. Ho fatto anche altro, direttore Travaglio, molto potrà trovarlo attraverso Google. Non cerco da voi, né dagli esperti che consultate per attaccarmi, i vostri applausi. Agli “esperti” che continuano da mesi ad insultarmi dico solo: se siete più bravi sono contento per voi. Vi auguro tanta felicità e gioia nella vostra vita. Su una cosa però voglio essere chiaro: non mettete in dubbio la mia onestà, il mio onore, non permettetevi di infangare la mia persona. Caro direttore Travaglio, sì, ho fatto parte di Anonymous. Avevo 17 anni, ho fatto degli errori, ho commesso dei reati e ne ho risposto di fronte alla legge. Di fronte a un tribunale, quello dei minorenni. Ho ottenuto il perdono giudiziale e ho ricominciato la mia vita facendo volontariato, costruendo la mia carriera con un lavoro lungo e appassionato. Nessuna scorciatoia: mi hanno proposto libri e interviste “sull’hacker di Anonymous”, potevo prendere la strada della notorietà, ho scelto quella del sacrificio. Non ne ho mai parlato pubblicamente, non per vergogna, ma perchè io penso che dei miei errori sia stato corretto rispondere di fronte la legge, non di fronte a lei, a voi. Come forse saprà, i minori sono tutelati dalla legge sulla privacy e tutto quello che riguarda i loro processi non deve diventare di dominio pubblico. Lo è diventato, prima con il libro di Belpietro “I segreti di Renzi”, poi con un articolo di Fittipaldi su l’Espresso e ancora oggi sul suo giornale. Io non contesto “i guai giudiziari “ e guardi, non contesto, in questa sede, nemmeno il fatto di aver violato nuovamente la mia privacy: contesto le falsità. Non ho mai attaccato i siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale e il blog di Grillo come lei scrive. E nemmeno il sito di D’Alema come ha scritto Fittipaldi. Sono andato di fronte al tribunale a rispondere alla legge italiana, per altri fatti. E questo come può intuire si chiama diffamazione. Nel suo articolo afferma inoltre: «Del resto Renzi sospetta l’intervento di una ‘ mano’ russa. E chi gliel’ha detto? Una società di sorveglianza informatica. E di chi è? Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa». Non c’è nessuna società con Marco Carrai e io personalmente non ho mai parlato di “mano russa”. Anzi, le dirò di più: durante le elezioni americane ho pubblicato un report in esclusiva con Forbes dove documentavo che un importante numero di russi seguivano il candidato Trump e lo sostenevano attivamente, ma che non era possibile documentare nessun legame ufficiale con il governo russo. Altroché i suoi giochini linguistici. Inoltre vengo definito da una sua giornalista parte dei “Carrai boys”, “pupillo di Carrai”, e lo comprendo. Quando non si è liberi, si cerca di mettere le catene anche agli altri. Ma, mi dispiace per lei, per Carrai, e per tutti quelli che vengono citati. Io non appartengo a nessuno, appartengo a me stesso. Non ho bisogno della sua stima, penso che il mondo sia molto più grande de Il Fatto Quotidiano e non credo sia un caso se le mie ultime ricerche sono state pubblicate con il Washington Post, Associated Press, Wall Street Journal e non con il suo giornale. E le assicuro che non è un caso nemmeno il fatto che quando voglio capire di economia, tecnologia, cultura, geopolitica, non leggo il suo quotidiano. Grazie a dei think tank ho avuto l’onore e il piacere di creare rapporti con intellettuali, esperti, scienziati: è con loro che voglio confrontarmi, è da loro che voglio imparare. Caro direttore Travaglio, la coscienza è quella cosa che quando siamo soli ci guarda e non possiamo nasconderci. Mi auguro che lei possa affrontarla a testa alta. Buona domenica.

Fake news, Buzzfeed e New York Times, tutte le novità sulla disfida fra Pd e M5S, scrivono Lorenzo Bernardi e Niccolò Mazzarino il 27/11/2017 su Formiche.net. Continua, anzi si amplifica, la polemica politica sulle fake news. Secondo il Movimento 5 Stelle le inchieste giornalistiche di Buzzfeed e New York Times sulle fake news sarebbero a loro volta delle fake news. Non solo, per il blog di Grillo si tratterebbe di “un giochino apparecchiato su misura al segretario del Pd, oramai in caduta libera. Ed è molto triste che a prestarsi siano state due note testate giornalistiche come il Nyt e Buzzfeed”.

COSA HANNO SVELATO BUZZFEED E NEW YORK TIMES. Tutto è cominciato con un’inchiesta di Buzzfeed che ha portato alla luce una galassia di siti internet e account social, molti dei quali più o meno collegati fra loro, responsabili di campagne di disinformazione e della pubblicazione di varie “bufale”. Sono emersi anche collegamenti fra siti filo-grillini e filo-leghisti. Secondo Buzzfeed, i medesimi soggetti riscuotevano i proventi della pubblicità da siti teoricamente scollegati. A ciò si è aggiunto l’articolo del New York Times, che ha ripreso la notizia sottolineando come in vista delle prossime elezioni l’Italia sia “il punto debole di una sempre più vulnerabile Europa”. Sullo sfondo, le possibili ingerenze da parte della Russia, analoghe a quelle che avrebbero condizionato già le presidenziali Usa. Il New York Times ha citato nel suo articolo Andrea Stroppa, esperto in cybersecurity, già collaboratore di Marco Carrai, consigliere di Matteo Renzi. Stroppa aveva evidenziato, anche sul suo profilo Twitter, gli anomali collegamenti fra i siti vicini ai 5 stelle e quelli salviniani.

LA REAZIONE DEL M5S. Il Movimento ha affidato la sua reazione ufficiale al blog, e si tratta di un contrattacco che prende di mira Renzi. Il primo elemento sospetto sarebbero le tempistiche. “New York Times e Buzzfeed pubblicano a distanza di tre giorni due presunte “inchieste giornalistiche” – mette nero su bianco il movimento capeggiato da Luigi Di Maio – Le due inchieste arrivano, guarda caso, alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, quest’anno dedicata, guarda ancora il caso, proprio alle fake news”. Nella tesi del M5S tutto ruoterebbe intorno a Stroppa. “Entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa”. Si traccia poi il collegamento con Carrai. “Stroppa è stato arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Carrai, il braccio destro di Renzi, al quale l’ex premier voleva persino affidare la guida dei servizi segreti italiani”. E poi l’affondo: “Diciamocelo chiaramente: sembra un giochino apparecchiato su misura al segretario del Pd, oramai in caduta libera”. E ancora: “Quella dei due quotidiani è un’altra fake news sulle fake news. Le due testate avrebbero infatti dovuto approfondire quanto meno la ricerca invece di prendere come oro colato lo studio di un giovane sotto contratto con la coppia Carrai/Renzi”. C’è anche la spiegazione dei collegamenti con i siti “salviniani”. Sarebbe colpa di soggetti indipendenti, slegati dal M5S: “Non ci vuole un genio a capire che questi siti nascono spontaneamente. Sul web ognuno, anche per mero scopo di guadagno attraverso la pubblicità, chiuso nella sua stanza può scegliere di aprire più di una piattaforma e pubblicare quel che vuole. Ma ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento della forza politica di riferimento”.

IL COMMENTO DI MARTON. Per Bruno Marton, senatore del M5S e componente del Copasir sentito dall’agenzia Cyber Affairs, “hanno accusato noi e quelli della Lega, quando in realtà sono i media principali a diffondere le fake news, a divulgarle e amplificarle, quanto e più dei social network. Qualsiasi strumento si possa mettere in atto per limitare l’influenza di queste notizie false va assolutamente usato, senza influire però nelle libertà dei social media e di Internet”. Sulla necessità di creare strumenti normativi di contrasto a questo problema, Marton commenta: “In linea generale, penso che si tenda a creare sempre strumenti legislativi, ma alla fine è la cultura che fa la differenza. Finché stiamo smontando scuole e istruzione e non diamo più strumenti alle persone per capire e informarsi correttamente, non ne usciamo. Non è lo strumento legislativo in sé che può fare la differenza. Può aiutare, ma sono la cultura e l’istruzione che fa la differenza in queste cose”.

LA REPLICA DI CARRAI. Sempre oggi, sul Corriere della Sera, è arrivata la versione di Carrai. “Non esiste. Ecco, questo è un esempio di fake news”, ha detto il manager e imprenditore toscano vicinissimo a Renzi e attivo anche nel settore della cyber security, commentando la notizia secondo cui ci sarebbe lui dietro l’articolo del New York Times, che partendo da un report di Andrea Stroppa, esperto di cyber sicurezza che collabora con Renzi, ha segnalato il rischio che le elezioni possano venire inquinate dalle fake news. “Escludo nel modo più totale” che sia stata la sua società di sorveglianza informatica a girare il report al Nyt. “Stroppa lo conosco – ha aggiunto – e per un periodo ha collaborato con una mia società. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui”. In ogni caso, ha detto ancora Carrai, in Italia c’è un’emergenza fake news. “Un tempo l’informazione era verticale, garantita da una auctoritas e divulgata solo dai quotidiani”, oggi, ha spiegato, “grazie ai social, l’informazione è diventata orizzontale: si autoalimenta e per i follower diventa vero solo ciò che è virale”. I rischi, ha concluso, sono di “manipolazione dell’informazione, diffusione di notizie false tese a creare confusione e ad alimentare la rabbia sociale. Prenda l’esempio dei vaccini o della foto del funerale di Riina”.

IL POST DI STROPPA E I COLLEGAMENTI LEGA-M5S. Anche Stroppa, via facebook, ha replicato a Grillo, negando di essere dipendente di Carrai e sottolineando di non fare più parte da tempo di Cys4. Il cyber esperto ha difeso Buzzfeed e Nyt e ha rivendicato di essere la fonte dei due articoli. Però ha rigettato l’appartenenza al Pd di Renzi e anzi, rivolgendosi a Grillo, ha rivelato: “Nel 2013 ho votato M5S e se il programma sarà convincente non esiterò a votarvi nuovamente”. Detto questo, ha ribadito i contenuti delle due inchieste, mettendo in dubbio la tesi del blog, ovvero che i siti di fake news siano opera di attivisti indipendenti. “Questi siti ogni giorno pubblicano decine di contenuti: articoli, immagini, video con grafiche. Vengono condivisi sulle pagine Facebook. Tutto questo lavoro coinvolge più specialità: chi gestisce il sito, chi crea i contenuti, chi elabora le grafiche, chi elabora le grafiche dei video, chi pubblica sui social, chi risponde ai commenti sulle pagine, chi risponde ai messaggi privati e via dicendo. Temo che sia un bel lavoro per un attivista indipendente”. Infine Stroppa, a proposito dei legami fra i siti pro-M5S e pro-Lega, si è chiesto chi sia l’ex attivista del M5S che, secondo la tesi dello spin doctor di Matteo Salvini, Luca Morisi, avrebbe poi contribuito a realizzare i siti pseudo-leghisti, generando “l’apparentamento” improprio. Questo ex attivista, di cui nessuno sin qui aveva fatto il nome, secondo il debunker David Puente, potrebbe essere un imprenditore napoletano, Marco Minogna, amico di Morisi (per stessa ammissione di quest’ultimo) e amico su facebook di Luigi Di Maio. Stroppa scrive che sarebbe “non proprio di un attivista indipendente, ma un personaggio con collegamenti con entrambi i vertici dei due partiti”.

LE TEMPISTICHE E I PRODROMI. In ogni caso, al netto dei contenuti dell’inchiesta di Buzzfeed, fino a prova contraria inconfutabili, è vero che la notizia era già uscita in passato, pur non suscitando l’eco di questi giorni. Lorenzo Romani, altro esperto informatico, ne aveva parlato sia su Twitter che su Affari Italiani. Poi in questi giorni è riesplosa, stavolta facendo molto più rumore, e proprio alla vigilia della Leopolda.

L’OSCURAMENTO DI DIRETTA NEWS. Strettamente correlato alla vicenda, c’è l’oscuramento della pagine Facebook di Diretta News, uno dei siti accusati di diffondere fake news, citato dall’inchiesta di Buzzfeed. La decisione è stata assunta da Facebook stessa malgrado, scrive lo stesso Buzzfeed, non ci siano prove che la testata abbia commesso degli illeciti. Come rileva il blog Valigia Blu, si aprono quindi dei profili di legittimità della decisione di Facebook, che di fatto “opera in regime di semi- monopolio” ed è in grado di censurare – almeno sulla propria piattaforma – una testata che gode, come tutti del resto, di tutele costituzionali sulla libertà di espressione.

Contro le fake news l'unica arma è la cultura. Le false notizie per propaganda ideologica non sono nate con la Rete. La storia ce lo racconta. Oggi però serve il coraggio di essere scettici, scrive Marco Ventura il 28 novembre 2017 su Panorama. Adesso sembra che le fake news siano nate con Internet. Quasi che le false notizie frutto di propaganda ideologica, politica, economica o addirittura psicologica, possano sgorgare solo dalle paludi e dal magma incontrollato della Rete. Ma le cose non stanno così. La Rete per alcuni versi è davvero più democratica, per esempio, di certi ambienti universitari nei quali hanno diritto d’accesso soltanto quelli che adottano tesi e linguaggi politicamente corretti. Dal dopoguerra, alla fabbrica comunista delle fake news ci siamo abbeverati, e in qualche misura ancora ci abbeveriamo, sui libri di testo per le scuole. Per decenni la storia d’Italia trasmessa a ragazzini strutturalmente non in grado di distinguere tra vero o falso o di ponderare il peso delle “notizie” è stata scritta, raccontata, spesso imposta (attraverso la didattica e gli esami) da professori che avevano una visione distorta della storia. Quale peso hanno avuto nei libri di scuola i massacri nella foresta di Katyn, 1940, quando su ordine di Stalin i sovietici trucidarono freddamente oltre 20mila tra militari e civili polacchi? Non è escluso che ancora qualcuno attribuisca l’eccidio non ai sovietici ma ai nazisti. Fu “criminale” o no, da parte di Togliatti, imporre la censura sulle notizie delle efferatezze di Stalin, quando già Kruscev stava scoperchiando il vaso di Pandora? Furono trattati nel giusto modo sui libri di storia (e di scuola) i profughi italiani istriano-dalmati che attraversarono l’Italia tra i lazzi e gli insulti di quanti li consideravano tutti fascisti? E non era forse un fake la reazione condizionata dei conduttori di Tg degli anni di piombo che dopo un attentato, qualsiasi attentato, parlavano di “chiara matrice fascista” pur se le indagini non erano neppure avviate? Quanta disinformazione e fuffa ideologica ci è stata propinata in un clima di intimidazione culturale sui banchi di liceo e nelle Università? Adesso, le “anime belle” si scandalizzano se in Rete troviamo delle bufale. Ha ragione il New York Times quando dice che il problema non è Internet, non il mare magnum nel quale si trova di tutto, anche le bugie, esattamente come si trovano nella vita che è quanto di più si avvicini alla vastità del web. Il problema siamo noi, che abbiamo perso la capacità di analisi, la voglia di non farci abbindolare, la perseveranza nel distinguere tra verità e menzogna e mettere in azione il cervello e tutti gli altri strumenti culturali. Perché abbiamo via via svuotato di significato e di rigore l’insegnamento scolastico, perché abbiamo diffamato il buon giornalismo della verifica sui documenti e sul campo pensando (a torto) che l’informazione in Rete fosse un modo più diretto di accedere alla realtà. Da quando mondo è mondo gli Stati fanno propaganda: prima con giornali e tv, oggi anche attraverso la Rete. La guerra di propaganda, l’interferenza nella vita politica di altri Stati, c’è sempre stata. L’importante è essere più bravi degli altri, smascherare le bufale, imparare a giudicare da soli, non fermarsi mai alla prima notizia ma cercare di andare a fondo e confrontarla con altre di segno opposto. Essere meno “scemi”, cioè ingenui, direbbe il NYT. Anche gli americani in fondo hanno diffuso fake news che hanno generato guerre, come ai tempi dell’offensiva definitiva contro Saddam. I russi sono campioni di disinformazione. Ma lo sono oggi come lo erano ieri, quando in Italia i comunisti facevano da megafono della Pravda ed erano serviti e riveriti da una intellighenzia che si prestava “per la causa” a diffondere un racconto tutto bugiardo. A Mosca e nell’Europa dell’Est si viveva meglio che all’Ovest? C’è chi ci credeva e chi lo faceva credere. Io non ho tutta questa paura della Rete, pur conoscendone i pericoli. Altre sono le insidie: il cyber-bullismo, per esempio. Ora c’è chi propone una legge contro le fake news. Una contraddizione in termini. Chi controllerà i controllori? Chi potrà mai ergersi a depositario della verità? L’unica difesa dalla menzogna si chiama cultura, raziocinio e coraggio. Di essere scettici e, sì, politicamente scorretti. 

A proposito di fake news, scrive Orlando Sacchelli il 28 novembre 2017 su “Il Giornale”. Spero che i lettori mi perdoneranno se uso un verbo inesistente, la maccheronica italianizzazione dell’inglese “to quote” (citare). Un bel giro di parole per dire che “straquoto” (cioè condivido in pieno) ciò che ha scritto il giornalista Guido Olimpio su Facebook a proposito delle cosiddette “fake news”, di cui tanto si parla in questi giorni. Ve lo riporto qui sotto:

Disinformazione c’è sempre stata, oggi ci sono delle differenze:

– raggiunge un pubblico vastissimo grazie ai “social”.

– non c’è evento che non sia accompagnato da teorie cospirative, frottole. Ne vedo ogni giorno su Twitter e Fb. E spesso sono rilanciate da gruppi omogenei e non solo dal cretino del web.

– vedo siti di pubblicazioni che dovrebbero essere serie che pubblicano articoli sul web (ripeto sul web) dai toni cospirativi. I casi sono due: o non capiscono una mazza o invece cercano i “like”.

Esiste una precisa regia politica che mira a manipolare l’opinione pubblica con le balle? Oppure alla base delle fake news c’è solo il desiderio di fare soldi sfruttando gli “allocchi”? Il dibattito è aperto. Ma ci può essere una medicina contro questo male? Un bell’articolo di Marcello Zacché (leggi qui) ci spiega qual è l’unica soluzione possibile: fidarsi dei professionisti dell’informazione. Che possono sbagliare (ci mancherebbe), ma se lo fanno dovrebbero pagare in qualche modo. O almeno così dovrebbe essere. Qualcuno giustamente sottolinea che ci sono anche i giornalisti prezzolati: verissimo, ma il fatto che esistano numerose testate e tanti professionisti, e soprattutto che vi sia il pluralismo dell’informazione, dovrebbe essere sufficiente a far sviluppare i necessari anticorpi. Segnalo anche un altro interessante post su questo tema, scritto su Facebook dal giornalista Stefano Magni: “Fate pure la legge contro le fake news. Introducete pure i controlli sui contenuti dei siti e dei blog e magari mettete anche qualche bel filtro sui social network, come fanno in Cina. Così vi sentirete più sicuri, perché ritenete che il Web sia penetrato dalla propaganda russa, che appoggia i partiti di destra e da questa minaccia ci si deve difendere a costo di reintrodurre la censura. Fate pure tutte queste cose e altre ancora. Tanto fra un paio di anni i filo-russi vinceranno le elezioni e tutte queste vostre belle leggi le useranno loro, per mettere a tacere voi. I russi e i loro complici troveranno già la pappa fatta e vi ringrazieranno (prima di censurarvi)”.

L'informazione a costo zero e le sue bugie. Curiosa questa cosa di una legge contro le fake news (in italiano, notizie false). Bizzarra perché le notizie hanno già una loro distinguibile credibilità: basta attingere ai professionisti dell'informazione, scrive Marcello Zacché, Martedì 28/11/2017 su "Il Giornale". Curiosa questa cosa di una legge contro le fake news (in italiano, notizie false). Bizzarra perché le notizie hanno già una loro distinguibile credibilità: basta attingere ai professionisti dell'informazione. Ebbene sì, loro. Cioè noi: i giornalisti professionisti. A cosa serve una legge? È che sembra si sia dimenticato che il giornalismo è una professione, per esercitare la quale bisogna anche superare un esame pubblico. Il metodo non è diverso da altre professioni, come l'avvocato o il medico. C'è molta gente disposta a farsi curare da qualcuno che non sia laureato in medicina? Chi, invece, si farebbe difendere in una causa penale da un bravo blogger, che però non abbia mai ottenuto una laurea in legge? Eppure c'è la pretesa di informarsi dove capita. Ovvio che comporti dei rischi. È come comprare una borsa di Hermès sotto i portici della stazione: facile che sia un fake. E molto difficile potersene poi lamentare. O prendere un aereo guidato da uno che non abbia la licenza o la patente da pilota: lo fanno in tanti? Non è un caso che il reato per l'«abusivo esercizio della professione» esista già e sia perseguito regolarmente. Ma non si può pretendere di tutelare i boccaloni dalle false notizie se queste sono diffuse da organi non giornalistici e per di più gratuiti. È una questione di buon senso che non può certo essere regolata per legge. Le fake news sono sempre esistite, ed è sempre stato molto facile scoprirle presto. Oggi si sono moltiplicate semplicemente perché in tanti pensano che un post su Facebook con molti like sia più autorevole di una testata giornalistica, su internet o in edicola. Non lo è, è solo gratis rispetto a tanti siti d'informazione oppure alla carta, che invece costa 1,5 o 2 euro. Eh sì, perché poi c'è anche questo piccolo problema: i professionisti dell'informazione bisogna pagarli. Un po' come l'avvocato o il medico di cui sopra. Ma anche l'architetto piuttosto che l'agente immobiliare. Sembra invece che no, il giornalista non lo pago proprio, l'informazione a pagamento non serve perché c'è quella gratis. Ottimo. Ma torniamo alla borsa di Hermes: pretendere che poi le notizie siano anche vere pare un po' troppo, no? Dietro un'informazione professionale, tra l'altro, ci sono anche le garanzie contro le stesse fake news. Perché le corbellerie, sia chiaro, le possono scrivere tutti, prima o poi. Anche i professionisti dell'informazione. Ma questi, a differenza di chi si improvvisa reporter, se sbagliano, pagano. Ci sono fior di norme che prevedono sanzioni civili e reati penali a carico dei giornalisti. A ulteriore conferma che attingere le informazioni da loro sia di per sé una garanzia di qualità. Tutto ciò non ci salva dalle fake news, che continueranno a esistere, né ci ha mai salvato. Né lo potrebbe fare una legge ad hoc: bastano e avanzano quelle che ci sono. Ma finiamola con l'illusione di un mondo dove l'informazione è gratuita: non lo è in ogni caso, c'è sempre qualcuno che paga e qualcuno che guadagna. La differenza è che se si lascia ai giganti del web e delle telecomunicazioni l'oligopolio dei nostri bisogni, compresa l'informazione, anche questa finirà sotto il loro controllo. Più o meno diretto, più o meno stretto. Per questo, per salvare le news dal virus delle fake news non servono punizioni esemplari. Bisogna piuttosto occuparsi dei meccanismi economici, fiscali e finanziari che regolano i colossi della rete, e creare le condizioni di mercato che rendano l'informazione di qualità un bene di valore.

Aprite gli occhi sulle fake news! Sono solo un pretesto per imporre la censura. Ve lo dimostro qui, scrive il 28 novembre 2017 Marcello Foa su “Il Giornale". Non è un caso. E’ un metodo. Con un pretesto, le fake news, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere. Attenzione, non si tratta di una questione meramente italiana bensì di quella che definirei una “corale internazionale”. Il là lo hanno dato gli Stati Uniti, dove, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano, nella consapevolezza che la prima grande e inaspettata sconfitta dell’establishment che governa gli Usa da decenni non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream. A seguire si sono mobilitati diversi Paesi europei, la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post Brexit e, ovviamente, l’Italia, del post referendum. Sia chiaro: il problema delle fake news esiste; soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro. Gli esempi, anche recenti, abbondano. O quando vengono usate dagli haters, gli odiatori, ovviamente senza mai esporsi in prima persona. Ma le soluzioni vanno trovate nel rispetto della libertà d’opinione e nell’ambito del sistema giudiziario del singolo Paese. La diffusione sistematica di notizie false al solo fine di generare visualizzazioni è semplicemente una truffa e in quanto tale va trattata. Il problema degli haters è più complesso. Io da sempre sostengo che bisogna avere il coraggio di mettere la faccia e che l’anonimato assoluto per chi si esprime pubblicamente non sia salutare in una vera democrazia. Anche in questo ambito si possono trovare soluzioni intelligenti ad hoc. Le proposte che sono state formulate negli ultimi tempi – e guarda caso tutte su iniziativa del Pd – si caratterizzano, invece, per la tendenza da un lato a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali – talvolta anche extraterritoriali – dall’altro per l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee. Non mi credete? Eppure è così. Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto e contro cui ho condotto una battaglia furibonda su questo blog? La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia; la seconda delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo. Ovvero appropriandosi di funzioni che spettano normalmente alla magistratura. E leggete la proposta di legge contro le Fake News annunciata da Renzi. Cito una fonte insospettabile, la Repubblica, che la definisce una legge sulle fake news che non parla di fake news. Scrive Andrea Iannuzzi: Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici. Persino la Repubblica – sì proprio il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le Fake News – non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà, e dal riconoscere che la libertà di opinione è in pericolo.

E non finisce qui. Sentite cosa dice Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, che in un’intervista al Corriere della Sera rivela: Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite artificial intelligence riesca a capire se una notizia è falsa. L’altra idea è creare una piattaforma di natural language processing che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie. A mio avviso ciò dovrebbe essere fatto anche a livello istituzionale. Traduco: significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una fake news. Scusate, ma io rabbrividisco. Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati. D’altronde sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un'”esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web. Perché per gente come Renzi e Carrai e Gentiloni, tutti veri splendidi progressisti, evidentemente non può che esistere una sola Verità. Quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito. Cose che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare.

La realtà è una “fake news”, scrive Sebastiano Caputo il 28 novembre 2017 su “Il Giornale”. I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi (e non sarebbe così male) non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti. La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento militare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti).  In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”. Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo, questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, per loro, non esiste.

Parole e omissioni, scrive Cristina Cucciniello il 28 novembre 2017 su L’Espresso. Quando questo giornale, giorni fa, aveva deciso di dedicare un numero a due domande - chi paga? chi manipola? - numero peraltro ancora in edicola, era stato profetico. Perché da quando - il 24 novembre, con tempismo da consumato protagonista televisivo - in prime time, Matteo Renzi ha deciso di dare una svolta alla campagna elettorale del suo partito, indicando nella lotta contro le fake news e per la verità il leit motiv della propaganda elettorale dem, quelle due domande sono diventate le uniche due che il giornalismo italiano dovrebbe porre e che, invece, stranamente, nessuno pone. Nella straordinaria canea alzatasi nelle ultime 48 ore, attorno al tema della disinformazione e del suo ruolo entro la sacrosanta competizione politica ed elettorale, due cose mi hanno colpito: le parole utilizzate e le omissioni. Delle parole utilizzate mi ha colpito la sciatteria, quel pilota automatico che - talvolta - il circo mediatico inserisce, ribattendo, di testata in testata, di media in media, le medesime locuzioni, senza soffermarsi sulla loro autenticità e sulla reale aderenza ai fatti. Delle omissioni ho già detto: ci sono domande che nessuno sente di fare, probabilmente perché - uso una parola pomposa che poco mi piace - gli ultimi anni ci hanno mitridatizzato, abituato pian piano a quell'intreccio oscuro che la politica italiana è diventata, un sottobosco di fondazioni, think tank, sedicenti esperti e consulenti indipendenti. Ecco, cominciamo dalle parole, cominciamo dall'indipendenza. Da diversi anni, su più di una testata italiana, Andrea Stroppa - cui si deve il report citato da un'inchiesta di BuzzFeed e dall'ormai celebre articolo del New York Times, a sua volta citato da Matteo Renzi durante la Leopolda 8 - viene presentato come un "ricercatore indipendente" (qui, qui, qui sul suo stesso blog). Dal Corsera apprendiamo che è "uno dei più contesi consulenti di sicurezza informatica di grandi imprese private ed istituzioni". Nello stesso articolo, Stroppa stesso ribadisce la sua indipendenza: "Io non appartengo a nessuno, appartengo a me stesso". E però qui casca l'asino: se Stroppa è un conteso consulente di sicurezza informatica - definizione peraltro ben più calzante di "ricercatore", titolo che nella nostra lingua si applica principalmente a chi possiede un dottorato di ricerca - per imprese private ed istituzioni - enti di cui non conosciamo la lista, perché doverosamente Stroppa come loro consulente ne deve rispettare la privacy - possiamo ancora utilizzare la parola "indipendente"? Passiamo alle domande omesse. Poiché è assodato che, lecitamente, Andrea Stroppa sia un consulente per aziende ed istituzioni, nonché per Matteo Renzi stesso - così come riportato dal NYT e da numerose testate italiane - e che possieda una compagnia di consulenza ("a company called Ghost Data who advises Mr. Renzi on cybersecurity issues"), possiamo chiederci chi paga per il più che lecito lavoro di un libero professionista nel campo della consulenza informatica? Possiamo chiederci chi ha commissionato e chi ha pagato il report poi citato da BuzzFeed e ripreso dal NYT? Prevengo una ipotetica risposta: laddove il report fosse stato realizzato da Stroppa, di spontanea volontà, senza committenti, senza ricevere compenso, pur in costanza di un servizio di consulenza per Matteo Renzi, poiché Stroppa è un professionista che riceve compensi da aziende ed istituzioni, possiamo veramente dire che il suo lavoro sia indipendente? E ancora: poiché un articolo de 'La Stampa', oggi, ci fa notare che "uno dei problemi è che Usa e Uk sono pieni di società di analisi terze dei dati, l’Italia neanche ha capito di cosa parliamo", possiamo chiederci come mai una di queste società di analisi terze dei dati ha diffuso con incredibile tempismo, a pochi giorni dall'apertura di una kermesse politica, un report che di quella kermesse è diventato protagonista? Possiamo chiederci quale, fra queste società di analisi terze dei dati, realizzerà i report quindicinali promessi da Matteo Renzi? E ancora, rimanendo sempre nel campo delle domande omesse, c'è un ulteriore aspetto da sottolineare. La Leopolda, tecnicamente, non è un evento del Partito Democratico, ma un evento organizzato dalla Fondazione Open. Del board della Fondazione Open fa parte Marco Carrai, che - secondo quanto risulta a questo blog, attraverso testimonianze di due fonti distinte - è la persona che ha curato la parte del programma dedicata alle fake news, invitando un apposito esperto sul tema. Il che è non solo lecito ma anche prevedibilissimo: chi altri dovrebbe fare gli inviti e occuparsi di un evento, se non i membri della fondazione che lo organizza? Ma, ancora, qui casca l'asino. La Leopolda non è un evento del Partito Democratico, ma incidentalmente ospita gli interventi del Segretario nazionale del Partito Democratico, che qui annuncia anche l'andamento della campagna elettorale del partito che guida. Ricapitoliamo: una fondazione terza organizza un evento pubblico, cui partecipa il segretario di un partito politico, che quivi annuncia i temi della sua campagna elettorale, compreso un tema salito agli onori della cronaca grazie ad un report, realizzato da una società terza di analisi di dati, da un consulente del segretario del partito politico, che in passato ha anche lavorato per una società di un membro del board della fondazione. E non è uno scioglilingua. Veniamo alle domande omesse: la lotta alle fake news, che verrà supportata da report quindicinali, verrà condotta dalla Fondazione Open o dal Partito Democratico? Il Partito Democratico, ricordiamolo, essendo erede dei due principali partiti di massa del '900 italiano, ne ha ereditato anche un aspetto ormai vintage: una struttura piramidale, composta anche da una segreteria nazionale, di più membri, da una direzione, da un'assemblea. La struttura era al corrente di questa intenzione di lotta alle fake news? Ne condivide l'impegno? Sappiamo quali persone si occuperanno di questo tema, nella struttura del Partito Democratico, dentro il Collegio del Nazareno? Vedremo i report quindicinali sul sito del Partito Democratico? Last but not least, poiché io - come Stroppa - ho una certa predisposizione alle ricerche on line, vi propongo un divertissement: anche il sito di Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico, condivide il codice Google Analytics con un altro sito, quello della Leopolda5, attualmente diventato, grazie ad un redirect, il sito dell'evento Leopolda, al di là delle varie edizioni. Nulla di cui stupirsi: cosa c'è di male? Nulla. Ma se la partita cui stiamo assistendo è quella della trasparenza e dell'accountability, beh, magari ad un elettore del Partito Democratico, un elettore che non si riconosce nella maggioranza renziana, potrebbe non far piacere che Google profili le sue visite al sito del segretario assieme ai dati raccolti dalle visite sul sito di un evento che non è pertinente al Partito Democratico. Ma siamo sicuri che la partita sia proprio quella della trasparenza e dell'accountability? 

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Poi, dalle bufale alla gogna il passo è breve.

Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo…

MORALISTI E MORALIZZATORI. IL MORALISMO E LA MORALIZZAZIONE COMUNISTA.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Famiglia ideologizzata, scuola ideologizzata, religione ideologizzata, cultura ideologizzata, media ideologizzati.

Miseria del moralismo. L'elite moralista è ben consapevole della propria condizione di minoranza eroica e ben si vede dal farsi sfiorare il pensiero dall'ipotesi di egemonizzazione culturale in senso Gramsciano, tuttavia, essa, si sente costretta a dover moralisticamente operare, scrive il 6 febbraio 2014 “L’Intellettuale Dissidente". Il moralismo italiano ha origini antiche, potremmo pensare che i veri iniziatori furono i piemontesi moderati durante il “Risorgimento.” La leggenda del Sud sottosviluppato e diversamente italiano precorre esattamente il pensiero dell’italiano ignorante che va educato alla civiltà da un’elite di sapienti. Sembra di vederli questi salottieri illuminati intenti nel disprezzare davanti ad un vernissage le popolazioni appena unificate a colpi di cannone.  E così siamo passati dall’incivile abitante del Meridione, che questo sia un falso storico ormai lo sanno anche i sassi, al più sottile ma non meno opinabile, incivile dissidente, il quale va educato, a sua volta, al rispetto del linguaggio e del comportamento idonei al politicamente corretto ed, ovviamente, al pensiero unico, dovendo egli essere richiamato dal suo ardire di usare parole proibite ed avere comportamenti inopportuni quali, ad esempio, chiamare corrotto un corrotto o fare ostruzionismo parlamentare su un provvedimento antisovranista.  Il moralismo, nella sua degenerazione tipica, cioè nella stortura della moralità inclinata verso un giudizio negativo aprioristico e spesso privo di fondamento, è anzitutto nemico del libero pensiero, poichè fornisce pacchetti di pensieri preconfezionati e tipizzati che non consentono alcun tipo di movimento ragionativo diversificato. La morale, invece, come insieme di atti etici, ha una funzione prettamente pragmatica, opera, per così dire, all’interno della realtà per esclusivo mezzo di effetti concreti. Ed è in questo senso che il quadro politico italiano, ma non solo quello politico, va strutturandosi tra moralisti e moralizzatori, definendo i primi come coloro che richiamano i secondi dal non debordare dalla prassi consolidata dell’esser rivoluzionari sì, ma solo a chiacchiere. Questi azionisti del pensiero unico, hanno un’origine antica e non nascono certo oggi: essi sono i frutti migliori dell’albero del “radical-chicchismo”, risiedono in Parlamento, nei media che contano a livello di opionon making ,per usare un’espressione a loro cara, nelle scuole, nelle università ed altrove ed hanno il compito specifico di livellare la società sulla base di parametri definiti e standard quali il terzomondismo, l’internazionalismo politico con la conseguente destrutturazione ideologica del concetto di nazione, la proliferazione della dittatura culturale degli autori leggibili e la  direttamente successiva demonizzazione degli autori scomodi, la liberalizzazione dei costumi in chiave sessantottina, l’esterofilismo inteso quale l’asserzione costante della superiorità consolidata del qualunque altrove rispetto all’Italia, la pulizia della società da tutti quei virus infetti che osano, per l’appunto, contraddirli. E sono i migliori amici del capitalismo proprio perché hanno un buon novero di nemici possibili ma ben si guardano dal puntare l’obiettivo sul vero virus del nostro secolo, per l’appunto, l’avvento del capitalismo assoluto o del turbocapitalismo, che dir si voglia, alimentandolo, invece, essendo tra i più assidui consumatori di merci tipiche della modernità, materiali o immateriali che siano. Si aggirano, muniti dell’ultimo libro di Erri De Luca, di Eco o di chiunque vogliano, non voglio far torto a nessuno, cachemire e mocassino, barca a vela e superattico, utilizzando banali stereotipi ma poi manco tanto stereotipi, verso una profonda missione vocazionale: civilizzare l’incivile. Vanno ringraziati anzitutto Tom Wolfe ed Indro Montanelli quali creatori e utilizzatori celebri del neologismo in questione, miglior accostamento di parole non poteva esser fatto per descrivere ontologicamente questo fenomeno di cui potrei fare un’irrisoria allegoria infinitamente lunga ma credo non sarebbe affatto très chic, direbbero loro.  Molto più utile è invece chiederci chi è questo incivile che va civilizzato. Non si tratta, infatti, di colui che non pensa, che va iniziato aristotelicamente direi, all’arte del pensare, ma di colui che pensa male e che va rimesso sui binari del ben pensare.  E qual è esattamente questo pensiero cattivo che l’incivile fa tanto da dover esser rieducato? Non importa, basta che sia fuori dai canoni sopra descritti, per esser bollato a maledetto. Nasce così la figura mitica dell’elettore di Berlusconi ed oggi quella dell’elettore dei 5 Stelle o del parlamentare irrequieto per stare alla cronaca, persino con tanto di padre fascista, pensate un po’, come nelle tragedie greche dove le colpe si ripercuotevano per generazioni. In ogni caso, essi han fatto un pensiero sbagliato, meritano dunque d’esser rieducati e di rientrare nel recinto del gregge dei giusti. Non importa, ovviamente, che l’insieme dell’elettorato in questione superi di gran lunga una ipotetica maggioranza assoluta di cittadini votanti o che il parlamentare in questione abbia una storia politica propria slegata da quella dei suoi predecessori genealogici, l’elite moralista è ben consapevole della propria condizione di minoranza eroica e ben si vede dal farsi sfiorare il pensiero dall’ipotesi di egemonizzazione culturale in senso Gramsciano, tuttavia, essa, si sente costretta a dover moralisticamente operare. In modo divertito mi pare di poter segnalare che paiono esserci delle analogie tra i comandamenti religiosi ed i comandamenti moralistici di cui stiamo parlando.  In entrambi i casi, infatti, si assiste alla presenza di un giudice ultimo e confessore che può aiutare il peccatore ad uscire dalla sua condizione mediante una imitatio certosina rispettivamente del confessore o del moralista che consente una risalita in paradiso o in società. Questo forse a causa del sempre nostro atipico fenomeno del catto-comunismo, ossia l’unione dei precetti moralistici di certi cattolici ed i comandamenti di un comunismo debole però, depotenziato e neutralizzato che coincide esattamente col manifesto del “radical-chicchismo”. Chiudiamo questo articolo usando le parole di un film, usate in una scena che intende quantomeno segnalare le ipocrisie di alcune incoerenze, che credo non sia piaciuto molto all’elite in questione, film lanciato spero, verso uno probabile Oscar, che disegna con fine arguzia quanto ho cercato di descrivere in questo mio articolo.  Avrete capito che si tratta della “Grande Bellezza”, nella scena in cui Servillo-Jep Gambardella descrive così una radical-chic, moralista per antonomasia: «La storia ufficiale del partito l’hai scritta perché per anni sei stata l’amante del capo del partito. I tuoi undici romanzi pubblicati da una piccola casa editrice foraggiata dal partito, recensiti da piccoli giornali vicini al partito, sono romanzi irrilevanti. L’educazione dei figli che tu condurresti con sacrificio… Mia cara tu lavori tutta la settimana in tv, esci tutte le sere pure il lunedì quando non si manifestano neppure gli spacciatori. Hai un cameriere, un maggiordomo, un cuoco, un autista che accompagna i bambini a scuola, tre baby sitter… Come e quando si manifesta il tuo sacrificio?» Non si manifesta, caro Jap, aggiungerei, si manifesta invece il vivere più speculare, più alleato, più complementare e più adagiato al capitalismo assoluto e si neutralizzano, nel frattempo, in senso schmittiano tutte le voci che osano essere “dissidenti”. Ad maiora. 

Moralista. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l'aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

Poetica dei moralisti. Lo stile degli scrittori moralisti è caratterizzato da un procedere discontinuo: i saggi di Montaigne procedono «a salti e a sgambetti» e senza obbedire a una organizzazione prestabilita: così anche sono la raccolta delle massime di La Rochefoucauld, la scelta delle favole di La Fontaine o l'elenco dei caratteri di La Bruyère. Questa forma della scrittura, propria del moralista, contraddistingue il rifiuto per il discorso costruttivo, dimostrativo e prescrittivo mettendo così in discussione l'atteggiamento autoritario e di presunta sapienza che è tipica del "moralizzatore", vale a dire del filosofo, del teologo o dell'apologeta. La scelta della forma letteraria discontinua, sia che privilegi il disordine, come in Montaigne, sia che valorizzi la concisione come in La Rochefoucauld e Jean de La Bruyère, vuole rendere conto e testimonianza dell'infinità diversità dei comportamenti umani e della complessità di una realtà incoerente e priva di un senso sicuro.

I moralisti nella storia. La critica del XIX secolo e dell'età seguenti ha ritenuto che la corrente dei moralisti fosse la caratteristica che più ha contraddistinto lo spirito della cultura francese del XVII secolo, come reazione al materialismo o all'indifferenza morale e religiosa causata dalle assurdità delle guerre e dell'anarchia civile e religiosa che avevano contrassegnato lo sviluppo della cosiddetta società civile che era stata contrapposta alla rozzezza del secolo precedente. Al tempo stesso un tale approccio introduce erroneamente una sovrapposizione delle nozioni di moralista e moralizzatore, proprio ciò che non sono mai precisamente questi scrittori; inoltre considerando solo la forma degli scritti dei moralisti si evidenzia un'ambiguità di significato: in assenza di un interlocutore a cui riferire esattamente i brani isolati, che si presentano come delle quasi citazioni, un testo come le Massime di La Rochefoucauld è suscettibile di una interpretazione sia agostiniana che libertina. L'ipotesi di una «reazione spirituale» non è attendibile, e se si deve stare ai temi trattati, i moralisti come Montaigne o come La Fontaine sono molto più vicini all'epicureismo che a un intento apologetico. Si è anche affermato che questa moda letteraria fu incoraggiata dalle famose Relazioni veneziane dove gli ambasciatori della Repubblica di San Marco si applicavano a descrivere i tratti dei personaggi più importanti della corte del re di Francia. È la nota ipotesi delle «chiavi d'interpretazione» applicata specificatamente ai Caractères di La Bruyère: vi sarebbe cioè un personaggio reale contemporaneo nascosto sotto ognuno dei ritratti morali. Lo stesso autore in effetti rifiutò una tale lettura della sua opera che veniva ridotta a un divertente documento storico. Se dunque si vuole essere precisi e non speculare su una ipotetica "origine" dei moralisti, bisogna circoscrivere storicamente la categoria dei moralisti, in senso proprio, alla seconda metà del XVII secolo, periodo che segue a quello eroico e romanzesco della Fronda: i moralisti rendono conto e partecipano nello stesso tempo alla «distruzione degli eroi» e della loro mitologia che opera durante il regno di Luigi XIV. In una causalità di questo tipo si potranno trovare gli elementi che consentono di spiegare la comparsa di questo tipo di scrittura, contraddistinta da una forma di pessimismo o di una messa in discussione di valori e sentimenti. Il modo migliore per capire la specificità dello stile dei moralisti è quello di confrontarlo con chi adotta un modo diverso di scrivere: si possono contare numerosi scrittori apparentemente molto vicini alla letteratura moralista, dilettanti di professione, e di valore diverso: Nicolas Coeffeteau, Marin Cureau de La Chambre, Jean-François Senault ou Scudéry, oppure i traduttori di moralisti stranieri come dello spagnolo Baltasar Gracián. In senso stretto questi autori non possono essere considerati moralisti se non per i temi che essi trattano ma il loro modo d'esprimersi e di pensare è radicalmente differente e implica un modo di leggerli molto diverso. Questi autori scegliendo la forma del trattato dimostrativo espongono in modo assertivo e definitivo una verità che essi assumono per certa: mentre, come ha dimostrato Marc Escola, la forma discontinua, definitoria di una scrittura moralista, obbliga il lettore a intervenire e ricostruire i legami molteplici di continuità fra i frammenti e lo lascia largamente responsabile del percorso del significato. È questo infatti il modo per i moralisti di esprimere una verità ormai mobile, ondeggiante e labile, di un'ambiguità appena costituitasi dei significati e dei comportamenti, di una realtà il cui assetto, per riprendere un'espressione di Montaigne, non è più stabile, e fa provare al lettore questo senso di squilibrio. Se si riporta giustamente Montaigne a questa tipologia di scrittori bisogna osservare che egli per primo inventa lo stile dei moralisti e che i suoi Essais diventano il modello di riferimento per gli scrittori qui considerati. Se invece si avvicinano alla stesso modo i Pensées di Pascal alla letteratura moralista si tratterà in questo caso di un caso singolo della Storia: i Pensées sono infatti ciò che rimane di un progetto fallito, per la morte del suo autore, di apologia del Cristianesimo: essi si offrono al lettore con uno stile dimostrativo e assertivo che non rientra nella letteratura moralista. Nel XVIII secolo, i differenti generi letterari inventati, o piuttosto dotati di una dignità letteraria, da La Rochefoucault, La Bruyère e La Fontaine, vengono abbondantemente ripresi da una congerie di imitatori e continuatori fra in quali si possono a mala pena considerare, per la qualità della loro produzione artistica letteraria Vauvenargues, Chamfort e Rivarol. Solo attraverso una raddoppiata estensione della definizione di moralista si è potuto procedere a un allargamento del complesso dei moralisti, non senza mettere a mal partito la stessa nozione di scrittore moralista: I contemporanei de La Rochefoucault e de La Bruyère trattano dei costumi ma in una forma organica e convenzionale. Così Pierre Nicole e i suoi Essais de Morale, Jacques Esprit e il suo trattato La Fausseté des vertus humaines, Saint-Evremond e le sue Dissertations, o Descartes con il trattato su Les Passions de l'âme. Alcuni tra di loro, segnatamente Esprit, adottano un approccio molto vicino a La Rochefoucault e questi ultimi due hanno in effetti tra loro collaborato alla concezione delle loro rispettive opere. Vi è tuttavia una differenza essenziale tra questi autori e i moralisti in senso stretto tale che sia diverso il modo di lettura e di pensiero irriducibile a punti tematici che pure sono comuni. Collegando il rapporto polemico che intrattiene il moralista con il discorso filosofico, la critica del XIX secolo ha spesso assimilato i moralisti a una branca della filosofia o della fisiognomica: così che si è resa inutilizzabile la nozione e si è mostrata disattenzione alla specificità formale di quei testi, ai quali si deve il loro successo come il permanere della loro leggibilità ancora oggi e del loro inserimento nella letteratura come è stata elaborata tra il XVIII e il XIX secolo. Al contrario non vi è quasi nessun filosofo che considererebbe questi moralisti come facenti parte della sua disciplina, e ciò a ragione. Ognuno di questi scrive sul tema dei comportamenti umani senza preoccuparsi di adottare la forma del trattato filosofico, senza darsi pena di usare un metodo sistematico e dimostrativo. Ciò che hanno in comune invece i moralisti è l'adozione di una forma breve: massima, frammento o aforisma. In questo modo sono stati considerati moralisti autori assai diversi come Lichtenberg, Nietzsche a partire da Umano, troppo umano, Emil Cioran, Camus o Quignard: ma il ricorso a uno stile discontinuo nel rendere conto dei comportamenti umani procede in questi con una del tutto diversa configurazione intellettuale e storica rispetto a quella del XVII secolo tanto che si può considerare questo inserimento tra i moralisti del tutto ingiustificato.

Moralisti immorali, scrive Alain de Benoist il 16/02/2011. Si lamenta l'assenza di morale, ma nella morale fino al collo! È ovunque, senza essere più la stessa. Vari contemporanei se ne credono immuni. E nega di «far la morale» e di giudicare moralmente perfino chi li esecra. Data la connotazione religiosa, alla «morale» molti preferiscono l'«etica»: suona più laica, benché l'etimologia sia la stessa (mores e ethos) e, a rigore, l'etica sia dei singoli. Sì, la morale tradizionale declina. Ma un'altra la sostituisce. La vecchia morale dava regole individuali di comportamento: la società pareva migliore se i suoi membri si comportavano bene. La nuova morale vuol moralizzare la società, senza regolare gli individui. La vecchia morale diceva alle persone che cosa fare; la nuova morale dice alla società che cosa diventare. Non sono più gli individui a dover filar diritto: è la società che va resa più «giusta». La vecchia morale mirava al bene? La nuova mira al giusto. Il bene dipende dall'etica delle virtù, il giusto dal concetto di «giustizia», anch'esso moralmente connotatissimo. Le società moderne aderiscono alla nuova morale, ma pretendono di restare «neutrali» nella scelta dei valori: sono ultrapermissive e ipermorali. La sostanza è la logica del dover-essere di Max Weber. L'antichità viveva nella comunione dell'Essere; la modernità nascente s'è richiamata al dover-essere. Che il mondo cambi, dunque: che diventi «più giusto» e sia ricostruito su un progetto nato della vecchia credenza o dalla ragione moderna. Giustizia e diritto non definiscono più l'equità fra persone, ma esprimono il dover-essere. Il sociale va reinterpretato col dover-essere, indifferente alla natura di cose ed esseri. Alla base del dover-essere c'è il no al mondo com'è. In un certo modo questo è anche un no alla vita. Per sant'Agostino, «Mundus est immundus». Va corretto per le esigenze divine, secondo gli uni; per la necessità storica, secondo gli altri. La volontà di (ri)costruire il mondo, o «ripararlo» (tikkun), risale alla Bibbia, per la quale il mondo è imperfetto, afflitto da un minor-essere. L'ideologia del progresso, l'utopia illuminista, ne è la versione profana: in veste secolare (felicità anziché salvezza, avvenire anziché aldilà) agisce tuttora la vecchia fede messianica e chiliastica nell'irresistibile marcia della storia verso la fine (movimento che sfocia nell'autosoppressione). Il progresso è il lento miglioramento unitario del mondo. Pierre Legendre osserva: «Sostituite la salvezza cristiana con la fede nel progresso, avrete il credo commerciale dell'Occidente globalizzato». La religione cristiana s'è voluta di colpo costitutiva d'una «comunità universale reale», scrive Pierre Manent. Per gli illuministi, gli uomini si salveranno con le loro forze, non con i precetti divini, fondando la società perfetta, o almeno definitiva. Ma l'idea di un tale movimento della storia deriva dalla religione, che credono abolita, quando agisce più che mai. Per John Gray, i Lumi riciclano la convinzione che la storia racconti la salvezza dell'umanità; convinzione che affiora dal comunismo staliniano come dal neoconservatorismo americano, certo che alla società perfetta s'arrivi «liberando la magia del mercato»: «Nonostante le pretese di razionalità scientifica, il neoliberalismo si radica \come processo a scopo predeterminato, perciò - e per altro - somiglia al marxismo». Fondata sui diritti soggettivi che ognuno avrebbe allo stato di natura, l'ideologia dei diritti dell'uomo è anzitutto dottrina morale. Per Marcel Gauchet, essa si radica «in ciò che è pietra di paragone fra legittimo e illegittimo in seno al mondo, traendone una griglia di lettura e un programma d'azione collettivo. \L'ideologia dei diritti umani decifra la realtà sociale come dovrebbe essere \ma l'imperialismo del dover-essere non spiega gli ostacoli che comporta, benché essi rispondano a forti necessità quanto all'esistenza in comune. Dice solo che non dovrebbero esistere \. L'ideologia dei diritti umani porta all'invasione del moralismo, vieppiù inevitabile, perché mobilita le risorse intime dell'affettività». Per Philippe Muray, il nuovo ordine morale è l'«impero del bene». Un bene derivato dalla priorità del giusto, un bene «oggetto del desiderio giusto». Oggi tale bene è degenerato nel nuovo moralismo. Parallelamente e simultaneamente, si nega il male come innato nell'uomo e lo si riconosce come negazione radicale del bene dei diritti umani, nella forma estrema del «male assoluto». Spesso la destra ha una visione etica della politica e la sinistra una visione morale: di qui Excalibur, di là le Beatitudini. Due universi dai valori diversissimi, ma entrambi impolitici (inadatti per capire che cos'è la politica). Oggi domina la visione morale. E così la società, che molti giudicano senza morale, si scopre veicolo di un moralismo onnipresente, diffuso dai suoi devoti, dai suoi missionari, dalle sue leghe della temperanza. Libertari cercansi.

Cari amici moralisti, non si scappa. Com’era brutta l’Italia disumana del comune senso del pudore e della polizia dei costumi, dice Rep. elogiando il Pasolini amante dei ragazzini. Storia di una riabilitazione involontaria di preti di mezzo mondo e libertini di Arcore. Ops, scrive Giuliano Ferrara il 30 Ottobre 2015 su "Il Foglio". Filippo Ceccarelli è un vecchio amico. Lavora con tutto il suo rango di narratore e commentatore di costume a Repubblica, giornale che compro da quando principiò ad uscire. Ieri leggendo il suo pezzo su Pasolini mi sono stropicciato gli occhi. Non ci credevo. Non credevo possibile che con tanta disinvoltura si potesse rigirare per Pier Paolo Pasolini la frittata cucinata in salsa velenosa, per anni, su quel giornale, e se ricordo bene anche dallo stesso Ceccarelli, frantumando al posto delle uova i preti e Berlusconi. Direte. Ma sei impazzito? Ma di che cosa parli? Esce un libro in cui è ricostruita l’espulsione per indegnità morale dal Pci, nel 1949, del giovane intellettuale e maestro di strada PPP. Il quale, costretto a fare le valigie con la madre e a trasferirsi a Roma nel disonore pubblico, replicò dicendo ai suoi compagni che restava comunista e che non capiva la loro disumanità. Che cosa era successo? Pier Paolo, disordinatamente e compulsivamente omosessuale, si era portato non so dove due allievi di 15 e 16 anni e ci aveva fatto l’amore (o sesso, se preferite). La cosa era uscita fuori, anche per beghe di provincia tra democristiani e Pepponi, e fu “scandolo”, come dicevano i rapporti dei carabinieri. Ora, a quarant’anni dall’uccisione all’Idroscalo di Ostia del poeta friulano e vate nazionale e scrittore corsaro mirabile, torna lo “scandolo” a parti rovesciate. Com’era piccolo quel Pci! Com’era brutta l’Italia disumana del comune senso del pudore, della polizia dei costumi! Così scrive senza tentennamenti e su Repubblica, il mio amico Ceccarelli. Mannaggia a li pescetti, come diceva Totò in Uccellaci e uccellini. Ma Ceccarelli e Ezio Mauro, suo direttore, si rendono conto di quello che si scrive su Repubblica e in quale contesto lo si scrive? Hanno dato la baia a Berlusconi per il sospetto che sapesse l’età minorile della signora El Marough, si sono fatti portavoce di Ilda la Rossa nelle sue tirate contro la “furbizia orientale” della pulzella, sono entrati nel lettone di Putin, hanno fatto carne di porco del buon gusto informativo frantumandocele con la lap-dance di Arcore, hanno pubblicato qualunque intercettazione pelosa utile a scatenare l’Italia piccola del comune senso del pudore e della polizia dei costumi, e ancora continuano su questa strada resa difficoltosa dalle assoluzioni ma non definitivamente impercorribile sul piano dell’accanimento giudiziario (ora contro i testimoni a difesa). Hanno messo in croce la chiesa cattolica e il clero di tre continenti, in compagnia della stampa liberal internazionale, addossando ai preti la pedofilia come una mostruosità di uso comune e sistematico, contro tutte le verità statistiche in contrario, salvo dimenticarsi del dossier non appena salita al trono pontificio la strategia dell’incontro misericordioso con il dorato mondo del divorzio e dell’aborto e dell’eugenetica. Hanno sostenuto fior di esperti della mutua nelle crociate fondate su incerte deposizioni di bambini ispirati dai più grandicelli alla caccia demoniaca al pedofilo, sulla base di sospetti fragili e infamanti, finiti nel nulla giudiziario (vedi il caso di Rignano su cui il Foglio e Cerasa fecero inchieste memorabili). Hanno creato un clima culturale e civile impossibile, in cui personaggi come Salinger e Chaplin (Oona O’Neill era una minore quando cominciò ad amoreggiare con l’uno e con l’altro) o pittori come Balthus o scrittori come Nabokov devono essere censurati, deformati e negati con ipocrisia nella loro predilezione artistica per l’adolescenza, la quale è addirittura scomparsa dai radar della sua verità e rappresentazione nel mondo monitorato dai politicamente corretti e dalle loro polizie del costume. E adesso celebrano la riabilitazione, che per libertini devoti e sposati a donne mature come noi non è un problema, di un giovane intellettuale comunista della provincia italiana che nel 1949 si faceva, per dir così, due pupi in età molto minorile, lui che andava per i trenta. Qui ne avevamo già accennato quando si trattò dello scandalo di don Gelmini, a questo paragone, ma non c’è niente di sofistico o di polemico: ormai, dopo il pezzo di Ceccarelli e la celebrazione del Pasolini che amava i ragazzini, chiediamo la riabilitazione piena dei preti di mezzo mondo e del libertino di Arcore oppure la riconsacrazione dell’espulsione di Pasolini per indegnità morale. Non si scappa, cari moralisti.

L'ipocrisia del Cavaliere Augias. Dal salottino della Bignardi ha dichiarato che Berlusconi non può tenersi il titolo. Ma deve spiegare chi era l’agente Donat, scrive Giampaolo Rossi, Giovedì 20/03/2014, su "Il Giornale". Corrado Augias è stato netto e perentorio: dal salottino tv di Daria Bignardi ha dichiarato, con il suo solito stile british con il quale dissimula le prediche, che “Berlusconi è un interdetto e un condannato quindi non può tenersi il titolo di Cavaliere”. Augias è uomo di grande morale, anzi di grande moralismo; è da sempre un fustigatore del berlusconismo, che osserva con la solita superiorità antropologica degli intellettuali radical-chic. Da moralista dell’Italia migliore, a Corrado Augias non basta che Berlusconi si sia autosospeso: vuole che gli venga tolto con ignominia quel titolo di Cavaliere del Lavoro che si è guadagnato grazie alla sua straordinaria attività di imprenditore di successo. D’altro canto anche Corrado Augias è un Cavaliere; per la precisione è Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, onorificenza e titolo che condivide con un altro illustre Cavaliere al Merito: tale Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito. Eh sì, perché Augias, che si scandalizza perché Berlusconi è Cavaliere, non si scandalizza del fatto che l’onorificenza di cui lui si fregia sia la stessa conferita, nel 1969, ad uno dei più feroci dittatori comunisti della storia, responsabile delle foibe e della pulizia etnica di decine di migliaia di italiani in Istria e Dalmazia. Ora, la prima questione è capire come sia possibile che la Repubblica Italiana abbia conferito la sua più importante onorificenza ad un massacratore di italiani. La seconda questione è che, come tutti i moralisti, Augias tende a moralizzare la vita degli altri per non affrontare la moralità della propria. Nell’intervista alla Bignardi lui stesso ha cercato di banalizzare, ridendoci sopra, una storia emersa quattro anni fa da un interessantissimo libro del giornalista d’inchiesta Antonio Selvatici e costruito studiando scrupolosamente gli archivi della StB (la polizia segreta cecoslovacca); la storia riguarda un intero dossier, ritrovato negli archivi, dedicato all’informatore italiano Corrado Augias, nome in codice “Donat”. In 135 pagine si elencavano gli incontri, i rapporti, i resoconti che tra il 1963 ed il 1967 interessavano il giovane Augias, allora funzionario Rai. Ovviamente all’inizio Augias ha negato, annunciando querele mai presentate e dovendo poi ammettere che quei contatti c’erano stati sotto forma di “blande frequentazioni”. Rimane sorprendente la capacità camaleontica di molti intellettuali e corposi pensatori della sinistra italiana di nascondere la propria storia e le proprie responsabilità rispetto ad un passato ingombrante. Coloro che hanno giustificato gulag, Pol Pot, foibe, dittature caraibiche, rivoluzioni proletarie, che sono stati “frequentatori” di apparati stranieri non certo alleati dell’Italia, sono riusciti a cambiarsi d’abito alla velocità della luce, inserendosi tranquillamente nei gangli del potere. È la stessa capacità camaleontica che consentì a Berlinguer di denunciare la “questione morale” in politica, dimenticando la “doppia morale” del PCI. Il caso del cavalierato di Berlusconi va oltre la miseria della polemica politica e riguarda l’ipocrisia di un paese che non fa mai i conti con la propria storia. Ora ci aspettiamo due cose: primo, che la Presidenza della Repubblica revochi la vergognosa onorificenza di Cavaliere al Maresciallo Tito. Secondo, che Corrado Augias, il grande moralizzatore, si autosospenda da Cavaliere al Merito in attesa di spiegarci per filo e per segno chi era l’agente Donat. Se, come lui ha detto, “uno che è condannato per frode fiscale non può essere Cavaliere”, allora non lo può essere neppure uno che “frequentava” i servizi segreti nemici.

Quello che non si deve sapere su Augias il moralizzatore...scrive il 3 Febbraio 2014 Gianni Fraschetti. Qualche anno fa, Antonio Selvatici, scrupoloso giornalista d’inchiesta italiano, rese pubbliche una serie di informazioni provenienti dagli archivi della STB, i vecchi servizi segreti cecoslovacchi, che contenevano un dossier dedicato a un loro informatore italiano: tale Corrado Augias, nome in codice “Donat”. I documenti, raccolti in un fascicolo di 135 pagine, si riferivano a rapporti, verbali d’incontri, schede, a partire dal 1963, quando Augias era un giovane funzionario Rai con frequentazioni importanti. Tutto è documentato con maniacale precisione. Corrado Augias, nome in codice «Donat». Ecco com'è stato avvicinato dai cecoslovacchi: «Il contatto con Donat è stato preso da Kotva e Jaros durante il ricevimento all' ambasciata bulgara il 30 maggio 1963. Il mediatore della conoscenza era l'agente Dox». Quando il futuro giornalista e commediografo venne avvicinato dagli uomini dei servizi d'Oltrecortina aveva poco più di vent'anni. Era un ragazzo di buona famiglia, brillantemente laureato, si era appena sposato e da poco era stato assunto in Rai. Il quadro che offrono gli uomini dell'STB i Corrado Augias sembra evidente: un irrequieto giovane di buona famiglia, tendenzialmente sinistrorso, che svolge un lavoro ben remunerato all'interno di una struttura rigida e politicamente ostile che non gli lascia lo spazio d'espressione personale e politica. Ma perché i cecoslovacchi concentrano la loro attenzione proprio verso il giovane Augias? Forse troviamo la risposta nel testo dell'informativa: era il novello marito di Daniela Pasti (futura inviata del quotidiano Repubblica), figlia del noto generale Nino Pasti, allora effettivamente «sottocapo di Stato maggiore dell'aeronautica militare». Probabilmente il tentativo degli uomini dell'STB era quello di cercare di ricevere informazioni sulle attività dell'alto ufficiale attraverso il genero. Ed è probabilmente per questo motivo che all'interno del dossier troviamo un trafiletto di stampa con la nota manoscritta Donat che ha come oggetto: «Nuovo incarico nella Nato del generale Pasti». Una sorta di ulteriore accreditamento. La moglie di Corrado Augias era a conoscenza degli incontri de marito? Dalla lettura dei documenti d'archivio traspare che Daniela Pasti non solo sapesse, ma che abbia anch'essa collaborato. In una nota dell'8 febbraio 1967 firmata dal maggiore Vaclav Majer del ministero degli Interni, si legge: «Donat aveva detto tutto ciò che sapeva. Altre informazioni non gli venivano chieste. Invece la moglie, alla prima richiesta, aveva portato l'elenco telefonico del ministero della Marina. Non era stata sfruttata ulteriormente». La polemica che seguì alle rivelazioni di Selvatici spinse in campo una buona fetta della sinistra al caviale in sua difesa, guidata dall'insuperabile maestro Furio Colombo, uomo della FIAT, buono per tutte le stagioni, il quale portò a vette irraggiungibili la sua opera immaginando che quelle rivelazioni fossero in realtà frutto di un accordo tra Berlusconi e Putin teso a produrre dossier taroccati per colpire uno alla volta i nemici del Cavaliere. Augias minacciò unao sfracello   di querele e denunce, che non presentò mai e la questione è stata seppellita sotto uno strano silenzio, come è nostro costume e come si usa fare quando vengono toccati uomini o ambienti della sinistra. Augias alla fine fu costretto ad ammettere i suoi rapporti con i cecoslovacchi (che in epoca di guerra fredda erano il "nemico", così tanto per ricordarcene), definendoli però “blande frequentazioni”. Resta da capire perché un uomo che ha un rapporto così contorto con il proprio passato, si permetta di impartire lezioni di moralismo. Ultima quella dalla Bignardi, altra campionessa di ipocrisia che dovrebbe guardare più suo suocero che i padri del suo prossimo. Scava scava i grandi moralizzatori dei comportamenti altrui sono dunque personaggi che evitano accuratamente il giudizio sui propri; e preferiscono censurare Berlusconi o  quei “quasi fascisti” dei grillini, piuttosto che fare una sincera autocritica sull'immondizia che nascondono nei loro armadi, a cominciare da quello dell'agente Donat.

L’Internazionale Femminista chiama e la Boldrini risponde, scrive il 19 ottobre 2017 Laura Tecce su "Il Giornale". Femministe di tutto il mondo unitevi! Abbiamo trovato la novella paladina contro il Maschio oppressore e stupratore: la pasionaria col pugno chiuso Asia Argento. La sua torbida vicenda di sesso, cunnilingus rubati, relazioni più o meno sconfessate e mondo dorato del cinema, ha dato nuova linfa al femminismo contra personam. Nella fattispecie, Harvey Weinstein è il nuovo capro espiatorio dell’odio contro gli uomini, che secondo una certa ideologia femminista, sono tutti porci, prevaricatori e pure stupratori. Lungi dal voler prendere le parti di un personaggio viscido e penoso assai, sarebbe lecito chiedersi se, nel caso egli fosse stato invece che grasso e brutto figo e charmant, ci sarebbe stata tutta questa ondata di indignazione e corsa alla denuncia post datata. Chissà se un bell’aspetto avrebbe preservato Harvey dal divenire il simbolo del Male, emblema e personificazione di una società fallocentrica e patriarcale. A dire il vero ci è voluto un po’ di tempo – una cosetta come 20 anni – perché dalle parti di Hollywood se ne accorgessero, e a dire il vero pure un po’ controvoglia perché è pur sempre un sincero liberal, amico e finanziatore dei Clinton e degli Obama. Che disdetta deve essere stata per i democratici americani che con i loro media compiacenti ci hanno provato indefessamente (e ci provano) da almeno due anni a scavare per trovare qualcosa del genere su Trump. Ma per ora le accuse di stupri, molestie, palpatine da parte di sedicenti donne e donnette non hanno dato i frutti sperati. Cosa rimane allora all’Internazionale femminista? Ma ovvio, tirar fuori il solito Silvio B. Che è pure tornato in campo rinvigorito e con rinnovata verve, vedi mai che dovesse fare il colpaccio e vincere le elezioni fra pochi mesi. Non sia mai. Tocca correre ai ripari e arruolare le menti migliori (si fa per dire). In attesa di una nuova protesta di piazza organizzata dalle femministe di Se non ora quando, in attesa di nuove articolesse contro il Cav. di Conchita De Gregorio, Maria Laura Rodotà e Lucia Annunziata, ecco, nel frattempo accontentiamoci di santificare la nuova musa Asia. Che infatti a #Cartabianca, programma tv in onda su Rai Tre condotto da Bianca Berlinguer, arriva a dire che le polemiche che la stanno investendo sono dovute all’ «umiliazione e alla visione della donna nell’Italia berlusconiana» (sic!) e che disgustata da ciò lascerà l’Italia. Fantastico. Ma niente paura, la PresidentA Laura Boldrini ha tenuto a rassicurare la povera “vittima” di violenze indicibili e soprattutto “inevitabili”, l’Agnello sacrificale del terzo millennio, la donna che tutte noi dovremmo prendere ad esempio se vogliamo fare carriera: «Cara Asia non è il momento di arrendersi, devi restare in Italia. La stragrande maggioranza delle donne ti appoggerà». Appoggerà a fare che, di grazia? A “chiagnere e fottere”? Orbene, appena due mesi fa, di fronte all’orrore di un doppio stupro vero, terribile nella sua efferatezza, come è stato quello compiuto da Butungo e soci a Rimini, Nostra Signora degli Immigrati e delle Femministe affermò: «Non sono una commentatrice di professione, non sono tenuta a commentare ogni evento». Perfetto: dunque una donna che – legittimamente – ha immolato alla causa, cioè alla carriera alla fama, al denaro e alla notorietà il proprio corpo, concedendosi e cedendo alle avances sessuali di un produttore salvo poi pentirsene e denunciare all’opinione pubblica quanto schifo gli avesse fatto, tanto da parlare impropriamente di stupro, per Laura Boldrini vale di più di uno stupro vero, con tutta la violenza, lo schifo e lo squallore che una violenza sessuale vera può comportare. Essere trascinata da un branco di stranieri su una spiaggia, picchiata a sangue, violentata in modo barbaro e disumano è derubricato a «Non commento ogni evento». Doppiopesismo straordinariamente evidente. Nel caso della Argento la violenza si sarebbe consumata perché una donna inquantodonna è sempre vittima e sfruttata da uomini bruti e senza scrupoli che usano il loro “potere” per sottometterla. Questa visione manichea dell’umanità e questo voler contrapporre forzatamente maschi e femmine è veramente intollerabile. La campagna social che invita a raccontare di episodi di mobbing, violenze, molestie e chi più ne ha più ne metta, con i due hashtag #metoo e #quellavoltache, è semplicemente vergognosa. Si è letto di tutto, persino donne che hanno denunciato indignate una carezza, uno sguardo insistente o una stretta di mano “troppo vigorosa”. La follia. Una follia dilagante, auto compiacente e auto alimentante, in un crescendo di assurdità. Chi scrive ha purtroppo a che fare molto spesso con femministe o sedicenti tali e sa bene quanto certe “ancelle” che si professano paladine dei diritti delle donne possano essere in realtà iene, non solo nei confronti degli odiati Maschi, ma anche delle donne che non la pensano come loro o che si discostano dalla loro idea di donna.

Moralizzatori a parole, “chiagni e fotti” nella pratica, scrive Claudio Antonelli martedì 8 marzo 2016 su Italians su “Il Corriere della Sera”. Caro Severgnini, il gusto che tanti italiani provano per la discussione teorica, con la continua denuncia di storture e ingiustizie, appare subito evidente a chiunque giunga in Italia da paesi ordinati, pratici, concreti. Nella penisola è tutto un denunciare, anzi un gridare le ingiustizie (vedi le discussioni in TV); in primo luogo quelle subite direttamente dall'interessato, e poi quelle causate un po' a tutti dal perverso sistema italiano. Si potrebbe quindi pensare che questi cittadini, grondanti un implacabile moralismo, abbiano una visione fortemente etica dell'esistenza. Ma questi stessi individui, moralizzatori a parole e pronti alla sempiterna lamentela contro tutto e tutti, si comportano nella vita pratica in maniera contraria al loro virtuoso parlare: sono in genere furbi, trasgressivi, opportunisti, con un forte senso non del diritto ma del privilegio. Inoltre sembrano essere geneticamente predisposti all'autoassoluzione, mentre si dimostrano cinici e implacabili nel giudicare non solo l'agire ma le motivazioni altrui. E sono pronti a far ricorso a parolacce e ingiurie contro chi non condivida il bersaglio delle loro apocalittiche condanne. Tale sdegnoso rigetto delle idee altrui deriva non solo dal settarismo, ossia dallo spirito di bottega, di clan, di fazione, che li spinge a ragionare secondo una mentalità "tribale", ma dal fatto che questi Savonarola sono convinti di essere dei potenziali grandi personaggi degni di un glorioso destino (non per niente, sono stati posti dai genitori, fin da bambini, al centro dell'universo) con cui però la vita è stata finora ingiusta. Tali loro evidenti contraddizioni sono spiegabilissime alla luce di un tratto culturale dominante nella Penisola: l'assoluta separazione tra il dire e il fare. Cui si aggiunge l'indicibile piacere del "chiagni e fotti": autoerotismo di gran goduria che presenta lo straordinario vantaggio di poter essere praticato in pubblico e con partner numerosi.

Il moralizzatore, una specie da evitare come la peste, scrive Serena Cappelli il 25 Luglio 2013 su "L’Inkiesta”. Sono le 6h15, esci di casa per andare al lavoro, accendi i ventitremila aggeggi elettronici a disposizione dell’uomo moderno e, da quel momento, sai che entro sera (almeno) un moralizzatore si materializzerà sul tuo cammino. Sul treno, per strada, al lavoro, al supermercato, su Facebook, su Twitter, non importa dove, lui sarà lì, pronto a impartirti la sua bella lezioncina di vita. La definizione di moralizzatore, che scopiazzo impunemente dal dizionario del Corriere, è la seguente: moralizzatore [mo-ra-liz-za-tó-re] agg., s. (f. -trice)

• agg. Che induce a conformare atteggiamenti, comportamenti ecc. ai principi morali: una campagna m. contro la droga

• s.m. (anche al f.) Educatore, censore: m. dei costumi

• a. 1841

ma a me piace intenderlo in un senso più ampio, più à la Iena, per intenderci.

Il moralizzatore è una persona/cosa/animale che pensa, anzi che è convinto, di:

(a) comportarsi meglio di te

(b) saperne più di te

(c) essere meglio di te

e ci tiene a fartelo sapere, additando qualsiasi tuo comportamento – dall’acquisto dello zucchero raffinato al non avere ancora avuto figli a 37 anni – come assolutamente sbagliato, quando non addirittura causa di tutti i mali del mondo. Ti guarda – a volte basito, a volte scandalizzato, a volte fintamente conciliante – e, appena apri bocca, ti sciorina tutta una serie di consigli non richiesti e di valutazioni morali che da sole potrebbero riempire l’enorme buco nero lasciato dal suo cervello il giorno in cui ha deciso di collassare piuttosto che produrre l’ennesimo pensiero idiota. Il moralizzatore, purtroppo, è infaticabile e ha un predicozzo sempre pronto all’uso, sia esso un pippone di dieci minuti generosamente elargito vis-à-vis, sia esso un commentino acido su Facebook, di solito riassumibile in due parole: "Stai sbagliando" oppure "Che cazzata". Il moralizzatore, poi, non ha un habitat preciso, resiste a qualsiasi tipo di lavaggio, ha una mamma sempre incinta, parente stretta dell’altra più nota, e ha anche un nome un po’ più volgare ma certamente più azzeccato, che inizia per rompi e finisce per ioni. Il moralizzatore, accidenti a lui, è una specie che non si estingue mai. C’è chi ha tentato di barattarlo con il dodo, ma Madre Natura gli ha fatto avere il seguente telegramma: «Non se ne parla nemmeno STOP tenetevelo voi STOP». E così son rimasti tutti qua, a smerigliarci tutto lo smerigliabile, isole comprese. Caso mai qualcuno avesse un metodo infallibile per zittirli, il mio indirizzo email è quello qui a lato. Abusatene pure.

Da comunisti a moralizzatori. L'infinito tramonto rosso. Il Pc del nostro tempo è il Politicamente corretto: uno spartiacque radicale contro l’"eterno nemico", scrive Marcello Veneziani, Domenica 22/10/2017, su "Il Giornale". Tra i reduci del comunismo prevale la Rimozione, accompagnata da amnesia e deformazione, da un verso circoscrivendo la portata del terrore totalitario a esperienze limitate e degenerate, come appunto lo stalinismo, il polpottismo, la tirannia di questo o quel dittatore; dall'altro attribuendo al comunismo da salvare germinali prefigurazioni di liberalismo e di democrazia, quasi una latente ma profonda tendenza liberale e democratica poi deviata per casualità storiche, urgenze del momento e degenerazioni particolaristiche che non coinvolgono però l'essenza del comunismo. Alla fine, l'unico argomento storico su cui adottare la gigantesca Rimozione è la demonizzazione del Male Assoluto e Permanente, il fascismo nella forma metafisica di nazi-fascismo. Se il comunismo fu il perno dell'antifascismo, della lotta di liberazione o della stessa guerra contro le potenze dell'Asse, e se il Nemico da abbattere era allora come ora la Bestia apocalittica, il comunismo ritrova la sua funzione e la sua missione salvifica e liberatrice. Eternizzando il pericolo fascista, «la reazione sempre in agguato», si adotta il giustificazionismo nei confronti del comunismo, dei suoi regimi e dei suoi orrori, scagionando da ogni colpa i suoi militanti e simpatizzanti. Il presupposto è che venga adottato uno schema manicheo in base al quale agli antipodi del male non può esservi un male di segno diverso ma solo il bene. In realtà non esiste il Male Unico e Assoluto, se non nella demonologia, esistono invece i mali radicali, che possono essere anche agli antipodi; ammesso poi che il comunismo e il (nazi)fascismo siano davvero agli antipodi e non siano piuttosto gemelli eterozigoti, come li definì Pierre Chenu. Per Hermann Hesse: «Fascismo e comunismo sono fratelli antagonisti, ma pur sempre fratelli, e dove cresce l'uno, concima il terreno per l'altro e lo suscita». Per giustificare il comunismo e l'elevazione dell'antifascismo a necessità permanente nella funzione di antidoto, terapia preventiva e ghostbuster, acchiappafantasmi del fascismo latente ma sempre in agguato, sorge così un paradosso: il fascismo viene elevato a categoria eterna (Ur-faschismus), che si riforma in modo incessante, quasi fosse in natura, a fronte del comunismo declassato a storia conclusa e paradiso delle buone intenzioni. Al fascismo viene riconosciuta dagli stessi antifascisti, a partire dagli ex-comunisti, una perenne attualità, una permanente vitalità, una funesta grandezza. Anche se è morto non muore mai del tutto, risorge, è un pericolo sempre in agguato. A differenza del comunismo sciolto come burro al sole, il fascismo conserva così una granitica, inaffondabile, malefica e proteiforme identità. Eppure il fascismo, a differenza del comunismo, non chiuse per fallimento ma perché sconfitto in una guerra ormai lontana nel tempo, e fu sradicato e sterminato nel sangue. I due eventi storici più marcati del Novecento si divaricano nella lettura ideologica al punto che il fascismo sconfitto persiste nello stato di natura mentre il comunismo, evaporato, si sublima in cielo assumendo lo statuto aeriforme di ideale, di possibilità. Regredisce da reale a virtuale e insieme perde i vizi congeniti e riacquista le virtù celesti di un'idea ancora vergine, non deflorata dalla storia. Come dire, l'uno demoniaco e l'altro angelico. Finisce la storia in entrambi i casi e finisce con la storia anche il giudizio storico, sostituito dal pregiudizio ideologico. Il comunismo si rifugia nell'antifascismo e nelle sue varianti, l'antirazzismo, la lotta alla xenofobia, all'omofobia, e alle altre fobie proscritte dal politically correct. E passa dal banco degli imputati a quello degli accusatori. Cambia lo status da pregiudicato a gendarme.

Cosa resta oggi del comunismo? Restano tracce superstiti in alcuni paesi del sud est asiatico, a Cuba, nella Cina maocapitalista e nel suo cinico intreccio tra comunismo e mercatismo. Più alcuni movimenti comunisti sparsi nel mondo, qualche regime di vaga ascendenza comunista nel terzo mondo e poi alcune eredità trasfigurate, come nella Russia di Putin. Ma la sua eredità più importante in Occidente non è nei residui tossici del comunismo vero e proprio bensì in una mentalità trasmessa dal comunismo ai suoi eredi democratici, radical, liberal, progressisti, neo-illuministi. L'eredità ideologica del comunismo è nel passaggio dal Pc al Pc, ossia dal Partito comunista al Politically correct, che è il nuovo Pc del nostro tempo, il nuovo canone ideologico e il nuovo codice lessicale a cui attenersi per dividere il mondo tra chi rappresenta la parte giusta e progressiva dell'umanità e chi invece ne rappresenta la parte infame e regressiva. Una specie di spartiacque radicale, assoluto, tra due etnie, una che giudica e l'altra che è sottoposta a permanente giudizio e pregiudizio. Si tratta di due razze irrimediabilmente contrapposte, che non attengono al sangue e alla nazione, perché si tratta di razzismo etico, su basi ideologiche, morali e culturali. Corollario di questa visione manichea è che non è possibile alcun dialogo e confronto, perché l'avversario è per definizione ignorante, demente o retrivo, corrotto, criminale o asservito. Ed è perciò sessista e fascista, razzista e xenofobo. Anche se conquista il potere per via democratica, va abbattuto, delegittimato e criminalizzato a priori, senza tregua. Se invece si tratta di una cultura d'opposizione, un gruppo o un singolo, va rimosso, cancellato, condannato alla morte civile. La negazione dell'altro, la finzione d'inesistenza o la sua demonizzazione è la nuova forma incruenta di eliminazione del nemico e di abolizione della realtà nell'era post-comunista. Nel passaggio dal Pc al Pc resta il quadro internazionalista ma cade l'impianto collettivistico del comunismo per accedere alla sfera individuale incentrata sui temi bioetici: la vita, la morte, la nascita, il sesso, la famiglia, i diritti civili. Alla sinistra più radicale o catto-umanitaria resta invece l'eredità dell'accoglienza su cui fondare l'imprenditoria politica dei nuovi proletari, gli immigrati. I comunisti vengono riscattati dall'aver combattuto il Male Assoluto, il nazi-fascismo, a fianco delle democrazie occidentali. In realtà non combattevano per la libertà, la democrazia e l'umanità ma per realizzare anche in Occidente la dittatura sovietica. La Grande Rimozione del comunismo è dunque un'eredità del medesimo, della sua capacità di mistificazione totale, di invertire la realtà e il significato stesso delle parole. Lo denunciava Orwell nella Fattoria degli animali e poi in 1984, letti oggi dagli eredi comunisti a rovescio, non come una lucida denuncia del totalitarismo comunista ma una prefigurazione dei populismi reazionari, i loro leader e le loro false verità. Ecco la neolingua, il mondo capovolto fin nel lessico. Pure Orwell viene usato in modo orwelliano...

Il comunismo ha lasciato una pesante eredità alle mafie mediatiche, ideologiche e culturali insediate nell'establishment, nelle oligarchie dominanti e nei centri di potere. Rievocare il comunismo passato non è dunque archeologia: significa comprendere anche il conformismo presente. I suoi derivati hanno perso la nobiltà del sogno comunista di redimere i poveri per ritrovarsi nell'ipocrisia radical-borghese del politicamente corretto.

La banalità sta uccidendo la competenza. Nel mondo moderno sta lentamente scomparendo l'abitudine all'argomentazione e alla dimostrazione, scrive Francesco Alberoni, Domenica 22/10/2017, su "Il Giornale". Nel mondo moderno sta lentamente scomparendo l'abitudine all'argomentazione e alla dimostrazione. Guardate i dibattiti in televisione in cui i partecipanti possono dire solo brevi frasi, mai esporre un ragionamento completo. Se lo fanno vengono subito interrotti da una battuta, da una notizia urgente, dall'arrivo di un nuovo protagonista. Così chi sa fare battute, chi è più brillante, finisce per contare più del competente e dello studioso. E, poco a poco, questi vengono allontanati dallo schermo, che resta in mano allo stesso gruppo di opinionisti. Il modo di parlare senza argomentare è estremamente diffuso fra i giovani. Basta ascoltare una delle loro radio dove si alternano canzonette, lettere, commenti, battute senza alcun ordine. E lo stesso avviene in Facebook o in Twitter, dove ci si scambiano caoticamente fotografie, fatti, battute, impressioni, ma non si legge un articolo: troppo lungo. Soprattutto i più giovani, che non si sono formati sui libri, pensano di trovare ogni cosa su Google o su Wikipedia. Ma per approfondire un problema bisogna sapere che domande fare, che parole usare e invece loro conoscono solo le parole correnti e restano sempre in superficie. Però attenzione, a volte su internet o su qualche blog trovi saggi, lettere o immagini stupendi, segno che nel pubblico ci sono dei veri scrittori, dei veri poeti, dei veri artisti, ma queste gemme preziose vengono coperte da ondate di mediocrità e di banalità. Siamo in un'epoca in cui tutti possono comunicare ma i più numerosi e banali seppelliscono i migliori. E le centinaia di canali televisivi che potrebbero far fiorire la cultura più elevata sono spesso usate per vendite, dibattiti modesti, fiction e film polizieschi che si assomigliano tutti, farciti come sono di sparatorie, agenti federali, spie, mafiosi e serial killer. Non c'è quasi mai riflessione, visione, respiro. Il materiale hollywoodiano è così scadente che vengono spesso ripresentati film del passato e perfino dell'epoca d'oro del cinema italiano. E questo avviene in un Paese vivo, creativo, ma che non ha ancora inventato un linguaggio e degli strumenti di comunicazione che gli consentono di esprimere culturalmente il meglio di sé.

L'ora di italiani, scrive il 10 Ottobre 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Sempre a lamentarci perché gli italiani non sanno niente, non conoscono l'educazione civica, i fondamenti del diritto, qualche rudimento di Storia: poi, appena spunta un momento libero, gli facciamo studiare il Corano. Accade alla scuola elementare di Chiavazza (Biella) dove l'insegnante dell'ora di religione - che personalmente considero un furto di tempo e di denaro - conduce gli scolari in "gite monoteiste" in chiese e sinagoghe e moschee. Lo spiegava, compiaciuta, la Stampa. I ragazzi studiano le religioni (il Vangelo accanto al Corano, letture ad alta voce, preghiere a confronto) e va da sè che l'insegnante sarà pure una bravissima persona, e tutto potrebbe essere anche molto interessante: ma perché deve far parte della scuola dell'obbligo? Perché delle generazioni che non distinguono la bandiera italiana da quella dell'Irlanda devono studiare le sure e i versetti, e non, chessò, gli articoli della Costituzione? Perché devono sapere chi era Maometto e non Giuseppe Mazzini? Lo so che il discorso porta dalle parti del Tevere, ma chi se ne frega, quanto dovremo aspettare per vivere in uno stato pienamente laico? Nelle democrazie la religione di Stato non c' è, nelle teocrazie coraniche sì: il primo insegnamento è questo. Spiegate, ai ragazzi, che compito dello Stato dev'essere garantire una parità tra religioni, non insegnarle tutte. Io non voglio l'ora di religione facoltativa, voglio più ore di educazione civica obbligatorie. Filippo Facci

Giudizio (negativo) sull'islam: sospeso il prof. Critica il ramadan, una studentessa protesta. E la preside lo punisce: stipendio tagliato, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale".  Vietato dare giudizi (negativi) sull'islam. Lo sa bene Pietro Marinelli, 61enne docente di Diritto ed Economia all'Istituto superiore “Falcone-Righi” di Corsico, piccolo comune nell'hinterland milanese. Marinelli vanta oltre 30 anni di carriera, la laurea in Giurisprudenza, un'altra in Scienze religiose e un curriculum di tutto rispetto. Cui però ora dovrà aggiungere le accuse di islamofobia. Tutto inizia il 31 maggio scorso. Il professore entra in una classe quinta per la lezione di diritto internazionale. Tema: lo Stato Islamico. E visto che al “Falcone-Righi” ancora si rispettano le buone maniere, quando il prof entra in classe gli studenti si alzano in piedi. Tutti, tranne lei: un'alunna 18enne di origine egiziana che si giustifica affermando di essere in periodo di ramadan. “Una pratica religiosa non ti dà certo diritto di non rispettare una consuetudine dell'Istituto”, fa notare il docente. Ma tant'è. “Per sviluppare il suo senso critico ho provato a chiederle cosa significasse il ramadan. E lei sosteneva fosse solo un periodo di riflessione. Le ho detto che non è così. Che viene celebrato per ricordare la discesa dal cielo del Corano, parola increata di Allah”. Ne nasce allora una discussione in cui Marinelli spiega l'origine e il significato del rito musulmano, accennando però valutazioni critiche nei confronti dell'islam e di una pratica di digiuno che “non mi sembra umana”. Apriti cielo. La studentessa esce dalla classe senza permesso, salta la lezione sull'Isis e si becca una nota. Ma non è lei a doversi preoccupare. Poche ore dopo la madre scrive una lettera alla preside, Maria Vittoria Amantea, denunciando “un terribile" fatto "di intolleranza religiosa”. Nella missiva vengono riportate alcune frasi che Marinelli avrebbe pronunciato al fine di “offendere e sminuire" la fede musulmana: l'islam è una religione priva di senso; il Corano è una ridicolaggine insensata; il Ramadan è disumano; l'islam dovrebbe essere vietato dalla legge e via dicendo. “Alcune sono state palesemente esagerate – dice il professore – altre totalmente inventate”. Fatto sta che ragazza presenta pure un esposto ai carabinieri e lo stesso farà la preside “a tutela dell'onorabilità dell'istituto”. Nemmeno si trattasse di lesa maestà, scatta il procedimento disciplinare: Marinelli è accusato di aver offeso l'alunna e di essere venuto meno “al suo principale dovere come docente e educatore”. “Prima di avviare l'iter non hanno neppure tenuto conto della mia dichiarazione, protocollandola volutamente in ritardo”, denuncia lui, che in tutta risposta ha depositato due contro-esposti (la preside, contattata per telefono e mail, non è ancora risultata reperibile). Il 24 giugno il caso finisce in presidenza per l'audizione in difesa. Obiezioni, spiegazioni, precisazioni: tutto inutile. Arriva una punizione esemplare: sette giorni di sospensione e relativa decurtazione dello stipendio. Marinelli però rivendica “libertà di opinione”: “Io non ho offeso, ho solo dato una mia valutazione dell'islam alla luce dei miei studi. Una cosa sono le affermazioni sulle persone, altro quelle sulla religione. Credo rientri nei miei obblighi educativi stimolare gli studenti ad avere una visione critica della vita, anche rispetto alle proprie tradizioni religiose". Difficile dargli torto. "Come i cristiani ascoltano le lezioni sulle crociate o sull'Inquisizione e non presentano esposti contro i docenti - continua - così devono fare pure gli islamici. Anche quando si dice che l'Isis è il vero riferimento del mondo islamico oppure che nell'islam ci sono meno libertà rispetto al cristianesimo”. Il ragionamento non fa una piega. Ma non aiuta: condannato per aver violato gli articoli 3 e 19 della Costituzione (uguaglianza e libertà di culto) e due articoli del codice deontologico. “Io non ho insultato nessuno né limitato la libertà di alcuno. Ho solo espresso un giudizio sull'islam”. Tradotto: critichi Maometto e finisci nei guai.

Islam, alla scuola elementare (italiane) la gita di classe alla moschea, scrive il 6 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Leggere il Corano alle elementari. È l'iniziativa di un'insegnante di religione nella scuola di Chiavazza, uno dei quartieri più popolosi di Biella, case popolari e un'importante presenza di immigrati. Stefania Ladever, 11 classi e oltre 250 allievi, lavora nella scuola da 20 anni e vuole insegnare ai suoi bambini il rispetto del prossimo attraverso lo studio dei fondamenti di tutte le religioni, riporta La Stampa. "Tutti i bambini devono imparare a conoscersi e a stare insieme. In questa scuola ci sono tre o quattro allievi per classe che non sono italiani" spiega la maestra. "Ognuno ha la propria cultura e deve farne tesoro. Ma è giusto che conosca anche quella del suo compagno. Il mio obiettivo è semplicemente fare trovare a questi bambini un punto di incontro". Tra le esperienze più significative ideate dalla Ladever, la "gita monoteista". L'insegnante ha portato i bambini a visitare una chiesa cristiana, una moschea e una sinagoga, tutto in una giornata. "Due mie allieve mi hanno anche regalato un Corano". La maestra racconta che i bambini sono molto incuriositi da come avviene il battesimo nelle altre religioni. "I musulmani ai neonati sussurrano le prime parole del Corano, affinché la fede entri subito nel loro cuore". Poi, durante le lezioni, molto spazio viene dedicato alla lettura ad alta voce e al confronto. "Quando affrontiamo il tema della preghiera, cerco un bambino che non sia di religione cattolica, che non abbia timore e che sia disposto a leggerne una della sua fede davanti a tutti. Poi la mettiamo in relazione con il Padre nostro".

La sinistra vuole approvare lo ius soli a tutti i costi perché con i voti degli immigrati potrebbe vincere le elezioni, scrive il 14 ottobre 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". Non è certo passata inosservata la mastodontica campagna mediatica, che da ormai svariati mesi, sta occupando la cronaca nel nostro paese in favore dello Ius Soli. La sinistra, con il Partito Democratico sugli scudi nello specifico, chiedere al Ministro Graziano Delrio o a Cécile Kyenge, porta avanti con forza il progetto di Grande Sostituzione del popolo italiano. Senza pietà. Ricordo che attraverso il rigetto dello Ius Sanguinis i Dem vorrebbero regalare la cittadinanza italiana e, conseguentemente, il diritto di voto potenzialmente ai figli dei 5 milioni di immigrati che vivono nel nostro Paese – 400 mila i “naturalizzati” nell’ultimo biennio 2015-2016, circa 8% dei residenti in Italia. Aborro. Un grido che parte dalle sale oscure del Vaticano, capitanate da Papa Bergoglio, arrivando ai salotti “buoni” degli intellettuali italiani, solo sulla carta d’identità, ma globali nel cuore, penne autorevoli che godono nella dipartita, finale, della sovranità e del concetto di nazione. Si è levato al cielo un coro unanime a favore di questa legge, ma alla stragrande maggioranza degli italiani non importa nulla, ci sono problemi ben più seri a cui pensare. C’è l’Italia da salvare, non cittadinanze da regalare. Riflettendo sul motivo per il quale una certa parte della politica pondera sul sesso degli angeli, non possiamo che ricordare in quale momento storico viviamo. La crisi stringe ed attanaglia il nostro paese, l’Italia vede il tasso di disoccupazione galoppare verso le stelle – inutile cavalcare i dati che tengono conto del lavoro stagionale estivo dei nostri connazionali – mentre i giovani non hanno presente e neanche futuro. In tutto questo gli anziani devono cercare di riuscire a sopravvivere con una pensione da terzo mondo. Pensioni che permettono di vivacchiare fino alla seconda settimana del mese e poi? Mentre la nazione vede milioni di famiglie inginocchiarsi davanti alla fame. In questo marasma, il Governo sta dicendo agli italiani che abbiamo bisogno di cancellare la nostra identità. Il passo successivo perire fisicamente e spiritualmente. Pensandoci bene, l’unica risposta che abbia senso davanti a questa maratona forsennata contro la morte dell’identità è quella che riscopre, giornalmente, chi siamo. “Le radici profonde non muoiono mai”, diceva J.R.R. Tolkien e di questa parole ne faremo tesoro. Leggo su Wikipedia: “Per naturalizzazione, dopo 10 anni di residenza legale in Italia, a condizione di assenza di precedenti penali e di presenza di adeguate risorse economiche; il termine è ridotto a 3 anni per ex cittadini italiani ed i loro immediati discendenti (Ius Sanguinis) e per gli stranieri nati in Italia (Ius Soli), 4 anni per i cittadini di altri paesi dell’Unione europea e 5 anni per gli apolidi ed i rifugiati”. Ed allora questa fretta, questa smania, questa ansia che colpisce il Parlamento italiano con cosa fa rima? Coi voti. Una risposta semplice ed immediata. La sinistra ha estremo bisogno di un nuovo bacino elettorale e quale soluzione migliore di distribuire cittadinanze? Ti piace vincere facile, distruggendo lo Stato? Ci vuole poco, vedere le ultime primarie del Partito Democratico, per immaginarsi file di neo-italiani in fila al seggio, con la tessera democratica in tasca, pronte a tutto per il voto. Ma sarà soltanto un’illusione, illusione che colpirà in maniera veemente anche chi brama un nuova storia cancellando il proprio passato. Tutto per gli stranieri, Boldrini docet, in attesa di essere ricompensati alle elezioni. La sofferenza universale, di marxista memoria, trasferita dal proletariato agli zombie dell’emisfero sud del mondo che invadono la nostra terra. Sofferenza, sfruttata ovviamente, che condurrà decine di traditori della Patria al Governo. Ma noi saremo là pronti a stanarli e a combatterli per non far perire l’Italia. L’amor per la nazione chiede tutto ed ha ragione. 

Gaetano Immè: Attacco al potere comunista. Gli intrighi, le collusioni, gli omicidi di mafia utili alla sinistra. Anno: 2017. Pagine: 352. Bonfirraro Editore.

Descrizione. Perché eventi “epocali” dell’ultima parte del Novecento, come la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, la stagione stragista della mafia, i processi ad Andreotti e alla Dc, sono tra di loro così ravvicinati e quasi contigui? Com’è possibile che nessuno abbia mai pensato che, nonostante siano apparentemente autonomi e indipendenti, qualcuno li abbia costruiti a tavolino? Come nasce l’assoluto predominio del Pci sull’informazione in Italia? E quanti e quali nefandezze, anche criminali, collusioni mafiose, corruttele politiche di ogni sorta, perpetrate dal Pci, sono state oscurate, manipolate, “mascariate”, letteralmente nascoste da una stampa e da un’informazione organica, sottomessa, servile, spesso direttamente “a libro paga” del Partito Comunista Italiano?

A tutte queste domande cercherà di rispondere Gaetano Immè, storico esperto di politica, con un pamphlet forte, coraggioso, ipnotico, muscolare, che è un viaggio negli ultimi sessant’anni di storia d’Italia contro quello che viene definito, senza colpo a ferire, “il sistema criminale, ordito dal vecchio Pci con la complicità della magistratura politicizzata, per trasformare la democrazia costituzionale italiana nella loro oligarchia costituzionale che oggi domina il Paese”. Attacco al potere comunista potrebbe sin dal titolo sembrare fazioso, ma è un saggio che - lungi dal disegnare foschi e ipotetici scenari - ricostruisce fatti storici realmente accaduti in quegli anni terribili, annodati e commentati seguendo un filo di Arianna che li unisce nella loro consequenzialità logica. Immè non ha alcuna pretesa di giungere alla “verità”, ma la ferma consapevolezza di cercarla nello scarto tra “verità storica” e “verità processuale” e non nelle “mere supposizioni”, non in fumosi “disegni criminosi”. Enfatico, come fosse cronaca da bar, il libro nasce proprio dall’insopprimibile necessità di «mandare finalmente all’aria proprio quella opprimente coltre di conformismo politicamente corretto, storia costruita su “menzogne” e con “manipolazioni”, di ribellarsi alle tante, troppe, “versioni addomesticate” dei fatti accaduti che l’informazione - drogata e di parte - ha spacciato a piene mani per cinquanta e passa anni, per assicurarsi la benevolenza del suo azionista, eseguendo il suo sporco lavoro a beneficio del suo “padrone”, come un “picciotto” con il suo boss mafioso». C’è, dunque, in questa operazione anche una forma di “civile indignazione”, di “doverosa disobbedienza” al cospetto di una (dis)informazione corrotta, esplosa soprattutto davanti alle “spudorate” e sfrontate iniziative della Magistratura di Caltanissetta e di Palermo, sul cosiddetto “processo sulla trattativa Stato–Mafia” e su quello, promosso poi dal pentito Leoluca Bagarella, che voleva addossare a “Forza Italia” l’aver garantito e concesso alla mafia corleonese svariati benefici per esserne sostenuto nelle elezioni del 1994. E quanto ancora si dovrebbe dire sulle forme di un “pentitismo” italico di maniera, utile a una certa parte politica con un indiscutibile carattere di pura arbitrarietà?

Magistratura e PCI, i nemici del progresso dell’Italia, scrive il 13 giugno 2015 Gaetano Immé su "Imola oggi". Ci sono molti ostacoli nella ricerca e nell’affermazione della verità sulla storia del nostro Paese: la guerra fredda, la minaccia del Pci, la classe politica, gli apparati segreti dello Stato, la stampa, l’Alleanza atlantica, la Chiesa. Ma il peggiore, il più arduo da eliminare è la magistratura. Al tempo scellerato “della malefica illusione”, quando il simbolo dell’Italia ‘pulita’ era diventato un impresentabile ex pubblico ministero che incarnava un ordine giudiziario che s’intestava la salvifica missione di ridare al Paese una classe politica liberata dai corrotti, dai malviventi politici, dai collusi con la criminalità organizzata, in pochi , tutti reietti ed irrisi dai maestri del pensiero comune e conformato, avevano il fegato di ricordare che se l’Italia era stata depredata e saccheggiata lo si doveva certamente ad una classe politica che non solo non fu spazzata via e crocefissa ( ma solo in minima parte eliminata nelle aule dei tribunali) ma che fu difesa e protetta per più di mezzo secolo da quegli stessi magistrati che oggi pretendono , non si capisce a quale titolo, la riconoscenza del Paese e che , invece, essi hanno concorso a distruggere. Non dimentichiamo questa verità: la magistratura continua ad assolvere il suo compito di copertura di ogni menzogna ufficiale. La pretesa avanzata oggi dai magistrati italiani di essere stati loro i primi ad aver denunciato i saccheggiatori del Paese è del tutto priva di fondamento. E’ vero l’esatto contrario.

Excursus storico. Il rapporto di simbiosi fra Stato e criminalità era tale che Gaspare Pisciotta, destinato ad essere ucciso il 9 febbraio del 1954 nel carcere palermitano dell’Ucciardone con una dose di cianuro, poté gridare nell’aula della Corte d’assise di Viterbo: “Siamo un corpo solo banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito santo”. Risale al 1947 la scoperta di uno dei tanti scandali politico-finanziari che avrebbero punteggiato, da allora ad oggi, la storia del regime, che coinvolgeva in quel caso il ministro delle finanze del tempo, denunciato dall’onorevole Andrea Finocchiaro Aprile. Il relatore parlamentare, il liberale Rubilli, scrisse nel suo resoconto finale, quasi fosse un’attenuante o addirittura un merito, che “l’on. Vanoni riscosse soltanto una parte del compenso assegnatogli. E l’altra, la parte maggiore, la fece ritirare di persona, rimasta completamente ignota, per conto del partito…” Per la prima volta viene alla luce una stortura destinata a radicalizzarsi: il finanziamento al proprio partito come giustificazione alla distrazione di fondi pubblici”. Un esempio concreto del comportamento da parte degli organi giudiziari e di polizia viene dal caso di Luciano Leggio, più noto come Liggio, lasciato libero per decenni di agire nella forma spietata che gli era propria, prima di essere arrestato per l’iniziativa personale di un ufficiale della Guardia di finanza che, invece di un encomio – come egli si attendeva – ricevette dal comandante generale del Corpo un rimprovero e, successivamente, un trasferimento di sapore punitivo. La relazione della Commissione antimafia, presieduta dal democristiano Carraro ricorda, ad esempio, che per l’omicidio della guardia campestre Comajanni, che lo aveva arrestato il 28 agosto 1944 “con un rapporto del 31 dicembre 1949, il Comando forze repressione del banditismo denunciò quali autori…Leggio e Luciano Pasqua. La denuncia fu fondata sulla confessione di Pasqua e su molti altri elementi, ma Leggio e Pasqua furono assolti per insufficienza di prove dalla Corte di Palermo, con sentenza del 13 ottobre (confermata dalla Corte d’assise d’appello di Bari con sentenza del 18 febbraio 1967)” (ivi, p.111). Anche per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, il copione recitato dagli organi giudiziari fu identico: “…Pasquale Criscione e Vincenzo Collura accusarono Leggio del sequestro e dell’omicidio di Rizzotto, confessando inoltre di aver preso parte al delitto…Tuttavia, nonostante le confessioni e la chiamata di correo, con sentenza del 30 dicembre 1952, la Corte d’assise di Palermo prosciolse gli imputati per insufficienza di prove e la sentenza fu confermata dalla Corte d’assise d’appello l’11 luglio 1959. Il ricorso in Cassazione fu rigettato il 26 maggio 1961″.

Il Pci e la Magistratura italiana erano perfettamente conniventi con il sistema mafioso siciliano. E dunque conoscevano ogni risvolto, ogni angolo degli intrecci e degli intrallazzi fra mafia e potere politico. Nel precoce 1958 nasce in Sicilia il “milazzismo” quando Silvio Milazzo della Dc venne eletto presidente della Regione Siciliana con i voti dei partiti di destra (Msi) e di sinistra (Pci). Gli “ideologi” di quel governo siciliano dove il Pci, già dal ’59 dunque, iniziava la sua opera di convivenza e di collaborazione con esponenti della mafia siciliana, furono due. Un Senatore del Pci, tale Ludovico Corrao ed il Deputato della Dc nissena Francesco Pignatone, un vero e proprio teorico del milazzismo. Nel febbraio del 1960 il Senatore Ludovico Corrao, del Pci, corruppe il deputato regionale della Dc Carmelo Santalco: in cambio di 100 milioni avrebbe dovuto sostenere il governo di Silvio Milazzo. Negli anni del terrorismo il Pci, con Occhetto segretario a Palermo, poi leader regionale, pioniere dell' “unità autonomista” , anticiperà in Sicilia il compromesso storico di Berlinguer e Moro. Una realtà che il Pci cerca di nascondersi, come fa Occhetto stesso in un suo libro, dietro la foglia di fico “dell’apertura del Pci alla borghesia illuminata e agli intellettuali come Sciascia e Guttuso, portati sui banchi del Consiglio”.

Ma che vanno raccontando? Col Pci c’era la mafia, altro che la “borghesia illuminata”, altro che Sciascia! C’era Vito Ciancimino, c’era Salvo Lima, c’era la mafia, c’era da spartire con mafia ed altre forze politiche conniventi la ricca torta degli appalti pubblici. E Sciascia, dite ad Occhetto, capì tutto, da buon siciliano e scappò via. Ma quale “borghesia illuminata”! C’era la mafia con il Pci nella Sicilia e la Magistratura fingeva di non vedere. Si girava dall’altra parte. Poi vennero gli anni del Presidente Rosario Antonino Nicolosi, anni terribili per il mondo, per l’Italia ed anche per il Pci e per la Magistratura.  Nicolosi scrisse un memoriale, che consegnò solo nel 1997 ai magistrati della procura di Catania, dove svelava segreti e decenni di decenni e decenni di spartizione di opere pubbliche e di ricche tangenti fra imprenditori, politici di sinistra, politici di centro e mafiosi d’ogni risma e provenienza, mentre la Magistratura assisteva immobile ed asservita al sistema criminale del quale era una colonna Furono perquisiti gli uffici di trenta imprese a Milano, Roma, Ravenna, Palermo, Agrigento, di grandi aziende come Cogefar, come la Lodigiani, come la Grassetto, come la Astaldi, ma sopra tutto in quasi tutte le cooperative facenti capo al Pci. Il memoriale di Nicolosi è zeppo di nomi eccellenti. Filtrano i nomi, tra gli altri, dei Dc Mattarella, Mannino, Salvo Lima (l’uomo che collegava la mafia alla Dc andreottiana), dei comunisti Colajanni, Parisi, Antonino Fontana (di cui riparlerò fra poco), dei socialisti Andò, Lauricella, Capria, del repubblicano Gunnella e Bianco. Disgraziatamente Nicolosi morì nel 1998.

Tornando sul continente, è storia che dal 1948 in poi il finanziamento illegale del Pci si sia fondato su due pilastri:

Da un lato l’incessante e massiccio finanziamento illegale da parte del Pcus e del Kgb.Dall’altro lato un sistema totalmente di stampo emiliano – romagnolo, delle cooperative comuniste o rosse realizzato da Eugenio Reale, un altro “nobile e ricco” napoletano fattosi comunista (per poi pentirsene), che si accaparrava la maggior parte degli appalti pubblici. Le cooperative rosse finanziavano il Pci “assumendo per comodo i suoi funzionari”. Una grande società di assicurazione, la Unipol – era praticamente il “ polo comunista” assicurativo e finanziario che si opponeva a quello di Agnelli della SAI – ma un sistema finanziario tramite il quale nacque la “ Banca Unipol”, la successiva “dipendenza” e “ subalternità” del Monte dei Paschi di Siena verso il Pci fino alla sua acquisizione tramite la “ Fondazione bancaria MPS “notoriamente tutta nelle mani del partito politico Pci, l’acquisizione al MPS della Banca del Salento, poi della Banca Agricola Mantovana. La conquista del potere economico finanziario e bancario è continuato, assolutamente senza alcun ostacolo da parte della Magistratura non ostante l’evidenza del pericolo per la democrazia dal grumo di potere politico ed economico che il Pci andava realizzando, con il famoso assalto alla Banca Nazionale del Lavoro organizzato dal Pci/DS a segreteria Fassino, insieme a imbarazzanti compagni di assalto al suono di quella famosa frase “abbiamo una Banca”? Tutto questo ha consentito al Pci di diventare “un unicum”, ovvero un partito politico e contemporaneamente una holding finanziaria e bancaria il cui potere e la cui influenza tracimava da Via delle Botteghe Oscure, allignava su tutto il Paese, soffocava ogni residua forma di libertà economica, condizionava e ricattava il voto popolare. Fu consentito, direi anche “voluto” dalla Magistratura che il Pci creasse la più grande “holding del malaffare politico” esistente in tutta Europa. Un conflitto di interessi da spavento, una costante opera corruttiva e criminale consistente nel garantire lavoro, finanziamenti, sostentamenti ed assistenzialismo di vario genere dietro “voti di scambio” e subalternità varie. Insomma, da quei momenti dovranno passare quarantacinque anni prima che la magistratura riceva l’autorizzazione a procedere contro i partiti politici.

Quando Bettino Craxi affermò che dell’esistenza del sistema delle tangenti lui era a conoscenza da quando portava i calzoni corti, tutti hanno fatto finta di credere che si trattasse di una boutade mentre, viceversa, erano consapevoli che l’ex segretario del Psi aveva detto una verità incontrovertibile. Se a sinistra squillava una tromba (della corruzione finanziaria e politica) anche al centro ed a destra non si scherzava. Ricordo che nel 1986, a pochi mesi di distanza dalla morte di Michele Sindona, il giornalista, N. Tosches, pubblicava un libro contenente il resoconto delle conversazioni avute con lui nel carcere di Voghera. Un brano merita di essere riportato perché passò inosservato allora e, quel che è più significativo, continua ad esserlo ancora oggi benché, come vedremo, illustri in maniera dettagliata e completa il funzionamento del sistema delle tangenti sul quale oggi, ufficialmente, si continua ad indagare senza riguardi per nessuno –così almeno vogliono “darci da bere” – pur di giungere alla verità. (N. Tosches, Il mistero Sindona, Sugarco 1986, p.127). “L’accordo Trinacria prevedeva che la società che otteneva l’appalto era obbligata a versare in cambio una certa somma di denaro nero –solitamente il 3%- sul valore del contratto al politico o ai politici che l’avevano aiutata a procurarselo. Il pagamento del 3% veniva in seguito diviso in tre parti così distribuite: un terzo ai democristiani, un terzo ai socialisti un terzo ai liberali e ai repubblicani con un’altra piccola redistribuzione ai socialdemocratici. Come d’abitudine, i vari partiti avrebbero poi gettato qualche briciola ai missini. In questo modo chiaro e preciso, senza perifrasi e ambiguità, con affermazioni che per l’autorevolezza di chi le fece e per la loro comprovata realtà non lasciano spazio a dubbi o perplessità, la verità sul sistema di sopravvivenza economico-finanziaria dei partiti politici che esisteva da una vita, molto ma molto tempo prima dell’era di Di Pietro e del pool di "mani pulite". Non c’è indignazione nella magistratura nei confronti di chi ha depredato la nazione in nome degli interessi di partito, quasi sempre fatti coincidere con quelli personali. C’è viceversa sofferenza e disagio, protratti al punto di rifiutarsi di applicare la legge in tutto il suo rigore nei confronti dei politici coinvolti nelle inchieste sul sistema delle tangenti. E’ protervia quella di un ordine giudiziario che affida ad un suo rappresentante il compito di informare i cittadini che la legge non è uguale per tutti. Si era sempre saputo, ma almeno avevano sempre avuto – i magistrati- il pudore di negarlo. Oggi hanno perso, invece, anche quest’ultimo ritegno.

“Nessun paese al mondo – ha dichiarato il sostituto procuratore della repubblica di Milano, Pier Camillo Davigo – può reggere lo stillicidio degli arresti della sua classe dirigente. Noi – si vanta a nome di tutta la corporazione – lo abbiamo detto per tempo e ci hanno accusato di volere una soluzione politica…” E quando, dalla sala in cui si svolge la sua conferenza, qualcuno gli chiede perché i magistrati non hanno ritenuto di contestare agli inquisiti il reato di associazione a delinquere, il magistrato pronto ribatte: “Perché se l’avessimo fatto sarebbe stato un vero golpe, avremmo dovuto chiudere tutte le sedi dei partiti. E cosa avremmo fatto – si chiede angosciato – dei parlamentari inquisiti?” E chi mai ha autorizzato –chiediamo noi- i giudici ad assumere le vesti dei politici e a violare la legge in nome di una ragion di Stato che è pretestuosa ed occulta la volontà di circoscrivere, nei limiti del possibile, i danni che alla classe politica derivano da una conferma pubblica delle sue malefatte? Non è il Paese che preoccupa la magistratura, non la salvaguardia dei beni dei cittadini, non il ripristino delle regole dell’onestà dell’amministrazione della cosa pubblica, ma la classe politica alla quale evitare il tracollo definitivo e garantire l’impunità. Non la punizione dei delinquenti preme alla ‘giustizia’ italiana e ad i suoi rappresentanti, ma la loro salvezza, anzi la loro totale impunità.

Leggete quel che disse Coiro “…La soluzione politica –chiesero all’ex Procuratore della repubblica di Roma, Michele Coiro- per Tangentopoli è l’unica possibile?”. ”Io credo –rispose costui- che una soluzione politica di Tangentopoli sarà possibile solo dopo che il nuovo clima politico sarà consolidato. Si spera che questo accada con le prossime elezioni”. Per il ‘nuovo’, questa ex ‘toga rossa’ dalla brillante carriera, intendeva la vittoria degli inveterati ladroni del Pci-Pds. E non si può dire che la magistratura non abbia cercato di influenzare l’esito delle elezioni, in senso favorevole al partito di Massimo d’Alema, bloccando sistematicamente le inchieste che ne coinvolgevano dirigenti centrali e periferici. Quando non potevano fare a meno di procedere all’arresto di qualche funzionario comunista o all’invio di qualche comunicazione giudiziaria, i magistrati stavano ben attenti a non enfatizzare i provvedimenti, mentre riscoprivano il dovere del riserbo sugli atti processuali e la necessità di tutelare il segreto istruttorio. Solo Bettino Craxi ebbe il coraggio, nell’aula del Tribunale di Milano dov’era in corso il processo a Sergio Cusani, di dichiarare che il partito comunista italiano “era il partito più ricco di risorse, aveva la macchina burocratica più potente dei paesi occidentali, buona parte del finanziamento proveniva da fondi illegali. Gli enti pubblici, quelli che chiamo i tangentopolini, e cioè gli amministratori locali, e poi l’Est: l’Unione sovietica e i paesi del Comecon”. Parole al vento, perché l’inchiesta sul fiume di denaro versato dal Cremlino a Botteghe oscure è stata debitamente, e silenziosamente, archiviata (R.C., Fondi Pcus. Archiviata l’inchiesta, La Stampa 19 luglio 1994). E nessuno riuscirà più a farla riaprire, dato che a maggio del 1992 era stato trucidato anche Giovanni Falcone, il magistrature che nel giugno successivo si doveva incontrare va Mosca con un altissimo magistrato russo per definire l’inchiesta denominata “Oro da Mosca” e che si incentrava sul riciclaggio del denaro sporco amministrato dal Pci. La tendenza da parte di molti giudici a svilire le indagini di polizia giudiziaria e a non dar rilievo alle dichiarazioni rese dagli organi inquirenti giungendo a definirle "propalazioni extragiudiziarie".

Poi c’è la schiera dei “depistatori onorati e premiati”. Il sostituto procuratore generale di Bologna Franco Quadrini, alla domanda di un giornalista: “Ma se è vero che sulle stragi si sa ogni cosa, come mai finora i colpevoli sono sfuggiti alla condanna?”. “Perché –ha risposto- per i primi 15 anni si è fatto di tutto per ostacolare l’accertamento della verità. Negli ultimi dieci si è fatto di tutto per impedire la divulgazione della verità accertata. E ancora si fa fatica a far recepire ciò che ci è noto da tanto tempo…” . Anche il noto Casson Felice, sostituto procuratore della repubblica a Venezia, dimostra di sapere: “Il fatto è – ha dichiarato – che i servizi segreti non sono assolutamente deviati. Svolgono l’opera per la quale sono stati costituiti e per la quale sono stati messi a lavorare. Bisogna ricordare che chi mette ai vertici dei servizi segreti, da sempre, certi responsabili sono uomini politici che continuano da sempre a seguire certe logiche di potere…I servizi – ha concluso – sono soltanto degli organi esecutivi che eseguono degli ordini. Non hanno una politica autonoma, hanno la politica di chi comanda”. I giudici italiani, quindi, comprendono e conoscono la verità in tutti i suoi risvolti principali, ma di questa loro sapienza si può trovare traccia nelle interviste giornalistiche e televisive rilasciate dopo la caduta della Democrazia cristiana alla quale, è sottinteso, addossare ogni responsabilità ora che è comodo e fruttuoso farlo, mai nelle loro sentenze ancorché scritte nell’era “ comunista”.

Anzi, in queste ultime, scrivono di regola l’esatto contrario di quanto dichiarano informalmente. Un comportamento contraddittorio, il loro, che si giustifica con la consapevolezza che mentre le affermazioni rese sul piano giornalistico si perdono nell’oceano di parole che ormai sorregge tutto e tutti, quelle scritte nelle sentenze hanno valore politico e storico. D’altronde, solo se si conosce la verità è possibile negarla. E la consapevolezza che l’ordine giudiziario la verità, in tutta la sua tragica dimensione, la conosca da sempre spiega la lucidità perversa che si riscontra in ogni atto che compie per negarla e per difendere, in questo modo, lo Stato ed il potere. La storia giudiziaria della ‘guerra politica’ in Italia è intrisa di illegalità e di infamie, di abusi e di soprusi, di arroganza smisurata e di menzogne inaudite che nessuno osa contrastare e denunciare. Se c’è, difatti, un potere dello Stato che sa quello che difende e, soprattutto, come difenderlo questo è quello giudiziario che, rappresentando la legge, è l’unico a sentirsi autorizzato a calpestarla, come e quando la "ragion di Stato", la "ragion politica" e quella di ‘servizio’ lo impongono, con la sicurezza che mai sarà chiamato a risponderne. Per provare quanto affermiamo, c’è solo l’imbarazzo della scelta su uomini e fatti da offrire come esempio di una giustizia inesistente, derisa e violata da coloro che osano –ancora osano- proporre se stessi e la loro corporazione come rappresentanti di un Potere delegato a tutelare il diritto di tutti alla verità. Vediamo, per cominciare, alcuni di questi rappresentanti della giustizia tradita.

"Nembo Sic" era soprannominato il sostituto procuratore Domenico Sica, quando prestava servizio presso la Procura della repubblica di Roma, per la sua straordinaria capacità di riunire sulla sua scrivania i fascicoli delle inchieste più delicate fra quante, in quegli anni, passano per il ‘porto delle nebbie’, com’era definito in modo appropriato e lapidario, il Tribunale di Roma. Una ragione c’era, perché i vertici della Procura della repubblica di Roma riponessero tanta fiducia in Domenico Sica e a lui affidassero indagini processuali che, se condotte a buon fine, avrebbero prodotto terremoti politici ed istituzionali maggiori di quelli che hanno provocato le inchieste su Tangentopoli. Una ragione forte che risiedeva nel fatto che, come preventivato, nessuna inchiesta, fra le tante che ha condotto Domenico Sica, ha prodotto un solo risultato utile per la verità ed il paese. Domenico Sica era il garante, come altri prima e dopo di lui, di un potere che poteva contare ciecamente sulla sua efficienza, sulla sua capacità professionale, sulla sua totale ed incondizionata dedizione perché verità scomode non emergessero dai suoi incartamenti processuali che, se non potevano essere conclusi con un "non luogo a procedere", non avrebbero mai leso comunque gli interessi di uno Stato, ufficiale o parallelo.

Il 20 marzo 1979, uccidono Mino Pecorelli. Affidato il caso al magistrato Domenico Sica, il caso restò per anni praticamente ferma”. Sul caso Moro, Domenico Sica, secondo il consueto stile, nulla aveva riscontrato di anomalo, ma a Maria Cordova bastò leggersi il fascicolo processuale per convincersi “che all’inizio degli anni Settanta esisteva un massiccio passaggio di armi dalla Libia di Gheddafi. Sica non volle seguire la faccenda, ma si trattava del “flusso delle armi” che avrebbe portato molta carne al fuoco della Magistratura contro non solo le Brigate Rosse ma anche contro “Potere Operaio” ed Hyperion e dunque contro Scalzone, Piperno ed altri.

Oggi, il compagno Imposimato fa il fustigatore dei suoi colleghi. Sarà forse una coincidenza, ma il suo nome emerge in eventi giudiziari direttamente collegati al sequestro ed all’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. Ferdinando Imposimato, difatti, si era attivato a partire dal dicembre 1992 per far ottenere la grazia presidenziale a Domenico Papalia, esponente della n’ndrangheta, in carcere da diciassette anni per l’omicidio di Antonio D’Agostino, altro affiliato alla malavita calabrese, avvenuto a Roma nel 1975. La singolarità dell’appassionato intervento di Ferdinando Imposimato a favore di Domenico Papalia risiede, per quel che qui interessa, nel fatto che il pentito Saverio Morabito ha rivelato che il 16 marzo 1978 in via Fani era presente, con un ruolo non definito, Antonio Nirta, figura di primo piano delle cosche di san Luca, ‘infiltrato’ –così afferma il collaborante di giustizia- dal generale dei carabinieri Francesco Delfino nelle Brigate rosse. Storia vomitevole, la tralascio per disgusto, ma basta andare sul web per informarsi.

Nella lista dei premiati e dei beneficati non può non essere inserito, a giusto titolo, un altro magistrato divenuto guarda caso senatore nelle file del Partito comunista italiano, il giudice istruttore di Torino Luciano Violante. In altre occasioni, quando abbiamo avuto modo e necessità di porre in rilievo il ruolo negativo della magistratura italiana nel processo di accertamento della verità nella ‘guerra politica’ in Italia, abbiamo fatto riferimento a questo esemplare giudiziario – politico per ricordare il depistaggio giudiziario da lui compiuto nel corso della istruttoria sul cosiddetto “golpe bianco” di Edgardo Sogno, liberale, partigiano, antifascista trasformato a forza in un "eversore fascista". Quando si dice il caso, al ‘giudice rosso’ fu offerta la possibilità di intraprendere una brillante carriera politica come parlamentare di un partito formalmente all’opposizione. La medaglietta parlamentare come gratifica, ringraziamento e riparo è stato quanto concesso dal potere politico ai suoi magistrati di punta: Ferdinando Imposimato e Luciano Violante, dal Pci; Claudio Vitalone dalla Dc; Nicolò Amato dal Psi; Domenico Sica dal ministero degli Interni, direttamente, senza pudore. La magistratura italiana che ha annoverato nei suoi ranghi uomini come questi ora citati, non può invocare alcuna attenuante a sua discolpa. E tutti, come al solito, hanno preferito tacere. Giancarlo Caselli è, oggi, uno degli ‘intoccabili’ della repubblica, elevato sugli altari per la sua ‘lotta alla mafia’ e per aver incriminato Giulio Andreotti. Un’azione, quest’ultima, che gli permette di presentarsi come un temerario ed integerrimo magistrato che non si lascia intimidire dai potenti. Dimenticano, però, Caselli ed i suoi apologeti che Giulio Andreotti è stato un uomo potente, fino a quando non gli sono venute a mancare le protezioni americane e il supporto mafioso. Quando Giancarlo Caselli lo ha incriminato per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’, l’ex Presidente del consiglio era un uomo politico finito.

Nel tempio dell’italica giustizia, i custodi potranno continuare a proteggere il libro della loro legge, perché nessuno possa mai aprirlo e scoprire nelle sue pagine la verità su una giustizia che non c’è mai stata e leggere la storia avvilente dell’ingiustizia divenuta potere.

Gaetano Immé è l’autore del libro “I peggiori anni della nostra vita” – Una rivisitazione degli avvenimenti accaduti fra il 1990 ed il 1994 che svela gli intrighi fra mafia, Pci e Magistratura, una storia non solo diversa ma opposta a quella che vorrebbero ammannirci. Rivisitiamo insieme i fatti accaduti in Italia fra il 1990 ed il 1995 e scopriamo insieme una verità clamorosa, una verità opposta a quella che ci vogliono ammannire.

IL VERO SISTEMA CRIMINALE, scrive Gaetano Immè il 13 giugno 2014 sul suo profilo Facebook. Come mai, perché due eventi “epocali”, come la caduta del Muro (1989) e Tangentopoli (1992) sono così ravvicinati e quasi contigui? Questi due eventi “epocali” sono fra di loro autonomi ed indipendenti oppure l’evento del 1992 fu una “conseguenza italiana” del crollo del Muro? 

L’evento del 1989 non fu certo una sorpresa. Quel che avvenne in quel novembre del 1989 aveva avuto un lunghissimo preambolo, una lunghissima incubazione che era iniziata, nella Russia, fin dal lontano 1985 con l’avvento al potere di Gorbaciov. Aveva introdotto la “glasnost’” cioè la trasparenza , la “perestrojka” e cioè le riforme , esattamente l’opposto della “segretezza” e della totale “assenza di controllo” che rappresentavano i cardini del sistema comunista staliniano. Se Gorbaciov era diventato anche così amico col Presidente Usa Ronald Reagan fino al punto che il 12 giugno del 1987 proprio a Berlino, quella città che era divisa in due proprio dal regime comunista, Reagan si permise di apostrofarlo ed irriderlo con quel suo “Mister Gorbaciov, tear down this wall!”, ciascuno può rendersi conto di come i rapporti e gli equilibri della “guerra fredda”, che pure avevano governato il mondo, si fossero ormai frantumati, consumati. Dunque quel che accadde quel 9 novembre del 1989, con il Ministro tedesco Hans Modrow, che decide di aprire la frontiera fra le due Berlino ed il 31 dicembre del 1991 quando venne ufficialmente disciolta l’Unione Sovietica nata, pensate, il 7 novembre del 1917 dalla Rivoluzione Russa, non era certo un “fulmine a ciel sereno” per il Pci, per tutta la politica, anche mondiale. In Italia tutto ciò metteva in grave pericolo la sussistenza di quel fattore “K” che aveva retto e governato l’Italia Repubblicana dal 1948 al 1991 e cioè quell’equilibrio politico sociale determinato dal dominio pressoché assoluto di due partiti, Dc e Pci, in mano ai quali erano saldamente e rispettivamente la “maggioranza” e “l’opposizione”. Una “democrazia bloccata” da due fazioni, così come il mondo era diviso in due blocchi, uno filoamericano, atlantico, cattolico rappresentato in Italia dalla Dc ed uno filosovietico, comunista, ligio al Patto di Varsavia, rappresentato in Italia dal Pci. Questo significava anche che ciascuno dei due blocchi sapesse tutto del nemico, armamenti bellici, progetti insurrezionali, aiuti militari ed economici stranieri, sistemi di difesa , informazioni e servizi segreti: così, come il Pci intrecciava una fitta rete sul territorio dell’Italia centrale settentrionale (Liguria, Lombardia Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, ecc) dove comprava voti politici fornendo in compenso lavoro e si assicurava il controllo del territorio, così specularmente anche la Dc faceva l’identica manovra al Sud dovendo però anche fare i conti con tutta la malavita che, fin da prima dell’unità d’Italia, controllava il Mezzogiorno. E ciascuno dei due blocchi era anche armato: la “Volante Rossa”, le “Brigate Rosse”, il “resistenzialismo rosso”, la Gladio Rossa dalla parte del blocco comunista e la “Gladio bianca”, la “Stay Behind” o altri tentativi difensivi dal pericolo comunista nella Sicilia separatista da quella della Dc atlantica. Fingere stupore, fingere indignazione, insomma fingere di non sapere né di immaginare che ciascuna della due fazioni disponesse anche di “forze armate” proprie, faceva parte della recita, degli equilibri che quei due blocchi avevano trovato con fatica. Solo la massa ignorante – dunque quasi tutta la popolazione italiana – può ignorare queste verità storiche. E questo è il momento cruciale, perché quel crollo del regime comunista avrebbe dovuto mettere la parola fine agli equilibri da guerra fredda che avevano governato l’Italia, con tutte le loro complicità implicite ed ovvie in un “regime bloccato”, siano state esse più o meno occulte. Cossiga e la Dc credette alla fine dell’incubo, alla fine della guerra civile italiana. Cossiga, Presidente della Repubblica, nel 1990 durante un viaggio istituzionale in Irlanda rilasciò un’intervista dove apriva alla trasparenza, credeva che anche il Pci fosse disposto a deporre le armi. Si svelò. E sbagliò. Ma lo capì quando ormai era troppo tardi. Fu quando credendo di intestarsi una così storica primogenitura di una riappacificazione epocale preparò la cena a base di pesce con Violante e Sogno, praticamente la “mente giudiziaria “del Pci ed il simbolo di una Resistenza che s’opponeva a quella rossa che voleva l’Italia annessa all’impero sovietico, Edgardo Sogno. Finì a pesci in faccia, perché Violante non volle stringere la mano di Sogno. Non poteva esporsi, perché lungi dal pensare ad una riappacificazione, il Pci, davanti a quella tragedia del crollo, non pensò di fare i conti con la sua storia e col fallimento totale del regime comunista staliniano. L’ansia della presa del potere, che sempre l’Italia gli aveva negato per via democratica, fu rappresentato dai dirigenti del Pci (Violante, Napolitano, Natta, Macaluso, ecc) come uno dei tanti possibili “incidenti di percorso” davanti al quale decidere una strategia salvifica. Invece che fare i conti con il crollo della loro gigantesca speranza, di quel mondo migliore il cui mito che li aveva sostenuti, ammaliati, infervorati ed anche finanziati, il Pci preferì far finta di niente, negare l’evidenza, spostarsi su posizioni socialdemocratiche, qualcuno ebbe anche la sfrontatezza di affermare di non “essere mai stato comunista”. Così quella caduta, che fu una tragedia sociale e storica, fu colta da quella dirigenza come fosse invece un’occasione da sfruttare alla grande per una conquista del potere in Italia. Davanti a due strade possibili, dunque, da un lato quella impervia, faticosa, di ricostruire una politica comunista nuova che si basasse sulla simbiosi di due entità la cui totale assenza fu la causa principale del crollo del Muro, e cioè la “ libertà” e la “uguaglianza” e dall’altra quella , semplice e facile, di costruire un progetto, vedremo se più o meno “ criminale” ( per usare la terminologia tanto cara a Travaglio ed alla sua armata ), con il sistema giudiziario comunista , scelsero la seconda soluzione. Come negli anni della guerra fredda quando il Pci aspettava Stalin e le truppe di Tito per far irrompere in Italia il famoso “sol dell’avvenire”, così anche negli anni novanta del secolo scorso il Pci, per ingordigia, rimase affascinato dall’idea fissa della “potenza straniera” che arriva in suo soccorso e la conduce al potere. Poteva forse Violante stringere la mano di Sogno quando il progettino giudiziario era ormai bello che pronto? Ecco perché dopo quaranta e passa anni nei quali quella stessa Magistratura, la “ nuova Magistratura “ tanto sbandierata ed osannata dal Pci ( chi non ricorda “In nome della Legge” , il manifesto della nuova Magistratura democratica o gli inascoltati moniti che Dino Risi lanciava negli anni settanta col suo terrificante Magistrato Bonifazi ) che sonnecchiava complice fingendo di non accorgersi dello scempio della legalità che il potere mafioso imponeva a “ quegli equilibri da guerra fredda” in Sicilia consentendo, con la sua indifferenza, il protrarsi di quella impunità mafiosa che il Trattato di Parigi del 1947 aveva loro regalato , solo improvvisamente irrompe occupando le cattedre e le postazioni adatte: ecco Violante alla Commissione antimafia (1992), ecco Caselli Giancarlo alla Procura di Palermo che estromette Giammanco così “ organico” al potere andreottiano, il tutto per intestarsi improvvisamente quella legalità che aveva invece ignorato per così tanti decenni. La successione temporale è stata rapida. Quel “ progetto” , quel nuovo “ pactum sceleris” fra Pci e Magistratura si attuò rapidamente: a Febbraio del 92 si scatena Tangentopoli, nel 92 stesso viene distrutta la vera antimafia di Falcone e di Borsellino tanto invisi alla sinistra comunista, nel 1993 la Camera presieduta da un intimidito Napolitano regala, senza alcuna dignitosa difesa, alla Magistratura la sovranità popolare con la imposizione di stampo ricattatorio della modifica dell’articolo 68 della Costituzione, nel 1994 e sempre su iniziativa della Magistratura ( e non su iniziativa del Parlamento) la Cassazione decide l’introduzione in Italia dello strano “ reato non reato” del “ concorso esterno in associazione mafiosa” ( così necessario per puntellare alcuni teoremi e per impiccare chi avesse avuto a che fare con Sud) , nel 1995 arriva la prima “ presa del potere” quando le false accuse contro Berlusconi determinano la caduta del suo Governo e il “ deposito” a Palazzo di Amato , i cinquanta e passa procedimenti giudiziari che la Magistratura scatena contro il leader politico avversario, reo di ostacolare col suo consenso quel “potere” agognato. Ma il Pci ed i suoi epigoni non reggono e si dimostrano dei complici ormai inutili, da abbandonare, non riescono a governare nemmeno se letteralmente depositati sul Palazzo. Così, dopo che Prodi era caduto nel 2008 per liti interne ad una sinistra sempre più in preda al caos mentale, la Magistratura decide di sbarazzarsi del complice, di gettarlo a mare. Così le inchieste distruggono gli eredi del Pci come i cinquanta processi hanno distrutto il centrodestra e la Magistratura decide di farsi giudice e partito, alla faccia della divisione dei poteri. Ecco dunque un primo timido tentativo, quello di Ingroia del 2013, ecco anche il loro quotidiano, il FQ, ma manca ancora qualcosa per completare “quel progettino”. E quel qualcosa è la spinta che legittimi la Magistratura ad assumere il potere per ristabilire la legalità. Questa “spinta” è rappresentata da Grillo, dal M5s, percepito ormai come un pericolo, dalla maggioranza dei moderati italiani, per l’ordine pubblico e per la politica. Ecco i grillini sono i complici forse inconsapevoli, forse gli ultimi utili idioti, che servono per insta turare il regime delle toghe.

MOTIVI E PROVE DEL “PROGETTO CRIMINALE” ORDITO DA PCI, MAGISTRATURA ED INFORMAZIONE, scrive Gaetano Immè il 18 giugno 2014 sul suo profilo Facebook. La caduta del Muro di Berlino dunque , non ostante il suo lunghissimo prologo e preludio, pare cogliere assolutamente impreparato il Pci e la sua nomenclatura , i quali , coinvolti ed inebriati dal ferreo potere imposto dal 1945 in poi , in complicità con la Dc, sull’intero Paese , erano abituati a recitare il loro compito di “ opposizione” dal quale ricavano consensi politici interni e ricchezze staliniane e non avevano mai pensato ad elaborare una linea politica propria ed autonoma rispetto a quella che Mosca e Stalin imponevano loro . Le prove storiche della presso ché nulla capacità del Pci di elaborare progetti politici che fossero a sostegno dell’intero Paese e non solo utili al suo ruolo di “minacciosa opposizione ma anche infido complice del condiviso sistema di potere” sono reiterate, plurime. Nel primo decennio repubblicano, “ centrista e degasperiano”, nato con le elezioni politiche del 1948, il ruolo politico del Pci per esempio, fu improntato e caratterizzato da una sua fortissima propaganda basata essenzialmente su due “cavalli di battaglia”, due colossali e truffaldini raggiri perpetrati cinicamente ai danni di un’Italia ancora analfabeta: la “battaglia per la libertà di pensiero” e la “promessa di portare in Italia il paradiso comunista che aveva sconfitto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Prima e dopo le elezioni del ’48 infatti, il Pci, giustamente preoccupato dall’asse fra la Dc degasperiana e la Chiesa cattolica, anziché assumere legittime ed auspicabili “posizioni laiche “, preferì, togliattianamente parlando, dare in pasto al Paese la grande menzogna del “terrore di un regime clericale dogmatico ed illiberale” che la Dc avrebbe instaurato nel Paese in caso di sua vittoria. Si trattava di un cinico “ specchietto per le allodole”, una invenzione tipica di Palmiro Togliatti, il quale con una tale raggiro da un lato si assicurava comunque i voti e le simpatie degli uomini di cultura, di letteratura, di cinema, di teatro, di scrittori, quelli che definisco, con una punta evidente di disapprovazione , “ gli intellettuale organici al Pci” bollandoli come essi meritano con tale ossimoro, mentre dall’altro lato e contemporaneamente assumeva posizioni non solo arcignamente critiche ma addirittura censorie e staliniane contro coloro che credettero alla “libertà di pensiero” e che provarono a sperimentarla nei loro libri e nei loro cenacoli e che furono abbattuti senza pietà dall’Unità ( era diretta allora da Alicata, di stretta osservanza togliattiana) ed anche da Togliatti stesso , per il semplice fatto che non esisteva alcuna libertà di pensiero né in Russia, dove poi dal 1934 era addirittura iniziate le famigerate “ purghe staliniane”, né doveva esistere in Italia. Ne sa qualcosa, per ricordare un esempio paradigmatico, lo scrittore siciliano e siracusano Elio Vittorini, che pubblicava il settimanale culturale “Il cenacolo” dove invitava il gotha degli intellettuali mondiali: da Gide a Hemingway, a Malreaux. Ma si trattata di pensatori e di opere culturali che Stalin e la nomenclatura comunista aveva già messo al bando, all’indice, se non già rinchiuso addirittura nei gulag , nella Russia e così il povero Vittorini venne letteralmente travolto da Alicata sul giornale che fu di Gramsci , criminalizzato ed additato al pubblico ludibrio per arrivare fino all’irrisione crudele e beffarda dello stesso Togliatti il quale, davanti alle dimissioni sussurrate dal povero Vittorini non trovò di meglio che irriderlo con quella famosa frase “ Il compagno Vittorini se ne è ghiuto e soli ci ha lassati….” Il successivo periodo storico, caratterizzato in Italia dal “miracolo economico”, trova alla guida del Paese la nuova Dc del dopo De Gasperi, la quale inizia la fase lenta e graduale della così detta “apertura a sinistra” verso i socialisti italiani. Intanto si realizza nel Paese, anche grazie agli aiuti dell’area angloamericana, quel fatale processo di progressiva emancipazione industriale che va sotto lo pseudonimo di “miracolo economico”. Il quale non solo produsse ricchezza e benessere ma anche vistosi e profondi problemi sociali di fronte ai quali il Pci non riuscì, nemmeno in qual frangente storico, ad assumere una posizione programmatica interna che non fosse quella che Mosca e Stalin volessero che fosse. E così tutta una serie incredibile di problemi sociali dovuti al miracolo economico furono lasciati dal Pci alle soluzioni altrui. Cito gli incredibili problemi connessi all’immigrazione dal Sud verso le città industrializzate, la necessità di asili nido, di ospedali, di case, di aggregazione. E allorquando Berlinguer propose addirittura, nell’esecuzione – si badi bene – del progetto di Mosca e di Stalin che pretendevano che il Pci fosse la “ sua longa manus diretta alla conquista del potere del comunismo in Italia per via democratica ” da utilizzare in alternativa all’opzione dell’invasione militare , il famoso “ compromesso storico” ( siamo ormai negli anni settanta) con la Dc di Aldo Moro, davanti al brigatismo rosso ed al suo stragismo, il Pci non fece altro che ritirarsi precipitosamente da quella ventilata ipotesi di governo. Preferì abbandonare di corsa un ruolo irto di difficoltà – quello di trasformare il Pci da “partito di opposizione” a “partito di Governo” –, venne clamorosamente meno ai suoi impegni politici - anche perché il richiamo all’ordine ed all’obbedienza ( da Mosca, cioè da chi paga) delle Brigate Rosse di Moretti era stato di tipo militare e bellico – e con tale mossa politica – il ritorno ad essere solo “ partito di opposizione” – recuperò molti consensi che aveva già perduto. Ecco, la storia ammonisce e certifica l’incapacità del Pci di fare il bilancio ed i conti col suo passato: è accaduto, come abbiamo visto, molto spesso, ad ogni sovvertimento politico. Tanto che per trovare una bozza seppur minima di programma politico del Pci che sappia di una anche minima autonomia rispetto ai voleri imposti dalla casa madre di Mosca dobbiamo aspettare la bellezza di quasi trenta anni : ecco la proposizione della “ terza via europea al comunismo” , più volte reclamizzata da Enrico Berlinguer per cercare di rendere il Pci almeno “ meno totalmente dipendente da Mosca”, una via mai svelata dal Segretario comunista e che tante ire suscitò sia a Mosca come anche nello stesso Pci. Il corpo dei militanti del Pci non ne volevano sentir parlare di rendersi autonomi dal comunismo sovietico. Quando mancano oramai solo sette mesi al definitivo crollo del Muro e quando ormai da quattro anni nella Russia Gorbaciov attua la sua politica di “ glasnost” e di “ perestrojka” senza che si abbia notizia di una qualche iniziativa del Pci per iniziare almeno un percorso di contrasto intellettuale e politico al sempre più evidente e galoppante sbriciolamento dell’intero sistema comunista , il 18 aprile del 1989 a Piazza Tien An Men di Pechino sono addirittura i giovani cinesi che rivendicano una democratizzazione del Partito comunista cinese . Voglio ripetere l’accaduto, perché è altamente significativo. E cioè: addirittura il Partito Comunista cinese s’avvede dell’imminente tracollo del comunismo e del Muro di Berlino, scende in piazza per rivendicare liberalizzazioni, democratizzazione del partito comunista cinese, mentre nella vecchia e colta Europa, nella patria di Machiavelli, il Pci nemmeno si scuoteva pur davanti alle plateali proteste di Pechino. D’Alema, che dirigeva allora “L’Unità”, temendo reprimende dalla Cina – sulla cui posizione e potenza il Pci si andava ormai adeguando alla eterna e disperata ricerca del nuovo “papa straniero” che intervenisse per salvarlo e guidarlo per mano alla conquista dell’agognato e mai afferrato potere – era contrario ad ogni critica verso Pechino. Ed infatti quando “L’Unità” decise di titolare – era il 19 aprile del 1898 - “Libertà in Cina. I ragazzi di Hu lanciano la sfida”, il Pci fu inondato da reprimende e proteste vibranti da parte dell’Ambasciata Cinese. Il 5 giugno del 1989 il Partito comunista cinese decise di far intervenire l’esercito. Chi non ricorda il massacro dei giovani cinesi, le migliaia di morti e le migliaia di arresti? Il numero delle vittime del comunismo cinese non si conosce ancora. Segreto di Stato. Accettato in silenzio dal Pci dei Veltroni, dei D’Alema, dei Petruccioli, dei Napolitano, dei Mussi, dei Folena, ecc. Ma anche davanti a questo massacro il Pci non reagì. Mi irritò e indignò personalmente quell’ipocrita e farisaico “non possiamo più chiamarci comunisti” belato da Occhetto il 6 giugno del 1989 durante un corteo sotto l’Ambasciata cinese. Così anche davanti a quella tragedia del crollo del Muro di Berlino e del regime comunista di Mosca, della guerra fredda, ecc. il Pci non pensò minimamente di fare finalmente i conti con la sua storia, con il suo essere stato soltanto la “quinta colonna in Italia” agli ordini di Mosca e sopra tutto col fallimento totale del regime comunista staliniano. Quel 9 novembre del 1989 fui sorpreso non tanto dalla notizia – quel crollo era, come si dice, una tragedia annunciata, solo i ciechi, i sordi e gli struzzi potevano non accorgersi che quel mondo stava venendo giù – quanto da un fatto: constatai che sull’Unità nessun dirigente del Pci aveva scritto qualche articolo, qualcosa che avesse a che fare con la domanda angosciosa che militanti, da un lato, e storici, dall’altro, si ponevano: ma è morto il comunismo? Io risposi a quella curiosità così:” Il comunismo è morto e sepolto. Solo il Pci non lo sa”. Cerca di risvegliarlo, tre giorni dopo, il 12 novembre del 1989, alla Bolognina, Achille Occhetto, annunciando una possibile ipotesi di scioglimento, di liquidazione, del Pci nel tentativo di creare un nuovo partito di sinistra che proponesse una politica comunista senza più essere telecomandata da Mosca. 

Sarebbe stata, per caso, la volta buona? Vediamo. Trovai assolutamente stupefacente ed anche sorprendente (in effetti molto irritante) quell’immediato entusiasmo con il quale la corrente “migliorista” del vecchio Pci (Macaluso, Napolitano, Amendola, ecc.) accolse subitaneamente quell’intento occhettiano. Le mie perplessità erano dovute al fatto che, pochi anni prima, proprio Macaluso e Napolitano, davanti ai pur flebili proponimenti di Enrico Berlinguer di cercare di posizionare il Pci in una posizione meno prona ed appiattita sugli ordini ( e sui generosi miliardi di dollari ) di Mosca con la famosa “ via europea al comunismo” , il cui presupposto non poteva che essere un sempre maggiore distacco dal regime sovietico, s’erano scagliati contro il Segretario del Pci bollando i suoi tentativi come “eresie” che avrebbero esautorato il comunismo di ogni credibilità. Insomma se trovavi politicamente sbagliato e dannoso una minor dipendenza da Mosca del Pci , per quale strano ed arcano motivo adesso, una volta caduta Mosca e andato in frantumi il comunismo e cioè il tuo riferimento politico di sempre, invece che battere i pungi sul tavolo e porre ai militanti ed alla dirigenza il problema fondamentale del “ futuro indirizzo politico” della sinistra comunista ,ti sei immediatamente dichiarato entusiasta della semplice proposta di Achille Occhetto che , il 12 novembre 1989 alla Bolognina non tracciò alcun percorso politico nuovo, nulla che potesse costituire un indizio di quello che avrebbe dovuto essere il futuro del grande partito comunista italiano, ma solo – e sottolineo “ solo”- la proposta di un processo di scioglimento del Pci e la creazione di qualcosa di politicamente indefinito e di nuovo ? Non mi sorprese, invece, l’adesione immediata, seppur con una dose di entusiasmo in meno, il plauso immediato alla proposta della Bolognina da parte dei dirigenti del Pci appartenenti alla categoria dei “berlingueriani”. Per costoro proseguire “ comunque” un cammino politico ,seppur con un soggetto diverso dal Pci ma con l’identico “ apparato dirigenziale ed umano”, era la grande occasione , dopo le reiterate irrisioni all’evanescenza del progetto berlingueriano, per poter accreditare che la fantomatica “ via europea al comunismo”, la fantomatica “terza via al comunismo” lanciata anni prima da Enrico Berlinguer e rimasta sempre al livello di propaganda politica, fosse una valida linea politica , addirittura dotata di una dose notevole di preveggenza. Era in sostanza quel che serviva ai loro interessi: perché veicolare nei militanti l’idea che fosse giusta e previdente la timida proposta di distinguo da Mosca e da Stalin che Berlinguer aveva lanciato ma mai concretamente attuato, significava non solo consentire di evitare a Berlinguer di fare i conti col suo fallimento politico ma addirittura, come infatti accadde, di riprendere , in grande stile, la riproposizione del teorema, sempre di opera berlingueriana, della “ superiorità morale della sinistra” per trasformare quel teorema in una arma politica, etica e sociale che poteva essere utilizzata contro ogni avversario politico come una clava. Questo è uno snodo importante, perché è così che nasce la mitizzazione di Berlinguer, il quale non solo aveva anticipato i tempi – ecco la teoria giustificazionista dei suoi santificatori – mettendo sul tappeto il problema dei rapporti con Mosca e la terza via al comunismo, ma che aveva anche nella sua preveggenza, realizzato quella teoria della superiorità etica e della diversità morale dei comunisti rispetto agli avversari politici. Che poi sono ancora oggi le motivazioni che determinerebbero, secondo i berlingueriani, l’immediata “beatificazione” di Enrico Berlinguer. Due mistificazioni della realtà, perché Berlinguer non ha mai previsto la caduta del Muro, né ha mai predicato una perfetta autonomia da Mosca, ma ha solo “fatto cenno orale” ad una ipotetica ed eventuale politica di “minor assoggettamento” del Pci da Mosca. E poi perché Berlinguer , con quella sua trovata ( sia consentito dirlo, ma dal sapore di stampo razzista ) sulla “diversità antropologica” poi , ha cucinato, in salsa razzista , meschina propaganda mentre, con una dose stupefacente di ipocrisia e di doppiezza togliattiana, contava i finanziamenti illeciti di Mosca , creando così una prosecuzione eterna della guerra civile italiana, una posizione, dunque, altamente non solo divisoria ma anche deleteria per il Paese, del quale a Berlinguer, dunque, non importava nulla . E’ mai possibile, è minimamente credibile che un partito nel quale si discute, stando a quello che ha sempre detto il suo “ appartnick” , di ogni pur minima idea , così pieno zeppo di pensatori, di intellettuali, di scrittori, una partito dove le riunioni e le decisioni sono pane quotidiano come il Pci assista, invece, inerme, silente, imperturbabile, a tutti questi eventi storici senza mai prendere una posizione politica adeguata all’evolversi dei fatti stessi? E invece il Pci decide di fare proprio questo, troppo ripetutamente ed in troppe occasioni storiche perché il “ dopo crollo del muro di Berlino ” sia considerato “un caso non voluto” : decide di non decidere, ma tutte le volte agisce in modo da “derubricare” tutti questi eventi epocali dei quali ho fatto cenno, compreso ovviamente anche la tragedia rappresentata dal crollo del comunismo, a semplici e trascurabili “ incidenti di percorso”, fattarelli che non devono né possono indebolire o incrinare il partito nella sua essenza storica, cioè di essere sempre e solo la presentabile armata ( che somiglia al più famoso “ gioiosa macchina da guerra” di Occhetto del 1994) istruita e costruita per puntare comunque alla conquista del potere. Una volta come “longa manus” dell’Urss. Oggi senza l’Urss. Dietro dunque quella apparente confusione, dietro quella incredibile forma di impreparazione, esiste invece un disegno preciso, chirurgico, mirato, maturato ben prima della fine del comunismo. Un vero e proprio “sistema criminale” diretto alla conquista del potere in Italia in assenza di consenso popolare, redatto con i complici di quel progetto criminale e cioè: la Magistratura e la informazione. Non era complicato prevederne la strategia, perché intanto dalla guerra fredda contro il vecchio complice del comune regime di potere, la Dc, il Pci era già riuscito ad ottenere, dietro la minaccia dell’eversione della piazza, due favolose “amnistie” che mettevano al riparo da tutti i reati penali il Pci ed il suo apparato. Poi perché l’illecito ed illegale “sistema di potere” instaurato dal Pci sul “suo territorio” del Centro Nord del Paese, basato su un generalizzato e criminogeno voto di scambio di dimensioni planetarie, era simulato dall’apparenza legale del sistema delle “cooperative” rosse, dalle loro banche ed assicurazioni. Perché invece la Dc aveva dovuto fare i conti con la malavita per controllare il proprio territorio , cioè il Sud d’Italia, con la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la sacra corona, etc. Era quello dei vischiosi ed opachi rapporti tra la Dc e le mafie locali, costruire demonizzazione giudiziarie basate sulla delazione e sull’uso del “pentitismo” e della “dissociazione” dei mafiosi, quello il tallone d’Achille al quale mirare per uccidere il vecchio complice, per sbarazzarsene e rimanere padroni d’Italia. L’azione dell’attuazione del progetto criminale partì quasi contemporaneamente da due casematte del potere giudiziario comunista: dal Tribunale di Palermo e da quello di Milano. Rispettivamente dai primi giorni del 1993, con i processi Andreotti, Mori, Mannino, Carnevale, Dell’Utri il Tribunale di Palermo a gestione Gian Carlo Caselli, nel febbraio del 1992 con la lunga stagione di Mani Pulite, il Tribunale di Milano. Un assalto alla diligenza sferrato da due fazioni, una al Sud ed una al Nord ma che miravano allo stesso fine criminale e criminogeno: quello di fucilare per via giudiziaria tutti gli avversari del Pci onde dividere il bottino. Bottino di guerra che era il Governo del Paese, riservato agli eredi del Pci anche senza elezioni politiche vinte alle spalle, purché sottoposti all’autorità della Magistratura per debito di riconoscenza e di complicità. Di conserva, il “quarto potere”, la stampa e l’informazione, che asservendosi al nuovo potere ed incensandolo, si assicurava due vantaggi: prima di tutto una captatio benevolentiae necessaria per tranquillizzare gli editori in questione e poi l’occupare lo scranno di Goebbels, cioè diventare il potere di indottrinamento di un popolo destinato alla sudditanza. A Milano vi fu l’esecuzione in piazza, con fucilazione di Craxi, del Psi e del pentapartito, a Palermo l’esecuzione della vecchia Dc andreottiana.

Mancava solo un tassello: la mafia. Quanto alla mafia, alla camorra ed a tutte le mafie locali, l’offerta del Pci e della Magistratura di una comune strategia, di un patto criminale comune che stravolgesse i vecchi equilibri e ne garantisse di nuovi e di diversi, specie dopo la decapitazione della mafia corleonese avvenuta con la cattura di Provenzano e di Riina, la sostituzione di una vecchia classe politica ormai inservibile, gli offriva vantaggi consistenti. In primo luogo l’accaparramento della Procura di Palermo, dove veniva allontanato il vecchio Procuratore Giammanco, notoriamente vicino alla Dc andreottiana, ormai distrutta, con il Procuratore Gian Carlo Caselli, di fede comunista, colui che alla mafia aveva regalato, come messaggio intimidatorio e di avvertimento , per indurla all’accettazione dell’accordo, l’incriminazione del Magistrato Corrado Carnevale, con l’accusa di aver demolito le sentenze contro i mafiosi e che poi, una volta che quel progetto criminale fu attuato, la Cassazione assolverà in maniera totale e l’assunzione al ruolo dei “ sostituti” di persone notoriamente disposte a favore del “progetto criminale” in questione, come Ingroia, come Scarpinato, come Di Matteo, ecc. Poi le ha consentito di sterminare, di uccidere tutti i Magistrati ed i carabinieri che combatterono veramente la mafia (Falcone, Borsellino, Chinnici, Caponnetto, Della Chiesa, Lombardo, ecc.) e che stavano quasi arrivando a distruggerla del tutto. E con la loro morte, le ha anche consentito di far nascere anche una nuova forma di mafia, quella “dell’antimafia”, dove trovano rifugio tutti gli architetti costruttori di complotti e trame eversive, tutte teorie mai comprovate, che hanno lo scopo di distrarre l’attenzione dalla vera mafia, così consentendole di sopravvivere e di delinquere entro certi accettabili limiti. Così quel 9 novembre 1989 poteva non essere solo la data ufficiale del crollo del comunismo, ma diventare, come diventò, l’occasione buona per la conquista del potere in Italia proprio perché la fine della guerra fredda mondiale – che metteva in crisi gli equilibri da guerra fredda italiani - metteva il Pci , occhiuto complice di una tanto lunga e tanto illegale stagione di “sistema di potere condiviso con la Dc ”, in libertà dai vecchi patti omertosi e dunque in una posizione in cui avrebbe potuto ricattare il vecchio e logoro complice , la Dc. L’ansia della presa del potere, che sempre l’Italia gli aveva negato per via democratica, costituì una “deriva politica” irresistibile ed inarrestabile perché si presentava come “salvifica” per quel Pci che, a voler essere stringato, altro non era stato se non la “residentura italiana” della potenza sovietica. Spacciato subdolamente dai dirigenti del Pci ( Violante, Napolitano, Natta, Macaluso, ecc) come uno dei tanti possibili “ incidenti di percorso” davanti al quale decidere una strategia salvifica , invece che fare i conti con il crollo della loro gigantesca speranza , di quel “ mondo migliore” il cui mito li aveva sostenuti, ammaliati, infervorati ed anche assai generosamente ed illegalmente finanziati , il Pci preferì far finta di niente, negare l’evidenza, spostarsi su posizioni socialdemocratiche , qualcuno ebbe anche la cinica sfrontatezza di affermare di non “ essere mai stato comunista”. Così quella caduta, che fu una tragedia sociale e storica, fu colta da quella dirigenza come fosse invece un’occasione da sfruttare alla grande per una conquista del potere in Italia. Davanti a due strade possibili, dunque, da un lato quella impervia, faticosa, di ricostruire una politica comunista nuova che si basasse sulla simbiosi di due entità la cui totale assenza fu la causa principale del crollo del Muro, e cioè la “ libertà” e la “uguaglianza” e dare dunque una parvenza di credibilità e di onestà alla famosa e mai indicata “ via europea al comunismo” tanto propagandata da Berlinguer e dall’altra quella , semplice e facile, di costruire un progetto, vedremo se più o meno “ criminale” ( per usare la terminologia tanto cara a Travaglio ed alla sua armata ), con il sistema giudiziario comunista , scelsero la seconda soluzione. Come negli anni della guerra fredda quando il Pci aspettava Stalin e le truppe di Tito per far irrompere in Italia il famoso “sol dell’avvenire”, così anche negli anni novanta del secolo scorso il Pci, per ingordigia di potere, rimase affascinato dall’idea fissa della “potenza straniera” che arriva in suo soccorso e la conduce al potere anche senza consenso popolare. Poteva forse Violante stringere la mano di Sogno, davanti a Cossiga, quando il progettino giudiziario era ormai bello che pronto?

IL MORALISMO DEI TIFOSI.

Casta per sempre, così i politici si sono tenuti tutti i loro privilegi. Indennità nascoste. Massaggi e viaggi gratis. Infermieri a disposizione anche per i genitori. Abusi di portaborse. E al lavoro solo tre giorni alla settimana. La bufera mediatica è passata, ma poco o nulla è cambiato, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 giugno 2016 su "L'Espresso". I senatori e i loro familiari non hanno mai paura di sedersi sulla sedia del dentista. Non perché più coraggiosi degli altri mortali, ma perché il conto, loro, non lo pagano mai. Ci pensano gli italiani: grazie all’assistenza sanitaria integrativa ogni parlamentare può avere rimborsi fino a 25 mila euro nell’arco di un quinquennio. Un plafond che comprende anche «lo sbiancamento di denti non vitali (250 euro per dente)» e «corone in oro e porcellana» a 1.150 euro l’una. Se il Censis segnala che 11 milioni di concittadini rinunciano alle cure a causa della crisi economica, e l’Ufficio di bilancio del Parlamento ha spiegato che il 7,1 per cento evita di farsi visitare perché i costi delle prestazioni sono troppo alti, lo stesso Parlamento regala a ogni senatore della Repubblica un plafond supplementare da 1.500 euro l’anno per farsi «una depressoterapia intermittente». Una somma che può essere spesa anche per «un’idrochinesiterapia» (si fa in piscine termali) e pure - se si tiene alla linea, l’estate ormai è alle porte - per «drenaggio linfatico manuale». In passato i Radicali avevano raccontato che ai deputati vengono rimborsati persino sedute di agopuntura e trattamenti shiatsu. Ebbene, se le proteste a nulla sono servite e i rimborsi per i massaggi sono ancora lì, nessuno sapeva che il tariffario di Palazzo Madama prevede anche «sedute individuali di training per dislessici», e che prevede risarcimenti di quasi mille euro al mese per pagare un infermiere in caso di bisogno (il servizio si può estendere anche ai genitori del senatore). Il senatore può presentare anche fattura per un paio di scarpe ortopediche da 600 euro (qualcuno giura che ce ne sono di molto eleganti in pelle), e se colto da attacchi d’ansia può spendere 5 mila euro l’anno per sedute dallo strizza-cervelli. Ecco. Il tariffario dedicato ai senatori, datato maggio 2015, è solo una delle evidenze che dimostrano come, nonostante gli scandali infiniti, le proteste dell’opinione pubblica, il ludibrio internazionale e le batoste elettorali, i privilegi della "casta"sono stati appena scalfiti. È vero: le province e i costi per gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri sono stati cancellati, i vitalizi per gli attuali parlamentari finalmente aboliti, ma per il resto prebende e vantaggi assortiti non sono stati toccati. «Il cash a disposizione dei parlamentari è rimasto praticamente identico», spiega la grillina Laura Bottici, questore al Senato che da tre anni sta ancora tentando di districarsi nella bolgia di sconti e stratagemmi (tutti leciti) con cui gli eletti possono gonfiare busta paga e aumentare le loro franchigie. Andiamo con ordine. La busta paga della Bottici è identica a quella dei suoi colleghi: l’indennità parlamentare è di 5.246 euro netti al mese. Se l’eletto fa anche un altro lavoro, scende un po’, a 4.750 euro. Se i grillini si sono decurtati lo stipendio, sono decine i deputati che mantengono la doppia professione. Nessuno stress: a Montecitorio e Palazzo Madama ci si va pochissimo, e il tempo libero non manca. «In questa legislatura in Senato si lavora da martedì pomeriggio, quando partono le convocazioni in aula e commissione, fino a giovedì mattina. Per interrogazioni o question time si arriva a dopopranzo: ma il senatore non ci va quasi mai, e il giovedì alle 14 parte e torna a casa» ragiona la Bottici. «Pure le commissioni sono sempre deserte: solo quando si vota l’affluenza aumenta, perché la maggioranza non vuol rischiare di andare sotto. Anche noi andiamo poco in aula, lo ammetto: le discussioni sono del tutto inutili, è la regolamentazione che va cambiata al più presto». È probabilmente d’accordo con lei Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, almeno a spulciare le statistiche Openpolis: in tre anni deputato-fantasma di Forza Italia ha votato 86 volte su 16.365, con un tasso di assenza pari al 99,51 per cento. A Montecitorio tra i meno presenti ci sono l’altro forzista Rocco Crimi (che ha l’8 per cento di presenze), l’ex Pd Francantonio Genovese (assenze forzate le sue, visto che è stato arrestato nel maggio del 2014), l’alfaniano Filippo Picone (che ha un invidiabile 82 per cento di assenze), seguito a ruota da Giorgia Meloni, oberata leader dei Fratelli d’Italia che vanta un tasso di assenteismo del 76,4 per cento. Recordmen in Senato sono invece l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e il capo di Ala Denis Verdini: il primo s’è presentato in aula lo 0,91 per cento delle volte, il secondo è stato assente l’88 per cento delle sedute. L’assenteismo è spesso giustificato dall’inutilità della presenza fisica. In effetti, dai tempi dei governi Berlusconi l’interventismo governativo ha trasformato i parlamentari in meri pigiatori di bottoni, obbligati a un ozio strapagato e a una noia dorata. È un fatto che le leggi, principale attività per la quale vengono eletti i Nostri, sono ormai appannaggio quasi esclusivo dell’esecutivo: dal 2013 Camera e Senato hanno approvato in tutto solo 36 leggi di iniziativa parlamentare, mentre ne hanno approvate 176 di iniziativa del governo. In media meno di un dispositivo al mese, contando anche norme sull’equilibrio di donne e uomini nei consigli regionali, l’istituzione del "Premio Biennale Giuseppe Di Vagno" e la nascita del "Giorno del Dono" fortemente voluta dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Un po’ poco, forse, per chi all’indennità aggiunge una diaria forfettaria da 3.503 euro nette al mese, che serve ai deputati per sostenere le spese di soggiorno a Roma (viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza, ma un eletto, anche se partecipa al 30 per cento delle votazioni nell’arco di una giornata, è considerato presente). Al gruzzolo vanno aggiunti altri 3.690 euro, sempre netti, come rimborso necessario a garantire il rapporto tra eletto e il suo collegio. Di quest’ultima somma il 50 per cento viene girata direttamente in busta paga, l’altra metà a piè di lista. Può essere usata per pagare collaboratori e consulenze, organizzare convegni e qualsiasi altro «sostegno alle attività politiche». Al Senato il sistema è diverso: «Oltre l’indennità abbiamo rimborsi pari a 9.330 euro al mese, tra diaria, spese generali e quelle per l’esercizio del mandato. Una delle cose più assurde è che la parte che bisogna rendicontare (solo 2.090 euro, ndr) se non si riesce a spenderla per intero entro la fine del mese, può essere "recuperata" prima della fine dell’anno», commenta il questore. «Tutti soldi, si badi bene, non tassati». Matteo Renzi sa bene che il tema degli stipendi-monstre dei parlamentari è uno dei leitmotiv dei movimenti anti-sistema, e non manca occasione di ricordare che la riforma costituzionale prevede un taglio drastico dei senatori (oggi sono 315, ne sopravviveranno 100) e l’eliminazione dell’indennità per chi siederà sugli scranni di Palazzo Madama. Già: il nuovo Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci che prenderanno solo lo stipendio dall’ente di appartenenza, ma godranno dell’immunità parlamentare. Se ad ottobre vincessero i Sì e la riforma firmata da Maria Elena Boschi entrasse in vigore, i costi generali della struttura secondo uno studio della Ragioneria Generale si ridurrebbero però di appena 9 punti percentuali. Complessivamente il Senato, novello ente inutile, continuerà a costare poco meno di mezzo miliardo di euro l’anno. La metà di quanto costa Montecitorio (nonostante tagli e sforbiciate la Camera pesa ancora un miliardo di euro l’anno sull’erario) e il doppio dei costi del Quirinale, casa del capo dello Stato Sergio Mattarella e altro palazzo che gli italiani continuano a pagare a carissimo prezzo. Per il 2016 la spesa complessiva effettiva sarà pari, si legge nel bilancio di previsione», a 236 milioni di euro, «in diminuzione del 2,15 per cento sul 2015», e di un solo milione sul 2014. Dal 2007, anno in cui il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella evidenziò come la corte presidenziale abitata da centinaia di corazzieri, poliziotti, funzionari e burocrati costasse quattro volte la reggia di Buckingham Palace, è stata tagliata - in termini assoluti - di appena quattro milioni di euro. Nonostante la riduzione del numero del personale, l’aumento costante del costo delle pensioni fa si che il Quirinale costi il doppio dell’Eliseo, e quasi dieci volte la presidenza tedesca. Nulla sembra possa modificare neppure il destino dei portaborse. I deputati possono usare il 50 per cento della diaria per pagare lo stipendio ai propri collaboratori, ma in molti continuano a farne a meno per intascare tutto il cucuzzaro, preferendo rendicontare altre spese. Altri assumono segretari con stipendi da fame. Se la Bottici ricorda che è uso comune girare soldi al partito in cambio di un collaboratore di fiducia (in questo modo gli uffici di Palazzo Madama non sanno nemmeno che tipo di contratto ha), Valentina Tonti, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari chiarisce subito che anche in questa legislatura per i portaborse «la situazione non è affatto cambiata». Non esistono infatti regole chiare per l’assunzione, né contratti regolamentati come avviene nel resto d’Europa. «Esistono ancora stagisti che fanno i portaborse senza essere pagati neanche un euro, ragazzi che sono contrattualizzati da un solo deputato ma che lavorano per più parlamentari, altri pagati - almeno in parte - al nero. Nessuno denuncia gli abusi, nemmeno a noi dell’associazione: tutti hanno paura di perdere il posto e di non trovarlo più», dice la Tonti. Com’è possibile che il ricatto occupazionale sia messo in atto nei palazzi del potere nonostante inchieste e scandali a catena? «Non lo so. So solo che qualche mese fa siamo riusciti a far approvare alla Camera un ordine del giorno trasversale, che impegnava il palazzo a studiare nuove norme. Finora non abbiamo avuto riscontri, nonostante a parole sia il presidente Laura Boldrini sia i vari partiti siano totalmente d’accordo». A parole. Nei fatti ad oggi è segreto perfino il numero complessivo delle assunzioni, e che le tipologie contrattuali siano avvolte nel mistero più fitto. L’unica certezza è che il sistema incentiva il parlamentare a risparmiare più possibile sul collaboratore, in modo da intascarsi più denaro possibile. Lo stipendio medio di chi è riuscito a strappare un contratto "normale" si aggirava fino a pochi mesi fa sui 1.100 euro al mese, ma adesso, a causa del Job’s Act, il tempo determinato è diventata un’assunzione più onerosa, «e il netto» conclude la Tonti «si è abbassato». Torniamo a chi, dell’Irpef, se ne frega. La mole di integrazioni economiche per i parlamentari, nell’anno di grazia 2016, sembra infinita. I deputati e i senatori più fortunati continuano ad arrotondare lo stipendio con le indennità di carica: i membri del consiglio di presidenza e i presidenti di commissione sono quelli che le hanno più alte. A Montecitorio tutti godono di un plafond supplementare di 1.200 euro l’anno per il rimborso delle spese telefoniche (fino al primo aprile 2014 era addirittura di 3.980 euro), mentre altri 1.500 euro l’anno sono destinati all’acquisto di un computer o un tablet. Al Senato c’è una voce simile: 2.500 euro per ogni legislatura, «ma io ci ho rinunciato, il pc me lo sono comprato da sola. Così come rifiuto di prendere i soldi che mi spetterebbero per l’esercizio del mandato», chiosa la Bottici, che eliminerebbe con un tratto di penna le norme che permettono di dare somme forfettizzate, in modo da obbligare chi chiede rimborsi spesa a mostrare fatture e pezze d’appoggio. Come dalla nascita della Repubblica, anche nella XVI legislatura i parlamentari hanno privilegi eccezionali sui trasporti: un must della casta. La tessera che gli permette di viaggiare gratuitamente, e in prima classe, su treni, autostrade e aerei in tutto il territorio nazionale non è stata abolita. «Viaggiamo gratis anche se dobbiamo andare al compleanno di nostra nonna», spiegò Carlo Monai a "l’Espresso" qualche anno fa, un ex democrat che chiedeva al Parlamento di mettere controlli affinché fossero pagate solo le trasferte legate all’incarico pubblico. Carlo Fraccaro, deputato del M5S, aggiunge oggi un altro dettaglio: «Per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra Fiumicino e Montecitorio, è previsto un rimborso spese trimestrale di 3.323 euro per coloro che vivono entro 100 chilometri dall’aeroporto più vicino alla residenza, e di quasi 4 mila euro se la distanza da percorrere supera i 100 chilometri». Ci sono anche altri vantaggi che la legislatura non è riuscita (?) ad eliminare: come la moda di collezionare, a spese del contribuente, miglia Alitalia da utilizzare per viaggi all’estero o quelli di amici e parenti. Senato e Camera fanno riferimento all’agenzia americana Carlson Wagonlit, con sede in Minnesota, e quasi tutti i parlamentari sono frequent flyer Alitalia. Nessuno vieta loro di scegliere altre compagnie, ma i politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devono anticipare di tasca propria (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall’altro perderebbero i punti fedeltà da accumulare sulla carta "Millemiglia". Punti che sono personali, e che vengono usate dal deputato come meglio crede. Nel 2014 i deputati grillini in un ordine del giorno hanno proposto che Montecitorio valutasse «l’opportunità di avviare una trattativa per riformulare i termini dell’accordo della Camera con Alitalia», in modo da attribuire non al singolo parlamentare ma all’amministrazione i punti maturati con i biglietti aerei pagati con fondi pubblici. Finora, la proposta è rimasta lettera morta. La vita a scrocco è un must indistruttibile. Non c’è scandalo che tenga: se Monai raccontò che parcheggiare al parking di Fiumicino, al silos "E", costa agli italiani 293 euro al mese e al parlamentare solo 50, se i mitici barbieri sono ancora lì (passati da 7 a 4, insieme ai quasi mille dipendenti vedranno una riduzione del loro stipendio a partire dal 2018: a fine carriera potranno comunque arrivare a guadagnare 99 mila euro l’anno), i deputati possono beneficiare - se vogliono comprarsi un’auto nuova - di sconti proposti dalle case automobilistiche, riservati esclusivamente a loro. Sarebbe ipocrita, però, non sottolineare che qualche passo verso la sobrietà è stato comunque fatto. Le auto blu sono calate drasticamente: il Senato - al netto della scorta del presidente Piero Grasso - ha solo sette Audi A6 più quattro auto elettriche, tutte a noleggio; mentre la Camera gestisce nove auto di cilindrata media, più due van monovolume per le delegazioni. «Un parco macchine ridicolo per un’istituzione così importante», protesta un deputato del Nuovo Centro Destra, che ricorda con nostalgia la trentina di berlina 2.4 di due legislature fa. Passasse il referendum sul disegno di legge costituzionale della Boschi, oltre gli stipendi dei senatori verrebbero tagliati con l’accetta le indennità dei consiglieri regionali, in qualche caso più che dimezzate. Il governo Monti, con un decreto, fissò un tetto massimo di 8.500 euro al mese. Netti. Un limite che, vista la crisi economica, resta comunque altissimo: con la vittoria del Sì i consiglieri prenderebbero automaticamente quanto il sindaco del capoluogo della regione di appartenenza: per fare un esempio, in Calabria i consiglieri passeranno da oltre 7 mila euro netti ai 2.500 euro appannaggio del sindaco di Catanzaro. Una mazzata, secondo Renzi. «Spiccioli», per chi considera la riforma un immondo papocchio che non vale «lo stravolgimento della Carta e della nostra democrazia».

Deputati, basta accettare regali costosi. Ora c'è il codice etico. Ma non prevede sanzioni. La Camera si prepara a varare un documento che chiede agli onorevoli di rifiutare doni dal valore superiore ai 250 euro. Ma chi non lo rispetta riceverà solo una segnalazione sul sito internet di Montecitorio, scrive Susanna Turco il 25 marzo 2016 su "L'Espresso". I deputati facciano la cara grazia di non accettare più regali costosi, almeno "nell’esercizio delle loro funzioni". Non che sia una rivoluzione: più che altro è un argine, un appello alla responsabilità dei parlamentari. E’ questa la novità principale del Codice etico che la Camera si appresta a varare, introducendo – sul modello del Parlamento europeo - un limite di 250 euro a "doni e benefici analoghi", oltre il quale il deputato "si astiene dall’accettare", c’è scritto proprio così. Un consiglio, un'indicazione, più che un obbligo: anche perché, allo stato, non sono previste vere e proprie sanzioni per chi continuasse a fare come prima. D’altra parte è un Codice etico, mica una legge. Il testo, appena approvato dalla Giunta del Regolamento, può essere ancora modificato (il termine per gli emendamenti è l’8 aprile), ma dovrebbe venir approvato come "protocollo sperimentale" entro il mese prossimo. Oltre alla preghiera dei regali low cost, ma si prevede una serie di comunicazioni obbligatorie, come quella relativa a tutte le cariche e uffici che si ricoprono e ricoprivano all’epoca della candidatura, le dichiarazioni di spesa per la campagna elettorale, quelle sugli eventuali finanziamenti, la situazione patrimoniale, i redditi. Sarà un "Comitato consultivo sulla condotta dei deputati" a vigilare su eventuali violazioni, ma qui appunto è il bello: per chi non rispetterà il codice non c’è una sanzione, c’è l’esposizione alla pubblica gogna del web. Una punizione politico-mediatica, meglio che niente: gli inadempienti e le violazioni saranno resi pubblici sul sito internet della Camera. "Così si finisce per indebolire la portata dell’intero testo", si è lamentato l’altro giorno in Giunta il grillino Danilo Toninelli. I Cinque stelle, come pure Forza Italia, vorrebbero che almeno si applicassero le stesse sanzioni previste per chi provoca disordini in Aula, come la sospensione del deputato dai due ai quindici giorni. Ma non è così semplice. O meglio non tutti ritengono si possa fare. Secondo l’orientamento emerso sia dall’autore della norma Pino Pisicchio, che dalla presidente della Camera Laura Boldrini, se si inseriscono delle sanzioni, bisogna modificare il Regolamento della Camera. Non si può semplicemente estendere l’applicazione delle norme che già ci sono. Questo, però, significherebbe far passare il Codice etico per l’approvazione dell’Aula di Montecitorio: "E il rischio andare in Aula è finir per non fare più niente", confida lo stesso Pisicchio. Si sa come vanno queste cose: già se la norma diviene efficace così come è, si può chiamarla una vittoria. E allora meglio comunque fare qualcosa, è la logica. Anche perché c’è poco tempo: giusto ad aprile un organismo della Corte Europea (l’acronimo è "Greco"), verrà a verificare i livelli di corruzione in Italia, e uno dei requisiti richiesti riguarda appunto le norme di comportamento dei deputati. Sarebbe spiacevole incorrere in una procedura di infrazione. L’altro requisito richiesto dal Greco, che in verità è ancora più complesso da attuarsi, riguarda la regolamentazione dell’accesso a Montecitorio dei lobbisti. Una questione strettamente connessa con il Codice etico dei parlamentari, come si può intuire. E’ il secondo testo all’esame della Giunta del regolamento, e dovrebbe essere approvato in tandem con il primo. Anche se taluni fanno resistenze, argomentando che servirebbe una vera e propria legge di regolamentazione delle lobbies (che peraltro è in discussione al Senato). L’ambizione ultima, per quel che riguarda la Camera, sarebbe quella di chiudere l’era degli assalti ai corridoi di Montecitorio – tipo mercato delle vacche – quando si discute di legge di stabilità e altri provvedimenti delicati e complessi. E’ sempre stato così, a conseguenza di un regime che di fatto, nei decenni, si è rivelato odiosamente irriformabile. Ma a quali luoghi i lobbisti potranno accedere o meno, lo stabilirà l’Ufficio di presidenza in un secondo momento. Per ora, la Giunta per il Regolamento punta ad approvare un protocollo di regolamentazione: i lobbisti dovranno registrarsi (non è ammesso chi ha sentenze definitive per alcuni reati), dichiarare quali interessi sponsorizzano e, due volte l’anno, pena la cancellazione dal registro, fare una relazione su quali parlamentari abbiano incontrato, quali obiettivi raggiunto, con che "mezzi", e quali spese abbiano sostenuto. La norma al momento riguarda anche gli ex parlamentari che svolgano attività di lobbing. Difficile immaginare un controllo serrato: ma del resto anche una innovazione come quella progettata in questi giorni alla Camera sarebbe un debutto assoluto, nel Parlamento italiano.

Il moralismo dei tifosi. Troppe volte chi fa politica, in Italia, si comporta come gli ultrà del calcio, che hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo, scrive Giorgio Mulè il 29 aprile 2016 su "Panorama". Che poi, in cuor loro, manco i tifosi della Juventus credono fino in fondo alla filastrocca che canticchiano dopo ogni vittoria: "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi. Perché va bene il quinto scudetto consecutivo e il sano sfottò ai rosiconi, però loro per primi sanno che Calciopoli non si cancella, che gli "aiutini" e le "sviste" degli arbitri hanno influito sul corso dell'ultimo campionato. Però sono tifosi, appunto. E per loro stessa natura i tifosi sono fanatici, spesso hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo e sanno ben nascondere la realtà che non gli piace. Ma chi fa politica può essere tifoso? Chi ha l'onere di amministrare un Comune, una Regione o il Paese può davvero essere credibile se ripete in modo stucchevole "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi"? E se mentre lo ripete l'ipocrisia lo seppellisce? E se i comportamenti che lui rimprovera all'avversario sono esattamente gli stessi che lui perdona o fa finta di non vedere tra chi "gioca" nella sua squadra? Non parlo di falli di reazione, di sfoghi improvvisi. Ma di unaincultura politica purtroppo radicata. A Roma il Pd si è scatenato contro la candidata a sindaco dei 5 stelle. Lasciamo perdere il video farlocco dell' Unità che la voleva tra i sostenitori di Berlusconi ("Non è informazione, ma una vergogna" ha correttamente detto il presidente nazionale dell'Ordine dei giornalisti, anche a fronte delle mancate scuse del quotidiano) e dedichiamoci agli attacchi recenti del partito di Renzi: prima hanno accusato la Raggi di aver "nascosto" il suo praticantato legale presso lo studio Previti, poi di essere stata, sempre in veste professionale, cooptata nel cda di una società legata al braccio destro dell'ex sindaco Gianni Alemanno. Senatori e deputati del Pd hanno scatenato una tempesta di critiche ferocissime al grido di #omertàomertà o #raggiri, con dichiarazioni di fuoco su giornali e televisioni. Spostiamoci di 600 chilometri a nord. A Milano il candidato del Pd Beppe Sala è stato finora inchiodato a una serie di omissioni ben più gravi rispetto a quelle della Raggi per non parlare delle spericolate arrampicature sui conti Expo: ha dichiarato "sul mio onore" di non avere una casa in Svizzera e ha pure dimenticato di specificare di non aver solo un "terreno sito nel Comune di Zoagli" ma anche una bella villa. Avete per caso letto non dico un tweet al vetriolo, ma un felpato rimbrotto dei compagni di partito? Ovviamente no. La doppiezza del tifoso vale anche per gli indagati: si pretendono e ottengono le dimissioni del ministro Maurizio Lupi non indagato e si tiene al suo posto il sottosegretario Vito De Filippo che, a parte essere indagato nell'inchiesta Tempa rossa, è politicamente indifendibile al pari di un nugolo di amministratori lucani neppure sfiorati da un provvedimento di sospensione temporaneo dal partito. Vedremo adesso l'atteggiamento di lorsignori dopo l'inchiesta che vede il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, sotto inchiesta per concorso esterno in associazione camorristica. Vedremo come sarà declinata stavolta l'arte dei "migliori", l'antica supponenza che accomuna Renzi oggi, D'Alema ieri e Prodi l'altro ieri: cambia la specie nei secoli, ma la trasmissione del Dna è identica. Eccoli lì tutti e tre a riempirsi la bocca, quando conviene loro, di presunzione di innocenza. La presunzione abbonda, quanto all'innocenza meglio lasciar perdere.

Il Partito Democratico peggio della mafia? A contar gli indagati e gli arrestati sembra di sì!

Brescello sciolto per mafia, la dinastia di sinistra dei Coffrini e il condizionamento del clan delle “persone perbene”. Il paese di Peppone e Don Camillo è stato amministrato dal 1985 da Ermes (Pci) e poi dal figlio Marcello (prima assessore all'Urbanistica e poi primo cittadino). Negli anni tanti gli episodi controversi che hanno caratterizzato la cittadina emiliana: nel 1992 uno dei rari omicidi di 'ndrangheta, nel 2003 l'intervista del sindaco "padre" che difende Grande Aracri ("Qui si è comportato bene") e nel 2014 quella del sindaco "figlio" che dice il boss "è educato". Il Pd ne ha chiesto le dimissioni solo nel 2016, scrive David Marceddu il 20 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Hanno amministrato Brescello per 30 anni i Coffrini. Ma ora lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del loro comune chiama in causa le loro scelte amministrative: in attesa di capire che cosa dice la relazione segretata che ha portato alla scelta del consiglio dei ministri, il governo parla in un comunicato di “accertate forme di condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità organizzata”. “Ho la coscienza a posto, sono sicuro del mio operato e di quello di mio padre Ermes”, spiega Marcello Coffrini, sindaco fino a pochi mesi fa. I due ex primi cittadini non risulta che siano mai stati indagati in inchieste penali, eppure, già da tempo, erano finiti al centro di polemiche politiche per i loro giudizi espressi pubblicamente su Francesco Grande Aracri di Cutro. Per intendersi, Nicolino, il più famoso dei fratelli Grande Aracri, è considerato punto di riferimento della ‘ndrina reggiana sgominata dall’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Ma torniamo a Brescello, paese di 5mila anime in cui nel 1992 si verifica uno dei rari omicidi di ‘ndrangheta in terra emiliana: quello di Giuseppe Ruggiero, freddato in una guerra tra cosche. Era invece il 1985 quando Ermes, avvocato amministrativista di fama, diventa primo cittadino per il Partito comunista italiano: in pratica un erede ideale del Peppone di Guareschi che da queste parti si scontrava con Don Camillo. Cade il muro di Berlino, sparisce la falce e il martello, inizia la seconda repubblica, ma Ermes rimane al suo posto sino al 2004, quando lascia il testimone a Giuseppe Vezzani, sempre in quota Pd. Ma la dinastia non è conclusa: Marcello, figlio di Ermes, anche lui avvocato, diventa assessore all’urbanistica, posto chiave in qualunque giunta. E rimane lì per 10 anni durante i quali, secondo quanto trapela dalla relazione che ha portato allo scioglimento, alcune scelte urbanistiche avrebbero in qualche modo favorito uomini vicini proprio ai Grande Aracri. Nel 2014 infine diventa sindaco lui stesso, 10 anni dopo suo padre: ma per Marcello sarà una esperienza breve. A settembre dello stesso anno arriva la vicenda dell’intervista su Francesco Grande Aracri, anche lui condannato per mafia e da tempo residente a Brescello, e i riflettori della stampa si accendono sul paese. E il destino politico di Marcello è segnato. La figura di Francesco Grande Aracri torna alla ribalta diverse volte nei 30 anni della dinastia Coffrini. In una intervista del 2003 il sindaco Ermes parla di Grande Aracri, che allora era già stato arrestato, ma ancora non era stato condannato per mafia: “A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia e si è visto assegnare dei lavori dal Comune”. In quello stesso anno, un barista brescellese racconta di essere stato minacciato da persone che gli chiedevano il pizzo. Immediatamente appende un cartello con scritto “Chiuso per mafia” e abbassa le serrande. Ermes reagisce preannunciando cause legali per tutelare il nome di Brescello e la revoca della licenza al barista. Poi assicura: di organizzazioni criminali “non risulta il radicamento nei nostri territori”. Ma c’è di più. Pochi giorni prima della notizia dello scioglimento, era venuto anche a galla che nel lontano 2002 (e sino al 2006) Francesco Grande Aracri e diversi suoi fratelli (ma non Nicolino) erano stati difesi davanti al Tar di Catanzaro proprio da Ermes Coffrini. “Se viene un signore e ha bisogno non gli chiedo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?”, ha spiegato Ermes Coffrini alla Gazzetta di Reggio. E il Partito democratico dov’era? A settembre 2014, come detto, scoppia la bufera su Marcello Coffrini che durante una intervista alla web tv Cortocircuito aveva definito Francesco Grande Aracri uno “molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”. Il Pd non ne chiede le dimissioni. Convoca Marcello Coffrini a un incontro di sindaci, lo sgrida, ma lo lascia al suo posto. Motivo? Coffrini non risultava, a detta dell’assemblea dei sindaci, un iscritto al partito. Un anno e mezzo dopo ci vorrà Beppe Grillo per ritirare fuori il caso: stretto dalle polemiche sulla vicenda della sindaca di Quarto, il fondatore dei 5 stelle ricorda al Pd la vicenda di Brescello. Solo allora, e siamo a gennaio 2016, il Partito democratico – che non aveva messo in discussione Coffrini neanche al momento in cui il prefetto aveva mandato una commissione d’accesso per valutare lo scioglimento – decide di darsi una mossa e impone ai consiglieri comunali iscritti di togliere la fiducia al sindaco. Non tutti obbediranno, ma a quel punto Coffrini alza bandiera bianca autonomamente e si dimette. “Non ho timori, le mie dimissioni sono tutto tranne una fuga. Non ho nessuna responsabilità di tipo penale”, spiegherà l’ormai ex sindaco.

Tutti gli indagati del Partito Democratico. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica..., scrive Lu. Ro. Il 28 aprile 2016 su “Il Tempo”. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica a carico di Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, è solo l’ultimo esempio. Prima di lui la Dda di Napoli ha messo sotto inchiesta per il medesimo reato anche uno dei simboli dell’antimafia di sinistra, l’ex parlamentare Lorenzo Diana che secondo Roberto Saviano era l’unico politico temuto dai clan. Gli stessi inquirenti ipotizzano che a Casavatore (Napoli) il clan Ferone avrebbe appoggiato alle ultime elezioni comunali anche il candidato sindaco del Pd, poi sconfitto, Salvatore Silvestri. È del gennaio scorso, invece, la notizia (smentita dal diretto interessato) del coinvolgimento dell’europarlamentare del Pd Nicola Caputo in un’inchiesta dell’antimafia sul voto di scambio. Nel luglio scorso, poi, il prefetto di Caserta Arturo De Felice ha sospeso il consiglio comunale di Villa di Briano (Caserta) dopo le dimissioni di sette consiglieri, conseguenza diretta dell'inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche al Comune che aveva portato all’arresto del dirigente comunale Nicola Magliulo, fratello del sindaco Pd Dionigi, a sua volta indagato per peculato e abuso d'ufficio perché, secondo la Dda, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi del Municipio per pulire un mobilificio a cui gli stessi camorristi avevano messo fuoco allo scopo di truffare l'assicurazione. Nel giugno del 2015, inoltre, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l'ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi. Anche lui del Pd. Corruzione aggravata dal metodo camorristico è, poi, l’accusa che pesa sul capo dell’ex sindaco di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio, mentre dello stesso reato deve rispondere l'ex primo cittadino Pd di Gricignano d'Aversa (Caserta) Andrea Lettieri.

L’esercito degli indagati del Partito Democratico. Più di 100 esponenti sott’inchiesta per vari reati, scrive Silvia Mancinelli il 27 aprile su “Il Tempo”. L’elenco degli indagati del Pd in Italia si fa sempre più lungo. Con Graziano arriviamo a quota 125. I reati sono vari, gravi e meno gravi, a seconda dei casi. Fra i più noti c’è Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd nei guai per i soldi della Margherita, fino ai «coinvolti» in Mafia Capitale: Daniele Ozzimo, ex assessore, Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina. Sempre nel Lazio troviamo Maurizio Venafro, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Andrea Tassone, non più presidente del X municipio, Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd. Nel tritacarne dell’inchiesta sulle spese pazze in regione spuntano, Esterino Montino, oggi sindaco di Fiumicino, e poi i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano, nei guai anche per altro. Ovviamente c’è Ignazio Marino, per le vicende degli scontrini e della nota onlus. Passando in Lombardia come non citare Tiziano Butturini che ha patteggiato la pena in un’inchiesta dove spunta la ’ndrangheta. E ancora, indagati a vario titolo per altre storie giudiziarie i sindaci Maria Rosa Belotti (Pero) Gianpietro Ballardin (Brenta), Mario Lucini (Como). Particolare il caso di Filippo Penati che si è avvalso della prescrizione per uscire dal processo. Altro filone sulle spese pazze vede tirati in ballo Luca Gaffuri, Carlo Spreafico, Angelo Costanzo. Scomoda inchiesta quella che vede protagonista Luigi Addisi. In Piemonte la lista degli indagati su più inchieste si apre con Maura Forte, sindaco di Vercelli, Giovanni Corgnati, Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria). A Verbania spicca il caso dell’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. A Torino figura invece il consigliere regionale Daniele Valle, Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione, la deputata Paola Bragantini e il suo compagno Andrea Stara. In Liguria, tra l’inchiesta Mensopoli del 2007, la centrale a carbone e le alluvioni poi emergono i nomi diAntonino Miceli, dell’allora sindaco di Genova Marta Vincenzi, Raffaella Paita, ex assessore alla Protezione civile, e Franco Bonanini (poi passato al centrodestra). E che dire del Veneto con l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni e il tesoriere Giampietro Marchese, entrambi nei guai per finanziamento illecito ai partiti. In Emilia Romagna i pm, a proposito delle spese pazze in Regione, hanno puntato Marco Monari, Damiano Zoffoli, Andrea Gnassi, Virginio Merola e Vasco Errani. La Toscana miete «vittime» eccellenti in diversi filoni investigativi, come gli ex assessori fiorentini Gianni Biagi e Graziano Cioni. Segue l’ex capogruppo Pd in consiglio comunale Alberto Formigli, l’ex sindaco di Firenze Leonardo Dominici, il sindaco di Siena Bruno Valentini, l’ex sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e gli assessori della stessa città Bruno Picchi e Walter Nebbiai. Le regioni rosse come le Marche e l’Umbria contano invece Gianmario Spacca, Vittoriano Solazzi e Angelo Sciapichetti, Leopoldo Di Girolamo e Fabio Paparelli. Un salto in Abruzzo con Roberto Riga, ex vicesindaco de L’Aquila. Ancora più giù, in Basilicata, dove il Partito Democratico deve fare i conti con le indagini sul governatore Marcello Pittella, oltre a Vincenzo Folino, Giuseppe Ginefra, Federico Pace, il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia. La lista è lunga assai. In Sardegna c’ha pensato Renato Soru, segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, a farsi «attenzionare» dai magistrati. Mentre in Sicilia i riflettori delle procure si sono accesi su Elio Galvagno, Mirello Crisafulli , Vito Daniele Cimiotta , l’ex senatore Nino Papania e Gaspare Vitrano . Associazione a delinquere e tentata concussione sono invece le accuse che vedono imputato il governatore Vincenzo De Luca in Campania. Indagati anche tre suoi collaboratori: Nello Mastursi, Enrico Coscioni e Franco Alfieri. C’è pure Antonio Bassolino, uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti ma ancora in bilico per uno che lo vede imputato di peculato. Poi, Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, e i sindaci Giosy Ferrandino e Giorgio Zinno al centro di inchieste su presunti appalti pilotati.

In coda, ma solo geograficamente, la Puglia e la Calabria con il senatore Alberto Tedesco, l’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales, l’ex presidente della provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva, Donato Pentassuglia, assessore della Giunta Vendola, Michele Mazzarano, consigliere regionale sotto processo per finanziamento illecito ai partiti, e «colleghi» come Fabiano Amati, Gerardo De Gennaro ed Ernesto Abaterusso. Voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan le ombre costate i domiciliari all’ex sottosegretario Sandro Principe. Non un caso unico se si guardano gli altri nomi snocciolati nelle inchieste calabresi: Orlandino Greco, il consigliere regionale indagato per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso, Nino De Gaetano, Nicola Adamo, Antonio Scalzo, Carlo Guccione, Vincenzo Ciconte e Michelangelo Mirabello. I favori ai Casalesi per gli appalti, che oggi vedono indagato per concorso esterno in associazione mafiosa Stefano Graziano, sembrano dunque essere solo l’ennesima puntata di una saga horror che sta mietendo vittime illustri in ogni ambito istituzionale. Dai presidenti dei municipi ai consiglieri regionali, dai sindaci ai parlamentari. «Democraticamente» appunto, come si conviene - visto il nome - nel Partito.

"Ecco la verità su Pd, soldi e mafia". L'anticipazione del libro scritto da Gianni Alemanno. Documenti, inchieste e ricostruzioni dimostrano le responsabilità della Sinistra, scrive Alberto Di Majo il 30 marzo su “Il Tempo”. Un viaggio lungo cinque anni, in cui si sono intrecciati progetti, ambizioni e fallimenti. Farà discutere «Verità Capitale - Caste e segreti di Roma» (edito da Koinè) di Gianni Alemanno. Non è un’operazione di «riabilitazione», tutt’altro. L’ex sindaco ricostruisce la sua esperienza alla guida della città eterna senza usare alibi e scuse: «Ci siamo lanciati verso obiettivi difficili e impervi, con una macchina con le ruote sgonfie e il volante rotto. Non potevamo non romperci l’osso del collo, anzi fin troppo è stato realizzato in queste condizioni». Alemanno riconosce anche «la debolezza e l’impreparazione della mia squadra di governo, che deriva da miei personali errori di valutazione e dalla fragilità del movimento politico che mi ha portato a governare il Campidoglio». Ma, altrettanto onestamente, nota che «le molto più esperte e organizzate compagini delle amministrazioni di sinistra fino ad allora erano riuscite solo a nascondere "la polvere sotto il tappeto", a vendere bene l’immagine di Roma, non certo a modificarne in meglio la realtà profonda». Presenta dati e analisi, l’ex sindaco, per mostrare che la Capitale che lui ha «ereditato» nel 2008, era già tecnicamente fallita. Come quando il segretario generale entrò nel suo studio il primo giorno: «"Che cosa succede?" Chiesi un po’ intimorito. "Succede che non abbiamo i soldi neppure per pagare gli stipendi" rispose asciutto il superburocrate che aveva regnato sul Campidoglio per tutta l’epoca di Rutelli e Veltroni». Alemanno arriva anche a chiedere scusa ai romani e «a chi mi ha seguito nella mia avventura in Campidoglio». Ma ammettere i propri errori non significa assolvere gli altri. Per questo, ribadisce più volte nelle pagine del suo libro, che il vero responsabile dello sfascio Capitale è il centrosinistra. Ecco perché è arrivata come una doccia fredda la «visita» dei carabinieri quel 2 dicembre 2014. Erano le 8,40. «Una squadra del Ros si presenta sotto casa suonando al citofono. Alle loro spalle le telecamere di una troupe di Report, opportunamente allertate, per documentare "l’evento storico". Attimi di panico familiare, confusione, poi degli imbarazzati sottufficiali dei Carabinieri, ricevuti nel mio studio, mi presentano un avviso di garanzia e un ordine di perquisizione per il reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale. "416 bis, 416 bis...questo articolo mi dice qualcosa, ma non riesco a ricordare quale reato indichi..." domando agli ancora più imbarazzati militi. Il più alto in grado, dopo essersi schiarito la voce, mi risponde: "Sindaco, è associazione per delinquere di stampo mafioso". Ci guardiamo negli occhi, da un lato all’altro della mia scrivania, in una reciproca espressione di stupore e di imbarazzo. "Ma...è previsto l’arresto?" domando. Non si preoccupi, per carità... solo l’accusa di essere mafioso"». Da qui ha prevalso quello che Alemanno definisce il «teorema fascio-mafioso», tutto incentrato sulla sua amministrazione, benché lui stesso avesse più volte denunciato il salto di qualità delle mafie a Roma, che «avevano superato il livello dei semplici investimenti economici e del riciclaggio di denaro sporco, per cominciare a diventare presenza organizzata nel territorio». Non è un caso, precisa, che nell’inchiesta su Mafia Capitale «la percentuale delle persone coinvolte collocate politicamente sarà più o meno la seguente: 70% di sinistra 30% di destra». I ricordi di Alemanno tornano amari. L’ex sindaco richiama l’attuale presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, allora numero uno della Provincia di Roma, soprannominato «er saponetta», dice, per la sua abilità nello schivare problemi e difficoltà. Fu lui, sostiene Alemanno, a «salvare» Luca Odevaine (uno dei protagonisti dell’inchiesta della Procura di Roma, ndr), già vicino all’ex primo cittadino Veltroni, nominandolo capo della Polizia provinciale. «Con questo non voglio dire che Walter Veltroni e Nicola Zingaretti fossero consapevoli dei traffici di Odevaine, ma non posso non rilevare la profonda differenza di trattamento tra me e loro. Mentre io ricevevo l’avviso di garanzia e venivo sbattuto sulle prime pagine di tutti i giornali, Veltroni era considerato uno dei "quirinabili" fino alla vigilia dell’elezione del Presidente Mattarella. Zingaretti, dal canto suo, ha continuato fino ad oggi a governare indisturbato la Regione Lazio, nonostante un altro uomo del suo entourage, il capo di Gabinetto Maurizio Venafro, sia stato rinviato a giudizio per un ulteriore filone dell’indagine su Mafia Capitale». Alemanno non nasconde la delusione per il trattamento ricevuto dai suoi colleghi di partito. Con Giorgia Meloni l’ha unito lo stesso movimento, «Fratelli d’Italia», e diviso più di un anno di silenzio dopo una breve telefonata, quella in cui Alemanno preannunciava la volontà di auto-sospendersi dalle cariche di partito. «Ancora più deludente fu l’atteggiamento di due persone con cui faccio politica dagli anni ’70 e che sono stati i miei più stretti collaboratori e alleati in tantissime occasioni. Sto parlando di Andrea Augello e di Fabio Rampelli (...)». L’ex primo cittadino non risparmia Giancarlo Cremonesi e Massimo Tabacchiera. Il primo, eletto alla presidenza della Camera di Commercio di Roma, il secondo all’Atac e all’Agenzia della Mobilità. Entrambi scomparsi, si lamenta Alemanno. Aveva ragione Andreotti: in politica la gratitudine è il sentimento della vigilia. L’ex sindaco parla anche, ma con termini diversi, degli imprenditori Caltagirone e Cerroni, mai avvantaggiati, rivendica. A differenza della gestione del centrosinistra («con Veltroni la raccolta differenziata era ferma al 17%, con me è arrivata al 30»). Nel libro ci sono aneddoti e curiosità. Come quando Gheddafi arrivò nella Capitale e volle tenere un discorso rivolto al popolo romano. Di fronte a impiegati comunali e dipendenti delle società partecipate, il raìs parlò della necessità di liberarsi dei partiti. Prima, sotto la lupa che allatta i gemelli all’ingresso del Campidoglio, Gheddafi aveva chiesto ad Alemanno: «Ma sarà vera questa storia?».

"Rovinato dai pm per proteggere Delrio e il Pd". Prosciolto l'ex assessore Pdl di Parma Bernini, accusato di avere chiesto voti alla 'ndrangheta: "Coperte le responsabilità dei democratici", scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". Quella che Renzi, qualche giorno fa, ha definito «barbarie giustizialista» lui, Giovanni Paolo Bernini, 53 anni, ex consigliere del ministro Pietro Lunardi, ex presidente del Consiglio comunale ed ex assessore Pdl a Parma nella giunta Vignali, la conosce bene. Prima, nel 2011, 21 giorni di carcere e due mesi di domiciliari per accuse poi smontate. A gennaio del 2015 la nuova richiesta d'arresto nell'inchiesta sulla ndrangheta in Emilia Romagna, sfociata nel processo Aemilia. Un anno e mezzo di calvario, con l'accusa di voto di scambio politico mafioso. Adesso il proscioglimento, col rito abbreviato: l'aggravante di aver preso i voti dei boss, già bocciata da due giudici e sulla quale il pm insisteva, per il Gup di Bologna non sussiste, e l'eventuale corruzione elettorale è ormai prescritta. «Ma la mia battaglia vera dice Bernini comincia adesso. Mi rivolgo al presidente della Repubblica e al Csm, con un esposto. Ci sono troppi dubbi e lacune in questa vicenda. Io voglio sapere perché, nonostante le intercettazioni che coinvolgono esponenti del Pd locali e nazionali come il ministro Delrio, questi non sono stati toccati neppure da un avviso di garanzia, mentre io e il collega consigliere di Forza Italia Pagliani (anche lui assolto, ndr) siamo stati arrestati». È un fiume in piena, Bernini. Al sollievo per la fine di una vicenda giudiziaria che ha stroncato la sua carriera politica in ascesa, si accompagna la rabbia, tanta, per quello che definisce «accanimento giudiziario». «E cosa è - spiega - se non accanimento giudiziario un pm che nonostante la sonora bocciatura di due giudici insiste sull'aggravante mafiosa? Se poi aggiungiamo il fatto che il pm Marco Mescolini, era nel 2006 nell'ufficio di un viceministro del governo Prodi, ecco, credo che questo la dica lunga sull'andazzo di questa inchiesta. In un Paese civile un magistrato che ha avuto incarichi politici non dovrebbe svolgere indagini su politici della parte avversa e arrestarli, si dovrebbe astenere. La scelta del pm di non indagare amministratori locali o esponenti nazionali del Pd in questa inchiesta fa a pugni con le carte giudiziarie agli atti del processo. E il Csm deve dirmi perché è accaduto». Non ci sta, Bernini. «Ho l'impressione - dice - che in questa vicenda si siano volute coprire responsabilità gravi degli amministratori Pd dell'Emilia. Ed è stato fatto con un teorema assurdo: se sono politici di Berlusconi a cercare voti tra i residenti di origine meridionale allora è mafia, mentre se sono del Pd è legittima ricerca del consenso. Non lo dico io, sono i fatti a parlare: Brescello sciolto adesso per mafia, la casa del sindaco di Reggio Emilia acquistata da uno poi coinvolto nell'inchiesta, le intercettazioni su Delrio. Ma è normale che, in questo quadro, contro il Pd non ci sia stato nemmeno un avviso di garanzia mentre noi di Forza Italia siamo stati arrestati?». Non un attacco all'inchiesta: «Andava fatta - continua Bernini - i mafiosi vanno arrestati. Il mio non è un attacco alla magistratura. Avevo fiducia nei giudici e la sentenza mi dà ragione. La giustizia in Italia trionfa, nonostante la presenza di certi pm che preferiscono interviste e conferenze stampa, l'apparire invece della ricerca della verità e il rispetto delle persone. Sa che le dico? Renzi ha ragione. Sia pure in notevole ritardo e probabilmente perché si sente un possibile bersaglio, il premier si è accorto che i magistrati troppo spesso parlano prima delle sentenze». Oltre che l'esposto al Csm, Bernini prepara anche una querela a «Libera»: «Li denuncio per diffamazione, e chiedo i danni anche alla Regione Emilia che ha dato un contributo al loro dossier - quindi ha speso soldi dei contribuenti - che continua a circolare pur contenendo notizie gravi e false nei miei confronti». Voglia di tornare alla politica attiva? «La politica - conclude Bernini - è come un virus, è difficile guarire. Per ora comunque mi dedicherò alla battaglia civile contro la malagiustizia».

"Io, mafioso a mia insaputa. Ho rischiato 12 anni di carcere". Pagliani, consigliere di Forza Italia a Reggio Emilia ora assolto: "Colpito perché mi opponevo alle coop rosse", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 28/04/2016, su "Il Giornale". Arrestato come un boss, nel cuore della notte. Detenuto per 22 giorni nel carcere di Parma, lo stesso di Totò Riina. «Mi sono piombati in casa alle 3 e mezza, mi sono ritrovato da un minuto all'altro mafioso a mia insaputa, accusato di concorso esterno e con una richiesta di condanna a 12 anni, anzi in realtà a 18, 12 con lo sconto per il rito abbreviato. Io, che mi sono sempre battuto per la legalità e che, vengo dal Fronte della gioventù, avevo come eroe Paolo Borsellino. Si rende conto?». Giuseppe Pagliani, 42 anni, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia e capogruppo azzurro in Provincia, è stato appena assolto «per non aver commesso il fatto» nel processo Aemilia, il maxi processo che in Emilia Romagna ha portato alla sbarra decine di affiliati alla ndrangheta e qualche politico. Solo del centrodestra. Come l'ex assessore a Parma Giovanni Bernini, ora prosciolto. Una vicenda che definire kafkiana è un eufemismo, quella di Pagliani. Lui, avvocato, arrestato il 28 gennaio del 2015 e scarcerato il 19 febbraio, ce l'ha fatta a tirarsi fuori: «Perché sono avvocato - dice - e ho una formazione penalistica, perché mi hanno difeso principi del foro come gli avvocati Alessandro Silveri e Romano Corsi. Ma il cittadino x riconosce rimane stritolato, schiacciato dalla mole di carte, disorientato da accuse assurde. Io stesso mi rendo conto solo adesso di quanto sia facile restare vittime della malagiustizia. E in futuro sono pronto a difendere gratis innocenti che dovessero trovarsi in simili vicende». Cosa ha fatto mai Pagliani per ritrovarsi in questo caso giudiziario? «In un lampo improvviso di follia - ironizza - qualcuno si è convinto che a Reggio Emilia il concorso potesse essere rappresentato da esponenti dell'opposizione lontani dagli appalti, come me». La sua «colpa», se così si può chiamare, consiste in due incontri con alcuni personaggi di origine calabrese poi finiti inquisiti nel caso Aemilia. «Ma queste persone - sottolinea Pagliani - io nemmeno le conoscevo». E invece per il pm nel primo incontro, il 2 marzo del 2012, viene stipulato il patto mafioso. Nel secondo, una cena in un locale pubblico a cui erano presenti decine di persone, il patto si sarebbe consolidato. «Una follia - dice Pagliani - io a quella cena, di fatto uno sfogatoio di questi che ce l'avevano con le coop rosse, conoscevo solo alcune persone delle quali non avevo motivo di dubitare. E quando qualche giorno dopo un amico avvocato mi disse che c'era qualche personaggio equivoco troncai ogni contatto». Vero, tanto vero che nelle intercettazioni uno degli indagati non ricorda neppure il nome dell'avvocato Pagliani. «Le benedico ogni giorno le intercettazioni - continua - è grazie ai brogliacci che siamo riusciti a ricostruire tutto e a smontare la teoria del pm». Non è stato il solo, Pagliani, a incontrare i calabresi in odor di 'ndrangheta. L'allora sindaco di Reggio Emilia, ora ministro, Graziano Delrio, è andato anche in visita istituzionale in Calabria, a Cutro. «E li ha pure - aggiunge Pagliani - portati dal prefetto. Io no». Eppure Delrio non è stato nemmeno indagato, è stato solo sentito come testimone. Pagliani invece «non poteva non sapere»: quindi è finito in galera. «Eppure - dice il politico azzurro - la decisione del tribunale del Riesame (non appellata dai pm, ndr) che mi ha scarcerato era granitica. A quel punto una procura di media o bassa intelligenza avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione. E invece hanno insistito. Nella requisitoria il pm è arrivato a sostenere che io avevo incontrato uno dei coimputati, Brescia. Meno male che ho potuto dimostrare che quell'appuntamento, segnato in agenda, in realtà era un incontro professionale a Brescia, con un avvocato». Perché è accaduto tutto questo? «Me lo sono chiesto - dice Pagliani - mi sono domandato perché io?». E la risposta? «Da consigliere d'opposizione avevo avuto per le mani vicende delicate come Global service. Come oppositore strenuo al sistema locale delle coop rosse davo fastidio». Accanimento contro Forza Italia? «Sì, c'è stato, il Pd invece è stato difeso». Ha temuto di essere schiacciato da una condanna? «Mai, nemmeno per un secondo. Sapevo di essere innocente, c'è stato il sostegno di tanti amici e non, tutti hanno capito che non c'entravo nulla. Tutti tranne il pm».

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Lo spot allo ius nel libro di scuola: "Immigrati sono indispensabili". Il libro edito da Loescher Editore adottato da alcuni istituti medi italiani. Uno spot allo ius soli e all'immigrazione "indispensabile", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 28/09/2017, su "Il Giornale". Il poeta irlandese William Buttler Yeats diceva che “la scuola non è riempire un secchio, ma accendere un incendio”. Bello da sentirsi, più difficile essere sicuri che il sistema scolastico funzioni sempre così. Perché è davvero sottile la linea che divide l’educazione (l'incendio) dall’indottrinamento (il secchio riempito). Basta poco per plasmare la malleabile mente di un bambino, propenso com'è a credere a quasi tutto quello che gli viene proposto dagli insegnanti. Ecco perché ogni volta che un genitore porta un figlio tra i banchi dovrebbe controllare i libri di testo. Non per verificare la data di nascita di Napoleone, ovvio. Ma per essere certo non gli vengano inculcate nozioni stravaganti o idee buoniste considerate da ampi strati della "cultura" come la verità rivelata. In questi anni infatti pare vada di moda sponsorizzare l’immigrazione sin dalla pubertà. Volete un esempio? Eccovi serviti. Prendete la collana “Zoom. Geografia da vicino” edito dalla Loescher Editore di Torino. I tomi scritti a tre mani da Luca Brandi, Guido Corradi e Monica Morazzoni vengono proposti per le scuole secondarie di primo grado (tradotto dal burocratichese: le medie). In prima si studia “Dall’Italia all’Europa”, in seconda “L’Europa: Stati e istituzioni” e in terza “I continenti extraeuropei”. Nulla da dire sulla qualità del prodotto. Sembra tutto nella norma, eppure sfogliandolo pagina dopo pagina si arriva a scoprire che presenta gli stranieri come una “indispensabile” risorsa per il Belpaese e che sponsorizza, velatamente, l'approvazione dello ius soli. Vi chiederete: perché un testo scolastico dovrebbe spiegare ad un bambino di 11 anni che l’immigrazione è cosa buona e giusta? Risposta logica: non c’è motivo. Eppure succede. Acquistando “Zoom. Geografia da vicino” per la prima media, infatti, i genitori ricevono a casa anche un piccolo tomo intitolato “In prima!”, una sorta di introduzione allo studio della materia. Alle pagine 31 e 32 gli autori hanno inserito alcuni esercizi in cui l’ignaro studente può provare a mettere in pratica i consigli su “come leggere i testi non continui” (tradotto: le tabelle). Il brano proposto è stato estratto dalla pagina 182 del “tuo libro di geografia” e non elenca le province dell’Umbria o i confini della Lombardia, ma parla di migranti (perché? Mistero). “Oggi l’Italia è il quinto Paese europeo per numero di residenti stranieri”, si legge. E ancora: “Secondo i dati dell’ultimo censimento 2011 (…) gli stranieri residenti in Italia sono circa 4,5 milioni, il triplo di dieci anni prima”. Ma il meglio arriva alla pagina successiva. La tabella viene divisa in due: da una parte la foto di un barcone carico di disperati “al largo delle coste italiane” (incredibilmente chiamati col loro vero nome: “Immigrati clandestini”); dall’altra il paragrafo intitolato Una presenza indispensabile. Il contenuto è un inno al pensiero unico: “Ormai quindi l’Italia è terra di immigrazione e gli immigrati sono una presenza indispensabile, soprattutto in alcuni settori lavorativi come l’edilizia, il lavoro domestico, l’assistenza a bambini e anziani”. Manca solo il classico ritornello del “ci pagano le pensioni” per chiudere il cerchio. Ma per ora meglio puntare sullo ius soli: “La convivenza tra italiani e stranieri - si legge infatti - non è sempre facile e non sempre la legge italiana favorisce l’integrazione”. Che brutta cosa, penseranno gli studenti. E come mai la coabitazione è così complessa? Per via dei reati commessi dagli stranieri? Macché. Tutta colpa dell’assenza dello ius soli. “Ad esempio - spiegano gli autori agli ignari pargoletti - i figli di stranieri nati in Italia continuano a non aver diritto alla cittadinanza italiana, anche se vivono nel nostra Paese da sempre”. Molto commovente e di certo convincente per alunni che ancora non hanno sviluppato senso critico. Una foto del libro di testo ha iniziato a circolare tra alcuni genitori del Veronese e del Vicentino. Almeno due istituti di Verona lo hanno adottato, come la scuola “A. Manzoni” dell’istituto comprensivo “Golosine” e la “Salgari” del “Cadidavid-Palazzina”. A Vicenza invece Alex Cioni del Comitato "Prima Noi" ha denunciato “l'indirizzo culturale e poi politico che si vuole dare ai giovani studenti in una fase della loro crescita educativa particolarmente delicata”. Impossibile dagli torto.

È morto lo storico Rosario Villari, sui suoi libri si sono formate generazioni di studenti. Lo studioso aveva 92 anni, era stato anche deputato del Partito comunista. Domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune, scrive Raffaella De Santis il 18 ottobre 2017 su "La Repubblica". Rosario Villari, morto all’età di 92 anni, non era certo il tipico storico accademico che disdegnava il dibattito pubblico. La sua vita di studioso è al contrario stata accompagnata fin dalla giovinezza dalla passione politica e dall’attenzione ai problemi sociali. Villari era un uomo del sud, nato a Bagnara Calabra (Reggio Calabria), dove aveva partecipato ai movimenti dei contadini per la riforma agraria. Il Sud, la questione meridionale, le tematiche dello sviluppo, sono stati alcuni dei temi centrali dei suoi saggi, tra cui “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna” (Laterza, 1961) e “Il Sud nella storia d’Italia” (Laterza 1961, seconda edizione aggiornata, 1978). Era uno storico di formazione marxista, anche se di un marxismo aperto, mai ortodosso, riformista. Era stato membro del Comitato centrale del Partito comunista e deputato dal 1976 al 1979. Ma a Firenze, ai tempi dell’università, aveva seguito le lezioni di un filosofo controcorrente come Galvano Della Volpe, che faceva dialogare materialismo e esistenzialismo. Non è un caso che Villari abbia spesso preso posizioni coraggiose. Come quando ha polemizzato con Eric J. Hobsbawm, lo storico del “Secolo breve”, icona di successo della storiografia di sinistra: “La ricerca storica ha regole e modi diversi dall’azione politica”. Villari, studioso dell’età barocca e autore di saggi fondamentali come “La rivolta antispagnola a Napoli” (1967), era noto soprattutto per i suoi manuali di storia, sui quali hanno studiato generazioni di studenti.  La prima edizione era stata pubblicata da Laterza alla fine degli anni Sessanta, vendendo due milioni di copie. Lo storico l’aveva anni dopo rivista e aggiornata. Lo aveva fatto spinto dai cambiamenti del mondo che osservava intorno a sé, dando più spazio al tema della formazione dell’Europa. Sosteneva che la complessità del mondo contemporaneo lo aveva costretto a rielaborare molte categorie, tra cui quelle di “progresso”, “utopia” e “rivoluzione”. Un nuovo capitolo del manuale riguardava la storia dei partiti comunisti occidentali, ben diversi, spiegava Villari, da quelli sovietici. Ma proprio quei manuali, scritti con un’attenzione massima alla storia sociale, finirono sotto gli strali della destra berlusconiana, accusati di essere simbolo dell’egemonia culturale di sinistra. Villari, che dell’egemonia gramsciana aveva un’altra considerazione, non si scompose e difese il pluralismo dei suoi testi: “Io so che il giudizio storico nasce solo dalla libera ricerca svolta in una dimensione internazionale, nasce dal libero confronto delle idee, che la scuola deve recepire con la più piena e completa autonomia”. Per poi liquidare la questione con un invito: “Vogliono scrivere altri testi? Li scrivano ma lascino poi agli insegnanti piena autonomia nella scelta”. Per Villari la storia era movimento, apertura, nei limiti del rigore storiografico. Lo impauriva quella che definiva la “frammentazione e trivializzazione della storiografia” e anche un certa spettacolarizzazione dilagante. Una curiosità: Villari era anche un appassionato di letteratura. I suoi esordi erano stati sulle pagine del “Politecnico” di Elio Vittorini, come autore di una poesia e tre racconti. Per ricordarlo, domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune.

Morto Rosario Villari, autore del celebre manuale di Storia (che dimenticò le foibe). Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute), scrive Matteo Sacchi, Giovedì 19/10/2017, su "Il Giornale". Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute). Ma Rosario Villari, storico di impostazione marxista morto ieri a 92 anni, era soprattutto un esperto di storia barocca. Tutti i suoi contributi scientifici più rilevanti erano relativi al Regno di Napoli nel corso dell'età moderna. Tra questi vanno ricordati Mezzogiorno e contadini nell'età moderna e La rivolta antispagnola a Napoli (Laterza 1967, poi ampliato nel 2012). Erano per l'epoca studi innovativi, soprattutto il secondo, che metteva in rilievo le componenti sociali ed economiche che avevano portato alla sollevazione «capeggiata» da Masaniello, spogliandole delle incrostazioni romantiche che vi aveva sovrapposto la storiografia risorgimentale. Lavori che gli avevano consentito di affermarsi all'estero e di diventare visiting professor a Oxford e Princeton. A quell'impostazione marxista, che schiaccia sul concetto di classe epoche caratterizzate da ceti e da una marcata dimensione non «economica», Villari continuò a restare legato anche quando iniziò ad apparire datata. Essa caratterizzò anche i suoi manuali scolastici, che davano largo spazio alla storia sociale. Ma che su determinati temi erano ferocemente selettivi (limite che non fu solo di Villari ma di una generazione di storici). Quindi Villari finì sotto accusa sul finire degli anni '90 per pesanti omissioni presenti nei testi: tanto per dire, la parola «foibe» era praticamente ignorata. C'è anche chi lo ha accusato di preconcetti antiborbonici. Di certo nella sua impostazione ebbe largo peso la militanza: fu membro del Comitato centrale del Pci. Ma i suoi testi sulla politica barocca restano di alto livello scientifico.

I libri di storia sono faziosi? Lo decidano gli insegnanti, scrive Alessandro di Nuzzo giovedì 12 Settembre 2002 su Kataweb. Torna alla ribalta - ormai periodicamente, si potrebbe dire - la polemica sui libri di testo "faziosi". Al di là delle prese di posizione, dei commenti espressi da fonti più o meno competenti, dei botta e risposta fra storici e politici, vediamo di capire qual è la sostanza della discussione. "Faziosi" sarebbero alcuni manuali di storia fra i più in uso nei licei e nelle scuole superiori italiane. Naturalmente la faziosità non riguarda periodi storici lontani e incerti come l'età antica o il Medioevo: non è in discussione il modo in cui vengono trattate la Guerra delle Due Rose, o lo scontro fra Ugonotti e Cattolici in Francia. L'accusa è tutta concentrata su un momento particolare e cruciale della storia contemporanea del nostro Paese, e cioé il periodo che va dal 1943 alla fine della seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra. In sostanza, dunque, la faziosità riguarda il delicato capitolo Resistenza-Liberazione-Dopoguerra. I capi d'accusa rivolti ai manuali di storia sembrano essere essenzialmente tre: 1) Nessun accenno ai cosiddetti "delitti del dopoguerra" nel Nord Italia, e cioé alle vendette politiche e/o private che sarebbero state compiute dai "vincitori" all'indomani del conflitto 2) in particolare, nessun accenno alla tragica pagina delle "foibe" 3) una visione unilateralmente eroica e gloriosa della Resistenza. Quali sarebbero, poi, in concreto questi libri "incriminati" non è molto chiaro: la lista non è sempre univoca. Di certo pare di capire ci siano il Camera-Fabietti (libro un po' datato, per la verità, e non solo per quel che riguarda la storia contemporanea); il Villari; in qualche modo anche il Giardina, per quanto qui l'accusa sia più sfumata, forse anche per la difficoltà di affibbiare un'etichetta di "estremisti di sinistra" ai suoi autori. Se qualcuno dunque ha voglia di farsi un'idea propria e più precisa sulla questione, può prendere questi tre manuali in una qualsiasi biblioteca scolastica, leggerli e confrontarli. A noi la questione suggerisce almeno tre piccole considerazioni. 

1) L'oggettività di indagine e di giudizio è uno dei grandi problemi della ricerca storica: connaturato, si potrebbe dire, alla storiografia. Ma più in generale alla letteratura e alla cultura umanistica tout court. Forse Dante non è "fazioso", quando parla di storia contemporanea? O non lo è il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica? Se dobbiamo fare un'educazione al giudizio critico e alla parzialità delle fonti (e anche dei documenti, perché no?), dobbiamo farla per tutti i grandi argomenti di storia. Dunque dobbiamo e possiamo farla anche sui manuali, che sono fonti indirette anch'essi, e non sono certamente, si spera per nessuno, testi inviolabili. In altre parole, è l'insegnante, come sempre, che ha il diritto-dovere di filtrare i testi didattici, e di proporne, sempre e comunque, un uso critico e integrato. 

2) La paura che gli studenti, con le loro giovani menti così deboli e facilmente plasmabili, possano essere inesorabilmente "plagiati" da certi libri di testo o da certi professori, è un mito duro a morire che non si sa se sia più stupido o interessato. Chiunque abbia frequentato le aule di scuola negli ultimi anni sa bene che il vero problema è quello di promuovere nei ragazzi un minimo di coscienza e di memoria storica. Il dato di partenza, lo sappiamo, è un'indifferenza generalizzata, di cui i ragazzi non sono tanto colpevoli quanto vittime. Dunque, come insegnante, sarei ben più contento di una accesa discussione in classe sui temi della Resistenza fra studenti "di destra" e di "sinistra", che di un deserto di stimoli e di emozioni. 

3) Un'ultima cosa, questa sul merito della questione e delle accuse di cui si diceva sopra. L'omissione di alcune pagine importanti e tragiche della storia contemporanea ci può essere stata, e la si può verificare e giudicare. La visione "eroica" della Resistenza potrà anche essere stata unilaterale, e aver tralasciato quei caratteri di guerra civile di cui gli storici più aggiornati (anche di sinistra) ci parlano da alcuni anni. Però il sospetto, ed è un sospetto forte, è che in discussione siano non tanto dei singoli punti, quanto una visione generale, più che storica, etica: l'impostazione antifascista, con tutti i valori, anche educativi, che questa si porta con sé. Allora qui la questione si fa molto chiara, e la domanda da fare ai revisori è: vogliamo mettere in dubbio, o cancellare, l'impostazione antifascista? L'antifascismo a scuola è un valore, sì o no? Lo dobbiamo insegnare, o no? 

Perché in tal caso, più che censurare Villari dovremo censurare i Costituenti. E dopo aver emendato un povero manuale di storia, saremo costretti ad emendare il più importante testo di storia dell'Italia contemporanea: la Costituzione repubblicana. 

DOSSIER FOIBE ED ESODO UNA STORIA NEGATA A TRE GENERAZIONI DI ITALIANI a cura di Silvia Ferretto Clementi. Tratto dal Dossier Foibe ed Esodo, curato da Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia. LE RESPONSABILITA' POLITICHE 

Il silenzio degli alleati. Per non inimicarsi la Jugoslavia che, all'epoca, in piena guerra fredda, faceva parte dei "Paesi non allineati, gli americani, così come i loro alleati non indagarono su ciò che gli Jugoslavi avevano compiuto durante la guerra, né pubblicizzarono quanto gli stessi continuarono a compiere nei periodi immediatamente successivi alla sua conclusione. La necessità di utilizzare la Jugoslavia come "paese cuscinetto" tra i due blocchi, per contrastare l'egemonia sovietica nei Balcani, fondamentale per gli Alleati, portò a scelte molto difficili che migliaia di italiani pagarono sulla loro pelle. Anche a "giochi finiti" non vi fu mai alcuna ammissione esplicita ed ufficiale di quanto "avallarono". Sarebbe stato infatti estremamente difficile riuscire a spiegare all'opinione pubblica mondiale per quale motivo gli Alleati, pur sapendo della pulizia etnica in corso nella Venezia Giulia, non intervennero per scongiurare o comunque mettere fine a quella tremenda carneficina. Ma non solo. Gli Alleati consegnarono al Maresciallo Tito, così come fecero con Stalin per coloro che fuggivano dai russi stessi, decine di migliaia di profughi, civili e militari, segnandone il tragico destino. Questi ultimi infatti, riusciti con enormi difficoltà a passare il confine sfuggendo alle persecuzioni comuniste, vennero barbaramente massacrati e costituirono l'ennesimo tributo degli anglo americani a Tito e Stalin.

Il Governo italiano. Anche i vari governi italiani del dopoguerra preferirono mettere a tacere questi fatti per non doversi confrontare su alcune imbarazzanti questioni legate ai debiti di guerra nei confronti dei privati. I beni espropriati agli abitanti delle zone interessate dall'esodo del dopoguerra non furono risarciti equamente, ma con avvilenti elemosine. Riprendere la questione avrebbe significato indennizzi definitivi agli esuli con fondi sottratti alla ricostruzione dell'Italia devastata dalla guerra; si preferì, quindi, accantonare il problema insabbiandolo.

Le responsabilità del Partito Comunista Italiano. Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l'idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all'evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all'opinione pubblica. Studiando attentamente la documentazione e le informazioni sulla storia giuliana che stanno via via venendo alla luce, appare logica ed evidente la conclusione che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito. Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l'altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall'altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia. Questa sudditanza, infatti, favorì l'occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all'annessione slava. Indicativi la vicenda della strage di Porzus ed i numerosi casi di "delazioni utili" all'eliminazione di coloro che si opponevano al monopolio di Tito sul movimento partigiano. Significativa anche la lettera scritta dal vicepresidente dei Ministri Palmiro Togliatti il 7 febbraio 1945 al Presidente Ivanoe Bonomi, con la quale il leader comunista minacciò 25 persino la guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, impedendo così l'occupazione e l'annessione jugoslava. Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita il C.L.N.A.I. a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera... è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi unità partigiane dell'esercito di Tito, e vi operano con l'appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s'intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili. Quanto alla nostra situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da dare è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse. …credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l'azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto. L'atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, in linea con la posizione dei compagni slavi, fu di condanna totale e coloro che fuggirono dal comunismo vennero additati come fascisti. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.

L'ostilità del partito si manifestò anche con atti di perfidia. Famosa in tal senso fu la manifestazione di ostilità dei ferrovieri di Bologna, i quali, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza. I "comitati d'accoglienza" organizzati dal partito contro i profughi all'arrivo in Patria furono numerosi. All'arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali. A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell'aprile 1948 arrivò ad affermare "in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani". Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l'ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d'origine perché temono d'incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l'assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. L'unica piccola concessione che venne fatta dal quotidiano fu il riconoscimento che, in effetti, tra coloro che fuggirono vi potessero essere anche persone non criminali, terrorizzate, però, non tanto dagli orrori subiti o di cui furono spettatori, bensì "da fantasmi". Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte. È doveroso precisare che i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità. Al contrario si distinsero per la laboriosità e per il rispetto delle leggi. Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l'intera esistenza, ma la vita stessa. L'atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai "compagni slavi" del PCI è proseguito nell'immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.

Il dibattito sulla faziosità dei libri di testo. Il dibattito sui libri di testo faziosi ebbe inizio solo nel febbraio del 1997 quando, in occasione del cinquantenario del Trattato di Pace, il ''Comitato per il diritto alla verità storica" promosso da Marcello De Angelis61 e da Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, organizzò a Roma, insieme a numerose organizzazioni di esuli, un sit-in ''per denunciare la vergognosa latitanza dello Stato italiano nella difesa e nella memoria delle terre perdute", citando esplicitamente l'esempio delle foibe. In quell'occasione emerse che nei principali manuali di storia in uso presso i licei non si faceva menzione "della più grande tragedia che ha colpito il nostro popolo in questo secolo: il genocidio subito dagli italiani della Venezia Giulia ad opera dei partigiani comunisti slavi''. Gli esponenti di "Area" citarono alcuni dei più diffusi manuali di storia e sostennero che la mancanza di notizie sulle foibe era una chiara dimostrazione che ''sono scritti da storici faziosi o incompetenti ''.(62) Una petizione per la messa al bando dalle scuole dei testi in questione, inoltre, alla quale avevano aderito in molti, venne inviata al ministro Luigi Berlinguer. Contro le iniziative di Alleanza Nazionale, che dalla Regione Lazio si estendevano un po' in tutte le regioni, furono sottoscritti anche numerosi appelli. "Giustizia e libertà" raccolse migliaia di firme con un appello (riportato di seguito) scritto da Umberto Eco e firmato anche da Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Alessandro Galante Garrone, Franzo Grande Stevens, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori, Umberto Veronesi. I Garanti di "Libertà e Giustizia" assistono con viva preoccupazione alla proposta ventilata in commissione parlamentare di un controllo esercitato dal Ministero della Pubblica Istruzione sui manuali di storia per le Scuole. Rilevano che l'idea di un controllo governativo sulle idee espresse da libri di testo evoca stagioni evidentemente non ancora remote, in cui i regimi fascista, nazista e stalinista esercitavano tale diritto censorio, e giudicano l'idea indegna di un paese democratico. La responsabilità della stesura dei libri di testo compete agli editori e agli autori e la responsabilità della loro adozione compete agli insegnanti, alla cui oggettività e senso critico si delega il compito di giudicare se un testo sia valido, e in che misura possa essere eventualmente criticato e integrato in sede di lezione, addestrando così gli studenti non solo ad apprendere ma anche a giudicare le loro fonti di apprendimento. Questo è l'unico controllo che in un paese libero si può e si deve esercitare sui manuali scolastici. …si confida che la proposta rimanga semplicemente nel limbo delle cattive intenzioni. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare che il fatto stesso che qualcuno l'abbia ventilata suscita serie preoccupazioni sullo stato di salute del nostro sistema democratico. Altri appelli per contrastare le "campagne contro i libri di testo faziosi" vennero sottoscritti anche da numerosi esponenti politici, sindacalisti, professori universitari, scrittori e associazioni.

Le opinioni degli storici. Giorgio Spini, chiamato in causa dalla rivista ''Area'', che lo citò tra gli storici ''faziosi o incompetenti o tutte e due le cose insieme'', si difese parlando di ''sciocchezze che si condannano da sole'' e di polemica ''messa su un piano inaccettabile e con un linguaggio che rivela la matrice nazista. E coi nazisti, che purtroppo esistono, non si discute''. Per quel che riguarda il discorso storico sulle foibe, che, secondo Spini, i manuali comunque affrontano, egli invitò a (…) ricordarci di tutte le aggressioni e atrocità commesse dagli italiani nell'ultima guerra a cominciare da quelle seguite alla conquista fascista dei Balcani. L'atroce reazione, che nessuna persona civile può approvare, con infoibamento di italiani, spesso innocenti, venne appunto dopo che furono gli italiani a gettare nelle foibe in notevole quantità i balcanici. Aggiungendo anche che, se dopo la guerra (…) ci fu in Italia tendenza a oscurare un po' quegli avvenimenti, fu perché altrimenti avremmo dovuto consegnare come criminali di guerra gli italiani che lì si erano macchiati di orrendi delitti. Un'ammonizione chiara a chi volesse rivisitare la storia in quel modo. Gabriele De Rosa, dopo aver messo in guardia l'opinione pubblica dal rischio dei "roghi", si dichiarò disponibile ad un confronto sui temi proposti, ma non a rispondere ad una condanna di precisa provenienza politica e ideologica, assolutamente illegittima. Sostenne inoltre che, considerato che i manuali parlavano di quel periodo, per tornarci sopra con più chiarezza bisognava ricordarsi di farlo con una ricostruzione globale, che tenesse conto del prima e del dopo e quindi anche degli "orrori di quella guerra e del fascismo ''. Rosario Villari dichiarò di aver dato conto sul suo manuale delle "modificazioni politico-territoriali provocate dalla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità risale primariamente al nazifascismo, e sulle tragiche conseguenze che esse hanno avuto in Italia e in altri paesi" e di averlo fatto nella misura e nei termini da lui ritenuti convenienti alla trattazione manualistica, sulla base delle informazioni tratte dalle opere storiche citate nella bibliografia.

Le prese di posizione dei politici. Il presidente della Camera Luciano Violante, in un confronto tenutosi presso il Teatro Verdi a Trieste il 14 marzo '98 con il Presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sul tema "Democrazia e identità nazionale: riflessioni dal confine orientale", affermò: Pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l'esodo e l'esilio. Non so se nel resto d'Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui. Qui c'è stato un dolore non condiviso dall'altra parte d'Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato. I presidente di Rifondazione Comunista Armando Cossutta replicò duramente alle dichiarazioni di Violante sostenendo che fosse (…) una ignobile revisione della storia (…) Noi di Rifondazione siamo disposti a discutere dei crimini, delle violenze e delle tragedie di cui si sono macchiati i comunisti in tutto il mondo. Ma in Italia i fascisti hanno portato la guerra e la dittatura. Mentre, sempre qui, in Italia, i comunisti - ha chiesto polemicamente - di cosa dovrebbero vergognarsi? L'incontro di Trieste venne fortemente contestato da Rifondazione Comunista, anarchici e centri sociali, che lo definirono il "culmine di una campagna tendente a falsificare la storia con fini pacificatori", un episodio del revisionismo storico congruo "alla necessità per Fini di incassare una definitiva legittimazione dopo Verona e al tentativo di Violante di strappare un consenso anche a destra in vista della corsa verso la presidenza della Repubblica". Una risposta alle dichiarazioni di Violante arrivò anche da ben 75 storici italiani, che espressero in merito un netto dissenso, sottolineando in un documento "l'infondatezza storica dell'argomentazione e l'inconsistenza delle richieste avanzate". (…) sarebbe tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, soltanto sui partigiani dell'esercito di liberazione jugoslavo. (…) Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza, ricade prima di tutto sul regime monarchico-fascista che resse l'Italia dal 1922 in poi. (…) Delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano, con la sua politica imperiale ed aggressiva. (…) Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione e suonano come un'offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto d'Europa. (…) Faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. (documento firmato, tra gli altri, da Aldo Agosti, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Gianni Oliva e Claudio Pavone). Al documento replicò Violante: Consentitemi di esprimere il mio rincrescimento per la leggerezza con la quale un gruppo di autorevoli storici ha sottoscritto un documento contenente falsità facilmente verificabili. Risulta evidente che se i toni ed i metodi utilizzati per denunciare la faziosità dei libri di testi e le numerose omissioni possono essere stati in alcuni casi discutibili, al contrario l'utilità ed i risultati positivi di tale azione sono chiaramente riscontrabili dando un'occhiata alle edizioni dei libri di testo pubblicate dopo al dibattito.

Libri di testo di storia faziosi, scrive il 27 gennaio 2008 Francesco Agnoli. Tempo addietro alcuni personaggi cercarono di proporre all’opinione pubblica il problema dei libri di testo di storia delle scuole superiori. Ci volle poco per sottolineare la faziosità di gran parte di quelli in circolazione, ma poi la discussione venne lasciata cadere. Eppure il problema è grave: i testi scolastici sono afflitti da mentalità ideologica. Per questo la caratteristica più tipica è la classificazione semplicistica, la contrapposizione manichea, l’adozione di pregiudizi come chiavi di interpretazione onnicomprensiva. L’ideologia infatti non guarda la realtà, rifiuta di coglierne la complessità, non ricerca né tanto meno verifica. Per questo, solitamente, produce odio, gratuito. Eppure ha un “pregio”: incasellando tutto precisamente dà l’illusione di comprendere tutta la realtà. E’ così facile, anche per l’insegnante, catalogare, classificare, dividere fascisti e antifascisti, buoni e cattivi…Eppure la verità è ben diversa, sia perché non tutti sono così etichettabili, sia perché, a ben vedere, tantissimi sono gli elementi di somiglianza tra le ideologie del Novecento, di destra e di sinistra. Basti pensare alla provenienza politica e culturale di Mussolini, leader del socialismo massimalista, direttore de l’Avanti, ammirato da Lenin come l’unico grande rivoluzionario italiano. Accanto a lui, al fondatore della destra fascista, troviamo numerose personalità provenienti dal mondo della sinistra, come Farinacci, dell’Unione socialista italiana, Arpinati, di provenienza anarchica, o, all’epoca dell’RSI, Bombacci, uno dei fondatori del PCI nel 1921. Analogamente si riscontrano tante suggestioni socialiste nel partito di Hitler. Nei giorni di Weimar, nel caos generale, compare ad esempio un movimento di personaggi col volto dipinto e penne sul capo, detti “Uccelli Migratori”: sodomiti, nudisti, orientaleggianti, antenati degli indiani metropolitani. Di lì a poco finiranno nelle Sa di Hitler. In questi gruppi paramilitari nazisti vi sono forti convinzioni marxiste, sia perché molti degli aderenti provengono dai “Vecchi combattenti rossi”, sia perché il loro capo, il potentissimo Rohm, afferma: “Noi non abbiamo fatto una rivoluzione nazionale, ma una rivoluzione nazionalsocialista, e poniamo l’accento sulla parola socialista”. Il gerarca Goebbels sostiene la superiorità del bolscevismo sul capitalismo, mentre Gregor ed Otto Strasser, figure guida del nazismo nel nord della Germania, prevedono, nel loro programma, “il passaggio della grande industria in proprietà parziale dello Stato e dei comuni”. Inoltre, in ambienti nazisti, “si manifestava molta comprensione per la dottrina marxista della lotta di classe… (così che) il bolscevismo ed il nazionalsocialismo, visti come i due movimenti rivoluzionari del XX secolo, erano posti in così ampia misura su piani paralleli che il loro contrasto risultava esclusivamente nel fatto che Lenin avrebbe voluto con il mondo redimere anche la Germania, mentre Hitler avrebbe voluto redimere il mondo attraverso la Germania” ( E.Nolte, “Nazionalsocialismo e bolscevismo”, Rizzoli). Questa breve premessa può aiutarci a capire un altro fenomeno: il passaggio, in Italia, a fine guerra, di moltissimi intellettuali dal fascismo ai partiti di sinistra, specie al PCI filo-sovietico. E’ un altro capitolo di storia che, sfuggendo alle classificazioni semplicistiche, viene occultato dai libri di scuola. Occorre invece riflettere, cercar di capire. Vi possono essere state persone che cambiarono opinione, cosa legittima, anzi, indice, spesso, di onestà intellettuale. In altri casi invece sarebbe semplicistico parlare solo di opportunismo: più esatto riconoscere l’intercambiabilità esistente, spesso, tra atteggiamenti ideologici apparentemente contrapposti. Dal fascismo, o dalle riviste fasciste, vengono Argan, Bilenchi, Bocca, Buzzati, Contini, Flora, Fò, Pavese, Pratolini, Quasimodo, Vittorini, Zavattini…Fascisti duri e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Malaparte, Cantimori, Bontempelli, Piovene, Chilanti, Santarelli, Fidia Gambetti, Lajolo…, alcuni dei quali passano da “La difesa della razza” a ruoli importanti ne “l’Unità”. Il buon Davide Lajolo, ad esempio, prima di diventare vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiati”. Poi i tempi cambiarono, e l’eroe divenne Stalin. Ma rimase spesso la mentalità ideologica, settaria, la stessa di molti libri di storia scolastici, e dei vari Camera-Fabietti che li scrivono.

Storia, manuali faziosi ma la politica ne stia fuori. I nostri studenti hanno una visione parziale dell’intera storia d’Italia, dal Risorgimento a Berlusconi. A questa deriva sinistrorsa bisogna opporre una severa critica culturale. Senza interventi dall’alto, scrive Mario Cervi, Venerdì 15/04/2011, su "Il Giornale". Gabriella Carlucci ha ieri difeso con impeto, sul Giornale, la sua proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo scolastici. Nonostante l’appassionata perorazione, resto del parere che l’istituenda commissione sarebbe nel migliore dei casi una creatura inutile, e nel peggiore una creatura dannosa. Cercherò di spiegare i motivi del mio «no». Sono anzitutto d’accordo con Marcello Veneziani nel ritenere che le commissioni d’inchiesta non servano a niente (o servano soltanto ad assegnare qualche ulteriore auto blu e qualche appannaggio). La loro superfluità è dimostrata dall’esperienza. Trattandosi d’organismi che riproducono su scala ridotta gli equilibri delle assemblee, le deliberazioni dipendono, nei casi controversi, dal criterio secondo cui la maggioranza prevale sulla minoranza. Il che si addice perfettamente a decisioni politiche, non a decisioni che coinvolgano problemi di principio o di giustizia o etici. Si rischia insomma d’avere, con le commissioni parlamentari d’inchiesta, pronunce altalenanti in sintonia con la maggioranza del momento. Non nego - mi contraddirei se lo facessi perché questo dei libri di testo è stato un cavallo di battaglia del Giornale montanelliano - la faziosità di certi manuali scolastici ispirati a un conformismo politicamente corretto quando non a convinzioni ideologiche di una sinistra scatenata. Quei testi possono influenzare fortemente gli studenti, propinando loro come verità accertate quelle che sono soltanto asserzioni di parte, e magari dichiarazioni di fedeltà a idee e ideali demoliti, per fortuna, dalla Storia. Ma il rimedio a questo evidente e concreto pericolo sta in una scelta oculata da parte degli insegnanti e in una vigilanza attenta delle famiglie, non in misure che sappiano anche lontanamente di volontà censoria e che legittimano reazioni ammantate di nobili ideali. Un elemento mi rende particolarmente perplesso, nel proposito della Carlucci. Il suo evidente ispirarsi alle polemiche antiberlusconiane, ossia a un momento importante ma per forza di cose contingente - vi includo l’anagrafe - delle vicende nazionali. Siamo avvolti e frastornati da polemiche sulla personalità e sulle qualità umane e politiche del Cavaliere. Ma siamo anche avvolti e frastornati da tante altre polemiche che incidono profondamente nel tessuto della nostra identità e della nostra italianità. Negli scaffali delle biblioteche si allineano, è vero, pamphlet antiberlusconiani. Ma s’allineano anche, e in gran numero, saggi che contestano i momenti fondanti dello Stato e immiseriscono le vicende che accompagnarono l’Unità. Ho recensito di recente libri che descrivono il Risorgimento come un periodo in cui l’identità italiana, formata e affermata dalla Chiesa, fu violentata da un laicismo imperversante, dalla massoneria, dal Piemonte sabaudo e dai suoi alleati stranieri. Non condivido nemmeno un po’ quei giudizi, ma mi sembrerebbe arbitrario depennarli se fossero inseriti in qualche manuale. Ho letto saggi che annichiliscono le figure dei padri della Patria, saggi che mettono sotto accusa, vedendovi la causa di molti mali, la Prima Repubblica (insieme ad altri che invece della Dc, protagonista di mezzo secolo, tessono le lodi). Questo materiale immane viene affrontato e sviscerato, con esiti diversi, da molti storici e divulgatori, ciascuno di loro portandovi i suoi personali punti di vista: non di rado con intenti dissacratori e revisionisti. Può un’indagine del Parlamento - dove, a quanto risulta da alcune irriverenti domande, la conoscenza della storia non è d’alto livello - dirimere le innumerevoli questioni sul tappeto, e servirle belle che risolte a docenti e discenti? Figurarsi. È esistita, e in parte esiste tuttora, la famosa e famigerata egemonia culturale della sinistra. La vulgata cui si abbeverano gli studenti ha molto spesso un’impronta progressista che magari è invece passatista, visto che il comunismo e i suoi derivati appartengono al passato. Negletto il liberalismo, osannato a parole da tanti e nella pratica onorato da pochissimi. Ma alla deriva d’un sinistrismo di maniera si deve e si può opporre la critica, non una forma seppure attenuata di controllo dall’alto. Quella tanto evocata egemonia culturale deriva anche dal fatto che molti «moderati» - così come la Dc un tempo - attribuiscono poca importanza alla lettura e alla curiosità intellettuale, ritenute un impaccio al fare. Il fare, quando è di prima scelta, non fa impaccio a niente. Ma vale la pena di occuparsi anche d’altro. Un ultimo rilievo. Non so quanto Gabriella Carlucci sia consapevole della disistima degli italiani nei confronti del Parlamento. Se lo è, può facilmente immaginare lo scarso o nullo appeal che l’idea dì una Commissione parlamentare arbitra di temi intellettuali ha per gli italiani.

Quei libri di storia da bruciare, scrive Marina Cavalleri il 24 aprile 1997 su "La Repubblica". L'annuncio fatto ieri dagli studenti di An evoca scenari apocalittici: "La prossima settimana saremo in piazza a bruciare i libri di parte, davanti ad alcune scuole romane, al ministero della Pubblica istruzione e al Senato per chiarire che non siamo disposti ad accettare l'intolleranza ideologica dell'Ulivo". Libri al rogo, manuali di storia faziosi che meritano le fiamme. Gli studenti di destra minacciano azioni simboliche, annunciano gesti dal fosco sapore nazista o forse solo cinicamente pubblicitari. Ma invece dei libri ardono le polemiche e l'iniziativa libri al rogo, appena annunciata, annega in una pozzanghera di polemiche. Si gioca sulla Storia l'ultima guerra scolastica e dai banchi parte una crociata contro il governo. I giovani che aderiscono ad 'Azione studentesca' protestano contro il recente provvedimento che prevede la revisione dei programmi di storia e contro il ministro Berlinguer al quale si contesta di 'gestire la memoria della storia a fini di partito' . "E' una provocazione forte ma necessaria - spiega Marco Marsili responsabile nazionale di Azione studentesca - per richiamare l'attenzione sul grave rischio di indottrinamento culturale che corre la scuola pubblica". Così dopo le accuse di Ernesto Galli Della Loggia al ministro Berlinguer ("Programmi di storia nel segno della vulgata marxista"), arrivano i giovani di destra a tacciare di dittatura ideologica la sinistra alla Pubblica istruzione. Dovrebbero finire nelle fiamme testi come quelli di Spini o il Camera Fabietti. Ma il rogo annunciato però non piace ad Alleanza nazionale che sconfessa l'iniziativa: "E' una sciocca provocazione. I libri si possono confutare, ma in ogni caso i giovani, compresi quelli di Azione studentesca, farebbero meglio a leggerli". Ma la tirata d' orecchi di Fini è ancora più violenta. "Chi annuncia il rogo dei libri è un ignorante che non conosce la storia. A destra non c' è posto per cretini di questo genere". Finisce male per gli studenti di An, le fiamme non ardono. Ma già prima della stroncatura del partito c' erano state prese di distanze, polemiche, bocciature. Ernesto Galli Della Loggia precisa: "Citare i miei articoli in margine all' annuncio del rogo dei libri di testo di storia è un tipico caso di strumentalizzazione. I libri non si devono bruciare e il signor Marsilio forse non sa di avere tra i suoi progenitori i nazisti, cui è andata piuttosto male". "Sono fuori luogo", dice Marcello Veneziani, ex direttore dell'Italia settimanale, "non darei eccessiva importanza alle dichiarazioni di un gruppo il cui atteggiamento estremista non è condiviso dalla maggioranza della destra giovanile". E Giuseppe Malgieri, direttore del Secolo d' Italia: "La faziosità di alcuni libri autorizza a posizioni intransigenti: ma un conto è la denuncia, un conto i roghi".

Onestà intellettuale? Ignoranza insensibilità e faziosità dei testi scolastici i libri di testo delle scuole sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante, scrive Francesco Lamendola il 29 settembre 2010. All’insegnante che abbia un po’ di esperienza e un minimo di colpo d’occhio non sfugge il fatto che gli strumenti di cui si serve quotidianamente nella sua professione, i libri di testo delle scuole, sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale. Egli, pertanto, è costretto a insegnare ai propri studenti servendosi di uno strumento peggio che difettoso: di uno strumento assolutamente scorretto e fuorviante, il quale tende sistematicamente a falsare la percezione della realtà, sia quella del presente che del passato. Si dirà che basta scegliere con cura i libri di testo e che ogni insegnante, dopo tutto, gode della massima libertà di optare per un libro, anziché per un altro. Verissimo: ma il fatto è che i libri di testo oggi in circolazione, praticamente senza eccezione, sono un po’ come i canali televisivi: ce ne sono tantissimi, ma tutti suppergiù si equivalgono quanto a ignoranza, insensibilità e faziosità; tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante. Nel corso di un paio d’ore di lezione, ad esempio, può capitare che un professore di liceo, rimanendo all’interno di una singola classe, debba scontrarsi più di una volta con la grossolana tendenziosità e con l’ottusa arroganza intellettuale dei libri di testo.

Supponiamo che la prima ora di lezione sia di italiano e che la seconda sia di storia. Ora di letteratura italiana: si parla del Seicento, si parla di Galilei, si parla del «Saggiatore». Si legge l’immancabile «favola dei suoni», in cui Galilei, dietro l’apparenza di celebrare la modestia intellettuale dello scienziato e l’infinità del sapere, esalta invece la manipolazione delle cose, il dominio brutale sulla natura, l’orgoglio sconfinato dell’uomo di scienza che si sente al di sopra della morale, del bene e del male. Si parla della vivisezione di una cicala, perché lo scienziato vuole comprendere l’origine del suo frinire: non una parola di rammarico per il crudele trattamento inflitto alla bestiola; non una parola di dispiacere per quella piccola meraviglia della natura che viene distrutta. L’unico rammarico è di non aver compreso come si produca il suono. Questo, da parte di Galilei. I curatori dell’antologia scolastica, tutti senza eccezione, presentano il fatto senza batter ciglio. Addirittura, la sofferenza e l’uccisione dell’animale vengono ignorati; sono un semplice inciso all’interno di una proposizione molto più ampia e complessa; tutta l’attenzione e tutta l’ammirazione del giovane lettore sono indirizzati verso l’intrepido scienziato, esploratore dell’ignoto, novello Ulisse che agisce sospinto da una santo amore di conoscenza, tanto pura quanto disinteressata. Nessun curatore di testi scolastici fa notare che questo è un esempio di scienza senza coscienza; che dallo “stupore” di Galilei verso la natura non derivano né umiltà, né compassione, né senso della bellezza; che la moderna vivisezione di milioni di cavie animali e, più in generale, l’implacabile manipolazione di esseri viventi da parte della tecnoscienza, sono la logica conseguenza di questo modo di porsi davanti alle cose, iniziato con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo: meccanicista, razionalista, riduzionista, utilitarista e tendenzialmente materialista.

Seconda ora di lezione: storia. Si parla dell’espansione europea negli altri continenti fra il XVI e il XVIII secolo; più precisamente, si parla dell’espansione inglese in India e in Australia. Ebbene, nemmeno una parola sullo sconvolgimento sociale ed economico portato dalla presenza britannica in India; peggio ancora, nemmeno una parola sul genocidio degli aborigeni australiani, sulla caccia all’uomo dei Tasmaniani, fino alla loro estinzione totale, allorché l’ultima rappresentante di quel popolo mite e inoffensivo, contro la sua esplicita volontà, venne imbalsamata dopo la morte ed esposta in una sala del museo di antropologia di Hobart, per la delizia della scienza e del pubblico pagante. Qui c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa di profondamente sbagliato sia sul piano storiografico, sia sul piano etico. Si parla dell’Australia come se fosse stata disabitata, come se fosse stata “res nullius”. Non si dice che i suoi abitanti erano il popolo più antico dell’umanità e che occupavano quei luoghi da qualcosa come 40.000 anni; non si dice che i bianchi li sterminarono a freddo, per impiantare le loro fattorie e i loro allevamenti di pecore. Eppure, quello consumato contro di loro fu un genocidio. Ma l’unico genocidio di cui si parla sui libri di testo scolastici è quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Solo la Germania, secondo gli autori dei nostri libri di testo, porta un simile peso sulla coscienza; la Gran Bretagna no, quando mai: gli Inglesi sono “buoni”, hanno sempre combattuto guerre giuste, guerre per la libertà altrui. Hanno salvato l’Europa e il mondo dal nazismo, quindi sono i “liberatori” per eccellenza. Sarà per questo che non si dice, su quei libri di testo, che il primo esercito ad impiegare le armi batteriologiche fu quello inglese, nel 1755, allorché il generale Edward Braddock fece distribuire agli indiani del Nord America delle coperte infettate dal vaiolo, provocando deliberatamente la morte di migliaia di uomini, donne e bambini inermi? Tutti, oggi, conoscono i nomi di Hitler, di Himmler, di Eichmann; nessuno conosce il nome di Braddock.

Davvero, c’è da rimanere disgustati. Abbandonati in balia di simili libri di testo, la mente e la coscienza degli studenti sarebbero perdute, se qualche insegnate non si prendesse la briga di farli riflettere e di insegnare loro l’uso critico delle fonti. Gli stereotipi che vengono perpetuati da questa impostazione didattica sono volutamente funzionali ai poteri forti oggi dominanti: la tecnoscienza, il capitalismo selvaggio dell’alta finanza e delle multinazionali, l’Impero americano e il sionismo internazionale, con tutte le sue tentacolari diramazioni. Analoghe sconcezze si trovano, purtroppo, nei testi di quasi tutte le discipline scolastiche, in particolare in quelli di storia della filosofia, che sono redatti, la maggior parte delle volte, in maniera semplicemente oscena.  Vengono esaltati acriticamente sempre gli stessi pensatori, magari proprio in ciò che vi è di maggiormente discutibile nel loro pensiero (vedi Galilei); e vengono ignorati quelli che presentano un punto di vista alternativo all’attuale Pensiero Unico. Non parliamo poi della filosofia dell’Asia, di cui non si sa nulla, quindi nulla si insegna: la storia della filosofia è rimasta profondamente etnocentrica.

Forse solo i libri di matematica, alla fine, si salvano; perché in quell’ambito è difficile, se non impossibile, fare certi giochetti. Sia chiaro che non pretendiamo che gli autori dei libri di testo sposino, necessariamente, una visione del reale di tipo olistico, spirituale, ecologicamente sostenibile e via dicendo; sarebbe troppa grazia. Ci accontenteremmo di vedere un minimo di problematicità, un minimo di contraddittorio, un minimo di consapevolezza che, nella modernità, vi sono le luci, ma anche le ombre; vi sono le conquiste del progresso, ma vi è anche il ritorno della barbarie; le maggiori comodità materiali, ma anche la bomba atomica, la catastrofe ambientale, lo sconvolgimento climatico. Ci basterebbe che, in quei benedetti libri, non si intonassero sempre e solo i peana dei vincitori; che vi fossero un po’ di spazio, un po’ di attenzione e, perché no, un po’ di compassione anche per i vinti. Che si parlasse anche delle ragioni della cicala vivisezionata, della vecchia tasmaniana il cui cadavere fu ridotto ad attrazione da museo, dei pellerossa che morirono come mosche per il vaiolo portato alle coperte del generale Braddock. Che sui libri di storia della seconda guerra mondiale si parlasse dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma anche dei sette fratelli Govoni fucilati dai partigiani. Che si parlasse della distruzione di Amsterdam e Varsavia da parte dei nazisti, ma anche di quella di Amburgo e Dresda da parte degli Alleati. Che si parlasse della Risiera di San Saba, ma anche della foiba di Ugovizza; che si parlasse delle migliaia di Italiani assassinati a guerra finita, per vendetta, senza una tomba su cui i loro cari potessero posare un fiore.

Che si parlasse di Auschwitz e di Dachau, ma anche di Hiroshima e Nagasaki. Quanta falsità istituzionalizzata; quanta ipocrisia; quanta cattiva coscienza. E con questa mancanza di serietà didattica e morale, con questo servilismo verso la Vulgata dei vincitori, con questa faziosità senza pudore e senza vergogna, vorremmo insegnare qualcosa ai nostri ragazzi? Tutto quel che possiamo insegnare loro, in simili condizioni, sono il più piatto conformismo intellettuale e la più bieca ipocrisia; e i frutti li vediamo ogni giorno, osservando la spudoratezza con cui la stampa si adopera per manipolare il pubblico, senza che si levi una sola voce di virile indignazione e di protesta sacrosanta. Prendiamo il caso di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte nel suo Paese per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. I media occidentali ne hanno fatto una bandiera di libertà e l’hanno quasi santificata, inorriditi all’idea della sua lapidazione. Ora che, come sembra, l’esecuzione avverrà invece mediante impiccagione, il fuoco di fila delle proteste, diplomatiche oltre che di opinione pubblica (e il governo italiano, come sempre in questi casi, brilla per la sua crociata in favore della “civiltà”), si è spostato dal modo della pena alla pena in se stessa: Sakineh non dev’essere uccisa, punto e basta. Encomiabile umanitarismo; peccato che non si spenda una parola per i condannati e le condannate a morte negli altri Paesi del mondo, e specialmente per quelli degli Stati Uniti d’America, la madre di tutte le democrazie, minorenni compresi (ma li si fa aspettare nel braccio della morte finché diventino maggiorenni, prima di sopprimerli). Si vede che assassinare legalmente un uomo è meno grave che se si tratta di una donna; oppure assassinarlo con una iniezione letale o fulminandolo sulla sedia elettrica è ritenuto meno esecrabile che farlo con le pietre o con il cappio. A nessuno, pare, viene in mente che il vero problema non è umanitario, ma politico: si vuol dipingere il governo iraniano come una banda di carnefici, cosa che potrebbe anche essere: ma non per la condanna di Sakineh; lo si vuole screditare e infangare per favorire il sionismo, che vede in lui il suo peggior nemico. E questo mentre le scavatrici israeliane, con furia indecente, allo scadere della moratoria si sono rimesse febbrilmente al lavoro per costruire nuove abitazioni destinate ai coloni ebrei in Cisgiordania, con buona pace delle trattative di pace e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite in favore dei Palestinesi.

Dunque: libri di scuola menzogneri, conformisti, culturalmente disonesti; futuri cittadini ignoranti, intellettualmente pigri e facilmente manipolabili. Una volta i libri di testo li scrivevano fior fior di specialisti; quelli di storia, ad esempio, li scrivevano insigni storici; quelli di storia dell’arte, illustri storici dell’arte. Oggi i libri di scuola li firmano non più singoli autori, ma équipe di intellettualini a un tanto il chilo, gente che nelle scuole non ci ha mai messo piede: lo si vede da come scrivono, costringendo gli insegnati a spiegare quasi ogni riga e ogni parola e a tradurle in un italiano comprensibile al pubblico cui, in teoria, sono destinati: dei giovani dal modesto retroterra culturale. Ma tanto si sa che quello dei libri scolastici è un business delle case editrici, una specie di mafia altamente sofisticata: l’ultimo ritrovato è quello di cambiare qualche paragrafo qua e là ogni due-tre anni, per impedire che il libro possa passare di mano dal fratello maggiore al fratello minore e permettere, così, alle famiglie di risparmiare qualche migliaio di euro. Insomma, per dir le cose come stanno: siamo in presenza di un panorama desolante e deprimente, di uno squallore assoluto. Tutto quello che si può sperare è che gli insegnanti, insieme al veleno, forniscano ai loro studenti anche l’antidoto: ossia che mostrino loro come ci si deve porre in maniera critica di fronte ad un libro di testo, anzi, di fronte a qualsiasi libro; così come bisognerebbe fare di fronte a qualsiasi giornale, a qualsiasi programma televisivo, a qualsiasi film. Ma ne avranno la capacità, la voglia, l’onestà intellettuale? Oppure, figli di un Sessantotto che è stato esiziale per l’università, per la cultura e per il pensare in modo non conformista, molti di loro sono i primi a sposare il Pensiero Unico; magari rimangiandosi molti dei loro ideali di allora, ma fedeli - in compenso - al servilismo intellettuale di sempre? 

Articolo già pubblicato su “il Corriere delle Regioni” il 12/05/17 e su Arianna Editrice il 29/09/2010

Libri Faziosi - Quando la storia diventa una favola... sinistra! Scrive Azione Giovani Matera. Bertold Brecht diceva "il libro è un’arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha sortito l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Per anni Azione Studentesca, e prima ancora Fare Fronte, si sono battuti contro la faziosità con la quale vengono scritti molti dei testi adottati negli istituti superiori, testi che trattano in particolare la storia, la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbiamo denunciato il silenzio colpevole, quando non la connivenza, degli storici, dei docenti, della stampa e del Ministero della Pubblica Istruzione. Nulla. La situazione è addirittura peggiorata con l’entrata in vigore del Decreto sul ‘900, che impone, durante l’ultimo anno delle superiori, lo studio del XX secolo fino ai giorni nostri. Scorgendo alcuni dei testi che vengono adottati nelle scuole superiori, non si ha difficoltà a incontrare mistificazioni, commenti faziosi, veri e propri falsi storici, fino ad arrivare a una evidente campagna elettorale. In questo dossier vengono riportati alcuni esempi che dimostrano come sia facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Questo Dossier non rappresenta il tentativo di scagionare alcuni personaggi o fatti storici e di condannarne altri, perché non faremmo niente di diverso da quello che è stato fatto finora. La nostra unica volontà è quella di dimostrare come anche una certa cultura imposta nelle scuole abbia contribuito ad alimentare una guerra civile, spesso latente, che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali e appartenenze anacronistici. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra" (alla denuncia di Azione Studentesca l’ineffabile Ministro Berlinguer ha risposto suggerendo di scrivere libri di destra per contrastare quelli di sinistra – COMPLIMENTI!), chiediamo solo la verità.

Un esempio: nella maggior parte dei libri di storia non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani. Noi non chiediamo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non ci sogniamo una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non ci interessa. Noi chiediamo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Né si può dare credito a quanti sostengono che determinate pagine di storia siano state omesse per permettere proprio la costruzione di una nuova identità nazionale sul mito – debole - della Resistenza, perché, se anche questa teoria fosse credibile (e non lo è), non sarebbe più valida dopo cinquantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nulla giustifica la faziosità con la quale spesso si parla di determinati fatti e personaggi dei giorni nostri.

Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo.

C’ERA UNA VOLTA…Qui di seguito riportiamo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) di mistificazione dei principali testi di storia adottati nelle ultime classi delle scuole superiori.

"ELEMENTI DI STORIA – XX secolo" di Augusto Camera e Renato Fabietti IV Edizione per ZANICHELLI. Pag. 1575 "Quanto alla pretesa di una parità etico-politica delle due parti in lotta [Combattenti della Repubblica Sociale e Partigiani – ndr], si vorrà riconoscere (e i più avveduti militanti di provenienza fascista hanno effettivamente riconosciuto) che da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per il totalitarismo e per la schiavitù. Né si dica che se da una parte ci si schierava per i Lager dall’altra ci si batteva per i Gulag, perché, in primo luogo, i Lager erano solo la conseguenza estrema, ma logica e necessaria, di un regime che si fondava sulla disuguaglianza degli uomini, sulla sopraffazione e l’eliminazione delle "razze inferiori", sull’asservimento degli Untermenschen, mentre in linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà (e l’ignominia dei Gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla "conversione di Stalin al tradizionale imperialismo); in secondo luogo, i militanti comunisti italiani certamente non si battevano per importare anche in Italia i Gulag ma per eliminare ingiustizie e privilegi." Ecco quello che non temiamo di definire un bieco tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Facciamo rispondere per noi ad Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970, privato della cittadinanza sovietica ed espulso nel 1974. Scrive Solzenicyn, affrontando un aspro parallelismo tra i servi della gleba dell’epoca zarista e i detenuti nei Gulag dell’epoca "dell’illuminato impero sovietico": "[…] Non gli è permesso il più piccolo temperino, non gli è permesso avere una scodella, di animali domestici è autorizzato a tenere solo i pidocchi. Il servo della gleba poteva di tanto in tanto buttare le reti, pescare qualcosa. Il detenuto pesca solo con il cucchiaio, nella sbobba. Il servo della gleba aveva la sua mucca, o una capra, polli. Il detenuto non si unge neppure le labbra con il latte, mai, non vede un uovo per decenni, potrebbe addirittura non riconoscerlo se lo vedesse."

Pagg. 1564-1566 "L’8 settembre 1943, nel vuoto di potere determinato dallo sfacelo dello Stato Italiano, furono uccise, soprattutto in Istria 500/700 persone. Per quanto gravi, quei fatti non corrispondevano però a un disegno politico preordinato: essi furono piuttosto la conseguenza di uno sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti, paragonabile alla strage di fascisti perpetrata nel Nord Italia dopo il 25 aprile, nella quale certo non intervennero motivazioni etniche di nessun genere." […] Eccoci davanti a un vero falso storico. Tutti ormai sanno che la triste pagina delle Foibe venne scritta dai soldati di Tito tesi ad una vera e propria pulizia etnica. Le vittime italiane non erano fascisti, ma gente comune, contadini ed abitanti del luogo; donne e bambini. "[…] Noi non abbozzeremo un bilancio degli "infoibati" e dei soppressi in vario modo e in varie circostanze, in primo luogo e soprattutto perché le cifre fornite dalle varie fonti sono disparate e malcerte; in secondo luogo perché l’abitudine invalsa di usare come argomento politico il cumulo dei cadaveri gravante sulla coscienza di questo o quel partito ci sembra disgustosa." Bravi! Finalmente un po’ di onestà intellettuale… peccato solo che il disgusto che gli autori del libro provano in questa specifica circostanza non sia sorto spontaneo in tutte le altre circostanze in cui, a commettere crimini contro l’umanità sono stati esponenti della parte politica a loro avversa. "[…] Altrettanto inammissibile ci sembra il fatto che osino chieder conto della ferita sofferta dall’Italia nelle sue regioni nord-orientali coloro che di tale ferita sono stati i primi responsabili o coloro che di tali primi responsabili si dichiarano eredi e continuatori." Vergogna! Non ci sarebbe bisogno di nessun commento, se non fosse che gli autori, non paghi, accanto all’immagine della lapide commemorativa eretta sulla Foiba di Basovizza pubblicata sul loro volume, hanno scritto: "[…] Dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica [la Foiba di Basovizza ndr], anche di materiale bellico; ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. E’ stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992." Sul massacro di Basovizza il giornale Libera Stampa in data 1.8.1945 pubblicava un articolo dal titolo: "Il massacro di Basovizza confermato dal CLN Giuliano". Piena luce sia fatta in nome della civiltà. Una dettagliata documentazione trasmessa alle autorità alleate della zona e al Governo Italiano." L’articolo riportava un documento sottoscritto da tutti i componenti del CLN che denunciava i crimini accaduti a Trieste tra il 2 e il 5 maggio 1945: "Centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della Miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo 240 metri. Su quei disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli".

Pag. 1569 "[…] I partigiani esercitarono le rappresaglie sempre e soltanto sui nemici nazisti e fascisti fatti prigionieri, non mai sulla popolazione civile, neppure quando questa si dimostrava attesista e opportunista." Altro falso storico, stavolta addirittura clamoroso. Tanto per citare solo uno dei fatti, il 7 febbraio 1945 un gruppo di partigiani italiani della brigata comunista Garibaldi compiva il triste eccidio di Malga-Porzus a danno di 19 partigiani della brigata cattolica Osoppo, che ostacolavano l’attuazione del progetto jugoslavo, teso all’annessione di territori italiani alla Jugoslavia comunista di Tito. "[…] è anzi importante rilevare come i combattenti anti-fascisti si preoccupassero di non compromettere invano la popolazione civile". E la favola - o la farsa - continua. Se è vero che i combattenti anti-fascisti si preoccupavano di non compromettere la popolazione civile, come è possibile che abbiano piazzato una bomba in Via Rasella uccidendo, oltre a 32 militari tedeschi, anche civili italiani compreso un bambino? E come è possibile che non avvertirono il dovere morale di costituirsi quando appresero della rappresaglia che sarebbe scattata a danno di 335 civili innocenti? Anche i "combattenti per la libertà" dovrebbero sapere che non è ammissibile far pagare alla popolazione inerte le scelte che si fanno in guerra.

Pag. 1663 "[…] Al terrorismo nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide." Siamo al delirio! Al di là dei nonsensi contenuti in questa frase (non si capisce perché in ambienti universitari e della piccola borghesia non si possa essere comunisti!), la "capriola" mentale degli autori non può che far ridere come un buon numero di cabaret: il terrorismo rosso non esiste. Anche quello che si proclama tale, a ben vedere, è fascista. Bah!

Pag. 1674 "[…] La volontà di cambiamento e la protesta contro la partitocrazia e contro il consociativismo si espressero anche nei consensi relativamente numerosi ottenuti dal Movimento Sociale Italiano (5%) […] Notevole fu invece il successo ottenuto da Rifondazione Comunista (6%), da interpretare però non come protesta contro il sistema dei partiti, ma come rifiuto della società esistente e come espressione di fedeltà ai vecchi ideali della lotta proletaria." Veramente degna di due storici questa lucida analisi. "[…] Il tracollo del comunismo in URSS e nei paesi satelliti contribuì certo a ridimensionare il vecchio PCI e, almeno in un primo tempo, il nuovo PDS (i cui militanti venivano spesso detti tendenziosamente "ex-comunisti" anziché democratici di sinistra)." Non riconoscere le "mutazioni" storiche dei partiti e dei suoi militanti è pratica molto diffusa in Italia. Allo scopo segnaliamo nello stesso libro il passo che segue. Pag. 1680 Accanto all’immagine dell’etichetta comparsa su alcune bottiglie di vino prodotte a Predappio nei tardi anni ‘80, gli autori scrivono questa didascalia: "Sino agli inizi degli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano si richiamò esplicitamente ai contenuti e allo stile del Fascismo Repubblicano. L’etichetta qui riportata, per esempio, se anche non fu esplicita iniziativa dell’MSI, certo si ispirò alla sua linea politica […]" Per dovere di cronaca, vi riportiamo quanto scritto sulla citata etichetta: Nero di Predappio – bevo e me ne frego – dona giovinezza. Vino del camerata. Ci sorge un dubbio: gli autori avevano forse assaggiato, e magari abusato, di questo vino quando hanno scritto la loro didascalia? Non paghi, comunque, continuano: "Il sillogismo implicito, insomma, assumeva nella conoscenza di molti una formulazione di questo tipo: "la Prima Repubblica è stata una vergogna; la Prima Repubblica è nata dalla Resistenza; la Resistenza è una vergogna; rivalutiamo il fascismo". A questo "revisionismo" inconsapevole della gente si saldava da tempo sia il revisionismo critico messo in cantiere da alcuni storici di professione, come il citato Renzo de Felice […]" Se de Felice fu chiaramente storico di professione, proprio non ci riesce di capire quale sia la professione di Camera e Fabietti. Inizia la campagna elettorale… "a proposito di Berlusconi".

Pag. 1682 – scheda 51.3 - Pag. 1683/1684/1690 "[…] L’articolo 1 della nostra Costituzione dichiara: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione." Nelle parole di Berlusconi e dei suoi portavoce la fondamentale riserva da noi corrivata venne sistematicamente omessa, e non si trattò certo di un’omissione casuale e irrilevante: così mutilato, infatti, l’art. 1 non garantisce più che la sovranità popolare sia esercitata nel rispetto delle regole previste a tutela delle minoranze, e il "popolo" si trasforma nella "gente", la cui opinione è accertata giorno per giorno mediante i cosiddetti sondaggi." "[…] L’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla direzione generale anti-mafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica [Scalfaro ndr] , condotti da Berlusconi o dai suoi portavoce, esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal Governo alle pensioni, alla sanità e in genere alle spese statali per la previdenza sociale[…]" "[…] Tali pronunciamenti [di Berlusconi ndr] , rafforzati da altre dichiarazioni simili di Fini e dei Cristiani Democratici, miravano esplicitamente a ridurre o a vanificare la libertà di scelta del Presidente della Repubblica […]" "[…] Di là di tutte le argomentazioni, del resto, Berlusconi aveva urgente bisogno di recuperare il potere e di varare quella riforma della giustizia ch’egli riteneva necessaria e che pensava l’avrebbe messo al riparo dagli avvisi di garanzia e da eventuali condanne." "[…] Da destra e da sinistra si ripeteva giustamente che le regole generali della vita politica dovevano essere concordate tra tutti i partiti, ma, dopo che la Commissione ebbe concluso i lavori ed ebbe approvato quasi all’unanimità un documento unico in cui si prospettavano le riforme da varare, d’un tratto Berlusconi e i suoi alleati mutarono atteggiamento, cosicché l’esito concreto della Bicamerale fu del tutto deludente." Senza commento.

Pag. 1688 – 1884 (didascalia fig. 56.33) …continua la campagna elettorale…"[…] A meno che – grazie a un’intesa internazionale – non si diminuiscano le ore settimanali di lavoro (come è stato fatto in alcuni paesi e proposto anche in Italia) […]" Il richiamo alla proposta di Rifondazione Comunista circa le 35 ore lavorative settimanali, è fin troppo evidente. Ce li immaginiamo Camera e Fabietti sotto il palco di Bertinotti a spellarsi le mani con gli applausi ogni volta che il leader di Rifondazione Comunista prende la parola. "[…] Nella Cina uscita dalle riforme varate da Den Xiao Ping nel 1978, le vecchie copie cartacee del Libretto Rosso sono merce da bancarella di souvenir, così come i grandi ritratti di Mao, Lenin, Stalin, Engels, Marx ingialliscono nei magazzini delle librerie di stato. E’ invece possibile la lettura in CD grazie l’edizione multimediale delle opere complete di Mao realizzata nel 1998." Ci piange il cuore per le opere cartacee di siffatti statisti, ma ci consoliamo tutti con l’opera multimediale di Mao. Un solo rimprovero agli autori: già che c’erano, potevano dirci dove trovarle per un "acquisto democratico e proletario"…Quasi a voler rispondere a questo nostro opuscolo, gli autori Camera e Fabietti, nel triste tentativo di difendersi dalla loro stessa incapacità a scrivere un testo di storia con quell’obiettività che si richiede ad uno storico serio, scrivono:

Pag. 1563 "Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli italiani, è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica trasformando la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, che avrebbe opposto all’occupazione tedesca almeno una resistenza passiva, e per l’altro verso, si è dovuta negare la qualifica d’italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, degradandoli a semplici mercenari al servizio degli invasori nazisti. Ed è stato altresì necessario ignorare quanto è accaduto sul nostro confine giuliano, dimenticare le stragi perpetrate da Tito , e dai suoi partigiani, dimenticare l’ignominia delle foibe, perché l’attenzione rivolta verso questi eventi e verso questi problemi avrebbe costretto a prendere atto delle lacerazioni interne alla Resistenza e a rompere ogni rapporto di collaborazione, sia pure polemica, con Togliatti e col suo partito, che a proposito della Venezia Giulia avevano assunto (o erano stati costretti ad assumere, dati i loro rapporti di sudditanza nei confronti dell’URSS) posizioni non conciliabili con gli interessi della nazione italiana. Ma la rottura con i comunisti, che nella Resistenza avevano svolto una parte di primo piano, avrebbe tolto uno dei supporti fondamentali all’inevitabile "mito" della Resistenza come fondamento unitario – comunista, "azionista", socialista, cattolico e liberal-democratico – della patria repubblicana." Ipocriti!

"MANUALE DI STORIA 3 L’Età contemporanea" A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto per Editori Laterza, nuova edizione aggiornata. Pag. 866 "[…] Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di P.zza Fontana, vi furono le bombe in P.zza della Loggia a Brescia, nel maggio ’74, e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, l’attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma nella magistratura giudicante […]." Vorremmo ricordare agli autori che la "ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica" non è storia.

Pag. 943 Anche qui siamo in campagna elettorale…"[…] Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di tangentopoli […]".

Pag. 945 "[…] I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. […]"

Pag. 946 "[…] Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. […]"

Pag. 947 "[…] Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997 la guida di molti altri centri come Torino, Roma […]"

"L’ETA’ CONTEMPORANEA – il novecento e il mondo attuale" P. Ortoleva, M. Revelli. Nuova periodizzazione per Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. Pag. 310 "[…]Nell’esaltazione della figura di Stalin che raggiunse aspetti di un vero e proprio "culto della personalità" (come sarebbe stato definito questo fenomeno negli anni cinquanta), non si trovava, infatti, solo il rapporto capo-seguaci tipico di tutti gli stati autoritari di quegli anni ( e pure di stati meno autoritari, come gli USA), ma anche la risposta a un profondo bisogno di stabilità e di certezza: in quel clima di continui e violenti mutamenti, la figura di Stalin appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un’autorità dura ma giusta. Il ritmo continuo delle trasformazioni sociali e politiche, che continuavano ad abbattere senza sosta ceti, come i kulàki, e figure fino a poco prima onnipotenti come i leader man mano liquidati da Stalin, poteva anche essere interpretato come la prova di una grande volontà di eguaglianza, pronta a colpire il privilegio ovunque si formasse: Stalin diveniva, in tal senso, l’incarnazione di una rivoluzione giusta e livellatrice. […]" Il passo si commenta da solo, quindi non ci dilunghiamo più di tanto. Ci preme però ricordare che i kulàki uccisi dal regime stalinista furono cinque milioni. Cinque milioni di esseri umani sterminati di cui nessuno parla e che nessuno ricorda né commemora.

Pag. 315 "La politica staliniana in tema di nazionalità comunque non fu solo di carattere repressivo. Bisogna tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime, compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento." Ah, bè, allora massacriamoli, sono minoritari!!!

Pag. 657 "[…] E’ stato ormai accertato che le stragi, spesso affidate a una "manovalanza neofascista", trovarono forti complicità all’interno dei servizi segreti e in alcune aree dell’apparato istituzionale e militare dello Stato. […]" No, signori "storici"… non è stato ancora accertato. E finché ci sarà chi continua a darlo per scontato, di accertarlo davvero non interesserà a nessuno… o quasi.

Pag. 662 "[…] All’emergenza fecero appello le forze di governo e il PCI per approvare una legislazione d’eccezione, che venne molto discussa e criticata; essa si rivelò del tutto inefficace nei confronti del terrorismo di destra e della "strategia della tensione", ma ebbe l’indubbio effetto di portare alla sconfitta del terrorismo di sinistra. […]"

Un libro molto interessante, arrivato alla sua settima od ottava edizione, L’eskimo in redazione, di Michele Brambilla ed. Oscar Saggi Mondadori, affronta molto bene il tema di chi, negli "anni di piombo" tentò di mettere su due piani il terrorismo di destra e il terrorismo di sinistra, arrivando quasi a giustificare quest’ultimo, o almeno a camuffarlo come un’inevitabile sbocco della ribellione giovanile. Questi "pietosi" intellettuali non sapevano che guasti gravissimi un simile atteggiamento avrebbe causato. Qualcuno non lo sa ancora, e continua così… Centinaia di giovani vite spezzate, sentitamente, ringraziano.

"POPOLI E CIVILTA’ 3" Antonio Brancati. Nuova Edizione per La Nuova Italia. Pag. 210 "L’avvento di una dittatura in Germania non costituiva per l’Europa una novità assoluta, visto che analoghi movimenti totalitari o dittatoriali si erano venuti nel frattempo insediando e consolidando anche in altri Paesi come in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo de Rivera, in Portogallo con Antonio Salazar, in Grecia con Joannis Metaxas, in Austria con Engelbert Dollfuss, in Romania con Jon Antonescu e in Turchia con Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della repubblica turca da lui retta con poteri dittatoriali sino alla morte.[…]" Per caso abbiamo dimenticato che nel 1924 andò al potere un certo Iosif Dzuga_vili, meglio noto come Stalin?

Pag. 565 "La strategia della tensione o del terrore, inaugurata a P.zza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie golpiste. Nel corso degli anni settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano "comuniste" (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea e soprattutto, Le Brigate Rosse)". Ovviamente "si proclamavano"! Che lo fossero anche? Leggendo la frase sopra riportata, chissà come dovranno sentirsi stupidi tutti i giovani di sinistra, finiti per scelta o per caso nelle spire del terrorismo, e che hanno pagato le loro idee comuniste e le loro scelte estreme con la prigione e a volte la vita.

Pag. 599 "[…] dopo avere avuto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza (il PCI n.d.r.), nella stesura della Carta Costituzionale e nella storia della Repubblica con particolare riguardo agli anni in cui aveva dato un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo […]" Beh… "contributo fondamentale" ci sembra appena appena un’esagerazione…

"STORIA E STORIOGRAFIA 3" di A. Desideri e M. Themelly nuovissima e dizione per C. Editrice D’Anna. Pag. 1355 "[…] Alla fine di quel "terribile 1977" E. Berlinguer chiese l’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo; intendeva dare un indirizzo nuovo – non di mero restauro – alla politica della maggioranza […]" Qui la campagna elettorale è un po’ retroattiva, ma chissà che non funzioni ugualmente…

Pag. 1370 "[…] Già prima dell’esplosione del terrorismo "rosso" aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo "nero", ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. […]" E questi sarebbero "storici"??? Ma per favore, un po’ di serietà! Qualcuno ricorda per caso che quel MSI "ombreggiante" richiese la pena di morte per i terroristi di destra?

Pag. 1377 "[…] Nel primo Ordine Nuovo, infatti, venivano privilegiati gli aspetti più propriamente ideologici della lotta politica, con la proclamata adesione al pensiero di autori di forte impronta reazionaria (soprattutto Giulio Evola, ma anche esponenti di un pensiero genericamente spiritualista, nei quali "si mescolavano insieme la cultura occulta, la divinazione, i fenomeni medianici, la magia nera, lo yoga, le società segrete, la cabala, l’esoterismo"). […]" Evola come il mago Otelma? Un concetto interessante, più "medianico" che storico, però…

PILLOLE. Nel manuale "DIRITTO COSTITUZIONALE SIMEONE" (XIV Edizione) a proposito delle elezioni politiche del 1994 a pagina 315 si legge: "Le elezioni, svoltesi con il nuovo sistema imperfettamente maggioritario, hanno portato alla vittoria una composita coalizione in cui precariamente si armonizzavano istanze secessioniste, destra neofascista e partito azienda. Il Presidente della Repubblica ha assunto immediatamente il ruolo di difensore dei valori costituzionali della solidarietà, della democrazia parlamentare e dell’unità nazionale, esercitando una sorta di tutela presidenziale sul Governo Berlusconi". Aberrante è dire poco.

Alla voce "foiba" del "VOCABOLARIO DELLA LINGUA PARLATA IN ITALIA" di Carlo Salinari si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso e indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra 40-45, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista" Qui addirittura siamo al "ribaltone". Salinari avrebbe qualcosa da insegnare a qualcuno? E magari il vocabolario bisogna anche pagarlo…

Dal testo "LA STORIA: RETE E NODI – Manuale per una didattica modulare" di A. Brancati e T. Pagliarani. "Per il coraggio, la fermezza e la coerenza dimostrati in tante occasioni, Prodi ha saputo guadagnare la stima di altri Governi e partner internazionali" "Con l’affermazione in Gran Bretagna del laburista Tony Blair e in Francia del socialista Lionel Jospin si sono addirittura aperte le prospettive per un dialogo della sinistra moderata europea, al quale si è dimostrato interessato anche Bill Clinton" Che bello! Siamo tutti contenti se viene anche Chelsea.

Dalla postfazione al "DIZIONARIO GIURIDICO ITALIANO – INGLESE" di Francesco de Franchis, editrice Giuffré. Pag. 159 "E si arriva al colmo: nell’agosto 1994 – fatto mai accaduto in nessun paese democratico dell’Occidente (in corsivo nel testo n.d.r.) e misura dell’assoluta impresentabilità di una coalizione che deve, all’evidenza, cercare i propri modelli nei regimi sudamericani – il governo Berlusconi invia un "esposto" al Presidente della Repubblica in cui si denuncia un attentato al funzionamento degli ‘organi costituzionali perpetrato dalla procura di Milano con le sue indagini sulla criminalità organizzata: qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge (in corsivo nel testo n.d.r.) da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale". E hanno avuto il coraggio di scomodare anche Shakespeare!

Pag. 173 "Resta il fatto che – a prescindere dall’individuo – il caso Berlusconi appare, sul piano politico, come il primo e il più grave nella storia di tutte le democrazie occidentali di un imprenditore che assume funzioni di governo. Si è opportunamente osservato che: “Il nuovo Governo Berlusconi si presenta come una compagine all’altezza dei propositi; dal decreto salvaladri al condono edilizio al vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for all degno dei fratelli Somoza” (l’autore non indica la fonte della citazione)…e un pensierino degno di Gianni e Pinotto!

Dal libro FARE STORIA di A. Brancati, ed. Nuova Italia. "Gli Ebrei, popolo ormai emarginato e separato, divennero nel Basso Medio Evo anche coloro che profanavano di nascosto i misteri cristiani (rubando e disprezzando le ostie consacrate) e che compivano omicidi rituali di bambini per poter fare con il loro sangue il pane azzimo, fatto cioè senza lievito e da essi usato nei giorni pasquali" L’autore del libro si è giustificato dicendo che nello scritto incriminato, stava riferendo solamente le calunnie che venivano rovesciate addosso al popolo ebraico. Va bene, ma è difficile che questo venga compreso da uno studente della media inferiore.

Dal libro LEGGERE EUROPA di Sambugar-E., ed. Nuova Italia. Parlando del futurismo e di Martinetti: "Affermazioni paradossali che non indicano assolutamente realistici programmi, per questo diedero cita a sfortunati e inevitabili fanatismi, esaltando ideologie violente come quella fascista. Un rinnovamento artistico che sfocia spesso nel suono un po’ vuoto di slanci verbali, e che non esita a cadere nel decisamente brutto. Il movimento futurista mancava comunque di profondi contenuti spirituali." Non molto obiettivo come commento nei confronti di quella che è stata un’avanguardia artistica dal valore universalmente riconosciuto.

Dal libro VERSO IL 2000 di D. Materazzi, ed. Thema. A proposito del Movimento Sociale Italiano. "Suo segretario politico nazionale è Giorgio Fini, mentre l’ala intransigente e nostalgica del nazional-socialismo che fa capo a Pino Rauti, è relegata al ruolo di opposizione interna" A parte la divertente miscela che l’autore ha creato tra i nomi di due diversi segretari dell’MSI, e cioè Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, è da notare che nemmeno i più feroci detrattori del MSI sono mai arrivati ad accostare gli iscritti del partito a dei nazisti militanti.

Dal libro STORIA E STORIOGRAFIA di A. Desideri, ed. D’Anna. Nel capitolo dedicato alla Rivoluzione Francese "[…] e ciò nel momento stesso in cui la Vandea insorgeva contro la leva di 300.000 uomini, ordinata dalla convenzione. Nell’insurrezione dei contadini vandeani si possono cogliere molteplici spinte: oscuri fermenti di lotta di classe paradossalmente combattuta sotto le insegne della reazione, sobillazione nobiliare, appoggi inglesi ed europei alla causa degli insorti." Interessante notare la capacità di sintesi dell’autore che liquida una lunga e sanguinosa guerra civile in meno di tre righe nel testo. A. Desideri, da studente, avrà sicuramente vinto una medaglietta nella gara di riassunto.

Dal libro SPRINT FINALE di Attalienti, ed Ferraro. A proposito di D’Annunzio "Per quanto riguarda poi la poesia del D’Annunzio, se qua e là possiamo restare ammirati di fronte a tanta dovizia di parole e tanta abilità stilistica, raramente essa ci commuove, perché la sua perfezione estetica, come disse il Serra, è una perfezione che suona falso (al maschile sul testo)." C. Attalienti usa con una certa superficialità un plurale majestatis che sfugge alla nostra comprensione. "Raramente ci commuove…" Attalienti, invece, ci fa piangere. E tanto!

COMUNISTI? NO, SETTARISTI!

Renzo Arbore, la frase mitica da Bianca Berlinguer a Cartabianca: "Mai comunista, i jazzisti amano la libertà", scrive il 21 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Renzo Arbore è tornato trionfante in televisione con il suo Indietro tutta, a distanza di 30 anni da quel mitico successo, infilandone un altro altrettanto pazzesco. Una scoperta dell'acqua calda da parte della Rai, che l'ha tenuto in soffitta per tutto questo tempo, nonostante il talento arcinoto anche ai sassi. Lo showman si è anche concesso un passaggio su Raitre a Cartabianca, dove la conduttrice Bianca Berlinguer ha ripercorso alcuni passaggi della sua giovinezza: "Io non potevo proprio essere un comunista - ha detto davanti a una sorpresa Berlinguer che gli ha chiesto il motivo - perché ero un jazzista, e i jazzisti amano la libertà". Un mito.

La galassia a sinistra del Pd di Renzi. Non c'è solo Liberi e Uguali di Grasso. Il 17 dicembre potrebbe vedere la luce una lista alternativa dietro la regia di Je so pazzo. Ecco l'inventario dei partiti con falce e martello e dei movimenti che si agitano nell'area, scrive il 13 dicembre 2017 Paolo Martini su "Lettera 43". C'è fermento a sinistra-sinistra. I fari ora sono puntati su Liberi e Uguali, la creatura capitanata da Pietro Grasso che, nei piani, dovrebbe conquistare gli elettori delusi da un Pd renziano considerato troppo moderato se non addirittura di destra. Nell'area, però, non è l'unica novità. Mentre è naufragato il progetto di democrazia e uguaglianza di Anna Falcone e Tomaso Montanari, potrebbe prendere corpo un altro esperimento politico. Il gruppo Je so' pazzo legato a un centro sociale nato in un ex ospedale psichiatrico giudiziario partenopeo a metà novembre ha convocato in assemblea l'«esercito dei sognatori». Ordine del giorno? Costruire una lista elettorale unitaria della sinistra che provi a non usare i simboli tradizionali e che tenti di rivolgersi al popolo. Una alternativa «estranea al politicismo che ha soffocato il Brancaccio», spiega il giornalista Checchino Antonini, animatore della rivista online Popoff. 

IL CAMPIONARIO DEL MOVIMENTISMO. In realtà i temi del programma non si scostano dal solito e noto campionario di battaglie dei movimenti di sinistra, dalla Sicilia del No Muos al No Tav, passando per il No Tap pugliese, dai lavoratori contro la privatizzazione dei servizi pubblici ai ricercatori precari ai temi legati all'Europa. Il prossimo appuntamento è per il 17 dicembre a Roma per una nuova assemblea da cui dovrebbe nascere una lista elettorale: Potere al Popolo. All'assemblea di Potere al Popolo parteciperà anche Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione Comunista. Contrario alle liste di Bersani e D'Alema che «rappresentano una minestra riscaldata» e sono espressione della «vecchia classe dirigente che ha votato la legge Fornero e le altre mille schifezze», Acerbo ha raccolto la sfida lanciata dal centro sociale napoletano Ex Opg occupato Je so pazzo. Nel 2008 il Partito della Rifondazione comunista partecipò alla lista Sinistra Arcobaleno, nel 2013 all'infelice tentativo della lista Rivoluzione civile dell'ex magistrato Antonio Ingroia. Alle Europee del 2014 non andò meglio con L'altra Europa con Tsipras. Anche stavolta non porterà il suo simbolo. Andrà meglio?

LA SINISTRA ANTICAPITALISTA DI TURIGLIATTO. Nell'area si muove anche Sinistra Anticapitalista, componente trozkista di Rifondazione che un tempo rispondeva al nome di Sinistra Critica. Alle elezioni del 2008 presentò anche una propria candidata alla presidenza del Consiglio: Flavia D'Angeli. Sinistra critica si è sciolta nel 2013 e dalla sua scissione è nata Sinistra Anticapitalista, il cui leader è Franco Turigliatto, senatore che fu espulso da Rifondazione comunista nel 2007 e che nel 2008 votò no alla fiducia chiesta dal governo Prodi.

COMUNISTI IN RETE. Al progetto di Potere al popolo aderisce anche la Rete dei comunisti. La si potrebbe definire una galassia nella galassia di sinistra visto che si tratta di un network di associazioni e gruppi che si muovono tra Milano, Torino, Bologna e Napoli che ha come punto di riferimento la rivista Contropiano.

LA PIATTAFORMA EUROSTOP. Presenti all'assemblea del 17 dicembre anche la Piattaforma Eurostop dell'ex sindacalista Cgil Giorgio Cremaschi che si definisce «un'area alternativa mediterranea per rompere la gabbia dell'Unione europea». Il progetto raggruppa partiti e sindacati contro i negoziati per gli accordi di libero commercio Ttip, per l'uscita da euro e Nato, per il “superamento” dell'Unione europea.

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO. Non può mancare poi il Partito comunista italiano. Nato nel 2016, il segretario è Mario Alboresi mentre la presidente del comitato centrale è Manuela Palermi, che è stata più volte parlamentare con Rifondazione comunista. Palermi si era candidata anche alle Comunali di Roma a sostegno di Stefano Fassina. Il Pci ha quasi lo stesso simbolo del Partito comunista italiano di Togliatti e Berlinguer a parte qualche dettaglio grafico. I suoi dirigenti affermano di apprezzare lo sforzo di portare una lista comunista alle elezioni ma hanno messo in chiaro che si sottrarranno a un «cartello elettorale segnato da soggettività, linguaggi e prospettive incompatibili e persino da pulsioni a-comuniste». Il rischio, per tradurre ai non addetti ai lavori, è che l'unità di intenti si infranga sul dilemma se mettere o no il simbolo con la falce e martello.

IL CARC PER IL GOVERNO DEL BLOCCO POPOLARE. Nella nebulosa di sinistra-sinistra trova spazio anche il Partito del Carc per il Governo del Blocco popolare. Partito, è bene ricordarlo, che sul proprio sito salutava i successi del Venezuela bolivariano di Maduro, i progressi nucleari della Corea del Nord (Anzi: della Repubblica democratica di Corea) e che alle Europee del 2014 diede indicazione ai suoi militanti di votare per il Movimento 5 stelle, come aveva fatto alle politiche del 2013. Perché? Si spiegava che «la sola via di salvezza per le masse popolari è instaurare il socialismo» e dunque «costituire il Governo di Blocco Popolare (Gbp)» per liberare «finalmente il nostro Paese e il mondo dalla Corte Pontificia». Sì, ma perché proprio Grillo? Perché «Grillo e il M5s sono gli elementi di un’esplosione nel ventre del vecchio mondo che per noi comunisti è un fortunato insperato incidente, come il pope Gapon lo fu per Lenin e i suoi compagni».

IL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI. Altro giro, altri compagni. Il Partito comunista dei lavoratori è nato nel 2008 e da allora è guidato da Marco Ferrando. Alle prossime elezioni si presenta insieme con un'altra formazione, Sinistra classe e rivoluzione (Scr), che è l'attuale nome dell'ex corrente di Rifondazione Falce e martello. La lista comune si chiama Per una sinistra rivoluzionaria. Alle ultime elezioni il Pcl ottenne lo 0,26% alla Camera e lo 0,37% al Senato.

I COMUNISTI DI RIZZO. Alla lista va aggiunto il Partito comunista di Marco Rizzo capace di una discreta visibilità televisiva rispetto ai suoi competitori. Si presenterà alle elezioni politiche con una propria lista sotto il simbolo della falce e martello. Il Pc esiste dal 2012, con l'attuale nome dal 2014. Euroscettico, alle elezioni amministrative di Roma aveva un candidato sindaco - Alessandro Mustillo - che ottenne poco più di 10 mila voti, pari allo 0,8%.

I COMPAGNI DI ISCHIA. Infine va menzionato il Partito comunista italiano marxista leninista di Ischia. Una realtà familiare e isolana guidata da Domenico di Savio. Il figlio Gennaro si è candidato alle comunali a Ischia pochi mesi fa arrivando però a un debole 4,3%.

Grasso lancia la lista di sinistra, «Battersi perché tutti siano liberi e uguali». Grasso e company: liberi di far danno e uguali nel soffrirne, scrive Gianni Pardo su "Affari Italiani", Lunedì 4 dicembre 2017. Nasce oggi “Liberi e Uguali”, la coalizione dei partitini di estrema sinistra che ha l’intenzione di raccogliere il voto degli scontenti del Partito Democratico. Questi nostalgici del comunismo d’antan si difendono dall’accusa di indebolire la sinistra dicendo che i loro voti non saranno sottratti al Pd ma all’astensione. Infatti voteranno per loro tutti quelli che non sentono di poter più votare per un partito che è divenuto di centro, per non dire il feudo personale di un democristiano. L’argomentazione è speciosa. In assenza di una credibile alternativa più radicale, gli elettori di sinistra, è vero, potrebbero anche chiedersi se astenersi, a costo di favorire obiettivamente gli altri partiti. Ma potrebbero anche “turarsi il naso e votare Pd”, come fecero tanti italiani nel 1976, con la Dc. Ciò significa che, concretamente, la nuova formazione di sinistra potrà seriamente danneggiare il Pd. Infatti rischia di dividere l’elettorato, e la cosa potrebbe rivelarsi disastrosa per la quota maggioritaria dei seggi. Il pericolo sarà grande soprattutto nelle regioni “rosse” dove tanta parte della popolazione, oggi anziana, non ha dimenticato che un tempo votava per un Pci risolutamente antisistema. Chi non è di sinistra potrebbe concludere questo genere di riflessioni con un asciutto: “Fatti loro”. Ma forse avrebbe torto. Pur non avendo potere, l’opposizione influenza il governo del Paese. Tutti credono di sapere che, “per un tempo infinito, in Italia ha comandato soltanto la Dc”. Ma coloro che si interessano seriamente di politica vi diranno che almeno negli ultimi decenni la Dc votava le leggi che aveva prima concordato sottobanco col Pci: si chiamò “consociativismo”. Del resto si è visto: mentre nel dopoguerra la Dc era stata il partito di un grande anticomunista come Alcide De Gasperi, quando scomparve metà dei suoi politici andò a sinistra fino a confluire nel Partito Democratico. La distinzione tra maggioranza e opposizione non sempre è così netta come si crede. L&U probabilmente non andrà al potere ma avrà la sua importanza se si presenterà come megafono delle critiche degli estremisti e dei nostalgici del Pci. Che molti di costoro abbiano tanta voglia di farsi sentire è dimostrato dalla Cgil. Alla prima occasione Susanna Camusso ha imbracciato il fucile contro il Pd, anche al prezzo di spezzare l’unità sindacale e senza curarsi minimamente delle ragioni contabili che stanno alla base del provvedimento sulle pensioni. La noncuranza rispetto alle conseguenze del resto fa parte dell’antica dottrina. La “vera” sinistra non fa di conto. La “vera” sinistra non sostiene il potere. E soprattutto la “vera sinistra” non dimentica la rivoluzione che non riuscì a realizzare. A lungo il Pci ha visto i problemi del Paese come una benedizione: infatti ogni motivo di scontento era un motivo in più perché il popolo imbracciasse schioppi e forconi. La scissione della sinistra non può fare piacere a nessuno. Neanche a chi non sopporta Matteo Renzi. Questi forse ha arrecato un male incalcolabile all’Italia e alla sinistra ma bisognava impedirgli di provocarlo, non arroccarsi sull’Aventino per gridargli dall’alto le proprie maledizioni. L’animosità nei confronti di un singolo non doveva mai arrivare a tali livelli da far pagare al Paese un prezzo troppo alto. Anche se, umanamente, la reazione al pessimo carattere e al pessimo comportamento di quell’uomo non è stata imprevedibile. Indimenticabile un episodio di anni fa. L’attuale segretario del Pd era ancora una novità e qualcuno, in pubblico, accennò alle critiche di Stefano Fassina. Renzi chiese ridendo: “Fassina chi?” e io mi dissi: “Costui è pazzo”. Anche ad ammettere che Fassina fosse la migliore pasta d’uomo, dopo quell’episodio gli avrebbe giurato un odio eterno. E così è stato. Come è stato per tanti altri, al punto che oggi se il Pd è tendenzialmente il “Partito di Renzi”, L&U è il “Partito contro Renzi”, e i nemici di Renzi sono diventati innumerevoli. Così abbiamo in Italia: un partito dominato da un megalomane che da qualche tempo non ne azzecca una; un partito che ha come unico scopo quello di umiliare il suddetto megalomane; un partito di dilettanti allo sbaraglio guidati da un comico; un partito guidato da un leader declinante che, felice della ritrovata visibilità, snocciola più promesse di un ciarlatano di piazza; e infine un demagogo che, sparandole grosse ha portato il suo partito dal 6 al 16%, e ora cerca di spararle sempre più grosse. Infine tutti gli altri personaggi in cerca d’autore. E questo bel panorama politico proprio nel momento in cui vengono al pettine una quantità di nodi da far invidia a un tappeto iraniano.

Ex deputato insulta Matteoli: l'indignazione di Fi, scrive Alberto Giannoni, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Milano Un insulto gratuito, da hater, cioè da «odiatore» di un uomo politico appena scomparso in un incidente stradale. In un giorno di cordoglio (politicamente trasversale) hanno suscitato sorpresa e indignazione le parole che ha scritto a proposito di Altero Matteoli l'ex parlamentare verde Stefano Apuzzo, ex Pd, oggi esponente di Liberi e uguali e assessore comunale a Rozzano, grosso centro (42mila abitanti) alle porte di Milano. Apuzzo ha definito l'ex ministro «un ignorante» e il resto del commento, pubblicato su Facebook, è ancor più volgare: «Le dichiarazioni di Apuzzo sono incommentabili e miserabili - ha tuonato il capogruppo milanese di Forza Italia Gianluca Comazzi - L'odio della sinistra nei confronti degli avversari politici non si ferma nemmeno davanti alla morte. Come può questo personaggio avere ruoli di responsabilità istituzionale? Il sindaco di Rozzano gli ritiri immediatamente le deleghe». L'assessore in seguito ha cancellato le sue parole ma senza scusarsi: «Pentito mai - ha spiegato - ho tolto il commento perché era inopportuno e fuori luogo, ma era una battuta in napoletano, il concetto è che anche se qualcuno è morto non può essere santificato. L'ho fatto a cuor leggero e pensandoci bene non è elegante, ma di altri non lo avrei scritto». A parte questa sgradevole eccezione, il senatore ex Msi è stato ricordato da molti con rispetto e ammirazione per la sua lunga militanza politica e istituzionale. Anche l'assemblea capitolina si è fermata per un minuto su richiesta di un consigliere di Fi. La salma dell'ex ministro sarà trasportata a Roma, dove domani sarà allestita la camera ardente in Senato. Oggi all'ospedale di Orbetello sarà eseguita l'autopsia, disposta dal pm di turno di Grosseto. L'esame intende accertare anche se Matteoli sia stato colto da un malore mentre si trovava alla guida della sua auto. Il magistrato ha fatto sequestrare le due vetture coinvolte nell'incidente, anche la Nissan Qashqai a bordo della quale viaggiavano un uomo di 50 anni e una donna di 47, entrambi romani, feriti e in gravi condizioni ma non in pericolo di vita.

Liberi, uguali e già divisi, è lite sul simbolo di Grasso. Polemiche contro i bersaniani per il nome dell'ex pm nel logo. Le femministe si infuriano per le "foglioline", scrive Laura Cesaretti, Martedì 12/12/2017, su "Il Giornale". Lo strano spettacolo di un presidente del Senato che, seduto non molto a suo agio nel salottino tv di Fabio Fazio sulla Rai, espone un simbolo del partito di D'Alema e Bersani e lo illustra, scatena l'ironia sui social. «Amaranto, ha detto amaranto? Gli hanno fatto credere che non è rosso?», sghignazzano in molti su Twitter, mentre il povero Pietro Grasso si inerpica in originali distinguo cromatici («Per gli antichi romani amaranto significava protezione»), e intanto sullo schermo lampeggia il rosso squillante di un marchio che fa molto Partito comunista cinese. Sul logo spicca in bianco la scritta «Grasso», nel senso di Pietro: «Io non volevo, ma mi hanno spiegato che è come il braccialetto per i neonati», si giustifica il diretto interessato. Peccato, gli ricordano sul web, che la scissione che ha dato vita a Mdp (ora ribattezzata «Liberi e Uguali Con Grasso») era nata al grido di «Basta col partito personale di Renzi». «Io non metterei mai il mio nome in un simbolo», aveva giurato un tempo Bersani. «Infatti ci ha messo quello di un altro», chiosa un cinguettatore di Twitter. Ma il culmine deve ancora arrivare. Il conduttore tv chiede spiegazioni sul misterioso segno grafico che compare accanto al nome del partitino. Grasso ci prova: «Ci sono delle foglioline, accanto alla i, per dare l'idea dell'ambiente, sa, per le foglie». Ma non è tutto: «Queste foglioline formano una E, e questa E dà la possibilità di individuare le donne come elemento fondante della nostra formazione politica: noi abbiamo la parità di genere come elemento fondante». Per ora, in verità, la percentuale di donne ai vertici di Liberi e Uguali è più o meno analoga a quella dell'Arabia Saudita. Ma presto, a rialzare l'asticella, arriverà Laura Boldrini, e forse pure Rosy Bindi. Nel frattempo, però, sul povero presidente uscente del Senato si scatena il finimondo per quella confusa equiparazione tra foglioline, natura da proteggere e genere femminile. Le più seccate sono proprio le femministe vicine alla sinistra anti Pd. «Caro Grasso, credo che quelle tre foglioline siano i tre moschettieri con lei nella foto circolata in questi giorni», replica Fulvia Bandoli, già parlamentare Ds, riferendosi ai «capi» del partito di D'Alema e Bersani: Speranza, Civati e Fratoianni, tutti rigorosamente maschi. «Le donne simboleggiate da tre foglioline sono errori disperanti e non piccoli, come il nome di Grasso nel simbolo». È imbufalita anche Lorella Zanardo, nota per il documentario Il corpo delle donne e vicina a Sel: «Schedine Meteorine Veline. Per Natale anche Liberi e Uguali promuove le donne e ci definisce Foglioline. E da un partito di sinistra? No grazie». L'hashtag «Foglioline» impazza sui social network, nasce anche un account con questo nome, e le battute si sprecano. C'è chi reinterpreta Ungaretti: «Si sta come d'autunno sugli alberi le donne», scrive Dario Ballini. E chi evoca Umberto Saba: «Sono una fogliolina appena nata, e intenerisco ai giovinetti il cuore», cita Guido Vitiello. «Grasso presenta il simbolo con tanto di foglioline. Quelle che si fuma lui?», si chiede perfida Pamela Ferrara. Intanto si scopre che il simbolo è molto simile (dalla scritta alle foglioline) a quello che lanciò tempo fa Emergency per raccogliere fondi. L'autore del logo, che poi è il fratello di Pippo Civati, complica ulteriormente le cose spiegando che la E è anche un 3 che sta per l'articolo 3 della Costituzione. Su Twitter tagliano corto: compare e presto dilaga in rete un marchio uguale, ma con tre baffetti dalemiani al posto delle foglioline: «Con Grasso. Diciamo...». Ma «il partito lo guiderò io, se ne accorgeranno», giura Grasso, mentre D'Alema ride sotto i baffi. Alle elezioni vuole «accumulare un tesoretto» di voti. Poi si vedrà. Magari lo si consegnerà a Di Maio. Oppure anche al Pd: «Vedremo che fare», si lascia aperte le porte Grasso.

La sinistra dalla questione morale a quella nominale. Un anno di scissioni, unioni mancate, improbabili alleanze, ma ora non va bene neanche Liberi e uguali, troppo maschile, scrive David Allegranti il 6 Dicembre 2017 su "Il Foglio". “Nasce Dp”, al secolo Democratici e Progressisti, titolavano i giornali del 23 febbraio 2017, quando dalla scissione col Pd sorse il partito di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Solo che Dp ricordava troppo Democrazia Proletaria, meglio Mdp, che però rievocava, chissà perché!, il Monte dei Paschi. Non solo: a Mdp, Movimento Democratici e Progressisti fu subito aggiunto l’“Articolo 1”, per non dimenticare le radici costituzionali e non essere da meno dei Montanari e delle Falcone, sempre pronti a dare lezioni di costituzionalmente corretto. Un risultato leggermente cacofonico: Mdp-Articolo 1, per la gioia dei sondaggisti. Nell’ultimo anno a sinistra la questione nominale ha preso il sopravvento sul resto (un tempo era tutta campagna e questione morale). Chi siamo, dove andiamo, come ci chiamiamo: c’è stato un momento in cui l’unità della sinistra pareva Possibile, non solo civatianamente parlando, ed è stato a luglio, il primo luglio, quando Giuliano Pisapia, di Campo Progressista, e i demoprogressisti si sono trovati in piazza per dire “Insieme”, anche se insieme non sono mai stati. Il titubante Giuliano Pisapia, infatti, non ha mai gradito del tutto la compagnia di giro dalemiana, tutta orientata all’antirenzismo. E infatti, l’ex sindaco di Milano ha a lungo sperato che D’Alema venisse commissariato da Bersani, se non da Speranza. Macché. Insieme, ma ognuno per la sua strada. Pisapia da una parte, Mdp, Possibile e Sinistra Italiana, nata dalla fusione di Sinistra Ecologia Libertà, SeL, Futuro a Sinistra (by Stefano Fassina) e alcuni ex del Movimento 5 Stelle. Dopo quasi un anno di discussioni e “dibbbattiti” (no il dibbbattito no!) e alcuni passaggi non del tutto soddisfacenti (come quando Oliviero Toscani ha presentato “Max” come simbolo per il nuovo partito) nato infine Liberi e Uguali. Dirige il maestro Pietro Grasso. Anche qui, però, non mancano i problemi, perché c’è chi fa notare che o si è liberi o si è uguali. In più, i Liberi e Uguali sono tutti uomini. Speranza, Grasso, Civati, Nicola Fratoianni. E le donne? Laura Boldrini? Civati non si sottrae al problema, preso di petto dal manifesto. “E allora – sottolinea il quotidiano comunista – parliamo del nome della lista: maschile plurale. Già ai tempi di ‘democratici di sinistra’ era indigeribile per la maggior parte delle iscritte”. “Se dovessimo fermarci ad oggi – risponde Civati – non piacerebbe neanche a me. Fortunatamente è un processo che inizia. Ma mi fanno sorridere le colleghe del Pd che dicono che noi siamo tutti maschi e invece loro stanno in una coalizione Renzi-Alfano-Pisapia”. Epperò, garantisce Civati, “dai prossimi giorni ci saranno figure che non serviranno solo a fare la quota ma ad aggiungere uno sguardo che fin qui è mancato. Peraltro l’intervento più bello di domenica è stato quello di Rossella Muroni, non per una questione di genere ma per una questione politica e culturale”. Insomma, “anche per questo è fondamentale che Laura Boldrini sia in questa nostra storia”. Chiarisce tutto Chiara Geloni con un tweet: “Il plurale di LIBERO e LIBERA è LIBERI. Il plurale di UGUALE e UGUALE (si dice uguale) è UGUALI. #LIBERIeUGUALI non è un nome maschile. E’ un nome plurale”. In alternativa, suggeriamo un nome politicamente corretto: Liber* e Ugual*.

Per Grasso (e Fazio): le donne sono foglioline, ecco l’inconsapevole sessismo di sinistra. Pietro Grasso, e con lui la sinistra dolcemente antagonista, pensa alle donne come a una riserva da difendere. Come madri, sorelle, fonti di ispirazione. Sesso debole, insomma. E tutto sa tanto di sessismo inconsapevole, scrive Simonetta Sciandivasci il 12 Dicembre 2017 su "L’Inkiesta". Pietro Grasso non ha mai detto che le donne sono foglioline. A dirla tutta, a dirla bene, la colpa è di Fazio, mannaggia a lui. È stato lui a dire: «presidente, le foglioline», mentre Grasso, suo ospite domenica sera, presentando agli italiani il simbolo di Liberi e Uguali, spiegava che Liberi finisce in I e pure in E, «perché noi abbiamo come elemento fondante la parità di genere». E che le foglioline rimandano all’ambiente. E alle donne, «elemento fondante della nostra formazione politica, del resto le madri, sorelle, compagne, lavoratrici possono aiutarci a cambiare realmente questo paese». Il passaparola dell’indignazione, però, dovendo sintetizzare, ha deciso che il Presidente del Senato reputa le donne dei vegetali. Degli ornamenti. Degli accessori. Dei derivati dell’uomo (come Eva, più di Eva). È impreciso (e Il Corriere della Sera ha tenuto a sottolinearlo). Ed è parecchio peggio di così: Pietro Grasso, e con lui la sinistra dolcemente antagonista che si candida a rappresentare alle prossime elezioni, pensa alle donne come a una riserva da difendere e tutelare (e non è un caso che l’idea grafica del logo del partito sia suggerire, attraverso quella E le sue foglioline, donne e ambiente). Lo schema è chiaro: «Le compagne possono aiutarci a cambiare realmente questo paese». Noi siamo i maschi che hanno stilato il progetto, voi siete quelle che lo affinano, lo patrocinano (matrocinano?) e, soprattutto, lo nobilitano. Le donne sono l’intestazione, la giusta causa, l’ideale a cui tendere e ispirarsi. ​La ragione per la quale nel gruppo dirigente di Liberi e Uguali ci sono solo uomini non è la discriminazione sessista, bensì la salvaguardia, l’idea che il paese vada reso a misura di donna affinché una donna possa agirci dentro. Lo schema è chiaro: «Le compagne possono aiutarci a cambiare realmente questo paese». Noi siamo i maschi che hanno stilato il progetto, voi siete quelle che lo affinano, lo patrocinano (matrocinano?) e, soprattutto, lo nobilitano. Le donne sono l’intestazione, la giusta causa, l’ideale a cui tendere e ispirarsi. Da cosa mutua, Grasso, questo paradigma? Dal patriarcato? Da una cultura politica che alla richiesta di una parità nella differenza, inoltrata dalle femministe degli anni Settanta, ha risposto con l’assorbimento delle differenze ed è riuscita a esprimere sempre e solo strategie per le donne, ma mai delle donne? Non solo. A prestare il fianco alla sublimazione delle donne da caratteri agenti a “elementi fondanti” - e alla stucchevole musealità che ne consegue - è anche l’identificazione del femminile con la virtù morale e del maschile con la sopraffazione, che ultimamente regola il pensiero sulla relazione tra l’uno e l’altro ed ha coniato un femminismo d’accatto (che lorsignori usano per lustrarsi e posizionarsi dalla parte delle donne, la parte più giusta possibile). Di recente, Pietro Grasso ha chiesto scusa, a nome di tutti gli uomini, alle donne vittime di violenza: in accordo con Laura Boldrini, a parere della quale la violenza sulle donne “è colpa degli uomini”, ritiene che i maschi siano ontologicamente brutali. Dev’essere per questo che preferisce mandar loro al macello. Noialtre, risparmiate dall’agone politico e dalle sue brutture, ci godremo il ruolo di co-autrici, firmatarie, approvatrici, sostenitrici. Sempre meglio di quando, estromesse da tutto, le foglioline le usavamo sapientemente per distillare veleni letali. Armiamoci, tanto partono loro.

Maurizio Gasparri, "Grasso leader? Oggi ti incoronano ma domani ti...", scrive il 15 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". "Oggi ti incoronano ma domani ti in...". Il vicepresidente del senato Maurizio Gasparri commenta così la candidatura del presidente Pietro Grasso con Liberi e Uguali ospite a L'aria che tira, su La7. E Myrta Merlino conclude con un sobrio "Ti infilzano...". 

Pietro Grasso, come fa lo snob di sinistra perché non lo invitano in tv: "Mi sono candidato in Parlamento, non a X Factor", scrive il 20 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". L'ultimo miracolo realizzato dal candidato di Liberi e Uguali, Pietro Grasso, è stato riportare la sinistra italiana alle idee di almeno vent'anni fa. I nipoti dei comunisti nostrani da qualche anni sembravano aver fatto pace con la modernità, accettando anche di andare in tv per confrontarsi con gli avversari politici, dopo vent'anni di ceffoni berlusconiani incassati senza colpo ferire. Doveva arrivare Grasso per risentire qualcuno criticare la presenza dei politici in tv, quello stesso strumento diabolico che trasmette reality e talent. L'idea geniale di Grasso è di portare avanti la sua campagna elettorale facendo a meno del mezzo di informazione usato dalla quasi totalità di italiani, e il motivo spiegato in un'intervista al Corriere della sera, è tutto da ridere: "Mi candido per il Parlamento - ha precisato il presidente del Senato - non per X Factor. Non mi interessa affascinare, né scontrarmi secondo logiche che non mi appartengono. La mia idea di politica non è la battaglia televisiva, ma presentare la soluzione dei problemi. Se è necessario parteciperò ai confronti, ma non amo gli scontri". Certo però qualcuno dovrà dire a Grasso che gli servirà anche qualcuno che lo inviti in tv per poterci andare.

Se Grasso è la maschera dei comunisti, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 06/12/2017, su "Il Giornale".  «Una maschera ci dice più di una faccia», diceva Oscar Wilde. E la maschera indossata da Pietro Grasso dice molte cose, prima fra tutte il voler nascondere la propria identità. «Liberi e uguali», il partito nato dalla scissione del Pd, è un partito neocomunista fondato da ex comunisti. Ma di quella sciagurata e inattuale storia non c'è traccia nel nome, negli slogan, persino nei colori del simbolo epurati dallo storico rosso. Tutto questo non è un caso, ma una consapevole strategia di marketing politico: persino i comunisti sanno che oggi tutto ciò che si rifà alla loro tradizione non solo non può avere mercato, ma è considerato respingente nell'opinione pubblica e non in grado di contendere un numero importante di voti al Pd renziano. «Liberi e uguali» è un'etichetta per cercare di rimettere in circolo un prodotto scaduto. Se scarti la nuova e luccicante confezione ci ritrovi esattamente quella roba che da tempo rimaneva invenduta sugli scaffali. Ma il consumatore non lo sa, e quando se ne accorgerà sarà troppo tardi. Una truffa commerciale, tipo il «Nuovo centrodestra» di Alfano che si è poi rivelato il più vecchio e sinistrorso partito della legislatura. Ma anche come i Cinquestelle, prodotto questo di successo perché ancora non ha tolto la maschera. Tutti ascoltano divertiti Grillo, tanti seguono il bel Di Maio in tv, ma nessuno ha letto i loro programmi, cioè è andato a curiosare dietro le apparenze. Perché se uno lo facesse, scoprirebbe che quello di Grillo è un partito comunista come e se non più di quello di Grasso. E non è un caso che come da noi anticipato settimane fa l'unica alleanza post elettorale che i grillini non escludono sia proprio quella con «Liberi e uguali». Grillo e Grasso sono le due facce della stessa moneta, una moderna e giovanilista, l'altra attempata e paludata da anni di frequentazione ed esercizio del potere. Parliamo di una moneta fuori corso che questi signori sperano di spacciare come il toccasana dell'economia e della società. Ci sono tanti tipi di fake news. E quelle messe in giro dai servizi segreti russi per influenzare il voto americano non sono più pericolose di quelle confezionate nella stanza del presidente del Senato italiano per inquinare la democrazia italiana con un partito neocomunista travestito da altro.

Vittorio Feltri il 21 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano": "Pietro Grasso ha un conto in sospeso col Pd, gli deve 80mila euro". Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ex magistrato di cui non conosciamo le opere, al termine della legislatura ha fondato un partito denominato "Liberi e uguali". Liberi da chi e uguali a chi? Mistero. Prima o poi sarà costretto a svelarlo. Attendiamo fiduciosi. Nel frattempo ci sia consentito fare un piccolo ragionamento. Questo signore siciliano si è occupato di mafia per anni con risultati che ci sfuggono. A un certo punto, stanco di indossare la toga, ha accettato di candidarsi quale senatore. E il Pd lo ha accolto entusiasticamente nelle proprie liste ed egli ha conquistato uno scranno a Palazzo Madama. Complimenti soprattutto al partito che lo ha sostenuto con successo. Grasso, non soddisfatto di aver sfondato in politica, ha giocato una carta decisiva, subito raccolta con soddisfazione da Bersani, allora segretario dem. Si è proposto quale presidente del Senato e tra lo stupore generale è stato votato dalla maggioranza. Fino a quel momento glorioso nessuno sapeva chi diavolo fosse Grasso: nel giro di una giornata, cioè all'improvviso, è diventato un big. Presidente di qua, presidente di là, costui è entrato inopinatamente nella cerchia di quelli che contano: interviste televisive e sulla carta stampata, elogi sperticati, complimenti vivissimi per le trasmissioni. Trascorrono gli anni e il popolazzo si abitua a vedere sul video l'immagine di Grasso e si convince che trattasi di personaggio davvero importante. Il guaio è che egli stesso si persuade di essere un divo, cosicché, lusingato dalle carezze e dalle blandizie della sinistra piddina, si stacca dal partito renziano che lo aveva issato sul trono senatoriale, e diventa leader di un nuovo movimento in contrasto con quello nelle cui file era stato eletto. Mi riferisco appunto a Liberi e uguali, spero non a lui. Il quale è padronissimo di mollare il Pd renziano, ci mancherebbe, ma per correttezza, prima di sbattere la porta e andarsene, farebbe bene a saldare le quote che non ha mai versato al partito di provenienza ossia 80 mila euro circa. Non è rassicurante il fatto che Grasso lasci un buco così quale eredità delle sue performance di presidente del Senato. Non sono i debiti che ci spaventano, bensì coloro che si guardano dal pagarli.

Magistrati capopopolo. Ora tocca a Grasso, scrive Piero Sansonetti il 28 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il primo a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi e i corrotti fu Tonino Pietro. Fu anche il primo a entrare in politica…In principio fu Di Pietro. Sì, fu lui a inventare la figura del magistrato sceriffo, del Pm combattente, l’eroe che sbaraglia il male, i malvagi, i corrotti. La cui immagine campeggia sui giornali e in Tv. E che poi si autonomina capopopolo e entra in politica con fare da Peròn. Prima di Di Pietro questo personaggio non esisteva. Poi vennero i tanti figliocci di Di Pietro. Ma nessuno col suo carisma, col suo piglio. Per esempio De Magistris, per esempio Ingroia, per esempio Emiliano. E ora, ultimo della serie, Piero Grasso. I magnifici cinque. Non tutti uguali. Non tutti con la stessa carriera e robustezza professionale. Tutti però con la medesima idea in testa. Che il consenso – ingrediente fondamentale della politica, e quindi del potere – non si conquista con un programma, con una strategia, con un sistema di idee, ma si conquista con la spettacolarizzazione della propria figura; e una interpretazione populista del ruolo del magistrato può aiutare moltissimo. Magistrati capopopolo: stavolta tocca a Grasso. Per ora sono cinque, ma piccoli Di Pietro crescono. In fila ci sono molti aspiranti. Per esempio Di Matteo, per esempio Davigo.

Di Pietro irrompe sulla ribalta della grande politica subito dopo la più importante inchiesta politico- giudiziaria di tutti i tempi. “Mani Pulite”. Che porta il suo marchio ed è frutto del suo ingegno. Anche altri magistrati collaborarono con lui (come Borrelli, come Davigo) ma senza Di Pietro e le sue straordinarie capacità di inquisizione e di dominio della scena, “Mani pulite” si sarebbe fermata prima di cominciare. Come era successo con decine di altre inchieste, che sfioravano il potere politico, affossate nei decenni precedenti. Di Pietro prima di tutto rase al suolo il palazzo, minacciando persino i templi della grande economia e della Finanza. Poi decise di lasciare la magistratura, dopo aver ferito a morte Craxi, Forlani, Martelli, La Malfa, De Mita, e un altro centinaio di dirigenti politici medi o alti. A quel punto si mosse con circospezione, respingendo una proposta della destra, accettandone una della sinistra e alla fine mettendosi in proprio e creando un partito che ebbe un ruolo decisivo negli equilibri del centrosinistra fino al giorno che un nemico imprevisto (Milena Gabanelli) decise di eliminarlo usando uno strumento che di Pietro conosceva bene: la Tv. E in una trasmissione Tv lo accusò di disporre di troppe case (anche se non era vero) e in pochi giorni fece in modo che i sondaggi, che ormai lo davano al 10 per cento, scendessero al 2, spalancando la porta a Beppe Grillo.

De Magistris seguì una strada diversa. Non disponeva certo delle stesse capacità investigative di Di Pietro, si lanciò lo stesso in una grande inchiesta che catturò l’attenzione dei mass media. Mise sotto accusa mezza Calabria e un po’ di Campania e Basilicata, con l’inchiesta Why Not. Titoli in prima pagina centinaia, condanne zero. Ma non era quello che contava, e quando si presentò candidato per fare il sindaco di Napoli, stravinse nel tripudio popolare.

Di Ingroia si sa. Cercò di mettere a frutto le inchieste antimafia di Palermo, e soprattutto il processo per la famosa trattativa- stato- mafia. Ma gli andò male. Mise insieme un partitino che doveva riportare in vita il vecchio partito di Di Pietro più Rifondazione e altri. Restò sotto la soglia del 3 per cento alle elezioni del 2013, e niente Parlamento.

Infine Emiliano, ma la sua vicenda è ancora in viaggio. Anche lui faceva il magistrato in Puglia, ed era molto popolare. Diventò famoso e così riuscì a farsi eleggere prima sindaco di Bari e poi presidente della Regione. Ora punta in alto, probabilmente non ha rinunciato a succedere a Renzi alla direzione del Pd. Però l’operazione è ancora in alto mare.

Ed ecco, infine Grasso. Che sembra senza molti dubbi il nuovo leader della nuova formazione di sinistra nata in opposizione a Renzi. All’inizio si pensava che il leader di questa formazione potesse essere Giuliano Pisapia, ma Piero Grasso sembra avergli soffiato il posto.

Sarà un caso, naturalmente, ma forse no: Pisapia è un celebre avvocato garantista, Grasso invece è un magistrato.

E normale che le cose vadano così? E’ un’inventariabile conseguenza del nuovo corso della democrazia populista, che sta dilagando in Italia e non solo? La fusione tra populismo giudiziario e populismo politico è il destino immodificabile? E per la magistratura è un bene, o è una perdita di funzione e di autorevolezza? Le lascio lì, queste domande. Ricordandomi però, forse perché sono vecchio, che una volta il rapporto tra magistratura e politica era diverso. Anche allora, ogni tanto, i magistrati entravano in politica, ma con intenzioni diverse e diverse ambizioni. Non dovete pensare che i magistrati siano solo persone in cerca di potere. Molti di loro non lo sono affatto. Voglio raccontarvi una storia di una quarantina di anni fa. C’era un magistrato palermitano molto impegnato nelle indagini sulla mafia. Aveva fatto condannare all’ergastolo Luciano Liggio, uno tra più celebri e spietati capi della cupola. Lui si chiamava Cesare Terranova. Nel 1972 accettò di candidarsi al Parlamento per il Pci ed entrò in commissione antimafia. In quegli anni non esistevano i professionisti dell’antimafia. Non avevi nessun vantaggio a strepitare contro le cosche, anche perché né la politica né i giornali ammettevano l’esistenza di Cosa Nostra. Facevano finta che fosse una leggenda. Terranova decise di andare in Parlamento per denunciare. Non cercò mai di fare una carriera politica. Ancora in quegli anni, una volta, si rifiutò di pubblicare le liste di “proscrizione”, alla vigilia delle elezioni, anche se al suo partito sarebbe convenuto. Perché – disse – il compito della commissione antimafia non era quello. Nel 1979 rinunciò alla candidatura e tornò a fare il magistrato. Forse sbagliando. La mafia non gli perdonò il suo impegno. Ha la memoria lunga Cosa Nostra. Il 25 settembre, un paio di mesi dopo aver abbandonato Montecitorio, stava guidando la macchina nel centro di Palermo, con a fianco la guardia del corpo, Lenin Mancuso. Gli sbarrarono la strada e iniziarono a sparare, coi fucili e con le rivoltelle. Lui cercò di fare marcia indietro ma gli furono addosso. Gli diedero il colpo di grazia alla nuca. Mancuso morì il giorno dopo.

Cacciari: «Grasso leader? Che triste la sinistra che si consegna ai Pm». Intervista di Rocco Vazzana dell'11 Novembre 2017, su "Il Dubbio".  Intervista al filosofo ed ex sindaco di Venezia. A sentire Massimo Cacciari il futuro della sinistra italiana è tutt’altro che roseo. Il Pd? «Un partito mai nato». Renzi? «Concepisce solo il potere personale». Gli scissionisti? «Deprimenti, senza idee e ancora a inseguire i magistrati in politica». Il filosofo veneto fa un’analisi spietata della situazione. «Ma non c’è nulla di nuovo», dice, «sono dieci anni che ripeto questo cose e nessuno mi ha mai ascoltato», precisa con un tono quasi annoiato. Nessuno stupore neanche di fronte alla debacle siciliana del partito, un risultato ampiamente prevedibile.

Professore, le tende di Prodi continuano ad allontanarsi mentre il Pd subisce l’ennesima sconfitta elettorale. Cosa succede?

«Che il Partito democratico non si è mai costituito come partito. Fin dal primo istante si è capito che l’operazione era impossibile, le vecchie direzioni non sono riuscite a dar vita ad alcunché di nuovo. E da queste macerie è venuto fuori Matteo Renzi che con le tradizioni precedenti non aveva nulla da spartire e non aveva alcuna idea di partito. Solo un’idea di potere personale, con la sua corte, che è la negazione di una concezione partitica. Da questo deriva un programma completamente distaccato dai problemi sociali ed economici del Paese, lontano dagli interessi della base e della stragrande maggioranza degli elettori del Pd. Basti pensare alla scuola dove si sono persi tutti i voti arrivati in occasione delle Europee. Il fallimento non è spiegabile con un motivo unico, risiede in una serie infinita di questioni che non hanno funzionato».

Qualcuno adesso chiede a Renzi un passo indietro, potrebbe essere una soluzione per ripartire?

«È una cosa senza senso, è come dire che se mia nonna avesse le ruote sarebbe una carriola. Renzi non è umo da passi indietro. I passi indietro li potevi chiedere ai leader politici che appartenevano a un partito, qui c’è un partito che appartiene a un leader. Renzi è figlio di un’altra epoca politica e più che uscire di scena tenterà di giocare alla Macron».

Rottamando direttamente il partito come il presidente francese?

«Esattamente. Non resta da rottamare più nessun dirigente, punterà alla definitiva rottamazione del Partito democratico, sostituendolo con se medesimo e la sua corte».

Non troverebbe alcuna resistenza a perseguire un disegno simile?

«L’area che fa riferimento a Dario Franceschini continuerà a sostenere il segretario fintantoché avrà garantiti alcuni seggi. Discorso diverso per Andrea Orlando e Gianni Cuperlo che non sono democristiani e a un certo punto decideranno di andarsene, non ce la faranno a restare dentro un partito di quel tipo».

A meno che Renzi non decida di rinunciare quantomeno alla premiership…

«Rinunciare significa ammettere di aver sbagliato tutto ed essere disposti a ricominciare daccapo con una gestione collegiale del partito, con la formazione di un comitato unitario per la scrittura del programma e la compilazione delle liste elettorali. Non credo che Renzi sia capace di una scelta simile, non lo farà mai».

Intanto a sinistra, D’Alema e compagni lanciano la sfida al Pd candidando Piero Grasso…

«Bisogna ancora vedere se Grasso alla fine ci starà e poi mi lasci dire una cosa».

Prego.

«È deprimente».

Cosa?

«La sinistra che ancora insegue la magistratura. Ma le pare? Basta, basta, basta».

Forse non c’erano altri nomi da spendere?

«E se non hai altri nomi da spendere e non hai altre idee per la testa vai a casa e goditi la pensione».

Gli scissionisti non hanno chance di successo?

«Non hanno alcun progetto politico se non la vendetta».

Impossibili gli apparentamenti elettorali col Pd?

«E come fanno? Dovrebbero superare ogni soglia minima del pudore. L’unico accordo che potrebbero fare, escludendo la possibilità di un’autentica coalizione, è sui collegi. Ma è tecnicamente impossibile con l’attuale legge elettorale, perché fare la desistenza sui collegi significa non raggiungere neanche i voti per entrare in Parlamento».

Quindi a contendersi il governo del Paese saranno solo 5 Stelle e centrodestra?

«A meno di incredibili e plateali colpi di scena sarà così. E l’unico colpo di scena, che metterebbe davvero in seri pasticci i d’alemiani, sarebbe che Renzi dicesse: ok, facciamo le primarie di coalizione. Ma dubito che andrà così, perché in ogni caso sarebbe una decisione troppo tardiva e stiracchiata. Il segretario del Pd avrebbe dovuto pensarci prima, quando gli altri insistevano per andare in quella direzione. Renzi avrebbe vinto e avrebbe imbrigliato tutti gli altri, ma gli dei accecano coloro che vogliono perdere».

E con un Renzi indebolito aumentano le quotazioni di un Gentiloni bis?

«E chi può dirlo. Certo è che con questa legge elettorale non verrà fuori nessuna maggioranza di governo e partiranno le pattuglie di convergenza tra Pd e Forza Italia. Ma siamo sicuri che basteranno? Forse a quel punto sarà più facile immaginare una coalizione tra Lega e Movimento 5 Stelle». 

Ai comunisti non piacciono gli abbracci, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 24/07/2017, su "Il Giornale". Come politico ha fatto due legislature da deputato di Rifondazione comunista; come sindaco ha spalancato le porte di Milano ai centri sociali, agli immigrati e ai matrimoni gay; da avvocato ha difeso due icone della sinistra: la famiglia di Carlo Giuliani (il giovane galantuomo morto mentre cercava di spaccare la testa di un carabiniere con un estintore al G8 di Genova) e Carlo De Benedetti (l'editore di la Repubblica e non solo) nella causa contro Berlusconi. Ma tutto questo a Giuliano Pisapia non è bastato per mantenersi in purezza. È scivolato sulla più classica delle bucce di banana, come capita a noi non più giovani: un sorriso troppo smaccato e un abbraccio giudicato eccessivamente affettuoso nei confronti di una bella e giovane signora, che di nome fa Maria Elena Boschi. Apriti cielo. I compagni fuoriusciti dal Pd che lo stavano incoronando leader della sinistra antirenziana (per intenderci i comunisti) hanno tirato il freno a mano. Fermi tutti: uno che abbraccia la Boschi (è successo sul palco della Festa dell'Unità, non in una alcova clandestina) non può essere il nostro capo. E su questo è in corso un «ampio e approfondito dibattito» in stile soviet con tanto di richieste al povero fedifrago di chiarimenti e scuse ufficiali. Detto che, fuori di metafora e senza voler irritare la Boldrini con tesi maschiliste, la Boschi la vorrebbero abbracciare due terzi degli italiani di sinistra, centro e destra, e detto che per una volta nella vita il grigio Pisapia ha fatto qualcosa di umano e simpatico per cui invidiarlo, questa surreale polemica dimostra con che gente ha avuto a che fare il - in questo caso - povero Renzi. Vietato sorridere al nemico, anche se è una signora. L'odio al posto della galanteria, il disprezzo che deve farsi fisicità, la politica che deve diventare fatto personale. Questi sono pazzi pericolosi (lo sono sempre stati) oltre che di una stupidità che li copre di ridicolo. Già che ci siamo, confesso a Paolo Berlusconi, mio editore, che anche io ho peccato, purtroppo non con la Boschi. L'altra sera sono stato appositamente a un dibattito per ascoltare Marco Carrai, che di Renzi è forse il più importante stratega, oltre che genio dell'informatica. Ne è valsa la pena, persona molto interessante e preparata. Alla fine gli ho stretto la mano. Non essendo né io né Paolo Berlusconi comunisti, sono certo che la cosa non avrà conseguenze. Perché noi, per fortuna, siamo fatti così.

Dal Pci a Mdp: tutte le scissioni, le rifondazioni e i tradimenti della sinistra. Occhetto, Cossutta, Vendola, D’Alema, Bertinotti, Bersani. L’elenco delle spaccature e ricuciture all’interno dell’universo «rosso». In un ginepraio di decine di sigle e loghi, scrive Franco Stefanoni il 26 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera".

Il primo Partito socialista (1892). La storia della sinistra italiana è ricca di esperienze, di nascita di nuovi soggetti come di scissioni e di spaccature. Proviamo a ripercorrere le principali vicende con i simboli dei partiti che si sono affacciati sulla scena politica nazionale. Il Partito socialista è la prima formazione organizzata della sinistra in Italia. Viene fondato a Genova e nel 1895 assume la sigla di Psi. Alla sua fondazione, nel 1892, nella sala Sivori di Genova, ebbe il nome di Partito dei Lavoratori Italiani; successivamente a Reggio Emilia nel 1893 il nome venne cambiato in Partito Socialista dei Lavoratori Italiani; al congresso di Parma del 1895 assunse il nome definitivo di Partito Socialista Italiano.

Il Partito Comunista Italiano (1921). A Livorno la corrente rivoluzionaria del Psi, insoddisfatta per l’esito del congresso, lascia l’organizzazione e fonda il Partito comunista italiano. Fu il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, nato il 21 gennaio 1921 come Partito Comunista d’Italia - sezione italiana della III Internazionale (denominazione che mantenne fino al giugno del 1943, allo scioglimento del Comintern), a seguito del biennio rosso e della Rivoluzione d’ottobre, per la separazione dell’ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, al XVII Congresso socialista.

Partito socialdemocratico (1947). La corrente moderata del Psi guidata da Giuseppe Saragat, in polemica con la linea di collaborazione con i comunisti, fonda il Partito socialdemocratico. Era l’11 gennaio 1947, quando, con la rievocazione dell’antecedente esperienza prefascista, di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, in seguito alla scissione di Palazzo Barberini dal Partito Socialista Italiano della corrente di Saragat, si forma il Psdi. Entrato in una lunga fase di agonia dopo lo scoppio dello scandalo di Tangentopoli fra il 1992 e il 1994, il partito è scomparso nel 1998 per aderire ai Socialisti Democratici Italiani. Nel 2004 il Psdi è stato rifondato con nome e simbolo identici, in continuità giuridica con l’esperienza precedente, senza tuttavia riottenere una significativa consistenza politica (ha avuto un solo parlamentare, eletto nelle file dell’Ulivo nel 2006).

Partito socialista di unità proletaria (1964). Dopo i fatti di Ungheria (1956) i rapporti tra Psi e Pci peggiorano. I socialisti filo Pci fondano il Partito socialista di unità proletaria. Aderirono allo Psiup quei militanti socialisti che erano contrari alla collaborazione diretta del Psi, con propri ministri, al primo governo di centro-sinistra, preferendo invece un accordo per un’alleanza di sinistra con il Partito Comunista Italiano all’opposizione del governo a partecipazione socialista. La maggior parte degli aderenti alla corrente di sinistra del Psi, i cosiddetti “carristi” aderirono al nuovo partito. Il Psiup riporta un buon risultato alle elezioni politiche del 1968, ottenendo 23 seggi alla Camera dei Deputati, in occasione delle quali riesce a raccogliere i consensi della contestazione studentesca; mentre alle elezioni del 1972 non ottiene il quorum in nessuna circoscrizione e non elegge alcun rappresentante alla Camera dei Deputati.

Partito di unità proletaria (1972). Il Pdup è stato un partito politico italiano di estrema sinistra fondato nel dicembre 1972 mediante la confluenza di due distinti soggetti politici, il Nuovo Psiup e Alternativa Socialista. Si sciolse nel 1974, quando si fuse con il gruppo del Manifesto per dar vita al Partito di Unità Proletaria per il Comunismo. Il Congresso nazionale del Partito di unità proletaria, che si svolse al Palazzo dei Congressi di Firenze dal 19 al 21 luglio 1974, sancì lo scioglimento del partito e l’unificazione con Il manifesto, che aveva tenuto il suo congresso di scioglimento dal 12 al 14 luglio 1974 a Roma, e la fondazione del Partito di Unità Proletaria per il comunismo.

Partito democratico della sinistra (1991). A febbraio il Pci, sotto la guida di Achille Occhetto, si scioglie per dare vita a un nuovo partito di orientamento socialista e democratico, il Pds. Il Partito Democratico della Sinistra è stato un partito politico italiano (1991-1998) appartenente all’area della sinistra democratica e legato ai valori del socialismo democratico. Fu fondato il 3 febbraio 1991 a Rimini a conclusione del XX Congresso del Partito Comunista Italiano, la cui maggioranza aveva sancito lo scioglimento e la confluenza nella nuova organizzazione. Simbolo del nuovo partito era un albero, la cosiddetta quercia, con ai piedi il logo rimpicciolito del Pci. In continuità con il Pci, il primo segretario fu Achille Occhetto, sostituito nel 1994 da Massimo D’Alema. Il 14 febbraio 1998 il Pds al termine degli Stati Generali della Sinistra confluì nei Democratici di Sinistra, il cui gruppo dirigente, segretario incluso, proveniva al 73% dal Pds.

Rifondazione comunista (1991). I contrari alla fine del Pci, insieme ad altre sigle della sinistra radicale, a dicembre varano il Partito della rifondazione comunista. Nacque nel 1991 come movimento contrario allo scioglimento del Partito Comunista Italiano, inglobando poi Democrazia Proletaria e il Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista), con l’obiettivo di rinnovare e rifondare il comunismo nel nuovo millennio. Successivamente ha intensificato i suoi rapporti con i partiti del centro-sinistra, dapprima prendendo parte all’Alleanza dei Progressisti e poi appoggiando altre coalizioni come L’Ulivo e L’Unione. Il Prc vanta due esperienze di governo: nel 1996, quando ha fornito appoggio esterno al governo Prodi I, provocandone poi la caduta e nel 2006, quando ha invece fatto parte del governo Prodi II. A partire dal 2008 ha interrotto i rapporti elettorali con il centro-sinistra, perseguendo la via della costruzione di un polo alternativo di sinistra. A tal proposito ha fatto parte, insieme ad altri partiti della sinistra radicale, di varie liste e cartelli come La Sinistra l’Arcobaleno, la Federazione della Sinistra, Rivoluzione Civile e ultima, L’Altra Europa con Tsipras, alla quale aderisce tuttora.

Democratici di sinistra (1998). A febbraio del 1998 il Pds e altre sigle di ispirazione socialista, cristiano sociale, comunista e repubblicana, danno vita ai Democratici di sinistra. I Ds provenivano in massima parte dalla tradizione politico-culturale del Partito Comunista Italiano che, attraverso la successiva esperienza politica del Partito Democratico della Sinistra (1991-1998), hanno abbracciato l’ideologia socialdemocratica e riformista. A guidare la fase costituente del partito è stato Massimo D’Alema; dal 1998 al 2001 il segretario è stato Walter Veltroni, dal 2001 fino allo scioglimento avvenuto nel 2007, segretario è stato Piero Fassino. D’Alema ha ricoperto la carica di presidente fino al IV congresso del partito (2007), quando ha rinunciato alla carica. Il partito è stato soggetto fondatore dell’Ulivo e dell’Unione, all’interno del centro-sinistra in Italia. Nell’ambito del progetto ulivista, il partito aveva stretto un rapporto di collaborazione con i centristi della Margherita. Il 14 ottobre 2007, dopo le decisioni del IV congresso, è confluito nel Partito Democratico.

Comunisti italiani (1998). Una parte di Rifondazione comunista, favorevole al governo Prodi, rompe con il resto del partito e fonda in ottobre i Comunisti italiani. Il Partito dei Comunisti Italiani (Pdci), noto semplicemente come Comunisti Italiani, è stato un partito politico di sinistra ispirato alla cultura e ai valori del comunismo italiano (quali elaborati nel corso di anni da Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer). Il Pdci venne fondato l’11 ottobre 1998, in seguito ad una divisione interna a Rifondazione comunista e in concomitanza con la crisi del Governo Prodi I. Alla fine del 2014 il Comitato centrale del Partito ha deciso la sua trasformazione nel Partito Comunista d’Italia, quale evoluzione dell’esperienza del Pdci. Nel 2016 il Partito Comunista d’Italia si è infine sciolto per aderire al rinato Partito Comunista Italiano.

Partito democratico (2007). Nel 2007, dalla fusione di Ds e Margherita (la sigla che aveva raccolto la tradizione della sinistra Dc) nasce con le primarie il Partito democratico. Il Pd è il maggior partito italiano per numero di voti e per numero di parlamentari (dato riferito alla XVII legislatura), nonché la prima forza politica del centro-sinistra italiano. Nel 2016, al termine della fase di tesseramento, il partito annuncia 405.041 iscritti, con un aumento del 2,5% rispetto all’anno precedente. A livello europeo il Pd ha aderito ufficialmente, il 27 febbraio 2014, al Partito del Socialismo Europeo con il quale aveva già intrapreso un rapporto di stretta collaborazione formando nel 2009 il gruppo parlamentare dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Il Pd rappresenta tuttora, all’interno del Parlamento europeo, il primo partito nazionale per numero di parlamentari e per percentuale di voti ottenuti.

Sinistra ecologia e libertà (2009). L’unione di Sinistra democratica, ex Ds contrari alla nascita del Pd, con un gruppo fuoriuscito da Rifondazione dà vita a Sel. Il partito è l’erede del cartello elettorale Sinistra e Libertà (SL) nato il 16 marzo 2009 in vista delle elezioni europee e che comprendeva anche la Federazione dei Verdi (fino all’ottobre 2009) e il Partito Socialista Italiano (fino al novembre 2009). Il 17 dicembre 2016 viene decretato lo scioglimento di Sinistra Ecologia Libertà dall’Assemblea Nazionale del partito, che aderisce alla fase costituente e al primo congresso di Sinistra Italiana.

Articolo 1-Movimento democratico e progressista (2017). Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista (Art.1-Mdp) è un partito politico di orientamento socialdemocratico e socialista democratico. È stato fondato il 25 febbraio 2017 in seguito ad una scissione dal Partito Democratico promossa da alcune personalità della sua ala sinistra, e alla contemporanea confluenza di una componente parlamentare di Sel che aveva deciso di non aderire a Sinistra Italiana. Sin dalle elezioni primarie del Partito democratico del 2013, che hanno visto l’elezione del sindaco di Firenze Matteo Renzi come segretario, il partito è stato lacerato da una lotta interna tra la maggioranza vincitrice (composta dai cosiddetti “renziani”, corrente composta di centristi e moderati, sostenitori della «Terza via») e le componenti più a sinistra, sempre molto critiche con Renzi, il suo governo (2014-2016) e la sua proposta di riforma costituzionale, che è stata definitivamente bocciata dal referendum costituzionale nel dicembre 2016. Dopo le scissioni di Possibile (a opera del deputato Giuseppe Civati) e di Futuro a Sinistra (dell’ex-viceministro dell’economia Stefano Fassina), i maggiori esponenti dell’ala sinistra del Pd sono diventati Enrico Rossi e Roberto Speranza, sostenuti, nella loro azione politica, dagli ex segretari del Pd Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani e dall’ex presidente del Consiglio ed ex segretario dei Ds Massimo D’Alema. In seguito, si è avvicinato alle loro posizioni anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano.

Miseria del settarismo. Logos e universalismo dell'uomo occidentale, scrive Sebastiano Caputo il 6 ottobre 2014. L’imbecille – diceva Georges Bernanos – vive di partito preso. Settario, fazioso, manipolato, opportunista. Sembra il profilo di un politico di professione o di un giornalista di regime che ragiona e si muove unicamente secondo logiche già circoscritte. Non era proprio Otto Weininger che distingueva il genio dalle persone comuni per il suo senso di universalità? Qui sta il problema dei partiti politici e dei giornali. Lo aveva capito fin da subito Simone Weil (1909-1943) quando raccomandava la soppressione dei primi. “Un partito è un’organizzazione costituita in modo da esercitare un’oppressione collettiva sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne sono membri”, affermava, sottolineando come “prendere partito” o “essere a favore oppure contro di qualcosa” aveva sostituito il senso della verità e della giustizia. Il discorso rimane valido anche per i giornali, che nei sistemi democratico-pluralisti, si associano impulsivamente ad un definito schieramento politico. Nessuna forma di avanguardia ideale: le prime pagine sono prevedibili quanto i programmi elettorali. Questo processo dicotomico, spiega Weil, risale alla cultura anglosassone e alla costituzione dei whigs (progressisti) e dei tories (conservatori) in Inghilterra. Prima della Rivoluzione Francese non esisteva la nozione di partito, e soltanto dopo il 1789, l’Europa continentale inventerà un sistema politico bipartisan (monarchici/repubblicani, riformisti/tradizionalisti, social-democratici/liberal-democratici, destra/sinistra). Su queste basi filosofiche si dividerà l’Illuminismo. Da una parte Rousseau, pensatore profondamente europeo, dall’altra, Voltaire, pensatore profondamente anglofilo. Mentre passeggiava nelle vie della sua benamata Londra, divisa in notabili e senza tetto, il filosofo di Ginevra teorizzava la “volontà generale” e il “contratto sociale” in continuità con lo spirito ellenistico-crisitano e in contrapposizione con quello anglosassone, individualista, economicistico, positivista, utilitarista, che si sviluppava con Smith, Locke, Hume e Hobbes. Sulla scia di quell’Illuminismo volteriano d’importazione inglese, l’Europa continentale si è trasformata in una società settaria in cui prevalgono gli interessi personali, la guerra del tutti contro tutti, la presa, incondizionata, di posizione. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è solo una maschera. Il secolo dei Lumi è in realtà “il mondo degli imbecilli” (Bernanos). “I partiti – scriveva Weil – sono una macchina per fabbricare una passione collettiva”. Sono la ragione impulsiva che domina l’intelletto. Ci sottomettiamo all’autorità del partito, accettiamo posizioni che ignoriamo, manifestiamo senza esaminare, pervertiamo la giustizia, distorciamo la verità. E ancora leggiamo quel giornale perché di “sinistra”, o votiamo quel partito perché di “destra”. Scadiamo nella partigianeria, nella massificazione delle idee, nella faziosità. Diventiamo anime passive o ridicolmente fanatiche. E così distruggiamo il logos – ereditato da Platone e Aristotele – inteso come spiegazione logica, come principio etico, come ragionamento imparziale, ma soprattutto abbandoniamo quell’universalismo che ha fatto dell’Occidente il motore dell’umanità. Aveva ragione il giovane austriaco Otto Weininger quando denunciava ogni forma di settarismo. In fondo “nell’antisemitismo aggressivo si osserveranno sempre certi tratti ebraici”.

Il settarismo, sintomo inequivocabile dello statismo, scrive Gian Piero de Bellis ad Ottobre 2012. Le esperienze che una persona ha giornalmente, entrando in relazione con le conoscenze accumulate nel passato, generano spesso nuove riflessioni e nuove convinzioni. Recentemente mi sono capitati due fatti che, incrociandosi appunto con precedenti cognizioni e convinzioni, mi hanno condotto a talune conclusioni che andrò qui esponendo.

Inizio innanzitutto con i fatti.

Episodio n°1. Non molto tempo fa, leggendo un intervento su Internet, ho scoperto che nell’ambito del pensiero sociale, in Francia, alcuni fanno distinzione tra libertaire e libertarien, distinzione che, ho poi constatato, si è insinuata anche nella lingua spagnola e che probabilmente è arrivata o arriverà anche in Italia. Io sono favorevole a introdurre distinzioni e vocaboli appositi quando servono a chiarire un concetto o una posizione, ma al riguardo sono rimasto perplesso e non ho ritenuto necessario approfondire la cosa. Non mi quadrava il fatto che occorressero due parole distinte e contrapposte per qualificare un amante e un praticante della libertà. Quindi ho lasciato subito perdere la cosa e mi sono dedicato ad altre faccende più interessanti. Sennonché, non avevo fatto i conti col fatto che anche le distinzioni più assurde hanno il potere di diffondersi, e talvolta più sono assurde più fanno presa.

Episodio n°2. L’altro giorno ho iniziato a esaminare le schede di un sondaggio (domanda: “Quale è la sua definizione di Anarchia?”) fatto in occasione dell’incontro degli anarchici a Saint Imier nel mese di Agosto. Alcune schede sono state compilate da persone che avevano appena passato in rassegna dei pannelli che avevo preparato e in cui presentavo l’anarchia come aspirazione massima alla libertà e quindi come la concezione più adatta ad accettare tutte le pratiche sociali, purché basate su scelte volontarie e sul principio di non aggressione. In un pannello esaminavo anche il rapporto tra liberalismo e anarchia e citavo l’autore di una recente storia dell’anarchia il quale afferma: “I teorici della politica di solito classificano l’anarchismo come una ideologia dell’estrema sinistra. In realtà essa unisce idee e valori provenienti dal liberalismo e dal socialismo e può essere considerata una sintesi creativa di queste due grandi correnti di pensiero.” (Peter Marshall, Demanding the Impossible. A History of Anarchism, 2008). 

Alcuni, non apprezzando questo dato di fatto (il collegamento tra liberalismo e anarchismo) che non è una mia invenzione ma è nella storia della evoluzione delle idee, hanno scritto nelle schede del sondaggio frasi come: “Le libéralisme n’est qu’une forme de fascisme” oppure “Les libertariens ne sont pas anarchistes.”

Ecco allora ritornare il termine libertarien. A questo punto ho dovuto per forza approfondire il significato di libertarien e ho scoperto che, taluni, con libertarien fanno riferimento agli anarco-capitalisti e con libertaire alludono agli anarco-comunisti. Quando ho capito questo, nel mio cervello è avvenuto come un click e varie cose hanno trovato collocazione e spiegazione, in maniera quasi automatica. Eccole elencate:

Innanzitutto ho capito definitivamente perché l’anarchismo come ideologia ha fatto bancarotta. Diviso in parecchi rivoli (anarchici individualisti, collettivisti, comunisti, socialisti, mutualisti, sindacalisti, violenti, non violenti, insurrezionalisti, fautori dello sciopero rivoluzionario e via discorrendo) che si combattevano se non addirittura si odiavano l’un l’altro, l’anarchismo come ideologia è morto e sepolto. In effetti quello che ha significato e valore è l’anarchia come pratica (personale e volontaria) e non l’anarchismo come ideologia (di massa e parolaia). Per cui, ciò che è destinato a sopravvivere è l’aspirazione-voglia di libertà che si traduce, come obiettivo, nella fine del monopolio statale del potere.

In secondo luogo, ho intuito che aggiungere all’anarchismo una ulteriore etichetta, come ha fatto Rothbard con l’invenzione dell’anarco-capitalismo, non è servito e non serve assolutamente a niente. Se anarchia significa pratica della libertà e capitalismo è inteso come libertà di produzione e di scambi, ripetere due volte la parola libertà non significa un bel nulla. Il risultato in effetti è stato solo quello di introdurre una qualifica superflua e una divisione ideologica ulteriore in un mondo, quello degli ideologi dell’anarchia, già del tutto frammentato e sconquassato. Meglio sarebbe stato aderire alla posizione di una anarchia senza aggettivi che è stata quella di Max Nettlau e altri e sarà poi quella di Karl Hess.

In terzo luogo, e qui è stata l’illuminazione di cui sono più soddisfatto, ho compreso finalmente che il metodo più sicuro per smascherare lo statismo non è conoscere quale ideologia professa una persona. Il potere di opprimere e di sfruttare che è proprio di una organizzazione monopolistica come lo stato, non è, ad esempio, ascrivibile automaticamente all’ideologia socialista come vorrebbero gli anarco-capitalisti (i libertariani) o a quella capitalista come vorrebbero gli anarco-comunisti (i libertari) ma è la risultante di un modo di essere che può essere presente dappertutto e che è, innanzitutto, esistente nel cervello e nei comportamenti di coloro che fanno politica di professione: esso si chiama SETTARISMO.

In maniera profetica Jules Benda ha scritto: “Il nostro secolo sarà davvero riconosciuto come il secolo della organizzazione intellettuale degli odi politici.” (1927) Gli odi politici nel secolo XX sono stati alimentati dalla adesione acritica e fideistica ad un profeta e ad una ideologia operanti nel campo della politica e dell’economia. Ci si è anche scannati per difendere la presunta purezza di una ideologia contro presunti “deviazionisti” e “traditori”. Eppure, se le persone sapessero le commistioni e evoluzioni che esistono tra le idee (ad esempio il fatto che Marx ha preso da Adam Smith parecchie idee come, ad esempio, la teoria del valore-lavoro) il settarismo apparirebbe per quello che è: pura e semplice idiozia. Ma questo non avviene perché ciò che caratterizza in misura estrema il settario è la pigrizia mentale unita alla chiusura cognitiva. Per cui tutti i settari evitano come la peste idee nuove o idee che potrebbero mettere in crisi la loro ideologia. Personalmente ho un rigetto quasi istintivo a intrupparmi anima e corpo sotto una bandiera e trovo incredibile e irreale il fatto che uno possa accettare tutte le idee espresse da una persona (per quanto grande) o condensate in una ideologia (per quanto stupenda). La centralizzazione ideologica (una ideologia dominante) mi sembra inaccettabile e disfunzionale come la centralizzazione politica (un centro dominante). Io credo però che ciò non derivi solo da un rifiuto istintivo ma che abbia a che fare soprattutto con quella che chiamerei ragionevolezza o consapevolezza dei limiti personali.

Poniamo, ad esempio, che mi definissi Proudhoniano o Bakuniano o Rothbardiano o seguace della scuola Austriaca in economia. Con questo indicherei alla persona che mi ascolta che, del personaggio o della scuola a cui ho dato la mia adesione, io ho letto tutte le opere (preferibilmente in lingua originale) e sono in concordanza con tutte le sue (o loro) affermazioni. E se non l’ho fatto, la mia professione di adesione è solo una burla, una presa in giro di me e degli altri, un pretendere quello che non è. Se non avessi una conoscenza totale e profonda dell’ideologo e dell’ideologia a cui ho dato la mia piena adesione, potrebbe infatti succedere che, approfondendo lo studio dell’autore o allargando il campo di studio ad altri personaggi, da Proudhoniano potrei diventare Stirneriano e poi, entusiasmandomi per alcuni passaggi delle opere di Frederich Nietzsche, un Nietzschiano convinto. E questo balletto potrebbe continuare all’infinito, come è successo in alcuni casi famosi, come Georges Sorel, socialista, poi sindacalista rivoluzionario, poi monarchico e reazionario. Chi di noi non ha conosciuto in gioventù persone che si dichiaravano maoisti, o castristi o marxisti impegnati, o anche anarchici rivoluzionari, e poi ce le siamo trovate, anni dopo, a lavorare in banca o nell’amministrazione statale? Fate un elenco di molti esponenti di spicco del PCI del dopoguerra (a partire dal presidente Napolitano) e troverete aderenti o simpatizzanti del fascismo; oppure andate a vedere tra la truppa dei berlusconiani e troverete gente di tutti i colori, a cominciare dal socialista di sinistra Fabrizio Cicchitto.

E così di setta in setta, sotto una etichetta o sotto un’altra, la farsa politica e pseudo-culturale continua. Purtroppo, e qui sta il vero problema, anche quelli che vorrebbero smetterla con questa farsa, finiscono per intrupparsi in una setta, sotto un pensatore o una scuola, assegnandosi una etichetta e sostenendola a spada tratta contro gli appartenenti a tutte le altre sette. Ma, in tal modo, essi non fanno altro che perpetuare lo statismo, che si regge appunto sulla esistenza di sette e sul loro contrapporsi fasullo; come i governanti dei tre superstati (Oceania, Eurasia, Estasia) che si combattono in una guerra infinita, cambiando regolarmente alleanze, ma preoccupati solo che la guerra continui perché questo giustifica l’esistenza del loro potere (George Orwell, 1984).

Il fenomeno delle sette è proprio ed esclusivo del mondo della politica e della pseudo-cultura. Infatti, nel campo della scienza e della tecnologia non esistono sette. Non ci sono Galileiani o Newtoniani o Einsteiniani cioè seguaci di Galieo, Newton o Einstein. Per un fisico dichiararsi seguace di Newton vuol dire ammettere di non aver alcun interesse al progresso della fisica e alle scoperte che hanno avuto luogo negli ultimi secoli. Così facendo egli riconoscerebbe di non essere uno scienziato, vale a dire un ricercatore e un possibile scopritore del nuovo. Questa adesione totalizzante è invece considerata del tutto accettabile nell’ambito delle cosiddette scienze economiche dove troviamo, ad esempio, i Keynesiani, abitanti nostalgici del secolo passato, che sono gli incartapecoriti adoratori delle considerazioni contingenti fatte da un don dell’Università di Cambridge più di 70 anni fa.

Io comunque sono fiducioso. Il tempo delle sette sta volgendo al termine. Non a molti interessa sapere cosa distingue un libertario da un libertariano e probabilmente ciò non interesserà a nessuno negli anni a venire, come non interessa più, tranne che a pochi pedanti, conoscere la distinzione (del tutto insulsa) tra liberalismo e liberismo. Questi bizantinismi mentali inconcludenti lasciamoli ai lumpenintellettuali. È tempo di concentrarsi su progetti reali perché la fine del settarismo e quindi dello statismo si avvicina (anche se alcuni non se ne sono ancora resi conto oppure fanno come gli pseudo-anarchici settari, che confondono la fine dello statismo con l’affermazione della loro setta).

"Vietato esprimere opinioni autonome sui social": il regolamento del Partito comunista. Il decalogo del partito di Marco Rizzo per il comportamento (di iscritti e dirigenti) da seguire su Twitter e Facebook è un condensato di divieti e doveri: dalle bandiere ai tag, scrive Matteo Pucciarelli l'8 giugno 2015 su "La Repubblica". Bastava la promessa per capire l'antifona: "La natura dei social network spinge oggettivamente all'individualismo e alle peggiori performance di protagonismo. Serve quindi regolamentare il loro uso, seguendo le ispirazioni della dottrina leninista dell'organizzazione". Il Partito Comunista di Marco Rizzo (famoso per l'esaltazione dello stalinismo e di esperienze di "socialismo" come la Corea del Nord) ha varato una sorta di decalogo per l'utilizzo di Facebook, Twitter e affini da parte dei propri dirigenti e militanti. Il risultato è una serie di divieti e compiti che ricorda il settarismo comunista dei tempi andati, anche se fuori tempo massimo: "È fatto assoluto divieto a ogni iscritto al partito (tanto più se dirigente) a fare considerazioni e analisi politiche generali autonome", è la prima regola, approvata dal Comitato centrale dell'organizzazione fondata dall'ex europarlamentare di Rifondazione prima e del Pdci poi. Poi: "È vietato taggare altri membri del partito sempre su questioni politiche, storiche, filosofiche e culturali". Dopo: "È fatto assoluto divieto ad usare bandiere o simboli del Partito nell'immagine del proprio account personale. Le bandiere ed i simboli del partito sono esclusivamente rappresentate negli account di partito ad ogni livello (da quello centrale sino a quello di cellula)". Per fortuna non esistono solo divieti, ai quali vanno aggiunti i doveri: "È invece auspicabile che i membri del partito e del comitato centrale promuovano, condividano e tagghino i post degli organi nazionali". Detto questo, "tutti gli account di partito (da quelli regionali a quelli della singola cellula) devono comunicare riservatamente alla direzione centrale (nella persona del coordinatore) la password". Al tutto va aggiunta una considerazione: "La pubblicazione di fotografie e filmati di manifestazioni del partito devono esser improntate alla massima efficacia propagandistica e consapevolezza politica dell'evento". E una minaccia: "Qualunque violazione verrà da ora in poi deferita alla CCCG", con quest'ultima parola che probabilmente significherà commissione di garanzia. Nel preambolo della lettera pubblicata sul sito nazionale del movimento, c'è scritto che "i pareri e le elaborazioni dei singoli compagni andranno ad arricchire la linea elaborata collettivamente". L'importante è non esprimerli, perlomeno via social...

Renzi, il pugno chiuso e le molte sinistre. L’apparato del Pci era refrattario a quel gesto già all’epoca della togliattiana “via italiana al socialismo” e Berlinguer bollava il gesto come settario, scrive Massimo Bordin il 14 Marzo 2017 su "Il Foglio". Francesco Cundari su Twitter difende Renzi dall’accusa di estraneità alla sinistra, secondo alcuni provata dalla sua irrisione al saluto a pugno chiuso. Cundari lo fa con argomenti inoppugnabili, ricordando come l’apparato del Pci fosse refrattario a quel gesto già all’epoca della togliattiana “via italiana al socialismo” e cita Berlinguer che bollava il gesto come settario. Si potrebbe aggiungere Giorgio Amendola che nelle assemblee romane del Pci scomunicava il movimento studentesco tuonando col suo vocione: “Il pugno chiuso? Ah, certo. La Germania degli anni Venti. Il pugno chiuso e ‘Rot Front’ come parola d’ordine. Vi ricordate come è andata a finire? Noi siamo per la mano aperta. Aperta!”. Applaudivano. Anche quando Amendola qualificava come “fascisti rossi” i giovani del movimento. Chi sa se pensava a suo zio alla cui porta era andato a bussare emozionato quando, dopo la Liberazione tornò a Napoli. “Sono tuo nipote Giorgio! Sono diventato comunista come te!”. “Nossignore. Tu stai con Togliatti. Sí ’nu fascista rosso. Vattènne”. E non aprì. Suo zio era rimasto fedele ad Amadeo Bordiga. A sinistra ci sono sicuramente tutti e due, quelli del pugno chiuso e quelli della mano aperta e altri ancora che comunisti non sono mai stati. E’ deprecabile che si diano del fascista l’un l’altro. Ma è oggettivamente difficile che possano governare insieme.

Settarismo, scrive l'1 febbraio 2010 Claudio Grassi. Una delle malattie più gravi della sinistra è il settarismo. I grandi dirigenti comunisti lo hanno sempre contrastato duramente. Basti pensare alla lotta intrapresa da Gramsci contro Bordiga, nei primi anni di vita del Partito Comunista d’Italia. La vittoria di Gramsci – che produsse quel documento straordinario per l’epoca che furono “le Tesi di Lione” – fu decisiva per portare i comunisti su una linea che si rivelò fondamentale per sconfiggere il fascismo e per costruire un grande Partito comunista. Il settarismo lo contrastò anche Togliatti che nel 1943, con la svolta di Salerno, costruì una vasta alleanza senza la quale non si sarebbe sconfitto il fascismo e non si sarebbero cacciati i nazisti. Senza quelle scelte l’Italia non avrebbe avuto la Costituzione, firmata, appunto, anche da Umberto Terracini. Si potrebbero fare molti altri esempi, ma non mi sembra necessario. Perché ho deciso di scrivere questo post sul settarismo? Perché credo sia il peggior nemico, oggi, per la ricostruzione di un Partito comunista con basi di massa e per ricostruire una sinistra che non sia un semplice “sfogatoio” o un ritrovo di reduci. So che scrivendo queste cose vado contro il pensiero di molti compagni e compagne, come si vede leggendo anche i commenti ai miei post. Ma voglio dire quel che penso poiché ritengo che l’errore più grave che possa fare un dirigente sia lisciare il pelo a certe posizioni per non rendersi impopolari. Per esempio sono rimasto colpito dal fatto che in Puglia Rifondazione Comunista abbia dovuto sudare sette camicie prima di decidere che alle primarie era del tutto logico appoggiare Nichi Vendola. Per non parlare di alcuni settori della sinistra più “ortodossa” che, pur di non votare Vendola, hanno votato Boccia. Come si spiega un atteggiamento del genere? Ha una logica politica? Certamente no. Nonostante tutte le critiche che giustamente abbiamo mosso e muoviamo a Vendola, non possiamo non riconoscere che le sue posizioni sono sicuramente più di sinistra rispetto a quelle di Boccia. Non è un caso che, se avesse vinto Boccia, l’Udc sarebbe entrata nella coalizione, e che, avendo invece vinto Vendola, ne resta fuori. Perché allora queste resistenze? Perché prevale, appunto, il settarismo. Che ti fa vedere come nemico principale quello che ti sta più vicino, magari quello con cui hai condiviso, fino a poco tempo prima, la militanza nello stesso partito. La stessa cosa avvenne anche nel 1998, quando i Comunisti Italiani se ne andarono da Rifondazione. Ricordo che per parecchi anni era proibito anche solo nominarli, mentre oggi, giustamente, si sta facendo assieme uno sforzo sia per riunificare le forze comuniste, sia per dare vita alla Federazione. Ci abbiamo messo 12 anni! Dobbiamo aspettarne altrettanti per dialogare con Sinistra, Ecologia e Libertà? Anche il dibattito sulle alleanze elettorali, a mio giudizio, è fortemente segnato da questa impronta settaria. La discussione, infatti, spesso si astrae dal contesto concreto, dai rapporti di forza, dalle leggi elettorali, da quello che pensa la maggior parte delle persone. Si parte dall’assunto che siccome le altre forze della sinistra hanno fatto cose che non condividiamo allora non dobbiamo fare alleanze con loro. Come se andando da soli il problema si risolvesse e la nostra azione politica diventasse più efficace! Come ho già avuto modo di dire, nell’ultima tornata amministrativa dello scorso anno Rifondazione Comunista in molte realtà è andata da sola, ma questo non ha affatto comportato un aumento dei consensi, che anzi in genere sono diminuiti in rapporto alle realtà dove ci siamo coalizzati. Inoltre, con gli sbarramenti che ormai sono ovunque, questo comporterebbe non avere alcuna rappresentanza nelle istituzioni locali e questo è molto grave. Non perché, come si usa dire, “abbiamo bisogno delle poltrone”, ma perché i ceti sociali più deboli hanno bisogno che le loro lotte trovino sostegno anche nelle istituzioni! L’impostazione settaria di rifiutare qualsiasi forma di alleanza è l’altra faccia della medaglia di chi le alleanze le vuole fare a prescindere. Entrambe rinunciano alla lotta e si sostanziano in due forme di subalternità. La Lega Nord è alleata ovunque con Berlusconi: qualcuno può dire che per questo ha perso il suo profilo, la sua identità, la sua autonomia? E’ vero il contrario. Un progetto forte, una politica di alleanze che le consente di incidere e quindi di rendere credibile la sua proposta politica: questo sta alla base del successo della Lega. Io credo che il nostro limite, di Rifondazione Comunista e delle Federazione della Sinistra, non siano le alleanze, ma la mancanza di credibilità (dilapidata con infinite scissioni e con le scelte compiute al tempo del governo Prodi) e di un organico e convincente progetto di società. Quindi, anziché dedicare tutte le nostre energie al contrasto interno, dovremmo procedere con impegno nella costruzione dell’unità tra le forze comuniste e anticapitaliste (la Federazione) e nella individuazione di alcuni punti di programma (“le bandiere fissate nella testa della gente”), che sappiano indicare una via d’uscita concreta dal disastro in cui ci ha portato il capitalismo.

P.S. Vorrei assicurare i compagni che nei loro post si chiedono se io legga le cose che vengono scritte. Li leggo tutti con grande attenzione. E non solo io, visto il numero elevato di contatti che ci sono ogni giorno. Tutti i commenti, anche quelli più critici, li accetto volentieri. Infine, siccome in diversi commenti ci sono state proposte molto precise e dettagliate, le ho girate ai dipartimenti interessati. Continuate a scrivere, continuiamo a discutere, so che il blog non sostituisce altre sedi di dibattito, come le assemblee pubbliche, di partito e quant’altro che faccio quasi tutte le sere, ma è una occasione in più che sarebbe un peccato non sfruttare!

Terracini, l’avvocato che aveva fondato il Pci alla fine disse: «Aveva ragione Turati…», scrive Giuseppe Loteta il 19 giugno 2017 su "Il Dubbio".  Correva l’anno 1968 quando le città universitarie italiane furono investite dall’uragano della contestazione studentesca. A Roma, in aprile, gli studenti avevano reagito alle cariche della polizia. E fu la “battaglia” di Valle Giulia. Seguita pochi giorni dopo, in piazza Cavour, dalla rivincita dei poliziotti, che effettuarono una dura carica durante una manifestazione, colpendo indiscriminatamente chi si trovava a portata di manganello e di calcio di moschetto. A l’Astrolabio, il settimanale fondato da Ernesto Rossi e diretto da Ferruccio Parri, seguivamo gli eventi con interesse e partecipazione. E pensammo di intervistare Umberto Terracini. Chi meglio di lui, comunista eterodosso e dall’assoluta libertà di giudizio? Eravamo convinti che non avrebbe sposato la cautela del Pci nel seguire l’evolversi del movimento studentesco in Italia e in tutta Europa, che non sarebbe stato insensibile, lui, vecchio rivoluzionario, alle posizioni “barricadere” degli studenti, alla loro pratica di una democrazia diretta. Chi ci va? Proprio in quei giorni era ritornato dalla Francia Giampiero Mughini, dopo avere partecipato alle manifestazioni del maggio studentesco e disselciato dalle strade parigine la sua porzione di pavé. Era un collaboratore del giornale e si trovava con noi in redazione quando decidemmo di chiedere l’intervista. È la persona più indicata, pensammo. Tuttavia, c’era un problema. Rispondendo alla nostra telefonata, Terracini ci aveva detto che era disponibile subito. Ma Mughini indossava una vistosa camicia a fiori, un pantalone a zampa d’elefante e scarpe da tennis. Impossibile farlo andare in quelle condizioni. Ognuno di noi si tolse di dosso qualcosa, giacca, camicia, pantaloni, cravatta, scarpe, e lo vestimmo di tutto punto. Andò all’appuntamento. E dovette fare i conti, anzitutto, con un singolare rituale. Quando riceveva un ospite nel suo studio di ex presidente dell’Assemblea Costituente, Terracini faceva accomodare l’ospite in una capiente poltrona di pelle e lui si sedeva su uno sgabelletto di legno. Se andavi a trovarlo per la prima volta, l’ope- razione ti lasciava di stucco. Provavi ad alzarti, a protestare. Ma lui, inflessibile, ti rimetteva giù. «Questa è la regola», diceva. E si parlava. Mughini cominciò con le domande. E Terracini, dal suo sgabelletto, lo gelò. Che cosa pensava della contestazione studentesca, dei moti che dai Campus americani si erano rapidamente estesi in tutta Europa, in Francia, in Germania e ora in Italia? «Chi frequenta una scuola secondaria o un’Università», rispose Terracini, «si definisce studente proprio perché il suo compito prioritario è quello di studiare: È questo che deve fare. Se, poi, vuole occuparsi anche di politica, fa bene a farlo. Si iscriva a un partito. In un paese democratico non mancano certo le occasioni per far politica». Ma le loro idee? «Proprio perché sono impegnati dallo studio ad una conoscenza panoramica ma superficiale dell’intero scibile, gli studenti sono predisposti per acerbità della loro mente, più ricettiva che elaboratrice e critica, a recepire in ibrida commistione, che spesso è semplicemente confusione, le più svariate concezioni filosofiche con le corrispettive appendici sociali e politiche». La democrazia diretta, le assemblee che decidono tutto? «Fandonie. La democrazia non può che essere rappresentativa». Risposte quanto mai controcorrente rispetto al vezzo allora imperante nella sinistra italiana di adulare la gioventù sessantottina e di fare proprie, anche se con molta cautela, le motivazioni della rivolta studentesca. Ma controcorrente Terracini aveva sempre navigato, pagando spesso di persona, tutte le volte che la coscienza gli aveva imposto di farlo. Poco più che ventenne è nella direzione del partito socialista. Nel gennaio del 1921, nel congresso di Livorno, la corrente massimalista, guidata da Bordiga, Tasca, Gramsci, Togliatti e Terracini, si scinde dall’ala riformista, guidata da Filippo Turati, e fonda il partito comunista. E nello stesso 1921, pochi mesi dopo, al terzo congresso dell’Internazionale comunista, che si svolse a Mosca dal 22 giugno al 12 luglio, Terracini da una prima convincente prova del suo anticonformismo. È un episodio che vale la pena di raccontare. Nei quindici mesi precedenti erano successe tante cose. La neonata Russia sovietica era stata investita da una forte carestia e da un’ondata di scioperi. In marzo era avvenuta la rivolta libertaria dei marinai della base navale di Kronstadt, non lontano da San Pietroburgo, che Lenin e Trockij avevano represso con le armi. Nel 1920 Lenin aveva scritto “L’estremismo malattia infantile del comunismo” e l’aveva distribuito ai partecipanti del secondo congresso dell’Internazionale, alcuni dei quali erano citati nel testo. Pochi mesi prima in Germania era stata stroncata un’azione rivoluzionaria dei comunisti, guidata da Bela Kun. Ce n’era d’avanzo perché i sovietici si presentassero al terzo congresso con una piattaforma moderata, di netto rigetto delle fughe a sinistra. Nella relazione introduttiva, Trockij condannò nettamente l’estremismo, senza escludere la possibilità di un dialogo temporaneo con forze riformiste. Sulla stessa linea, l’intervento di Zinoviev e il documento conclusivo stilato da Radek. A questo punto il congresso sembrava concluso. Chi avrebbe osato opporsi alle tesi della dirigenza sovietica? Ma, quando giunse il suo turno, Terracini salì alla tribuna e pronunciò un duro e appassionato intervento che faceva a pugni con la linea morbida dei sovietici. «La Terza Internazionale», disse, «deve ancora combattere una grande battaglia contro le tendenze di destra, contro le tendenze centriste, semicentriste e opportuniste… È una lotta che ci sta ancora dinanzi in tutta la sua grandezza». Mentre parla ha un vivace battibecco con Trockij. «Il compagno Trockij scuote la testa: sembrerebbe che non creda a quello che sto dicendo». «Non mi riferisco soltanto a quello che stai dicendo in questo momento». «L’ho ben intuito. Posso tuttavia dire con certezza che la mia affermazione corrisponde al vero stato d’animo del proletariato italiano». Dopo Terracini è Lenin a prendere la parola. Conclude il dibattito invitando i congressisti a votare la risoluzione presentata dai sovietici. Polemizza garbatamente con Terracini. Prima di salire sul palco aveva incrociato il delegato italiano che ne discendeva. Gli aveva poggiato sorridendo una mano sulla spalla e gli aveva mormorato: “Plus de souplesse, camerade Terracini, plus de souplesse”. Ma è ancora niente. Nella seconda metà degli anni Venti, Terracini è un dirigente comunista affermato, maturo. Affascina compagni ed avversari con il rigore della sua logica, la sua passione, la cultura e l’intelligenza che traspaiono ad ogni frase, il suo freddo umorismo. Non è più l’estremista che si contrappose a Lenin. Ma è sempre un bastian contrario. È arrestato nel settembre del 1926, processato due anni dopo insieme con Antonio Gramsci, e condannato a 22 anni e 9 mesi di carcere. Chiede di parlare dopo la requisitoria del pubblico ministero e dichiara di fare sue, «integralmente, le conclusioni del pubblico accusatore». Perché, sostiene, se il piccolo partito comunista può «porre in pericolo grave e imminente lo Stato forte, lo Stato difeso, lo Stato armatissimo», allora questo Stato, questo regime, sono castelli di carta. Nel 1929 Stalin lancia la teoria del “socialfascismo”, afferma, cioè che la socialdemocrazia europea, ormai, debba identificarsi con il fascismo e vada per questo combattuta come un nemico. I comunisti di tutto il mondo, italiani compresi, si adeguano. Tranne pochissimi. E tra questi è Terracini. È in carcere da quattro anni, ma, come tutti i comunisti in carcere (trasformata in scuola di partito) è informatissimo. Scrive una lunga lettera a Togliatti. Ed è esplicito: «Non credo alla sottomissione dei gruppi aventiniani fuorusciti e della socialdemocrazia al fascismo, ad un loro accordo, alleanza, o comunque contatto». Ancora: «Il partito riuscirà solo a rendersi incomprensibile alle masse e quindi ad allontanarle; esse, a tutte le nostre previsioni sugli accordi tra socialdemocrazia e fascismo, risponderanno con una sola parola, “MATTEOTTI”, cui noi nulla avremmo di concreto da contrapporre». Dato il periodo, ce n’era più che a sufficienza per un’espulsione dal partito comunista. Ma non si può. Non ancora. Terracini era Terracini, il compagno di Gramsci. Sono espulsi, per lo stesso motivo Ignazio Silone e la cosiddetta “banda dei tre””, composta da Leonetti, Tresso e Ravazzoli. L’espulsione arriva, ma dieci anni dopo, quando, dopo avere scontato undici anni di carcere, il dirigente comunista è confinato nell’isola di Ventotene. Colpisce lui e Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1921 era stata tra i fondatori del Partito comunista d’Italia, occupandosi a lungo dell’organizzazione femminile. Anche la Ravera era stata accusata nel 1929 di frazionismo, ma era stata per il momento risparmiata, come Terracini. La loro colpa? Duplice. Anzitutto si oppongono con decisione al trattato d’alleanza germanosovietico del 1939, lo scellerato patto Molotov- Ribbentrop, che nasceva dalla tesi di Stalin che i primi nemici da abbattere fossero i paesi capitalistici. E poi rifiutano con altrettanta decisione la delimitazione dell’antifascismo alle sole forze del fronte popolare, cioè comunisti e socialisti. «Avevo dato», ricorda Terracini, «un’interpretazione estensiva al manifesto- appello lanciato dal partito subito dopo l’aggressione nazista all’Urss per un’alleanza di tutte le forze antifasciste. Secondo i dirigenti del confino, tale direttiva doveva valere solo nei confronti di quei partiti che potessero muoversi nell’ambito del fronte. Secondo me, l’appello era invece rivolto a tutte le forze e a tutti i partiti che fossero disposti a combattere il fascismo, non esclusi, quindi, i liberali, i conservatori, i monarchici». Sarà la posizione di Togliatti, ma soltanto nel 1944, quando anche Stalin capirà che la politica dei fronti popolari è fallimentare nella lotta antifascista. I comunisti a Ventotene non familiarizzano con gli altri confinati, si tengono lontani perfino da personaggi come Rossi, Spinelli e Colorni, gli autori del manifesto europeista, sono chiusi nel loro settarismo E sono loro, guidati da Mauro Scoccimarro e da Pietro Secchia. a decretare l’espulsione di Terracini e della Ravera da quel partito che l’uno e l’altra avevano fondato nel 1921. Da quel momento, a Ventotene, Terracini è ancora più isolato. Per riprendere la sua libertà d’azione deve aspettare i giorni della liberazione dal confino. E nel 1943 scrive dalla Svizzera a Togliatti: «La decisione dell’espulsione deve essere considerata nulla e mi si deve mettere in condizione di riassumere senza ritardo un posto di lotta nelle fila del partito». Togliatti aspetterà più di un anno per riammettere nel Pci il vecchio combattente. Quando Terracini arriva a Roma, dopo un periodo trascorso nella repubblica partigiana dell’Ossola, il segretario lo riceve nella sede del Pci. Alza dopo un pò lo sguardo dalle sue carte. Gli dice soltanto: «Ah, sei qui?». E lo incarica di occuparsi della Costituente. Per Terracini comincia una nuova vita. Eletto all’Assemblea Costituente, ne diventa presidente dopo le dimissioni di Saragat, Ed è lui, in questa veste, a firmare la Costituzione italiana. Negli anni seguenti sarà uno dei maggiori e più stimati dirigenti del Pci, ma non smetterà di pensare con la sua testa. È l’unico, nella classe dirigente comunista, a schierarsi contro il “compromesso storico” di Berlinguer; ebreo, sostiene e difende lo Stato d’Israele contro gli ultras filopalestinesi; è un amico convinto dei radicali – da sempre malvisti dai comunisti – e partecipa con loro, nella Pasqua del 1983, alla “marcia contro lo sterminio per fame nel mondo”, partita da Porta Pia e conclusa in Vaticano: Terracini muore a Roma il 6 dicembre del 1983, all’età di 88 anni. Poco tempo prima effettua l’ultima e la più importante delle sue sterzate controcorrente. Lui, che era stato tra i promotori della scissione di Livorno, afferma lapidariamente: «Aveva ragione Turati». Sensazionale. Se aveva ragione il vecchio leader socialista, avevano torto lui, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, e il partito comunista non sarebbe dovuto nascere. La frase è abbastanza chiara, ma avrei voluto saperne di più. Telefono a casa. Mi risponde la moglie: «Umberto sta male. Per ora non può. Riprovi quando starà meglio». Non faccio in tempo. Mentre sono in redazione, a “Il Messaggero”, le agenzie di stampa battono la notizia della sua morte.

"Addio Pci, grazie a Dio". La buona fede di Silone. Ignazio Silone è nato a Pescina (L'Aquila) nel 1900 ed è morto a Ginevra nel 1978. Dieci anni dopo la scoperta della collaborazione con l’Ovra il bilancio di un caso: più che alla “spia” bisogna guardare la complessa crisi del militante, scrive Giovanni De Luna su “La Stampa” l'1/8/2007.  Uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano è stato una spia, ha tradito i suoi compagni, ha vissuto la sua giovinezza all’insegna della doppiezza, del camuffamento opportunistico, sprofondato nello squallore di un’esistenza oscuramente torbida. Secondo Dario Biocca, il più strenuo dei suoi accusatori, Silone collaborò con la polizia fascista ininterrottamente a partire dal 1919, quando aveva appena compiuto 19 anni. Sul fronte opposto Giuseppe Tamburrano ha giudicato false o inattendibili le prove documentarie citate da Biocca, ridimensionando a «leggerezza» i rapporti di Silone con l’OVRA, circoscrivendoli al biennio 1928-1930. Sostanzialmente i fatti sono questi. Silone era allora saldamente inserito ai vertici del Partito comunista italiano. Dopo un attentato terroristico, nel 1928, suo fratello Romolo fu arrestato con imputazioni gravissime che comportavano la pena di morte. Per salvarlo, lo scrittore si mise in contatto con una sua vecchia conoscenza, l’ispettore di polizia Guido Bellone, promettendo e inviando una serie di informazioni sulle strutture clandestine del Pci. Romolo scampò alla pena di morte ma fu condannato dal Tribunale speciale a 12 anni di reclusione; morì nel 1932, nel carcere di Procida, a soli 28 anni per le conseguenze delle torture subite. A quel punto, però, la «collaborazione» era finita; una sua lettera a Bellone del 13 aprile 1930 può ritenersi conclusiva della vicenda. Silone smise di fare l’informatore. Il 4 luglio 1931 fu espulso dal Pci e smise anche di fare il comunista. Nel 1933 pubblicò, in tedesco, il suo capolavoro, il romanzo Fontamara. Dalle spoglie della spia e del militante era nato il talento di un grande narratore. Veramente credo che questa nuda sequenza cronologica ci consenta di spostare la nostra attenzione verso uno scenario molto più vasto di quello evocato dalle carte di polizia e dall’infido mondo degli informatori; è quello che Sergio Soave, con una definizione di straordinaria efficacia, ha chiamato «la notte di Silone», quel buio periodo di due anni nei quali il rapporto con Bellone fu solo uno degli elementi che caratterizzarono «lo sbandamento emotivo, ideologico, politico» vissuto dallo scrittore. Le sue mosse si fecero incerte e contraddittorie: intrecciò buoni rapporti con Salvemini rompendo con il settarismo comunista, ma tramava con Tresso contro Togliatti e scavalcava a sinistra Longo e Secchia, in un percorso accidentato attraversato da angosce esistenziali e dubbi politici. Se si vuole capire la complessità del Silone di quei due anni non bisogna guardare alla «spia» ma al «militante» che sta per lasciare il Pci e ha imboccato la strada verso l’«uscita di sicurezza» che porterà alla sua espulsione dal partito. Oggi, appare veramente difficile far capire ai giovani la drammaticità di quella scelta, di cosa comportasse la rottura con il partito. Nel modello cospirativo del Pci il riferimento ossessivo alla segretezza e alla vigilanza per proteggere l’organizzazione costituiva una prospettiva in cui la lotta contro «le spie» rappresentava una priorità assoluta, affrontata con dura intransigenza sul piano delle direttive dall’alto, («Non bisogna allarmarsi, bisogna continuare il lavoro come prima e più di prima; non si deve vedere una spia in ogni angolo e andar cauti prima di affermare che un elemento é una spia. Ma quando si é certi, la spia deve essere resa innocua, il che in questo caso significa annientarla, ucciderla»), vissuta come un vero e proprio incubo dalla base: «Non parlare con nessuno e fa in modo che tutti ignorino la tua vera causa. Guàrdati da tutti. Tutti sono spie. Tutti sono traditori, perversi», scriveva ad esempio, nel 1927, il militante Vincenzo Mazzone, al suo compagno Peppino Celeste. I «guasti» peggiori si registravano quando l’incubo delle spie si intrecciava con le dispute dottrinarie e lo scontro ideologico sulla «linea» da seguire; i comunisti erano troppo pochi, il loro mondo troppo piccolo, perché tra i compiti della vigilanza rivoluzionaria, la battaglia per il rispetto dell’ortodossia e le rivalità, le inimicizie personali non si stabilisse, a volte, un intricato viluppo. Spesso capitava che i militanti si pedinassero e si scrutassero a vicenda, in un inestricabile groviglio in cui, a un certo punto, non si capiva più chi era il poliziotto, chi la spia e chi il compagno. Quando Emilio Sereni si recò in URSS, il Paese del comunismo lo accolse con polizia, interrogatori, arresto. «Non si stupì - ha scritto sua figlia Clara -. Conosceva le tortuose teorie di Stalin sui controrivoluzionari e concordava con lui - con il Partito- sulla necessità di guardarsi da se stessi...Si disse che tutto questo e l’altro che si poteva intuire era giusto, anzi necessario. Così alto era il fine - un destino collettivo potenzialmente perfetto - che gli inciampi del singolo cammino non potevano avere importanza». Lo squallore della vita quotidiana condotta in ossequio rigoroso alle regole della cospirazione («Una vita d’inferno, non eroica, nascosti con carte false, passando da una riunione all’altra, oppure chiusi in povere abitazioni illegali a scrivere articoli e a studiare pile di documenti...con orari di lavoro che duravano 14 o 16 ore») poteva essere riassorbito e sopportato solo, come scrisse Giorgio Amendola, «con la coscienza che gli interessi generali dovevano essere superiori agli interessi personali». Il settarismo, l’ostinata chiusura verso l’esterno, il «sospetto» assunto come norma anche nei rapporti umani e affettivi, una rappresentazione di se stessi legata all’interpretazione totalizzante della propria militanza politica. Avevano, insomma, una fede da testimoniare. Ma c’era ovviamente un prezzo da pagare: gli avversari erano tutti «nemici»; i dissensi interni, le rinunce alla militanza politica, erano eventi altamente drammatizzati. L’incubo degli «eretici» e dei «traditori» rendeva molto improbabile che un «compagno» potesse diventare anche un amico. Di qui le condizioni sempre drammatiche che segnavano la rottura con il partito. Non era solo questione di cambiare le proprie convinzioni politiche. Si trattava di una vera e propria scelta di vita contraria e opposta a quella fatta nel momento dell’adesione al Pci. Con l’abiura, crollava un mondo intero, spesso anche la speranza per il proprio riscatto individuale. Il comunista che si allontanava dal partito poteva farlo con protervia, con dolore, con ironia, con amarezza, ma sempre e comunque attraverso un proprio totale coinvolgimento emotivo. «Avrei potuto difendermi, - scrisse Silone in Uscita di sicurezza, a proposito della sua espulsione -. Avrei potuto provare la mia buona fede. Avrei potuto dimostrare la mia non appartenenza alla frazione trotzkista. Avrei potuto precisare... avrei potuto, ma non volli... Era meglio finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quell’ “uscita di sicurezza”... Era finito. Grazie a Dio». In questo sospiro di sollievo c’è il vero Silone di allora.

IL VANGELO SECONDO LENIN.

Cent’anni dalla rivoluzione d’Ottobre: il vangelo secondo Lenin. Intollerante anche verso i socialisti, il bolscevismo operò come una religione messianica. Le riflessioni di Marcello Flores sul mito sovietico in un saggio edito da Feltrinelli, scrive Sergio Romano il 3 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Secondo una interpretazione largamente condivisa dalla opinione corrente, il XX secolo, fra il 1917 e la disintegrazione della Unione Sovietica, fu teatro di un lunga guerra fredda tra il comunismo e la democrazia liberale. Dopo la lettura del libro di Marcello Flores sulla rivoluzione russa La forza del mito, edito da Feltrinelli, molti arriveranno alla conclusione che uno dei maggiori conflitti del Novecento fu quello combattuto dai comunisti contro i socialisti europei nelle loro diverse incarnazioni nazionali. Tutta la politica di Lenin, dall’agosto del 1914, fu ispirata da un obiettivo: eliminare la concorrenza socialista, impedire che la causa rivoluzionaria finisse nelle mani dei socialdemocratici o, peggio, di altre forze politiche che, come gli anarchici, avevano creato attese e acceso l’immaginazione popolare. Sciolse l’Assemblea Costituente, eletta dopo gli avvenimenti dell’ottobre 1917, per sbarazzarsi di una istituzione in cui gli «esery» (i socialisti rivoluzionari) e i menscevichi avrebbero avuto un peso determinante. Creò una sorta di Inquisizione (la Ceka, per metà polizia, per metà tribunale rivoluzionario) a cui affidò il compito di eliminare fisicamente tutti coloro, anche a sinistra, che avrebbero cercato di ostacolare il suo disegno. Fondò la Terza Internazionale per imporre regole che avrebbero prescritto ai nuovi partiti comunisti di rompere i loro legami con i socialisti e di obbedire alle direttive di Mosca. La linea di Lenin fu adottata da Stalin in Spagna, nei rapporti con i socialisti e gli anarchici durante la guerra civile, e nei Paesi occupati dall’Armata rossa alla fine della Seconda guerra mondiale. Qui, in particolare, molti socialisti non ebbero sorte diversa da quella di coloro che rappresentavano la borghesia e il mondo contadino. Vi furono temporanee eccezioni quando Stalin si accorse che un «fronte popolare» con i socialisti, in alcuni Paesi, poteva ostacolare l’avanzata dei movimenti fascisti e schiudere ai comunisti la strada del potere. Ma Flores ricorda che la migliore definizione della socialdemocrazia, per l’Urss di Stalin, fu quella di Grigorij Zinoviev, presidente della Terza Internazionale: «Una variante di sinistra del fascismo». Per godere dell’approvazione di Mosca non bastava combattere contro fascismo e nazismo. Occorreva che all’Urss fosse riconosciuto l’esclusivo diritto di guidare la lotta o addirittura, come accadde nell’agosto 1939, di rovesciare la propria politica firmando con Berlino un trattato d’amicizia e un protocollo segreto per la spartizione della Europa centro-orientale. Fra i comunisti, come ricorda Flores, vi furono delusioni e ripensamenti, come quelli di André Gide, Arthur Koestler e Ignazio Silone. Ma questo non impedì che la rivoluzione d’Ottobre e la nascita dell’Unione Sovietica conquistassero gli animi e le menti di un numero incalcolabile di persone, seducessero altri grandi intellettuali, persuadessero milioni di elettori a votare per partiti che trasmettevano ai loro connazionali una immagine ingannevole della «grande patria socialista». Secondo il libro di Flores il mito sovietico deve la sua esistenza agli aspetti più crudi del capitalismo e della rivoluzione industriale, alla grande depressione del 1929, allo straordinario coraggio del popolo russo durante la Seconda guerra mondiale, alla convinzione che gli aspetti peggiori del regime servissero alla costruzione di un sistema nuovo in cui gli errori sarebbero stati corretti e la grande promessa della rivoluzione d’Ottobre sarebbe stata mantenuta. Ma la risposta non può essere soltanto politica o economica. Flores ricorda anche che in un libro del 1920, scritto dopo un viaggio in Russia, un filosofo inglese, Bertrand Russell, vide nel bolscevismo una duplice caratteristica: l’eredità della rivoluzione francese, a cui Lenin e i suoi fedeli facevano continuo riferimento, e un fenomeno simile all’ascesa dell’Islam dopo la profezia e l’insegnamento di Maometto. Nella sua versione leninista, quindi, il comunismo non è soltanto una teoria politico-economica nata dalle tesi di Marx, Engels e altri intellettuali fra l’Ottocento e il Novecento. È anche una fede che ha, come ogni religione, un profeta (Lenin), un ristretto gruppo di apostoli (i compagni della prima ora), il costruttore della Chiesa (Stalin) e una legione di monaci combattenti, pronti al martirio. Come in ogni religione anche nel comunismo il fedele deve accettare pazientemente gli insuccessi, i sacrifici, il martirio e gli errori di percorso. Tutti verranno generosamente ripagati dal compimento delle speranze e dall’avvento di una vita nuova in cui il credente sarà finalmente felice. Se questa lettura del bolscevismo è giusta, dovremo concluderne che il comunismo non fu una ideologia laica e che non furono laici i suoi maggiori esponenti, in Russia e altrove.  

Il volto mistico ed esoterico del comunismo, scrive il 10 giugno 2017 Roberto Siconolfi su "Oltre la linea". Il pensiero di Marx e tutto il filone ideologico e culturale a lui legato, è figlio del razionalismo. Già filosofi come Cartesio, Bacon, Kant ed Hegel creano il principio fondante della ragione come “punto di fuga”, come nel disegno, dal quale far partire la capacità di analizzare ed interpretare i vari fenomeni. Una ragione indagatrice che però si stacca dal sovrannaturale, e questo in sostanza crea un suo processo di assolutizzazione, una sua metafisica. Karl Marx porta a compimento questa operazione, riformulando la dialettica hegeliana ed incentrandola sul primato della materia. In ultima analisi egli crea una metafisica della materia, capovolgendo completamente il baricentro dell’azione fondante dell’Uomo, e portandolo sui suoi livelli bassi, la soddisfazione delle funzioni neuro-vegetative ed economico-sociali. La filosofia marxiana è figlia del positivismo e della “scienza” di Darwin, tutte teorie promosse sostanzialmente dalle forze “nascoste” della storia, che hanno assecondato, promosso e dominato – nel senso opposto al “cavalcare la tigre” evoliano – il moto decadente. Tra le suddette forze abbiamo il giudaismo, per la sua particolare “metafisica” incentrata sulla materia, la massoneria, per piani di comando di diverso tipo, e il gesuitismo, presente nella formazione di Fidel Castro. Questa “direzione” risulta essere l’anima segreta del marxismo, nascosta ai più e a molti dei leader rivoluzionari che ne sono risultati “agenti inconsapevoli”. Il materialismo dialettico reso organico da Engels, nei suoi tre principi fondanti – conversione quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione – viene suffragato dagli scritti scientisti del filosofo. Tra questi Anti-Dühring dove si fa aspra critica dell’apriorismo, centrando l’esistenza del tutto – cosmogonia, chimica, fisica e biologia – intorno alla materia e ai suoi processi dialettici, appunto. Anche lo “spirito”, è un prodotto della materia, come per quanto espresso da Stalin in “Storia del Partito Comunista”. In ultima analisi, nella sua concezione materialistica, e nel suo annullare ogni di tipo di elevazione spirituale dell’uomo, il comunismo crea un oppiaceo ben più deleterio della religione (cit. Julius Evola).

Il lato “non razionale” del marxismo prosegue nell’esperienza russa e nelle figure stesse, oltre che nel pensiero, dei due leader sovietici Lenin e Stalin. E’ proprio la rivoluzione del’17 – secondo un particolare tipo di teoria dei campi economici e geopolitici – una sorta di rivoluzione francese russa, contro l’ancien régime, in quel caso lo zarismo, e per l’affermazione e l’approdo di positivismo, razionalismo, ateismo in Russia. Da documenti recenti è risultato come Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, frequentasse nel suo soggiorno a Zurigo, la loggia massonica talmudico-kabbalistika. Oltre a ciò, si è scoperto che inizialmente l’armata rossa usasse la svastica, in comune con la Società di Thule, nucleo fondante del Partito Nazionalsocialista. Le grandi ideologie ottocento-novecentesche, in realtà, hanno origini molto più antiche. Anche la successiva creazione nella Russia bolscevica della “Lega dei Senza Dio Militanti”, sembra essere la prosecuzione di quel processo cominciato nel 1789 che, a detta di Padre J. Lemann, doveva essere la rivincita del Talmud sul Vangelo. A riguardo è innegabile il risultato – in termini di distruzioni di chiese e messa al bando del cristianesimo – che si ebbe in Russia ad opera proprio della Lega dei Senza Dio. A tutto ciò si aggiunge il dato del finanziamento, della rivoluzione stessa, ad opera del banchiere Parvus, agente dei Rothschild. Un fattore dietro le righe ma che sostanzia sin dagli inizi l’esperienza sovietica è il nichilismo. Proprio il fratello di Lenin, Aleksandr Il’ič Ul’janov, era membro di una delle organizzazioni del forte movimento populista russo, e inevitabilmente l’esperienza sovietica leniniana rimane imbevuta da questo fattore, come stesso la figura di Lenin. Egli sembra, nel suo metodo d’azione, ricalcare molto alcuni degli insegnamenti de “Il Catechismo del Rivoluzionario”.

Ad esempio quando si mostra inflessibile nella decisione della fucilazione della famiglia Romanov o nelle epurazioni dei socialisti rivoluzionari, compagni di lotta fino a poco tempo prima. Sempre sul fattore nichilista emergono anche alcuni tratti della figura di Stalin, il quale già in età giovanile, durante l’epoca seminarista, esprime chiaramente la sua predilezione per la letteratura russa di Dostoevski, Tolstoi e Turgenev. Una scena avanguardistica, questa, che potrebbe somigliare alle correnti artistiche del primo novecento o della contestazione sessantottina. Su Stalin, il cui primo pseudonimo era Demonosvili, ovvero emulo del demonio, si racconta di possibili incontri nella città di Tiflis, con il mistico armeno Gurdjieff. La sua figura sembra, a detta di molti suoi collaboratori, come Kaganovic “non umana”, e diversi ricercatori moderni, delle connessioni tra le forze spirituali e le ideologie, la vedono dominata da forze ultraterrene. Al di là di questo, dai ritrovamenti della sua biblioteca personale, molti erano i testi sui grandi personaggi della storia russa come Pietro il Grande e Ivan il Terribile. Di Aleksandr Nevskij, invece, egli ne invocò lo “spirito” per lanciare la “Grande Guerra Patriottica”.

Invece Bucharin ribattezzò Stalin “Gengiz Khan”, come trasposizione della figura dell’imperatore mongolo Gengis Khan abbinata al nome di Stalin “Džugašvili”. Sicuramente al di là di retroscena e dicerie, la sua figura riesce ad incarnare la coscienza collettiva del popolo russo nell’era del comunismo, o meglio del marxismo-leninismo, sua creazione teorica. In una certa visione “eurasista”, Stalin è la riproposizione delle figure più celebri della Russia zarista come Ivan il Teribile, e Pietro il Grande.

Sul versante dell’Europa occidentale la figura di Antonio Gramsci è interessante all’interno di questo discorso e per due motivi. Il primo è che egli elabora il principio – espresso da Lenin al terzo congresso del Komintern – secondo cui la rivoluzione del ’17 non andava esportata alle altre situazioni in quanto era “interamente permeata di spirito russo”. e non adatta ad altri stati nazionali.

Gramsci recupera questo concetto, integrando il marxismo rivoluzionario degli aspetti peculiari italiani e alla luce di ciò condusse la sua battaglia contro le posizioni estremiste di Bordiga. Nel frattempo però un’altra forza aveva fatto dello spirito italiano il cavallo di battaglia della sua proposta politica: il fascismo di Benito Mussolini. Questi, non a caso fu estromesso dal Partito Socialista per le sue propensioni “nazionali”. Sempre del fascismo, Gramsci fu sicuramente il più grande perseguitato per la sua “profondità” di pensiero. Incrocio di circostanze, questo, che sembra basato proprio sulla capacità di concepire la “questione nazionale”, da parte delle due visioni del mondo opposte. Altro lato interessante del pensiero di Gramsci riguarda la “Riforma Intellettuale e Morale”, un punto, questo, molto simile all’autocritica, su cui Stalin scriverà e si adopererà nel Partito Comunista bolscevico. La “Riforma” gramsciana stabilisce un processo di “purificazione” dalle scorie del mondo borghese. Una riconquista del proprio cuore e della propria mente, sottraendoli alla borghesia tanto nella società, quanto nel comunista. Quest’ultimo concetto ci rimanda per forza di cose ad un’altra interessante esperienza, stavolta dall’altra parte dell’emisfero, in Cina e in tutto il maoismo nel suo complesso. Riformulando, in accezione marxista-leninista, alcuni principi del misticismo orientale, come Confucianesimo e Taoismo, anche il pensiero di Mao propone un’interessante metodo da attuare sia per la persona che per il versante tattico-strategico.

Per la persona, gli studi sulla contraddizione portano ad agire sollecitando la parte positiva, anziché quella negativa. Il metodo della linea di massa è, invece, usato all’interno degli organismi collettivi. Per cui individuata la sinistra, il centro e la destra in un dato organismo, va sostenuta la parte più avanzata, la sinistra, ad essa accorpato il centro, e isolata la parte più arretrata, la destra. In sostanza non si procede mai con un atteggiamento di scontro, ma facendo emergere, dall’interno, nella persona quanto nell’organismo collettivo i suoi aspetti “migliori”.

Altre esperienze dai lati “mistici” presenti nel movimento comunista sono riscontrabili nei sommovimenti degli anni ‘60/’70. Che Guevara, ad esempio, propone nei suoi diari, una concezione della rivoluzione come mezzo della trasformazione dell’Uomo ai livelli più alti concepibili. Una vera visione “ascetico-volontaristica” del rivoluzionario. In più nell’esperienza cubana è presente – per il versante “religioso” – la Santeria, una pratica animistico-cattolica dell’isola messa successivamente al servizio del governo di Castro.

Sempre sul versante degli anni’60/’70 importanti sono le esperienze dei movimenti armati come i Tupamaros, le BR e la RAF. Si è saputo, dalle ricerche sul fenomeno dei movimenti armati, che essi eseguivano le direttive di altre centrali come la Stay Behind “Gladio”, oppure l’Hyperion. Ma un altro livello del discorso, è legato al ruolo della massoneria e al simbolo della stella “pentalfa” (stella a cinque punte).

La pentalfa nel linguaggio esoterico rappresenta i 4 elementi più lo spirito, punta verso l’alto. Mettendo in relazione la semiotica dei movimenti armati con la ricezione delle direttive dai centri sopracitati, possiamo capire cosa in realtà muoveva a livello di interessi e di fluidi – anche inconsapevolmente non manifesti – i movimenti armati degli anni’60/’70. (Di Roberto Siconolfi)

COME I COMUNISTI UCCIDONO IL LAVORO.

Così Lenin uccise il lavoro togliendolo dal mercato. L'introduzione in Russia del "monopolio capitalistico di Stato" determinò un disastroso spreco di risorse, scrive Giampietro Berti, Martedì 22/08/2017, su "Il Giornale".  Ci sono testi, oggi riproposti in occasione del centenario della rivoluzione d'ottobre, che annunciavano, involontariamente ma limpidamente, il fallimento catastrofico del comunismo. È il caso di questa antologia di scritti di Lenin, Economia della rivoluzione (Il Saggiatore, pagg. 521, euro 29, a cura di Vladimiro Giacché), con saggi e articoli del dittatore sovietico relativi agli anni 1917-1923, vale a dire quelli che corrono dalla conquista del potere in Russia da parte dei bolscevichi fino quasi alla morte dello stesso Lenin. Anni in cui Lenin e compagni hanno cercato l'impossibile quadratura del cerchio: tentare di dar vita a un'economia in grado di superare quella capitalista. Si vorrebbe dimostrare, in sostanza, che la lezione di Lenin possa essere ancora utile nel momento in cui il mondo occidentale, e non solo quello, è travagliato dalla crisi economica. Ma i conti non tornano proprio. Il punto di partenza è noto: la fantastica credenza marxista - ma anche, se vogliamo, di gran parte della sinistra - che, una volta aboliti la proprietà privata e il mercato, il lavoro sia, di per sé, sufficiente a produrre valore. Il lavoro umano non è inteso qui quale mero fattore dinamico di trasformazione della materia, ma come unica espressione autentica dell'universale essenza dell'uomo. È certo che il lavoro produce valore, ma la sola erogazione del lavoro - del lavoro vivo, per usare i termini marxiani - non costituisce affatto la condizione esaustiva dello sviluppo economico e della successiva creazione della ricchezza (per settant'anni, infatti, nell'Unione Sovietica è stata profusa una quantità incredibile di lavoro vivo, ma il solo risultato ottenuto è stata, per l'appunto, la miseria generalizzata). Secondo Lenin «il socialismo consiste nella distruzione dell'economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo». «Il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato». La società va concepita come «un grande ufficio e una grande fabbrica», dove vi sarà «la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano», affinché lo Stato-Partito sia in grado di «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico», giungendo in tal modo alla «centralizzazione assoluta». Siamo, come si vede, alla piena affermazione della statalizzazione dell'economia che si rivela il passaggio obbligato per la realizzazione della società comunista. Nel piano unico di produzione e di scambio l'assenza dei prezzi di mercato, cioè degli indici insostituibili di scarsità, rende impossibile ogni razionale calcolo economico. Il comunismo, distruggendo il mercato, distrugge non solo il luogo reale dove si produce la ricchezza, ma anche il luogo razionale della sua creazione perché solo il mercato può indicare - grazie alla libera circolazione della moneta - quali sono i beni in eccedenza e quali sono in beni che scarseggiano. La pianificazione statocentrica, e il regime totalitario che inevitabilmente ne consegue, diventano l'unica possibile soluzione della costruzione della società «senza classi». L'illusione è che, se lo sforzo unanime dell'intera collettività, nelle sue diverse determinazioni produttive, fosse coscientemente regolato a priori, ovvero pianificato dall'unicità della direzione, ne conseguirebbe il superamento dell'esito alienante di ogni lavoro individuale, proprio della società borghese. Il lavoro del singolo finirebbe per identificarsi immediatamente con quello di tutti e la sua intrinseca dimensione sociale non avrebbe alcun bisogno di astrarsi nella forma del denaro quale mezzo di scambio. Il legame distorto esistente tra i singoli produttori, generato dalla logica mercantile attraverso l'uso perverso della moneta, proprio dell'assetto capitalistico, verrebbe superato e riportato alla sua autentica base naturale: le due entità, individuo e società, coinciderebbero di fatto in una coscienza indistinta. In tal modo, grazie alla pianificazione, sarebbe possibile instaurare il legame diretto e organico tra prodotto e produttore, e con ciò superare la divisione tra lavoro e appropriazione del lavoro. E con ciò siamo, con questo organicismo totalitario, al trionfo dell'antimoderno. Siamo, insomma, a quell'irriducibile rigurgito reazionario-romantico di rifiuto della modernizzazione che ha caratterizzato il comunismo. E poiché l'organicismo comunista richiede la duplice assenza della proprietà privata e del mercato, ne deriva che soltanto una volontà politica è in grado di dar corso alla sua realizzazione pratica. La domanda d'obbligo perciò è questa: perché solo una volontà politica, ovvero in questo caso la dittatura, può dare corso alla società organica? Ovvio, perché l'infondatezza scientifica della concezione economica marxista ha generato il fallimento di tutte le sue previsioni, con la conseguenza che la sua edificazione non si configura più come l'esito spontaneo dello sviluppo storico, ma come il prodotto forzato di una precisa decisione, quella di imporre una dittatura laddove la storia e la logica hanno dato torto all'infondatezza delle aspettative. In conclusione, il comunismo ha prodotto uno sbocco politicamente repressivo e un risultato economicamente fallimentare; due dimensioni che si sono alimentate reciprocamente: la miseria generata dalla pianificazione è stata il risultato circolare della depressione economica scaturita dalla repressione politica.

COMUNISTI ITALIANI. LE CRITICHE DALL’INTERNO DELL’APPARATO.

Trentin, escono i diari segreti. Critiche ai leader della sinistra: da Luciano Lama a Fausto Bertinotti. «Nella Cgil è in corso una guerra tra bande. Basse manovre da Lama...Quello di Bertinotti è un movimentismo senza obiettivi. Ha una meschina ambizione di protagonismo», scrive Marco Cianca l'8 giugno 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il dolore di Bruno Trentin. Inaspettato e sconvolgente. «Avverto un’immensa fatica fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a momenti di dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così, per esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e di farmi capire», scrive a metà agosto del 1992. Sono passati quindici giorni da quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento più tribolato della sua vita da sindacalista. La firma di un’intesa nella quale non credeva, spinto dal timore che il fallimento della trattativa con il governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese». Aveva firmato, per «salvare la Cgil», e si era dimesso. «Che cosa sarebbe successo rifiutando l’accordo, con tutte le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe finanziaria, a chi sarebbe stata attribuita la svalutazione della lira?», annota. «Un inferno dentro di me», e intorno «tanti opportunismi». «Miseria di Amato», «miseria di Del Turco», «miseria degli altri sindacati», «miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds». Senso di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al 1994, che l’Ediesse sta mandando in libreria. Riflessioni culturali e politiche si alternano ai giudizi sulle persone e alle notazioni di vita quotidiana, la coltivazione di fiori ad Amelia, le suggestioni alpine a San Candido, le passeggiate, le scalate, i tanti, tantissimi libri, i viaggi, l’amore per Marcelle Padovani, chiamata affettuosamente Marie. È lei a spiegare che la decisione di pubblicare i diari non è stata facile, «testi nudi e crudi, molto passionali ed unilaterali» ma che servono a «far capire meglio la figura, la personalità e l’importanza di Trentin». Iginio Ariemma, che da tempo svolge un intenso lavoro di scoperta e divulgazione di testi che riguardano l’ex segretario della Cgil, ha curato questa sorprendente pubblicazione. Sette anni che sconvolsero l’Italia e il mondo (la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dei regimi comunisti, il cambio di nome del Pci, Tangentopoli, i bagliori di guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi, l’ascesa di Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche profetici. Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore universitario che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al fascismo, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito ribelle. Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il figlio continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre, formò una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la famiglia nel ’43. La guerra partigiana, il Partito d’Azione, la laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato da Vittorio Foa, nel ’50 l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici, l’autunno caldo, i vertici della confederazione. E poi segretario generale, dall’88 al ’94, appunto. Eccolo Bruno Trentin, crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di esperienze, un eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una folla di «ometti». È indicativa una frase su Robespierre: «Lo sento lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso tempo vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato, così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con la sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina etica, politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti, definizioni impietose, conclamata estraneità. Un elenco che farà sobbalzare. Guido Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano Amato, Paolo Cirino Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De Michelis, Lucio Colletti, i dirigenti della Confindustria, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Giuliano Cazzola. Disprezzo per gli «intellettuali a pagamento» e «i vecchi saccenti senza vergogna e senza il minimo residuo di morale politica ed intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra per bande», «basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso», «tragico tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile scenario». Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato, evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione debole, patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario. La voglia di fuga: «Ho maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia piccola vita». Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi», «ceto burocratico di intermediazione», «avventurieri da strapazzo». Riaffiora, carsica, «la voglia tremenda di mollare tutto» e il desiderio di gridare: «Non sono uno di questi». Nel partito vede «anime morte che si incrociano senza comunicare». La decisione annunciata da Occhetto di cambiare il nome del Pci è ammantata di «improvvisazione e povertà culturale». Alle critiche, «il segretario reagisce con la ciclotimia di sempre alternando depressione e psicosi del tradimento con minacce e tentativi di prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno camaleontico». D’Alema «appare più lucido ed equilibrato di altri» ma «i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico», «ricorda in caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola di Camus». Nel ’94, senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni, guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e al modo isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile comportamento di Occhetto». E l’altra sinistra? «Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di vittimismo». A Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza obiettivi, disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno di degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del Maurizio Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una risposta delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati». Parole di fuoco contro «i giovani rottami» del manifesto, «estremisti estetizzanti». A tutto questo variegato mondo «tra delirio estremista, gioco mondano e la lirica dannunziana» muove l’accusa di «disonestà intellettuale» e di «narcisismo laido e egocentrismo scatenato». Doloroso il rapporto con Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente». Un’incomprensione che lo farà piangere. Nausea e disperazione. Denuncia «il machiavellismo volgare», «le ideologie rinsecchite» che diventano «gli orpelli delle più spregiudicate avventure personali e delle più invereconde forme di lotta politica», «le idee come grimaldelli» per la conquista del potere, «schieramenti senza programma». Malinconia, senso di stanchezza e di precarietà: «È come se gridassi e non uscisse un suono». Ma anche amicizie, affinità elettive e parole di elogio per figure, ad esempio, come Ciampi e Baffi, o per il sindacalista Eraldo Crea. E nel tormento dell’incomunicabilità e della diversità, a prevalere è il desiderio di elaborare un progetto, di indicare una via d’uscita. Superare il determinismo marxista e ripartire dalla rivoluzione francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia per i diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie redistributive della sinistra che non vanno al nocciolo del problema e diventano l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale bisogna battersi per la socializzazione dei saperi e dei poteri. «Trasformare, qui ed ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia tra giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin la scioglie senza esitazione: la libertà viene prima. Nei diari c’è in incubazione «La città del lavoro». È morto il 23 agosto 2007. I conti con la sua eredità intellettuale sono ancora tutti da fare.

La sinistra ora lancia accuse di assistenzialismo. Da che pulpito viene la predica! Scrive Alessandro Catto il 29 maggio 2017 su "Il Giornale". Dopo l’uscita di Papa Francesco a favore del lavoro e contro il reddito di cittadinanza (questione eminentemente teologica, ndr) non sono mancati gli elogi da parte del mondo democratico e il continuo attacco, da parte di molti ambienti di centrosinistra, alla proposta avanzata dal Movimento 5 Stelle. Quest’ultima, nonché le presunte coperture volte a renderla possibile, sono certamente da prendere con le pinze. Una idea che in ultima istanza appare di difficile applicazione in un paese, l’Italia, che col deficit non ha un buon rapporto e che rischierebbe con ogni probabilità di non potersela permettere. Tutt’altro valore invece hanno le resistenze morali, o presunte tali, verso la misura. In primis perché è veramente giunta l’ora di aprire un dibattito serio sul rapporto tra avanzamento della tecnologia e riduzione dei posti di lavoro, inerente soprattutto il concetto di occupazione per come siamo stati abituati ad intenderlo, valutando se davvero il rischio sia presente o se è tutto frutto di sensazionalismo, pure slegandoci da un certo feticismo per il lavoro in salsa novecentesca che poco ha a che fare con un progresso degno di questo nome. Ha davvero senso, nel 2017, parlare di lavoro come se ne parlava cinquant’anni fa? Risulta davvero così stupido chiedersi se la globalizzazione, la modernizzazione e la tecnologia non impongano, laddove la loro presenza è più forte, una discussione sulle prospettive del lavoro salariato, specialmente nelle posizioni più umili? E in tutto questo, è davvero così fuori dal mondo provare a valutare assieme una proposta, quella del reddito di cittadinanza, che oltretutto potrebbe permettere di spezzare molte situazioni di ricatto che si creano quando si è costretti ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione pur di portare a casa qualcosa? Non sono certo un elettore pentastellato, ma mi sembra quantomeno sospetta questa repulsione a priori verso il tema, specialmente quando fatta da sinistra. Già, perché in tutto questo notiamo critiche urbi et orbi da parte di una porzione politica che ha il coraggio di lamentare il presunto assistenzialismo insito nella norma, quando per anni ci ha abituati a veder sciorinare il peggior assistenzialismo su misura. I fedelissimi che lavorano nello Stato senza che spesso ce ne sia alcun bisogno, le persone “sistemate” in qualche ministero, le assunzioni ad cazzum nella ricerca, il finanziamento di corsi prettamente inutili, gli sprechi, i burocratifici difesi a spada tratta dal sindacato del non-lavoro, le associazioni e associazioncine parastatali spesso finanziate da chi oggi si batte contro questa proposta, non hanno forse l’odore di un assistenzialismo ancora peggiore, perché mascherato da lavoro e capace oltretutto di appesantire ancor più il funzionamento del paese? Non è ridicolo sentir parlare di ciò una porzione politica che per decenni ha fatto del peggior assistenzialismo uno dei propri tratti di riconoscibilità, che dietro ad un distorto concetto di statalismo, divenuto spesso improduttivismo statale e culto della burocrazia, oggi si riscopre rappresentante del lavoro duro, vero, utile e retribuito? Non fa rabbia vedere un sindacato e pure un papato che tacciono spesso e volentieri sulle storture di una immigrazione completamente deregolamentata, esporsi oggi contro chi cerca di rimediare al danno della concorrenza al ribasso causata proprio dai tanti silenzi avuti in decenni di battaglie pressoché inutili o molto, molto comode da condurre, spesso più politiche che lavorative o spirituali? Non fa rabbia questo totale scollamento dalla realtà fatto da pulpiti improbabili? Io lo trovo un cortocircuito pazzesco e dai tratti ridicoli. Nel tutto critiche alla proposta ce ne possono essere a bizzeffe. Ma le eviti chi sull’assistenzialismo ha costruito il proprio bacino elettorale per decenni.

Sinistra, riparti dai diritti. Non dal lavoro, scrive Piero Sansonetti il 10 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Il movimento operaio non c’è più, è sucida ignorarlo. L’ideale non è il lavoro, il lavoro è un mezzo. L’ideale è la giustizia sociale…Il nuovo partito della sinistra, nato dalla scissione del Pd (quello di D’Alema, Speranza e Rossi, per capirci) si chiama “Articolo 1”, e il riferimento è al primo articolo della Costituzione, cioè al lavoro. Il Pd dal quale si è scisso il nuovo partito, a sua volta, propone con Renzi il “lavoro di cittadinanza”, contrapponendolo al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle. E sul lavoro, sull’idea del lavoro come valore supremo, insistono naturalmente i sindacati, la Camusso, Landini, la Fiom. Sono solo parole, chiaro, ma in politica le parole contano molto. Tutta la sinistra italiana si ritrova su questa parola e solo su questa parola: il lavoro. Più o meno da 130 anni. Il motivo è evidente. La sinistra, non solo in Italia, è comunque figlia del movimento operaio. Sinistra, riparti dai diritti non dalla retorica del lavoro. E cioè di quel possente movimento politico, ricchissimo di articolazioni, che si fondava sull’enorme forza sociale e morale della classe operaia novecentesca per condurre epiche battaglie riformiste e egualitarie. Il problema è che oggi, se lo cercate, il movimento operaio non lo trovate più. È scomparso. È scomparso almeno vent’anni fa. E la stessa classe operaia, che ne costituiva il nerbo e la linfa, non esiste più in quanto “classe”, nei termini nei quali il significato profondo della parola “classe” era stato definito dal pensiero marxista e dalla parte più moderna e lucida della sociologia. Non esiste più, probabilmente, per una ragione che non ha a che fare soltanto con la fine delle ideologie e con il crollo del comunismo, che si era preso (o arrogato) il ruolo di interprete principale delle lotte operaie. Per una ragione legata all’imprevisto sviluppo della società e dell’economia determinato dalla forza cataclismatica delle tecnologie. L’indistruttibilità del movimento operaio – nel corso del secolo feroce e a volte reazionario che è stato il novecento – è dipesa interamente da quello strumento formidabile che maneggiava: il lavoro, e cioè l’elemento insostituibile del progresso e della produzione di ricchezza. Non ci vuole un novello Carlo Marx per intuire che quello strumento si è inceppato, forse si è spento. Non è più il capitale o l’impresa ad avere bisogno vitale di nuovo lavoro ma sono i lavoratori ad avere bisogno vitale dell’impresa. Il lavoro ha un peso sempre meno rilevante nel processo produttivo. I rapporti di forza – sul terreno della produzione – si sono spostati in modo clamorosamente massiccio e irreversibile. E si sposteranno ulteriormente. Il lavoro era la grande forza della sinistra ma non era il suo ideale ultimo. L’ideale della sinistra è sempre stata l’uguaglianza, o almeno l’equità, o la giustizia sociale. Il lavoro era un mezzo politico, un connotato di classe. In questi anni abbiamo assistito ad un corto circuito: la sinistra ha ceduto moltissimo terreno sul piano delle lotte per l’uguaglianza e ha mantenuto acceso, invece, il “lumicino” del lavoro. Sono convinto che da questo cortocircuito è nata non solo la crisi della sinistra – e non solo in Italia – ma anche lo sbandamento di tutta l’asse della lotta politica. La destra e la sinistra hanno finito per assomigliarsi sempre di più. Lo scontro tra loro è diventato uno scontro esclusivamente di ceto politico, non più di idee o di grandi interessi di massa. E in questo modo hanno preso il sopravvento i nuovi “signori”, che non c’entrano più con la politica tradizionale: i populismi, il mercato, il giustizialismo. La loro ideologia dilaga, sembra impossibile fermarla. Contesta il ceto politico in quanto ceto politico e contestandolo delegittima la politica. E ne prende il posto. E il potere. E l’idealità. E la capacità di attrarre e organizzare il consenso.

C’è un solo grande valore che può opporsi a questa deriva. È il valore del diritto e dei diritti. È pura illusione immaginare una ripresa della giustizia sociale attraverso il conflitto sociale. Così come è fantasia credere che la libertà possa affidarsi, mani e piedi legati, al mercato. La giustizia sociale, e la libertà, possono crescere solo se il Diritto riesce a imporre la sua superiorità rispetto ai valori del mercato e al populismo. Altrimenti sono destinate a diventare un aspetto del tutto residuale della modernità. Questa è la grande partita politica che è aperta, proprio qui in Italia, qui in Europa: tra una modernità concepita come “Stato di Diritto” e modernità intesa come “Stato del Mercato e della Pena”. Ma perché questa battaglia si svolga ad armi pari bisogna che la politica torni in campo. Possibile che la politica sia così cieca da non capire che gli stessi grandi ideali del passato (quelli liberali, quelli socialisti) oggi hanno un futuro solo se si ritrovano insieme a difendere il campo del Diritto? Dov’è l’uguaglianza senza il Diritto? Dov’è la liberà senza il Diritto?

E però appare chiaro che la politica da sola non ce la fa. Balbetta, spesso trema, fugge, tenta di blandire il populismo.

La politica ha bisogno di nuovi alleati, e può trovarli solo nella società, in nuove aggregazioni che mettano insieme ideali e interessi collettivi della modernità. Le professioni, i nuovi “corpi intermedi”. Che devono uscire però dalla antica subalternità: non proporsi più alla politica come “clienti”, o come “strumenti” di consenso. Ma come protagonisti, portatori di una idea di modernità che è loro propria e che pretendono, dalla politica, che diventi “strategia”.

Pd caos iscrizioni a Napoli: "Portate la tessera, i 10 euro ve li danno loro". 1 marzo 2017 video di Anna Laura De Rosa e Alessio Gemma su Rep/Tv. “Dovete portare tessera e codice fiscale, i 10 euro ve li danno stesso loro”. Sigaretta in bocca, occhiali e capelli bruni: la donna spiega come ci si iscrive al partito democratico a Napoli. Scene dal tesseramento a Miano, quartiere popolare dell’area nord. Piazza Regina Elena, a due passi dagli uffici del Comune. È l’ultimo giorno utile per strappare l’adesione al Pd in vista del congresso nazionale, più di un centinaio di persone fanno la spola dalle 17 fuori alla sede di un’associazione. I dieci euro sono la quota che il partito per rinnovare l’iscrizione. “Ve le da Michel dentro, se la vede lui”, aggiunge l’amica. Dietro alla scrivania, in una stanza piena di persone, fa capolino Michel Di Prisco, ex vicepresidente della Municipalità. Un capobastone noto tra le file del Pd, al centro delle primarie dello scandalo del 2011.

"10 euro per la tessera del Pd". Un nuovo scandalo travolge i dem. A Miano, quartiere popolare nel Napoletano, scoppia il caso delle tessere comprate. "I 10 euro ve li darà Michel all'interno", scrive Sergio Rame, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". "10 euro e la tessera del Pd è comprata". Il video di Repubblica, girato con telecamera nascosta a Miano, quartiere popolare dell'area nord di Napoli, è una bomba che deflagra in un partito già fiaccato dagli scandali giudiziari e dalle divisioni interne. Nell'ultimo giorno utile per il tesseramento al Partito democratico si vedono chiaramente scene di compravendita delle tessere. "Solo la carta d'identità - dice una voce fuoricampo nel video di Repubblica - i dieci euro ve li danno loro". Una signora dà le indicazioni ai "militanti" del Pd per iscriversi e rinnovare la tessera del Partito democratico in vista del congresso nazionale dove Matteo Renzi, Michele Emiliano e Andrea Orlando si sfideranno per prendere la leadership del partito. In piazza Regina Elena, in un quartiere popolare ad alta densità di camorra, più di un centinaio di persone fanno la spola all'esterno della sede di un'associazione. C'è un via vai di persone. E di soldi. 10 euro è la quota che il Pd chiede per rinnovare l'iscrizione. "I dieci euro - spiega la signora nel video di Repubblica - ve li darà Michel all'interno. Se la vede lui". Michel è Michel Di Prisco, l'ex vicepresidente della Municipalità finito al centro dello scandalo delle primarie del 2011 per il Comune. "Entrate - dice ancora la signore - stanno dando 10 euro a persona. Non li cacciamo noi, non ci vanno in tasca. Vanno al partito". Tra gli organizzatori di questo sistema clientelare c'è anche un certo "don Gennaro". A lui spetta il compito di coordinare le operazione di tesseramento per "il partito di Michel, il nostro consigliere di quartiere". Dopo il caos scoppiato nel capoluogo campano, il Pd è corso ai ripari inviando Emanuele Fiano a Napoli in qualità di "osservatore". Dovrà vigilare sul tesseramento. "Nelle situazioni denunciate e circoscritte - spiegano fonti del Nazareno - si congela il tesseramento o lo si annulla se palesemente non in linea con le regole". Le regole del Pd prevedono che le verifiche siano fatte sul tesseramento, provincia per provincia. E il tesseramento è valido solo quando viene certificato dalle commissioni per il congresso. Graziella Pagano ex senatrice ed europarlamentare, è stata scelta dal segretario regionale campano, Assunta Tartaglione, per monitorare su Miano. "Gli episodi riportati dalla stampa sono di una gravità estrema - ha commentato la Tartaglione - inficiano il regolare svolgimento del tesseramento e ledono pesantemente l'immagine del partito".

Scandalo tessere comprate Pd nel caos verso le primarie. A Napoli iscrizioni pagate 10 euro. Orfini: espelleremo i responsabili. Presto aperto un fascicolo in Procura, scrive Pier Francesco Borgia, Giovedì 2/03/2017, su "Il Giornale". Scoppia il caso del tesseramento fittizio nel Pd campano. Tra Napoli e Castellammare, due casi che mostrano chiaramente come non tutte le regole sono state osservate. Sul sito di Repubblica è apparso un video in cui si vede una donna convincere alcune persone ad andare a rinnovare la tessera senza preoccuparsi per i soldi necessari («Dovete portare tessera e codice fiscali, i 10 euro ve li danno loro»). A Castellammare, invece, gli stessi responsabili del partito si sono accorti che qualcuno aveva pagato il rinnovo di 16 tessere con una sola carta di credito. A un anno dalle primarie dello scandalo (a Napoli per scegliere il candidato sindaco), torna di stretta attualità l'allegra gestione del partito. Il presidente «reggente» Matteo Orfini ha già inviato nel capoluogo campano un suo rappresentante (Emanuele Fiano) per verificare i fatti. E mentre «l'inviato» del Pd annuncia che segnalerà tutto ai magistrati, dalla procura trapela che è già stata aperta un'inchiesta. Orfini poi avanza una preoccupazione ulteriore: potrebbero esserci altri casi come quello emerso al circolo Pd del quartiere napoletano di Miano. «Se queste cose sono emerse - spiega Orfini - è proprio perché il nostro meccanismo di controllo funziona». Un osservatore verrà mandato anche dal Pd regionale diretto da Assunta Tartaglione. Si tratta di Graziella Pagano, ex senatrice ed europarlamentare. Alla fine dell'indagine interna il tesseramento verrà poi certificato dalle commissioni istituite per preparare il congresso. D'altronde i casi sono tanti. Non c'è solo Miano o Castellammare. A Bagnoli, per esempio, hanno annullato il tesseramento dopo che si era passati dalle 200 tessere del 2016 alle 500 di quest'anno. Problemi analoghi e analoghi sospetti anche a Pompei e a Torre del Greco, cui si aggiungono i quartieri di Pianura e Pendino. La Pagano, insomma, lavorerà fianco a fianco con l'uomo di Orfini. «Ben venga - commenta la Tartaglione - la decisione del partito di inviare un dirigente nazionale per verificare la regolarità del tesseramento a Napoli. Su questa come su tutte le altre possibili anomalie saremo inflessibili». Lo spettacolo che si ricava dal video pubblicato sul sito di Repubblica è tutt'altro che edificante, commenta Orfini. Che ora pensa anche all'ipotesi espulsione per i responsabili di tesseramenti non in linea con quanto previsto dal regolamento. «Io stesso ho cacciato persone a Roma», ricorda per poi avvertire che l'organizzazione del congresso non subisce alcun condizionamento. «Non ci sarà nessuno slittamento», rassicura. E l'indagine interna potrebbe allargarsi fuori regione. Come si augura, per esempio, la europarlamentare Pina Picierno. «Si leggono cose anche da altre realtà che destano preoccupazione - spiega la Picierno, originaria del casertano -. A impensierirmi sono le notizie che arrivano dalla Puglia, ad esempio. Dobbiamo essere seri e rigorosi». Il pasticciaccio napoletano offre, comunque, un assist ghiotto ad Andrea Orlando, candidato con Michele Emiliano a contendere la poltrona di segretario del Pd a Matteo Renzi. «Il discorso della rottamazione delle classi dirigenti evidentemente non si è realizzata - constata amaro Orlando -. Sono sempre gli stessi che gestiscono il partito». E pure uno «scissionista» come l'europarlamentare Massimo Paolucci, confluito in Democratici e progressisti, vede nel caos del tesseramento un segno inequivocabile: «Le clamorose schifezze che, ancora una volta, emergono a Napoli confermano che non ci sono le condizioni per continuare la nostra battaglia dentro il Pd».

Pd, tessere gratis a Napoli, Orlando: "L'avevo detto". Orfini: "Casi isolati, prenderemo provvedimenti". Il ministro della Giustizia e candidato alle primarie: "Organizzazione precaria, temo che si possa avere stessa situazione anche in altre realtà". Resi noti i dati ufficiali sugli iscritti: nel 2016 sono 405mila, scrive l'1 marzo 2017 "La Repubblica". I conteggi ufficiali, trapelati in serata, dicono che gli iscritti al Pd nel 2016 sono 405.041: è questo, secondo quanto riferisce il vicesegretario Lorenzo Guerini, il risultato dopo le comunicazioni delle federazioni regionali, in attesa delle verifiche e delle certificazioni delle Commissioni territoriali per il congresso e "al netto del tesseramento dei Giovani democratici che ha modi e tempi autonomi". Un dato che arriva nel pieno della bufera sul caso delle tessere del Pd gratis a Napoli. Nel 2014 gli iscritti erano 378.669, mentre nel 2015 sono stati 395.574. Ma restano le perplessità legate al caso partenopeo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, candidato alle primarie dem, ricorda di aver messo in guardia sulla possibilità che si verificasse un problema del genere. "Avevo messo in evidenza il rischio che in una situazione organizzativa abbastanza precaria si potesse produrre questo tipo di effetti, e si stanno producendo" e "temo che questo rischio si manifesti anche in altre realtà. Apprezzo il fatto che si sia intervenuti tempestivamente e mi auguro che si continui così. Mi fido di chi oggi è chiamato a gestire questo passaggio così delicato" ha aggiunto. Su Facebook il presidente del Pd Matteo Orfini annuncia provvedimenti immediati: "Ieri si è chiuso il tesseramento del Pd. Purtroppo ci vengono segnalati anche casi - per fortuna isolati - di gestione poco trasparente. Il nostro congresso deve essere una grande festa democratica e non possiamo consentire che venga rovinato da comportamenti discutibili. Ovunque verranno segnalate anomalie provvederò a inviare commissari per il tesseramento e chiederò alla commissione di accompagnare il percorso congressuale per scongiurare ogni rischio. Per questo già nelle prossime ore assumerò i primi provvedimenti sui casi segnalati". Infatti a Napoli è già stato inviato Emanuele Fiano come un commissario per esaminare le irregolarità sui tesseramenti.

Pd, c'è anche un caso Puglia: boom di tessere, l'eurodeputata Picierno invoca verifiche. Nella regione di Michele Emiliano, secondo le prime proiezioni sono state registrate 33mila 500 tessere, in aumento rispetto allo scorso anno (quando si contarono 27mila iscrizioni), scrive Antonello Cassano il 2 marzo 2017, su "La Repubblica". Tesseramento chiuso, ma polemiche e colpi bassi sempre più pesanti tra le varie correnti di partito. A punto che dopo il 'caso Napoli' ora infuria anche un 'caso Puglia'. La campagna per le iscrizioni al Pd in regione, terminata il 28 febbraio, ha fatto un balzo in avanti nelle ultime 48 ore. In Puglia secondo le prime proiezioni sono state registrate 33mila 500 tessere, in aumento rispetto allo scorso anno (quando si contarono 27mila iscrizioni). Numeri in aumento a Bari città, dove si superano i 3mila tesserati, mentre a Foggia città si toccano le 1.300 tessere. Circa 3.500 i tesserati sia nella provincia di Brindisi sia in quella di Taranto. A Lecce città sono 1.700 le iscrizioni. Grandi numeri nella Bat, dove si registrano 6mila tesseramenti. In particolare a Barletta si registrano 1.700 tesseramenti (ma erano 3.500 lo scorso anno), di cui 700 tessere cartacee e circa 1.000 iscrizioni online. Ma nel giorno in cui il governatore Michele Emiliano (candidato alle primarie per la segreteria contro Matteo Renzi, Andrea Orlando e Carlotta Salerno) nel corso di una visita lampo nella sede del consiglio regionale della Toscana definisce il tesseramento "una prova muscolar-finanziaria che non funziona", in Puglia si susseguono gli scambi di accuse tra i renziani e i seguaci del governatore. E così dopo i casi segnalati nei giorni scorsi di circoli chiusi anzitempo e di tessere fotocopiate, le polemiche infuriano sull'alto numero di iscrizioni online. "Mille tessere online? In una sola città della Bat? Ditemi che è una bufala", esclama su Facebook il renziano Fabrizio Ferrante. A rincarare la dose ci pensano prima l'eurodeputata campana Pina Picierno, che chiede "verifiche in Puglia", e poi l'eurodeputata cerignolana Elena Gentile che denuncia: "A San Severo negli ultimi minuti prima della chiusura del tesseramento si sono presentati 150 immigrati irregolari che hanno chiesto di tesserarsi - accusa la renziana - Fossi il responsabile del tesseramento regionale comincerei a preoccuparmi". La risposta di Ruggiero Mennea, deputato al controllo delle tessere, non tarda ad arrivare: "Si tratta di 11 migranti spostati dal campo di Rignano a San Severo, polemica inutile. La mia amica Elena Gentile - afferma il consigliere, che durante una telefonata con il vicesegretario nazionale del Pd, Lorenzo Guerini, ha parlato di un corretto andamento delle procedure di tesseramento in Puglia - può stare tranquilla". Nel frattempo il Pd pugliese dà l'immagine di un partito balcanizzato e non a caso dall'altro fronte, quello pro Emiliano, c'è chi fa notare che proprio a Cerignola, nella terra di Elena Gentile, sia partito un esposto "perché nell'ultimo giorno disponibile per il tesseramento molta gente non avrebbe avuto la possibilità di iscriversi". Balcanizzazione in pieno corso anche a Lecce. Qui è la componente della segreteria regionale, Alessandra Giammarruto, che in un documento inviato al Nazareno e pubblicato dall'Huffington Post chiede la sospensione e il commissariamento dei poteri del segretario provinciale leccese Salvatore Piconese, dato nei giorni scorsi vicino agli scissionisti fuoriusciti dal Pd e al movimento 'Consenso' organizzato da Massimo D'Alema: "Le tessere - accusa Giammaruto - nella maggior parte dei circoli non sono state neppure consegnate. Diversi segretari hanno manifestato volontà di lasciare il partito e a Lecce città non è stato istituito alcun ufficio adesioni". Accuse che non piacciono per niente al segretario regionale dem Marco Lacarra: "Dichiarazioni prive di fondamento. Il segretario provinciale del Pd di Lecce ha comunicato la sua permanenza nel partito, prendendo le distanze dalla scelta di alcuni dirigenti scissionisti. Il tesseramento in Puglia è stato gestito nella massima trasparenza, anche a Lecce". La resa dei conti fra le correnti del partito è destinata a proseguire.  

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

Altro che scissioni! Leone sconfisse Moro e Moro votò per Leone, scrive Francesco Damato il 24 Febbraio 2017. La Democrazia cristiana non conobbe divisioni da risentimento o da dissenso fino a quando il sistema politico fu abbattuto dal giustizialismo. Un parallelo storico con quanto sta accadendo nel Pd. Noi vecchi cronisti della politica abbiamo la sciagurata abitudine o tentazione di paragonare ciò che accade e che ancora possiamo raccontare a ciò che abbiamo già visto e riferito in passato. Forse non è giusto perché nulla mai si ripete nelle stesse circostanze. E le circostanze sono un elemento non certo trascurabile nella valutazione delle cose e degli uomini. Ma poi si finisce sempre per cadere, ripeto, in tentazione. Ci sono caduto qualche giorno fa nella buvette di Montecitorio col povero, incolpevole Guglielmo Epifani, mandandogli di traverso – temo – un caffè che ha improvvisamente interrotto di gustarsi per correre letteralmente via. Ho dunque chiesto al povero Epifani, esponente tanto autorevole e fidato della corrente o area di Pier Luigi Bersani da essere poi intervenuto a suo nome nella discussione di domenica all’assemblea nazionale del Pd sulla convocazione del controverso congresso, che cosa avrebbe detto da giovane, anzi da giovanissimo, studente di filosofia non so in quale Università, se il contrasto cronico fra i due cosiddetti cavalli di razza della Dc Amintore Fanfani ed Aldo Moro – fosse sfociato nella scissione del principale partito italiano. Attorno al quale gravitavano gli equilibri politici del Paese come più di quarant’anni dopo, fatte le debite differenze di natura sociale e politica, interna e internazionale, sarebbe accaduto al Partito Democratico fondato nel 2007 fondendo i resti della Dc e del Pci. Già al nome di Fanfani l’ex segretario generale della Cgil, ma anche ex segretario del Pd, sia pure di transizione, fra le dimissioni di Pier Luigi Bersani e l’elezione di Matteo Renzi nel 2013 con la doppia procedura del congresso e delle primarie, mi ha guardato storto. Ho avvertito la sensazione che Epifani mi volesse contestare il paragone, implicito nella mia domanda, tra Fanfani e Renzi, per quanto toscani e alquanto decisionisti entrambi, diciamo la verità. Ma si è forse trattenuto dal farlo per non dover difendere Fanfani, che nella cultura italiana di sinistra è stato visto prevalentemente a destra, a dispetto dei suoi trascorsi dossettiani, e della famosa comunità “del Porcellino”, per la sua infelice e comunque sfortunata guida della campagna referendaria contro il divorzio nel 1974. Epifani si è perciò limitato a difendere in qualche modo la Dc rispetto al Pd nella versione e guida renziana. «La Dc – mi ha detto – aveva un sistema diverso e forte di regole». A questo punto sono stato io a trattenermi dalla tentazione di ricordargli che nella Dc si era troppo a lungo tollerata, anche ai tempi di Fanfani, l’abitudine di fare i congressi usando la manica larga con i tesseramenti, per cui le correnti si misuravano spesso con i morti che continuavano a votare con i vivi. Mi sono trattenuto non tanto per non mettere in imbarazzo Epifani ma per rispettare quelle volte in cui mi capitò di votare per la Dc apprezzando la linea di Moro, prima che l’unificazione socialista, peraltro destinata a fallire, non mi avesse fatto cambiare scelte o abitudini elettorali. Ho preferito perciò ripiegare, con Epifani, su un altro argomento o motivo di riflessione sulla “enormità”, secondo me, di una scissione da “sentimento”, come una volta è sfuggito di dire a Massimo D’Alema parlando dei metodi renziani di gestione del partito, e non solo di linea politica. E ho cominciato a ricordare all’ex segretario del Pd una vicenda risalente alla fine del 1971, quando lui aveva poco più di 21 anni e mezzo, come ho potuto rilevare consultando sull’elenco dei deputati i suoi dati anagrafici: le elezioni presidenziali che portarono al Quirinale Giovanni Leone. Ma Epifani mi ha interrotto bruscamente, lasciando a metà la tazzina di caffè e correndo spero – ad un appuntamento dimenticato, con un gesto comunque infastidito di saluto. Ebbene, quella vicenda continuo a ricordarla o raccontarla a voi da testimone. La Dc, guidata in quel momento dal fanfaniano Arnaldo Forlani, di cui era vice segretario Ciriaco De Mita, della corrente di sinistra chiamata “Base”, entrambi protagonisti di un convegno all’insegna del cambio di generazione svoltosi a San Ginesio, ridente località delle Marche ora purtroppo devastata dal terremoto, arrivò all’appuntamento parlamentare per la successione a Giuseppe Saragat con la candidatura di Fanfani. Che furbescamente si era collocato in una posizione che riteneva vantaggiosa: quella di presidente del Senato. Moro, il suo storico antagonista nella Dc, era ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra guidato da Emilio Colombo. Per ben 6 votazioni, fra il 9 e il 12 dicembre, i parlamentari e i delegati regionali democristiani scrissero sulle loro schede il nome di Fanfani senza riuscire ad eleggerlo: né da soli né con l’appoggio di altri. Che poi erano sulla carta solo i repubblicani, essendo i socialdemocratici impegnati a sostenere la conferma di Saragat e i socialisti e i liberali defilati votando i loro candidati cosiddetti di bandiera: rispettivamente, Francesco De Martino e Giovanni Malagodi. Seguirono, fra il 13 e il 14 dicembre, quattro votazioni di cosiddetta decantazione, con i democristiani costretti ad astenersi per non far più contare i loro “franchi tiratori” e convincere Fanfani a rinunciare spontaneamente alla candidatura. Un solo democristiano si rivoltò alle direttive votando dichiaratamente per Moro: l’ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. All’undicesima votazione, il 15 dicembre, Fanfani pretese e ottenne dal suo partito un ultimo tentativo sul proprio nome. Ma non riuscì a raccogliere più di 393 voti: 112 meno dei 505 necessari per l’elezione, pari alla maggioranza assoluta dell’assemblea costituita dai deputati, senatori e delegati regionali. “Nano maledetto, non sarai mai eletto”, era stato d’altronde già scritto sulla scheda da un “franco tiratore”. Si passò allora nella Dc alla ricerca di un altro candidato con i soliti incontri al caminetto e infine con la riunione congiunta dei gruppi parlamentari, mentre nell’aula di Montecitorio si svolgevano votazioni inutili, alle quali i democristiani dovevano partecipare astenendosi per non essere tentati di fare di testa loro, votando magari per il ministro degli Esteri. Dal quale i comunisti erano attratti, per quanto l’indimenticabile Giorgio Amendola avvertisse i cronisti nel Transatlantico che «tutti ci hanno chiesto voti, fuorché Moro». All’assemblea congiunta dei “grandi elettori” democristiani, svoltasi la sera del 21 dicembre, il segretario del partito Forlani si presentò con una sorpresa agli occhi e alle orecchie dei suoi colleghi di corrente e dei “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli: la contestazione degli umori contro Moro. «E’ un uomo che è stato più volte ministro, per quattro anni segretario del partito, per altri quattro presidente del Consiglio, è oggi il ministro degli Esteri: non vedo una sola ragione per la quale non potrebbe essere degnamente il nostro candidato alla Presidenza della Repubblica», disse Forlani. Moro non era presente all’assemblea. Molti applaudirono, molti altri rimasero immobili. Non restava che votare, a scrutinio naturalmente segreto. Ma qualcuno osservò che s’era fatto ormai troppo tardi e propose di votare l’indomani. Forlani commise l’errore di non avvertire il pericolo di una manovra contro di lui. Ma neppure di questo i fanfaniani gli furono grati. Vidi personalmente, alla fine della riunione, il deputato di Taranto Gabriele Semeraro – un omone alto così – avvicinarsi al segretario e dirgli: “Traditore”. Pallido, Forlani tirò dritto. Nella notte chi si voleva muovere si mosse, alle spalle del segretario del partito. E concordò con i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani, qualcuno disse anche con i missini, non con i socialisti, e tanto meno con i comunisti naturalmente, l’appoggio alla candidatura di Giovanni Leone. Per non farla molto sporca dorotei e fanfaniani proposero poi all’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari e dei delegati regionali tre nomi Rumor, Piccoli e Leone avvertendo che sull’ultimo era stata accertata la disponibilità dei liberali, repubblicani e socialdemocratici a votarlo. Carlo Donat-Cattin invece propose Moro, dopo avere inutilmente cercato di convincerlo a farsi votare senza aspettare la designazione del partito, mentre i “grandi elettori “dello scudo crociato sfilavano davanti alle urne di Montecitorio senza deporre la scheda, cioè astenendosi. «Per fare i figli bisogna fottere», aveva detto Carlo agli amici nei corridoi della Camera per spiegare la sua posizione, lamentandosi del rifiuto oppostogli da Moro a rompere la disciplina e lealtà di partito. Quella mattina, mentre si votava nei gruppi democristiani, Moro non si fece vedere da nessuno. Rimase orgogliosamente chiuso nell’ufficio del consigliere della Camera Tullio Ancora, un amico al quale, a furia di ammirare Moro, dicevano per scherzo i cronisti, era venuto un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte, come all’ex presidente del Consiglio. «Se si fosse abbassato a stringere qualche mano in Transatlantico – mi disse poi il comune amico Nicola Lettieri ce l’avremmo fatta». Moro perse lo scrutinio con meno di cinque voti di differenza su Leone, per il quale si votò poi in aula il 23 dicembre, alla ventiduesima volta dall’inizio della corsa al Quirinale. Ma gli mancò un solo voto – quello di un deputato monarchico campano arrivato in aula troppo tardi ai 504 necessari per l’elezione. Fu annunciata un’altra votazione, la ventitreesima, per il giorno dopo, vigilia di Natale. Quella mattina passai dalla casa di Lettieri, vicino Ponte Milvio, per andare insieme alla Camera e farmi raccontare come fosse andata una riunione di corrente svoltasi la sera prima. Mi disse di avere invitato i suoi colleghi a votare scheda bianca per protesta contro la “slealtà” dei dorotei e dei fanfaniani. Che avevano peraltro mandato Rumor a casa di Moro per manifestargli il “dispiacere” di non averlo potuto appoggiare a causa del significato politico “improprio” che aveva finito per assumere una sua candidatura, troppo gradita al Pci. «Mi avete confezionato un abito su misura», aveva risposto freddamente il ministro degli Esteri. Tu oggi che farai?, chiesi a Nicola mentre prendevo un caffè offertomi dalla moglie. «Naturalmente voto contro», mi rispose. Come se Moro lo avesse sentito, squillò il telefono. Dall’altro capo del filo c’era proprio lui, il ministro degli Esteri, che disse, testualmente e forte, tanto da sentirlo bene anche io: «Nicola, ti raccomando. Si vota tutti Leone perché lui non c’entra con quello che è stato fatto contro di me. Non fate scherzi». Leone quella mattina fu eletto con 518 voti, 13 in più dei 505 necessari. E fu proprio lui dopo sei anni e mezzo, al Quirinale, anche a costo di doversi poi dimettere da presidente della Repubblica, sia pure per altri motivi ufficiali, a raccogliere gli appelli di Moro dalla “prigione” delle Brigate rosse perché venisse salvato dalla condanna a morte comminatagli dai terroristi. In particolare, Leone predispose la grazia per Paola Besuschio, che era nell’elenco dei 13 detenuti di cui le Brigate rosse avevano reclamato lo scambio con il loro ostaggio. Purtroppo con una tempestività della quale Leone non si diede pace sino alla morte, i terroristi uccisero Moro la mattina del 9 maggio 1978, poche ore prima che il capo dello Stato potesse firmare la grazia. E Fanfani – sì, lui, il vecchio antagonista di Moro – potesse parlare alla direzione nazionale della Dc per rimettersi alle decisioni autonome del presidente della Repubblica. La Dc non conobbe scissioni da risentimento o dissenso fino a quando il sistema politico non fu terremotato dal giustizialismo. E non ne conobbe neppure l’altro, grande partito: il Pci. Dove Pietro Ingrao nel 1969 rimase disciplinatamente nel partito quando i suoi compagni del Manifesto ne furono espulsi. E rimase anche nel Pds- ex Pci quando Cossutta se ne andò per creare Rifondazione Comunista. Egli restò, sia pure ancora per poco, in quel “gorgo” evocato da Gianni Cuperlo domenica scorsa davanti all’assemblea nazionale del Pd per cercare di trattenere dalla scissione le altre minoranze, pur essendo anche lui critico con Renzi. Non pensarono mai ad una scissione nel Pci neppure i cosiddetti miglioristi di Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso quando dissentirono da Enrico Berlinguer sui rapporti con i socialisti e sulla “diversità” dei comunisti orgogliosamente rivendicata dal segretario, sino al rischio di un pericoloso isolamento.

IL TRAVESTITISMO.

L'amnesia selettiva della "Stampa" che dimentica i direttori sotto il fascismo. Il quotidiano celebra i 150 anni con un inserto. Ma oscura perfino Curzio Malaparte, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". Lo smemorato piemontese ha cambiato indirizzo da Collegno a Torino, via Lungaro, al civico 15. Cose che possono capitare quando si celebrano eventi storici e, stranamente, vengono dimenticati, cancellati dai ricordi e dalle citazioni, nomi e personaggi illustri che quella storia hanno scritto. Prendete, ad esempio, la Stampa di Torino, con sede appunto in via Lungaro. Ha festeggiato i propri 150 anni con una pubblicazione supplemento che ripercorre fatti, eventi, firme di un secolo e mezzo, partendo dagli esordi fino ai contemporanei. Il titolo dell'opera è Il Mondo che ci aspetta. Nell'attesa del mondo e delle sue novità, è stato interessante rileggere nomi illustri che hanno fondato e illuminato le pagine di questo giornale che rimane la bandiera sul pennone più alto di una città, di una Regione, di un certo tipo di lettore, dopo la chiusura maligna de La Gazzetta del Popolo. Bello, dunque, ripercorrere non soltanto la cronaca del secolo e mezzo attraverso i nomi di chi ha dovuto gestire, dirigere il giornale. Non tutti i nomi, in verità, risultano riportati dal supplemento. Anzi, è singolare come per il periodo che va dal '26 al '45 la Stampa non abbia avuto direttori, forse non sia nemmeno uscita dalla tipografia. Era il tempo del fascismo, epoca dura eppure dagli archivi risulta che si siano avvicendati alla direzione del foglio torinese ben cinque direttori: Andrea Torre dal 30 novembre del '26 all'11 febbraio del '29, quindi Curzio Malaparte, dal 12 febbraio del '29 al 30 gennaio del '31, Augusto Turati, dal 31 gennaio del '31 al 12 agosto del '32, Alfredo Signoretti, dal 13 agosto del '32 al 25 luglio del '43; quindi, caduto il fascismo, il Ministero di cultura popolare approvò le nomine di Vittorio Varale dal 28 luglio del '43 al 9 agosto dello stesso anno, Filippo Burzio dal 10 agosto del '43 al 9 settembre fatidico e, sotto la R.S.I. furono direttori Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Nessuno di questi ha trovato spazio nel supplemento, nemmeno tra le righe di una didascalia, come è accaduto per altri. Credo se ne sia persa la memoria, spontaneamente costretti. Salutato il Duce, sono stati salutati anche i direttori. Pratica che si è ripetuta quando due anni fa venne data alle stampe, dalla RCS, una pubblicazione sui presidenti della Juventus: tutti, tranne Vittorio Chiusano, colpevole di aver fatto parte dell'epoca Giraudo-Moggi-Bettega. La memoria fa brutti scherzi, non soltanto a Collegno.

"Vi racconto due o tre cose sulla Stampa e l'Avvocato". "A dire il vero non mi avevano invitato, ma non mi ero offeso e, il giorno prima, attraverso un amico, ho sollecitato un invito", scrive Tony Damascelli, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale".  Jas Gawronski, nipote di Alfredo Frassati. La memoria a Torino fa brutti scherzi, dimentica le date, i direttori del Ventennio, i fondatori e anche i nipoti.

Lei era presente al Lingotto ai festeggiamenti per i 150 anni de La Stampa?

"A dire il vero non mi avevano invitato, ma non mi ero offeso e, il giorno prima, attraverso un amico, ho sollecitato un invito. Il fatto è che La Stampa, in quanto tale, è nata non 150 ma esattamente 122 anni fa, assorbendo la Gazzetta Piemontese quella sì nata 150 anni fa. Mi sembrava un po' audace l'idea di stiracchiare la vita de La Stampa di qualche decennio in più, ma capivo l'interesse del giornale ad apparire più radicato e con più antiche tradizioni. Pensavo, tuttavia, che almeno avrei assistito a una celebrazione del vero fondatore, mio nonno Alfredo Frassati".

E invece?

"A parte un sentito ricordo di Paolo Mieli, nulla. E fuori dal Lingotto, la mattina, all'inaugurazione di una mostra, un ottimo intervento del professor Castronovo".

Come spiega questi vuoti di memoria?

"Non me lo spiego, ma Gianni Agnelli sembrava avvalorare la tesi che La Stampa, sebbene nata in continuità, fosse cosa diversa dalla Gazzetta Piemontese. L'Avvocato, infatti, intervenne allo scoprimento di una lapide che mia madre volle sulla casa di Piazza Solferino dove La Stampa è nata, in occasione del vero centenario. Purtroppo l'Avvocato non c'è più".

E quindi, secondo lei, la storia de La Stampa va riscritta?

"Non riscritta, ma sfrondata da varie inesattezze. Del resto ci ha pensato mia madre, Luciana Frassati, che ha dedicato sei grandi volumi alla storia del giornale. Nella prefazione l'insigne storico Gabriele De Rosa parla de La Stampa come cosa nuova nella storia del giornalismo italiano... indubbiamente fu il capolavoro di Alfredo Frassati".

Con l'Avvocato, le capitava di parlare de La Stampa?

"Sì, sovente. Era una sua passione e lo considerava il miglior giornale italiano, una eccellenza civile e morale. Non mi ha mai offerto la direzione, ma sondava la mia opinione sulle nomine che intendeva fare e lo intuivo quando cominciava a chiedermi più spesso le mie impressioni su questo o quel giornalista. Ogni tanto gli ricordavo che se non ci fosse stata quella insana complicità fra Mussolini e suo nonno forse oggi sarei io il proprietario e il direttore de La Stampa!".

Insana complicità?

"Mio nonno si oppose sin dall'inizio al fascismo dimettendosi da Ambasciatore a Berlino e denunciando il delitto Matteotti. Mussolini, che aveva maturato un profondo astio nei suoi confronti, nel 1925 costrinse Frassati prima a lasciare la Direzione poi a vendere il giornale al Senatore Agnelli".

Come reagiva l'Avvocato a questa ricostruzione storica?

"Prendeva in giro mio nonno per la sua proverbiale parsimonia, lui parlava di tirchieria, ma quando esagerava gli ricordavo che, a differenza del suo, mio nonno non si era mai fatto fotografare in orbace! Ma, pur nella differenza dei caratteri, aveva una certa stima di Frassati, riconoscendogli il merito di aver apportato importanti innovazioni nella stampa italiana, a partire dall'articolo di fondo in prima pagina fino ai vari supplementi oggi così di moda".

Che rapporto aveva Agnelli con i giornalisti?

"Ne era attratto, ma non aveva grande stima della categoria, esclusi quelli fra i più importanti che conosceva bene. Oggi forse si sentirebbe un po' spaesato, perché per anni lui e la sua azienda hanno fruito di una impermeabilità alle critiche dei giornali di cui oggi non potrebbe più godere".

Ma se Lei fosse oggi il Direttore de La Stampa che farebbe?

"Metterei in pagina i cinque ritratti dei direttori del Ventennio, dimenticati nel supplemento celebrativo. La storia è storia e non bisogna vergognarsi".

“Gli italiani buoni non sono mai esistiti”, scrive il 16/02/2017 Bruno Giurato su “Il Giornale” in ricordo di Piero Buscaroli, morto il 15 febbraio 2016. Altro che Piero il terribile: cortese, cortesissimo, spunta in cima alle scale della casa nel centro di Bologna, lo sguardo da Re Leone. Al telefono aveva detto: «È passato a trovarmi un reduce della RSI. Aveva perso la guerra e alla fine era in pace. Io non l’ho fatta perché ero troppo piccolo, ed è finita che ho dovuto odiare al posto loro. Per sessant’anni». Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro… Mi hanno trovato un po’ di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing). C’è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all’animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare.

Nel libro emerge un Leo Longanesi inaspettato: uomo dalle idee «ferme e forti».

«Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?. Rispose: Con tutto quello che si sapeva l’uno dell’altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».

Prego.

«Appena prima di morire voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall’Italia».

Come lei…

«Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».

Anche sotto il fascismo?

«Già allora l’Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l’astuzia di dire a Mussolini: stai facendo una porcata con le leggi razziali».

E chi si salva?

«Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell’ospizio».

Un italiano buono, e zitto…

«Appartenere a una parte o all’altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, per disciplina come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch’io lo sono, per disciplina».

Ma non è stato tenero con l’Msi.

«Negli anni ’50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano rifondare la destra invitarono Longanesi e me. C’erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza… Mentre parlavano di vecchi ideali, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?».

Non apprezzava Almirante. Chissà Fini…

«Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».

I politici di oggi?

«Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l’altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».

Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.

«Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni ’50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l’aveva scaricato crudamente, e lui l’aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: È l’ultimo dispetto che potevi farmi».

E veniamo a uno che la nomea di evitabile l’ha avuta per decenni, Mario Praz.

«La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell’anno, era il ’59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d’istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: Pensi che l’ho copiata dal duca di Bedford. È questa qui».

La sua passione per il collezionismo?

«Io credo nelle cose, non credo negli uomini».

Regalò una moneta d’argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal ’65 al ’67…

«Inviai a Ky un esemplare delle due lire d’argento del 1923, col fascio littorio e la scritta Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».

Quale idea?

«Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».

Il suo incontro con Ky…

«Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».

In Vietnam incontrò Susanna Agnelli…

«Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico…».

Per lei la guerra è continuata.

«Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l’altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».

Come?

«Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all’esistenza di questo vescovo…».

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

L'Italia ha sempre nostalgia delle sue rivoluzioni a metà. Dal Risorgimento fino agli "Anni di piombo"» si è coltivato il mito. Danneggiando presente e futuro, scrive Francesco Perfetti, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". Alle origini, almeno in Italia, ci fu Alfredo Oriani. Proprio lui, il «solitario del Cardello» com'era chiamato, gettò le premesse per una lettura critica della storia italiana che ne sottolineava il carattere di rivoluzione «incompiuta» o «tradita». Nelle sue due opere più famose, La lotta politica in Italia e La rivolta ideale, questo burbero, scontroso, solipsistico intellettuale romagnolo tradusse la propria insoddisfazione per l'esito, a suo parere deludente se non fallimentare, del processo risorgimentale in un sogno profetico: il completamento di quella rivoluzione a opera di una «aristocrazia nuova». Così, senza neppure rendersene conto, Oriani divenne il padre di una «ideologia italiana» che, attraverso manifestazioni diverse, avrebbe attraversato come un mutante tutta la storia italiana del Novecento. A Oriani guardarono, infatti, personaggi di ogni estrazione culturale e politica, di destra e di sinistra, esponenti di una sorta di «sovversivismo intellettuale» germogliato all'insegna del «ribellismo» e dell'illusione nella possibilità di trasformare, grazie all'opera di una «aristocrazia nuova», il mondo reale. Una «cultura politica della rivoluzione», insomma, destinata a diventare il tratto dominante, sia pure sottotraccia, della storia nazionale e che ha finito per bloccare la possibilità di affermarsi di una «cultura politica riformista». Nel suo ultimo e importante saggio dal titolo Ribelli d'Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse (Marsilio, pagg. 418, euro 19,50) lo storico Paolo Buchignani segue un lungo itinerario, tipicamente italiano, che dal Risorgimento giunge fino ai cosiddetti «anni di piombo» e che si sviluppa, appunto, all'insegna di un progetto culturale e politico rivoluzionario. Osserva Buchignani: «Questa cultura politica si manifesta sia come rivoluzione nazionale che come rivoluzione sociale, si declina a destra e a sinistra, nel fascismo e nell'antifascismo, si colora di rosso o di nero, si evolve in sintonia con i tempi e le circostanze, s'inabissa e riemerge, cambia pelle, accentua un elemento o l'altro a seconda dei casi, delle forze politiche, delle situazioni nelle quali si esprime, ma non si snatura». Questa cultura politica della rivoluzione cui fa riferimento Buchignani è camaleontica e tale suo camaleontismo discende dalla necessità di surrogare, in qualche modo con altre prospettive, i fallimenti ricorrenti dell'illusione rivoluzionaria. Ecco, allora, che entra in gioco la categoria del «tradimento della rivoluzione», anch'essa declinata in varie specificazioni, come terreno di coltura della «ideologia italiana». Ed ecco, ancora, che l'intera vicenda storica dell'Italia unita può essere letta all'insegna di questa categoria interpretativa: il Risorgimento, per esempio, ma anche i governi della Destra storica e della Sinistra storica, per non dire del fascismo, della Resistenza e, nel secondo dopoguerra, dei disegni eversivi della destra extraparlamentare, delle pulsioni operaistiche, della contestazione studentesca, del terrorismo brigatista. Il saggio di Buchignani è un contributo importante e maturo della più recente storiografia contemporaneistica italiana poiché mette bene in luce, con un approccio di tipo culturale, il denominatore comune, rappresentato dal «mito rivoluzionario», di esperienze politiche in apparenza profondamente diverse e contrastanti. Un esempio emblematico: il caso di Benito Mussolini e di Piero Gobetti. Buchignani muovendosi lungo la direttrice già individuata da Augusto Del Noce che ne aveva sottolineato la comune matrice culturale idealistica e in particolare gentiliana spiega il rapporto fra i due, e simbolicamente tra fascismo e antifascismo, ricorrendo sia al «mito rivoluzionario» sia alla categoria del «tradimento della rivoluzione». Entrambi erano convinti che la guerra fosse destinata a sfociare in una rivoluzione e in un rinnovamento radicale, ma poi Mussolini divenne, per Gobetti, il rivoluzionario «traditore», colui che, per giungere al potere e per consolidarvisi, sarebbe stato disposto a scendere a compromesso con le forze tradizionali, a cominciare dal giolittismo. Tuttavia, al di là degli esiti storici, fascismo e antifascismo risultano accomunati da una medesima sostanza intellettuale, l'idealismo di stampo gentiliano, e da una medesima categoria culturale e sociologica, il «mito della rivoluzione» cioè, incrinato dalla pratica del «tradimento» politico. Altri esempi, oltre al «Risorgimento tradito», sono quelli del «fascismo tradito», che diventò un Leitmotiv del fascismo movimento contrapposto al fascismo regime, e della «resistenza tradita». Al «fascismo tradito», in fondo, si collega non soltanto la lotta interna, durante gli anni del regime, tra rivoluzionari e conservatori, ma anche la trasmigrazione, nell'immediato secondo dopoguerra, di molti significativi esponenti della sinistra fascista nelle file comuniste, i cosiddetti «fascisti rossi», in nome del recupero delle genuine istanze rivoluzionarie del primo fascismo. Il mito della «resistenza tradita» fu coltivato, invece, per diversi decenni da quelle forze politiche (e dai loro eredi) che, in qualche misura, muovendosi all'insegna dell'idea dell'«unità della resistenza a guida comunista», avevano sempre sostenuto che la resistenza dovesse essere vista come il fatto rivoluzionario per eccellenza della storia dell'Italia unita e che avrebbe dovuto, quindi, produrre un tipo di società e di sistema politico diverso da quello effettivamente realizzato. Furono alfieri e portabandiera di questo mito della «resistenza tradita» gli azionisti di derivazione gobettiana e rosselliana, i socialisti massimalisti del Nenni frontista, certe frange di un liberalismo progressista, tutti in posizione subordinata ai comunisti, egemoni non soltanto di questo vasto schieramento, ma anche dello scenario politico-culturale del Paese grazie al controllo di molti centri nevralgici di produzione della cultura come giornali, case editrici, università e via dicendo. Questo stesso mito venne poi ripreso largamente dal movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari sessantottini e post-sessantottini e utilizzato proprio, in un singolare contrappasso, contro il partito comunista, accusato di aver tradito la resistenza e lo stesso antifascismo con la rinuncia all'idea della rivoluzione antiborghese e anticapitalista. E non è privo di significato che, sulla linea di una contrapposizione al «mondo moderno», abbia potuto maturare persino l'incontro con gruppi della destra radicale ed eversiva. La verità, come si desume dal bel libro di Buchignani, è che, a destra come a sinistra, il cuore pulsante di quella che è stata definita l'«ideologia italiana» è quella che si potrebbe chiamare la visione giacobina della storia con le sue implicite pulsioni di rinnovamento catartico della società e i suoi sogni di creazione di impossibili paradisi in Terra. Questa visione costituisce l'essenza del «mito rivoluzionario»: un mito che la categoria del «tradimento» rende proteiforme e sempre cangiante. E, purtroppo, pericoloso.

Quella nebulosa chiamata sinistra, scrive Concita De Gregorio il 18 febbraio 2017 su “La Repubblica”. E’ con sgomento, incredulità e malinconico divertimento che annoto di giorno in giorno su uno speciale taccuino le nuove iniziative (pre-elettorali? Precongressuali? Psichiche?) della galassia semigassosa nata dalla trasformazione della materia di quello che nel secolo scorso è stato il centrosinistra, con o senza trattino, non saprei più dire. Come in un esperimento nel laboratorio di chimica alle medie, si rintracciano anche particelle solide della sostanza originaria. L’ultima è di ieri, o dell’altro ieri, perdo il conto: Rivoluzione socialista indetta dai socialisti democratici di Michele Emiliano. Subito prima Campo Progressista di Pisapia che seguiva ConSenso di D’Alema, il quale certamente non dialoga con Dema di De Magistris, area Ada Colau e Varoufakis. Non lontano da Dema si collocava un tentativo in apparenza oggi disperso, ma forse solo silente, la Coalizione sociale di Michele de Palma per Maurizio Landini, Fiom. Sigla ormai arcaica, quest’ultima, che tuttavia resiste insieme a Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, prossimamente a congresso. Un tributo si deve all’antesignana Possibile di Pippo Civati, attenzione merita il laboratorio Milano In di Cristina Tajani, ex Sel come tutti quelli ora in SI, in queste ore riuniti a Rimini. Al congresso di SI partecipa il solo segretario Nicola Fratoianni, non Arturo Scotto che un attimo prima delle assise ha ritirato la candidatura alla segretaria per passare con Pisapia. Mentre Rifare l’Italia ha portato Orfini ai vertici del Pd di Renzi, sulla faglia alla sua immediata destra si attendono le mosse del molto attivo Andrea Orlando, per ora senza sigla ma forse in contatto col lavoro sottotraccia di Franceschini e Serracchiani i quali pare abbiano l’obiettivo di “tenere unito” il Pd: bisogna solo capire unito sotto la guida di chi. A soffiare polvere magica sull’esperimento di trasformazione della materia contribuiscono figure ubique come Massimiliano Smeriglio, ex destra Sel, vicepresidente della Regione Lazio detto il re della Garbatella che ha partecipato negli stessi giorni alla campagna di tesseramento di SI in area Scotto, era al fianco di D’Alema al lancio di ConSenso, con Pisapia a Milano al lancio di Campo Progressista e con Emiliano in Rivoluzione socialista. Scrivo queste desolate righe in risposta a due lettori: Ugo Stalio, 76 anni (“Possibile che gli unici accordi siano su quanti seggi toccheranno in Parlamento? Che il loro calcolo sia quello?”) e Silvio Fossi, 86. Generazione che ha fatto l’Italia, pazienza se vi sembra retorico: leggete la lettera di Silvio da moschettiere del Duce a osservatore del M5S passando per sessant’anni a sinistra, oggi iscritto al Pd, e capirete. Parla di “soffio di fascismo tecnologico”: non tornerà col manganello, dice, ma dai mezzi di comunicazione. Parla di Trump, dice che ha seguito la diretta dell’assemblea Pd del 13 febbraio, domanda se “la sinistra non capisca la gravità delle conseguenze di una scissione, delle quali dovrebbe rendere conto a tutti gli italiani”. Il soggetto di questa frase tuttavia - “sinistra” - è composta attualmente dalla nebulosa qui descritta per sommi capi e certo con difetto di distinguo. In politica, come in tutto il resto nella vita, peggio che non capire c’è solo capire troppo tardi.

Tra sigle e scissioni, la storia della sinistra lunga un secolo. Dal primo Partito socialista a Sinistra ecologia e libertà, ripercorriamo nascita e divisioni di tutti i soggetti che hanno scritto la storia della sinistra italiana, scrive "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2017.

1. Il primo Partito socialista (1892). La storia della sinistra italiana è ricca di esperienze, di nascita di nuovi soggetti come di scissioni e di spaccature. Proviamo a ripercorrere le principali vicende con i simboli dei partiti che si sono affacciati sulla scena politica nazionale. Il Partito socialista è la prima formazione organizzata della sinistra in Italia. Viene fondato a Genova e nel 1895 assume la sigla di Psi.

2. Il Partito Comunista Italiana (1921). A Livorno la corrente rivoluzionaria del Psi, insoddisfatta per l’esito del congresso, lascia l’organizzazione e fonda il Partito comunista italiano.

3. Partito socialdemocratico (1947). La corrente moderata del Psi guidata da Giuseppe Saragat, in polemica con la linea di collaborazione con i comunisti, fonda il Partito socialdemocratico.

4. Partito socialista di unità proletaria (1964). Dopo i fatti di Ungheria (1956) i rapporti tra Psi e Pci peggiorano. I socialisti filo Pci fondano il Partito socialista di unità proletaria.

5. Partito di unità proletaria (1974). Nel Partito di unità proletaria per il comunismo confluisce il gruppo del Manifesto (radiato dal Pci) e altre sigle dell’estrema sinistra.

6. Partito democratico della sinistra (1991). A febbraio il Pci, sotto la guida di Achille Occhetto, si scioglie per dare vita a un nuovo partito di orientamento socialista e democratico, il Pds.

7. Rifondazione comunista (1991). I contrari alla fine del Pci, insieme ad altre sigle della sinistra radicale, a dicembre varano il Partito della rifondazione comunista.

8. Democratici di sinistra (1998). A febbraio il Pds e altre sigle di ispirazione socialista, cristiano sociale, comunista e repubblicana, danno vita ai Democratici di sinistra.

9. Comunisti italiani (1998). Una parte di Rifondazione comunista, favorevole al governo Prodi, rompe con il resto del partito e fonda in ottobre i Comunisti italiani.

10. Partito democratico (2007). Dalla fusione di Ds e Margherita (la sigla che aveva raccolto la tradizione della sinistra Dc) nasce con le primarie il Partito democratico.

11. Sinistra ecologia e libertà (2009). L’unione di Sinistra democratica, ex Ds contrari alla nascita del Pd, con un gruppo fuoriuscito da Rifondazione dà vita a Sel.

In vita e in morte del Partito democratico. La sola domanda che ci faremo dopo questo brutto film sarà: “Mentre il mondo esplodeva, di che cosa parlava la sinistra italiana?” Scrive Tommaso Cerno il 17 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Partiamo da una citazione talmente celebre che finisce per essere sottovalutata, fino a quando - a forza di provarla sulla nostra pelle - si dimostra l’archetipo dell’essere italiano. Nel Principe, Nicolò Machiavelli scrive che il successo di un regnante - si direbbe oggi di un leader - dipende per metà dalla fortuna e per metà dalla virtù. Significa che non c’è al comando mai la pura casualità, né la pura follia, né la pura capacità. Quel che sta succedendo al Pd è, dunque, l’epilogo di una storia. Cominciata con una classe dirigente inadeguata, simboleggiata dalla figuraccia di Pier Luigi Bersani alle politiche 2013. E terminata con una classe dirigente altrettanto inadeguata. Simboleggiata da un Matteo Renzi irriconoscibile. E dalla nostra copertina che incide la data di nascita e di morte non della sigla “Pd”, ma del sogno che essa aveva animato. Perché il Partito democratico non perde elettori o dirigenti, cosa che capita in politica, ma perde peso e credibilità agli occhi di tutta la parte laica e progressista del Paese. Si scioglie nell’anima, non nella struttura. Poco importano le beghe fra correnti e la frattura, prima personale e solo poi politica, che si sta rapidamente consumando in queste ore, di fronte a ciò che resta: “Il fu Partito democratico”. Da quel 2007 a oggi sono passati dieci anni. E ora sappiamo che, comunque vada, ciò che uscirà dal congresso non è più ciò che ci era entrato: il Pd come l’avevamo conosciuto. Sulla crisi dei democratici è stato scritto e detto di tutto. Politologi, militanti, blogger, editorialisti e mezzi busti da talk show. Eppure c’è qualcosa di atavico, qualcosa di interiore di cui ti vergogni, c’è un riflesso automatico che cerchi di occultare e che invece si manifesta più nitido di tutto. Quando, fra dieci anni, lontani dai riflettori e dalle polemiche della cronaca, fuori dai tatticismi e dalle giravolte politiche, analizzeremo questo momento storico, dove sta cambiando “l’uomo” e il suo modo di stare al mondo, ci chiederemo: di cosa stava discutendo la sinistra italiana? Di cosa, mentre milioni di donne e uomini urlavano la propria rabbia e il proprio no al modo in cui abbiamo concepito la politica dalla caduta di Hitler e Mussolini in poi? Di cosa lor signori mentre un miliardario saliva sull’Air Force One con il plebiscito della classe più povera d’America? E di cosa mentre nel cuore dell’Europa democratica risorgevano gli spettri del nazionalismo e della xenofobia? Di mozioni, tessere, conferenze programmatiche, regole, documenti fotocopia e ancora mozioni. Di nulla. la parola d’ordine che nel 2007 aprì al sogno di una sinistra maggioritaria nel segno del Pd era “fusione”. A freddo magari. Tenuta insieme con lo scotch dell’antiberlusconismo, se vogliamo. Ma adesso la parola più pronunciata a sinistra è diventata “scissione”. Non è un caso. È un’inversione di polarità, un ribaltamento del processo culturale che ha tentato di archiviare le vecchie ideologie e di traghettare il cattolicesimo sociale e l’ex comunismo, pentito, nel socialismo europeo. E invece niente. Renzi sì, Renzi no, prigionieri di un referendum interiore che condanna la sinistra a perdere per i prossimi anni le elezioni. A vantaggio, deciderà il Paese, di un grillismo che - nemesi vuole - nasceva proprio nello stesso anno del Pd, nel 2007, con un grido “Vaffa” che si sta mutando in desiderio di governo. Dentro un processo, pur incidentato, di parlamentarizzazione che va nella direzione opposta ai democratici di nome, ma non di fatto. Oppure alla destra neo-berlusconista, guidata da chi saprà mostrarsi a ciò che resta del Cavaliere quel modello di “italiano medio” che Berlusconi, piaccia o no, ha saputo decifrare meglio del campo avverso. Diverte che in questa Chernobyl politica ci si diletti con le virgole e gli apostrofi. Diverte che la domanda sia: quanto durerà il governo? Come se un brutto film fosse più o meno brutto perché dura un quarto d’ora in meno o venti minuti in più. Nello spettatore elettore, ciò che lascerà sarà il medesimo senso di estraneità, di fastidio, di lontananza. E alla domanda: quanto è durato? La risposta sarà: che me ne importa. Ma la sinistra no. Lei sa come si fa. Sa ripetere il mantra dei tempi nuovi, quello che dice «dobbiamo ritrovare la fiducia dei nostri elettori, dobbiamo parlare a quella gente che ci ha voltato le spalle». Retorica. E pure di bassa lega. La verità è che l’Italia, soprattutto la sinistra italiana, vive un eterno 8 settembre. Abbiamo dentro l’archetipo che demolisce ogni progetto includente. Non possediamo l’anticorpo del governo. Quello che consente di distinguere fra un’idealità che deve volare sempre più alta e la responsabilità del compromesso, tale solo in virtù di un fine, chiudendo sulla citazione machiavellica: materializzare (almeno in parte) le promesse fatte.

Una questione di potere, scrive Michele Serra il 18 febbraio 2017. La grande speranza della sinistra post comunista, dalla Bolognina in poi, era che la morte dell'ideologia avrebbe reso più viva la politica. Più viva e più libera di abbracciare la realtà, di assomigliare alle persone e alla società così com'erano, di unire e di dividere non più sulla base delle differenti appartenenze, ma delle battaglie da fare. L'attuale crisi del Pd, forse sull'orlo del suo dissolvimento, non è grave perché mette a rischio le sorti di questo o quel gruppo dirigente, o addirittura quelle del partito stesso: i leader passano, i partiti anche, e perfino per i litigiosi eredi della grande tradizione comunista e cattolico-popolare vale il cinico ma salvifico detto "chi muore giace, chi vive si dà pace". La crisi del Pd è grave perché, con tutta la buona volontà, non si riesce a leggerla in chiave di autentico scontro politico, cioè di un conflitto provocato da visioni inconciliabili della società, dell'economia, dei diritti e dei doveri, degli interessi da tutelare e di quelli da combattere. E dunque il Pd minaccia di certificare, nella sua maniera al tempo stesso rissosa e impotente, che la grande speranza della Bolognina era in realtà una grande illusione. Alla morte dell'ideologia ha fatto seguito, a sinistra, anche la morte della politica, almeno della politica intesa come comprensibile e appassionante tentativo di interpretare la realtà e di modificarla. Al suo posto uno scontro di potere che riesce a stento, e forse solo per mantenere il decoro, a contenere qualche riverbero di politica vera (la disputa sui voucher? Ovvero su meno del due per cento del totale delle retribuzioni? Esiste al mondo un partito di massa disposto a spaccarsi su una questione del genere?); ma quel riverbero è così tenue da non riuscire a illuminare il clima da tragedia shakespeariana che occupa la scena, e del quale il pubblico riesce a intendere le minacce e i gemiti, non certo la sostanza drammaturgica. È una trama che sfugge. Una trama che appartiene solo agli attori, non agli spettatori. È una situazione - quel clima cupo, quell'astio, quel non parlarsi e "non telefonarsi" (Delrio) - che lascia di stucco i milioni di elettori che al Pd, nonostante tutto, fanno riferimento; ma quel che è peggio pare ingovernabile perfino dai suoi stessi artefici, non uno dei quali è riuscito, fin qui, a dare una spiegazione "popolare", ovvero comprensibile al grosso dell'opinione pubblica, di quanto sta accadendo sul piano delle scelte politiche, visto che su quello del potere (Renzi sì, Renzi no) tutto è fin troppo chiaro. Stucchevolmente chiaro. Ha ragione dunque Gianni Cuperlo, uno dei (pochi) leader che ha dato l'impressione di anteporre ai conti personali quelli con la comunità nazionale: la posta in palio è "mandare all'aria un quarto di secolo", l'intera storia della sinistra italiana dalla Bolognina fino ad oggi, dalla data di morte della ragione ideologica sacrificata nel nome della ragione politica che avrebbe dovuto prenderne il posto. A giudicare dall'attuale evanescenza della ragione politica, viene da immaginare la piccola vendetta postuma di chi riteneva l'ideologia la sola vera struttura portante di un partito di massa. Resta comunque una soddisfazione di stretta minoranza. Per la grande maggioranza degli italiani interessati alle sorti di quel campo politico il problema sta diventando ben altro. Il problema è cominciare a fare i conti - per la prima volta con una evidenza così spietata - non più con la morte dell'ideologia, ma con quella della politica. La politica come un libro da chiudere perché leggerlo è diventato troppo ostico e troppo diverso da quello che era stato per i padri e nonni, fonte di passione e di sacrificio, di errori magari tremendi ma quasi mai dettati da calcoli personali. Già oggi l'enorme serbatoio dell'astensionismo trabocca di ex elettori di sinistra. La classe dirigente del Pd e per primo - ovviamente - il segretario politico Matteo Renzi, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, mettano nel conto anche questa possibilità, molto realistica: l'insignificanza politica come prodotto della modestissima significanza delle loro lotte intestine. Un sacrificio rituale come fu quello della Bolognina (cambiare il nome per cambiare politica) può essere spiegato e metabolizzato, compreso il prezzo di una scissione della quale nessuno poté dire: non si capisce il motivo. La morte dei Pci fu, lei sì, un dramma storico in piena luce e a piena voce. Nessuno, a sinistra, se ne poté sentire escluso. Che ne possa sortire, un quarto di secolo dopo, questa rissa senza una vera regia, senza un vero copione e soprattutto senza pubblico, è veramente impressionante. La risposta al populismo è l'impopolarità?

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.

La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.

La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.

Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.

Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".

Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).

Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.

Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però, è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.

Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico, allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto”, che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale, ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa, in un determinato frangente storico, sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa, induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.

Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.

Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

Comunismo, quanto sei cambiato. A cent’anni dalla caduta del Palazzo d’Inverno l'ideologia della rivoluzione russa subisce profonde mutazioni. Scopre la democrazia, conquista studiosi. Ma al convegno per l’anniversario gli oratori sono sempre gli stessi, scrive Stefania Rossini il 15 febbraio 2017 su "L'Espresso". Lo spettro che da tanto tempo si aggira per l’Europa e che esattamente un secolo fa si era fermato nella lontana Russia per rimanerci settant’anni, snaturando se stesso e le sue istanze di emancipazione e libertà, non ha ancora trovato pace. Il suo nome, Comunismo, che suscitò tante speranze e impose tante delusioni, è oggi diventato quasi un insulto, ridotto a una variante del totalitarismo e pronunciato con il disprezzo che si dedica agli sconfitti. Eppure lo spettro non si dà per vinto e in questo inizio 2017, dominato da tentazioni autarchiche e autoritarie, si affaccia di nuovo senza timidezze nelle commemorazioni di quell’Ottobre rosso di cent’anni fa che sconvolse davvero il mondo. È, ovviamente, un comunismo diverso da quello duro e intransigente che mirava alla dittatura del proletariato. Oggi rispetta la democrazia, anzi corre in suo soccorso, si mischia con il femminismo e con le battaglie delle minoranze, esalta il primato delle differenze, trova il suo spazio in un mondo del lavoro completamente nuovo, parla di desiderio, di estetica e di «sviluppo libero delle individualità». Quasi a voler richiamare, con l’esperienza dei tempi mutati e degli smacchi subiti, quella stagione breve e fulminante seguita alla rivoluzione di ottobre, che suscitò l’entusiasmo delle migliori menti creative dell’epoca. Ha dei portavoce di prestigio internazionale come i francesi Etienne Balibar e Jacques Rancière o come lo sloveno Slavoj Žižek, ma lo zoccolo duro della riflessione teorica e della proposta politica è ormai da tempo tutto italiano. Sì, italiano, anche se può sembrare strano a chi è abituato a declinare il comunismo negli infiniti settarismi dei partitini di sinistra che ora si scindono e ora si ricompongono. O a chi l’ha visto spegnersi nelle dichiarazioni di quegli esponenti del vecchio Pci che assicurano di non essere mai stati veramente comunisti. Il primato italiano è sancito persino da una definizione, "Italian Theory", che va per la maggiore nelle più importanti università americane, le stesse dove per decenni aveva regnato la "French Theory", che aveva reso gigantesche le icone di Michel Foucault, Jean Braudillard e Jacques Derrida. Sarà un po’ per moda, sarà un po’ per i vezzi radicali di Yale e di Harvard, ma ormai sono gli italiani a dominare la scena, con libri e convegni che valorizzano soprattutto l’elaborazione teorica di radice operaista, quella che a partire dagli anni Novanta ha discusso di intellettualità di massa, di lavoro immateriale, dei nuovi modi di produrre, di globalizzazione, di moltitudini, di biopolitica. Tutti argomenti «per afferrare il proprio tempo con il pensiero» secondo il compito che Hegel attribuiva alla filosofia, è stato detto in uno di quei convegni. Un successo crescente a cui ha dato slancio la trilogia di Toni Negri ("Impero", "Moltitudine" e "Comune"), pubblicata in inglese tra il 2000 e il 2010 con l’allievo statunitense Michel Hardt che ha contribuito non poco a sciogliere un linguaggio specialistico in una narrazione più chiara. Gli altri nomi sono quelli di Paolo Virno, in realtà il primo a rompere il monopolio americano dei post-strutturalisti con "Radical Thought in Italy" scritto con Hardt già nel 1996; di Maurizio Lazzarato, il cui saggio, "Il governo dell’uomo indebitato" (Derive e approdi, 2013) ha fatto molto discutere anche in Italia; di Christian Marazzi, di Sandro Mezzadra, di alcuni altri e anche di Roberto Esposito, nome di spessore della filosofia italiana, che operaista non è, ma è l’ideatore del concetto di "Italian Theory" che estende indietro nei secoli, staccandola dalla tradizione europea per restituirla alla sua originale irregolarità. Il comunismo è comunque per tutti i post-operaisti, presenti o no nel pantheon dei radicali americani, non un residuo del secolo breve da dimenticare, ma uno strumento vivo per cercare di cogliere un presente sempre più mobile. Comunismo, dice oggi Negri «è appropriarsi della natura e produrre vita», e aggiunge: «Non sono comunisti quelli che invocano la violenza e concepiscono la lotta di classe come guerra, lo sono quelli che trasformano la cooperazione produttiva in contropotere politico». Il comunismo, dice oggi Franco Piperno «è un’attitudine umana che si ritrova ben prima di Marx. Sa conservare le differenze mentre l’uguaglianza è un prodotto della rivoluzione borghese, per cui se tu hai la stessa somma di denaro sei uguale a un altro perché puoi comprare le stesse merci». «Con questo allontanarsi della sinistra dal comunismo, e viceversa, la sinistra è diventata strumento ipocrita di un potere sempre più torvo», dice invece Franco Berardi, detto Bifo fin dagli anni Settanta, che da tempo insegue mete più creative e personali. Li guarda, ormai più perplesso che interessato, il grande vecchio dell’operaismo italiano, quel Mario Tronti che alla fine degli anni Sessanta accese gli animi e spronò gli spiriti con un saggio, "Operai e capitale", carico di concetti forti e di prosa sentimentale. E che oggi, dagli scranni del Senato, vota con rassegnata disciplina tutte le proposte del Pd renziano. Ma anche lui, come tutti gli altri, non ha mancato di essere presente alla "Conferenza sul comunismo", il grande meeting che si è tenuto a Roma nelle settimane scorse, che ha attirato migliaia di giovani attivisti da tutta Europa, dalle Americhe e persino dall’Australia per ascoltare decine di studiosi e teorici. A loro Tronti ha presentato la sua dolente riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista, non più capace, a suo parere, di interpretare il presente, perché declinata in modo plurale e non organizzato. «Il comunismo è Lenin. Punto», ha detto pacatamente. Ma forse non si è accorto che da queste parti il comunismo è ormai un concetto quasi pop, dove alla pari con i problemi del lavoro frantumato, del capitale finanziario e dell’eventuale progetto politico vivono molte altre cose, legate ai gusti e alle inclinazioni di ognuno. Non a caso il termine più inflazionato è stato "soggettivazione". Lo hanno capito benissimo invece quanti sono passati dalla sala dei dibattiti alla Galleria Nazionale d’Arte moderna che, sotto il titolo "Sensibile comune", ha ospitato workshop, opere, film, dipinti, performance, discussioni e persino esperienze sensoriali, come quella del vino naturale. Qui anche Pellizza da Volpedo non è più lo stesso, e al posto del "Quarto Stato" con i lavoratori in marcia per i propri diritti, c’è il suo "Prato fiorito", con bambini che giocano in lietezza tra le piante. Qui Franco Piperno si è presentato con la sua "soggettività" di fisico per una lezione di astronomia sulla volta celeste, rivelando, tra l’altro, che a causa dei movimenti terrestri anche il cielo non è più quello di una volta e siamo tutti nati sotto il segno zodiacale precedente a quello dato certo per tradizione. L’accento teorico sul comunismo "sensibile", che ha cominciato ad affacciarsi negli anni Novanta, è imposto peraltro dal fatto che il lavoro posfordista, mobile e non più legato alla ripetitività, porta con sé gusti estetici, tonalità emotive, esperienza di vita. «È impossibile, per esempio, lavorare in call center se non conosci almeno un po’ le modalità retoriche», spiega Virno. Insomma questo inizio di centenario ci mostra una presenza rinnovata o, come dicono i più convinti, una necessità obbligata di comunismo. Se ne parlerà a lungo nel corso di un anno di commemorazioni. Ha già cominciato il settimanale tedesco "Zeit" che dedica la sua ultima copertina a Marx, anche se convinto soltanto in parte che il filosofo di Treviri avesse davvero ragione. Ma di fronte all’evidenza di una classe operaia tedesca precarizzata e atomizzata che ormai vota tutta a destra, le resistenze si piegano alla necessità e il giornale propone di tornare a studiare Marx e ad apprezzarlo come analista ed economista. E questo, dicevamo, è solo l’inizio.

Papà e mamma diventarono comunisti per sete di vendetta, scrive Carola Susani il 12 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Massimo Picchianti nasce comunista, in un villino di ferrovieri a Porta latina, le immagini di Lenin e di Stalin alle pareti. Negli anni Sessanta studia all’università di Mosca e matura il suo distacco dal comunismo, la sua critica verso il Pci e i comunisti italiani. Da quel momento, traduce, scrive articoli, sostiene i dissidenti. Parlare ad alta voce delle oscurità sovietiche, delle opacità dei nostrani sostenitori dell’URSS, diventa la forma stessa della sua vita. Amiamo legare la storia collettiva e la storia di chi la attraversa: per ricordare il 1917, l’anno delle rivoluzioni in Russia che tanto peso avranno nel novecento, da febbraio a ottobre, una volta al mese per nove mesi, racconteremo la sua storia. Quando ci incontriamo, a Parigi in un caffè di fronte a Parc Montsouris (il parco dove anche Lenin andava a passeggiare), Massimo zoppica, scoprirò che zoppica per via di un incidente russo. “Io sto qui, ci sono”, mi spiega, “per via di una catena di avvenimenti. La vita mia è legata alla Russia, se non ci fosse stata la rivoluzione russa di febbraio 1917, se la Russia in guerra non si fosse indebolita liberando i tedeschi dalla necessità di tenere su quel fronte grandi masse, se i tede- schi non avessero mandato truppe sul Carso, vent’anni dopo io non sarei neanche nato”. Non c’è vita che non sia legata a doppia mandata con la storia grande, anche nell’incoscienza di chi la vive, ma in quella di Massimo il legame è sempre in vista, hai l’impressione che lui non smetta di osservarlo. C’è una foto, l’ha scattata Ekaterina Nechaeva, bizantinista e fotografa russa, si chiama Ritratto di romano: Massimo taglia una forma di pane. Il chiaroscuro ne fa una figura monumentale. Per via di quella luce, del taglio di capelli, sembra un antico romano. Nella realtà Massimo è un romano per niente antico, più giocoso, sornione, iroso magari, sopra le righe, provocatorio, mai veramente severo. Parla della rivoluzione russa di febbraio, della speranza nella fine della guerra che accese in tutta Europa, delle sconfitte russe sul fronte. Per i suoi genitori, mi racconta, come per molti, la scelta di diventare comunisti ebbe come incubatore la prima guerra mondiale. “Immersi in quella carneficina, quando ne sono venuti fuori sono diventati comunisti”. Sua madre, Dora, era di Fagarè, una frazione di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, un villaggio, a due passi dal Piave. A Fagarè c’è un ossario con un monumento ai caduti completato nel 1937. La prima guerra mondiale arrivò a Fagaré dopo la rotta di Caporetto. “Mia madre me l’ha raccontato prima di morire, in dialetto stretto di quell’epoca. La sua era una famiglia di piccoli proprietari, avevano un pezzo di terra, ne affittavano un altro perché non bastava. I figli erano quattordici, Dora era la più piccola. Erano anche artigiani: costruivano strumenti da lavoro, giocattoli in legno, li vendevano alle fiere. Era una famiglia molto cattolica, mia madre era molto presa dalla religione. Possedevano dei cavalli. Lei da ragazzina li cavalcava. Ancora dal suo letto d’ospedale, li chiamava per nome. Per come li evocava, quei posti prima della guerra sembravano idilliaci. L’ansa del fiume, l’erba bagnata, i canali dove si immergevano i salici piangenti, gli uccelli migratori che si alzavano in volo. E lei sulle rive: una bambina a cavallo. I nomi dei fiumi nel dialetto di mia madre erano al femminile, il Piave era la Piave. Poi con la guerra, con la propaganda il nome si italianizzò, la Piave diventò maschio. La guerra si combatteva per Trieste. Ma Trieste prima della guerra era un porto pieno di gente che veniva da ogni posto, una città ricca, quasi fantastica per mia madre”. Anche se era in Austria, gli italiani, i regnicoli li chiamavano, ci andavano a lavorare: le ragazze a far le domestiche, i braccianti a costruir strade, ferrovie. Poi nel 1915 con la guerra tutto finì, i regnicoli vennero mandati via. La stella di Trieste si spense.

Dopo Caporetto, nel tardo autunno del 1917, masse di gente disperata arrivano al Piave: sono soldati in fuga dopo la rotta, è la ritirata, sono civili che abbandonano le case e i campi, sono sfollati in un inverno freddissimo. L’anno dopo, nel giugno del 1918 la cosiddetta battaglia del Solstizio investe San Biagio di Callalta. Per Dora si frantuma tutto insieme: l’infanzia, l’immobilità di un’esistenza apparentemente al riparo dalla storia, la fiducia in un Dio buono. Ha sedici anni, e quello che vede non se lo dimentica. “Il ponte era stato fatto saltare, come sempre fanno gli eserciti per bloccare il passo al nemico. Ma lei racconta soprattutto dei cavalli. Avevano portato via i cavalli, li avevano confiscati per mandarli in guerra. Quando c’è stata la battaglia, i cavalli sono morti. C’era una masseria che era stata trasformata in un posto di primo soccorso, mia madre andava lì a dare una mano. Mi raccontava di un medico siciliano che curava tutti, anche gli austriaci, cioè i sudditi dell’impero austroungarico, che poi magari parlavano friulano, tedeschi venivano chiamati”. Il medico siciliano che curava tutti a dispetto della guerra e che odiava quel macello, per Dora è stato una fonte di chiarezza nel buio. “Gli italiani si erano stufati della guerra e si arrendevano facilmente. Si racconta di un ufficiale tedesco portato sulle spalle dai soldati italiani che si erano arresi. Ma chi disertava, chi scappava, veniva ucciso dai suoi. Mia madre è lì che aiuta il medico, probabilmente se ne innamora: lui era uno che diceva che quella guerra era un crimine e criminali quelli che l’avevano voluta. In quella guerra mia madre ha avuto i suoi lutti, ha perso dei fratelli più grandi. Lei spontaneamente arriva a dire: Ma quale dio, non ci può essere nessun dio, se un dio ci fosse sarebbe un criminale pure lui”.

Come molti altri veneti sfollati, anche i Brunello vengono mandati a Sud, i Brunello vengono mandati in provincia di Caserta. “Mia madre si ricordava che i suoi compaesani veneti avevano molti pregiudizi verso i terroni, si sentivano più civili. Quell’Italia di cui si parlava tanto, in fondo neanche esisteva. Lei però non ne viene fuori con una reazione antimeridionale, anzi. L’unica persona a cui pensa con fiducia è un medico siciliano. Rompe con la famiglia perché vuole andare in Sicilia: forse il dottore è tornato lì. Il padre che fino alla fine della guerra ancora la coccolava, ora le dice: Va a remengo. L’esatto contrario di una benedizione: vai ramingo. Vai raminga”. Erano anni in cui si vedevano ragazze spostarsi da sole su e giù per il paese: c’erano quelle che lasciavano la campagna per andare in città alla ricerca di un lavoro, c’erano quelle che lasciavano i paesi alla ricerca di una libertà nuova. “Dora va a Messina. Laggiù però le dicono che il dottore non è più tornato. Di nuovo in Veneto, lo penserà nell’ossario, a Fagarè, fra i sedicimila ignoti. Intanto in Sicilia lo cerca negli ospedali, prova a mettersi sulla sua strada, cerca di diventare infermiera. Quando se ne va dalla Sicilia, si porta dietro i libri della scuola per infermieri che ha frequentato a Messina. Nel 1924 poi va a Roma”.

Dora ha 22 anni. A Roma, nel luglio del 1924 trova lavoro come operaia alla Cisa Viscosa. La scheda di assunzione, scarna (l’ho letta all’Archivio della Snia- Viscosa, salvato da un gruppo di cittadini nel 1995 e oggi riconosciuto di valore storico), riporta il nome, la data di nascita, il domicilio. Quando comincia a lavorare nella fabbrica, la Cisa Viscosa era stata inaugurata da un anno. Ancora oggi ci sono all’angolo fra Prenestina e Portonaccio i capannoni mezzi sfondati di cui si vede lo scheletro. La zona dove approda, il Pigneto- Prenestino, è una zona di depositi ferroviari e tranviari, ancora per metà campagna, dove sorgono industrie chimiche, chimico farmaceutiche. È la prima periferia al di là delle mura, approdo per gli immigrati. Alla Viscosa si trasformano lastre di cellulosa in seta artificiale, in rajon. Quell’anno, nel 1924, a dicembre, ci sarà uno sciopero durissimo per il salario. “Nel 1928 mia madre poi lavorerà alla Serono”. È uno stabilimento poco lontano, l’Istituto Farmaceutico Serono, fondato all’inizio del secolo, nel 1906. In quegli anni in cui nel quartiere sorgevano casette, dovevano sembrare minute e fatte di niente in confronto della Serono. Il complesso di edifici in cui va a vivere Dora, invece, è stato appena costruito ed è imponente e solido. “La sorella di mio padre, Enrichetta, aveva sposato un grande invalido amico di mio padre, Sandro. Uno che era saltato su una mina proprio negli ultimi giorni della guerra, con la presa di Trieste. Enrichetta e Sandro abitavano in una grande casa a via L’Aquila. Affittavano una stanza, e mia madre la prese”. Quel complesso, fra via L’Aquila e la Prenestina (leggo su Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore di Carmelo G. Severino) era stato costruito dalla cooperativa “Ciechi, invalidi di guerra”, belle case che ci sono ancora, con un cortile alberato. “Lì”, Massimo racconta, “mia madre ha conosciuto mio padre, Roberto. Mio zio Sandro, l’invalido era arrabbiatissimo con quelli che avevano voluto la guerra. Era restato invalido combattendo per Trieste: nel secondo dopoguerra, malgrado le foibe, quando Tito reclamerà la città, Sandro gliela avrebbe lasciata volentieri. Però dopo la rottura di Stalin con Tito anche Sandro si adeguerà e la reclamerà. Anche mio padre ce l’aveva contro la guerra”. Quando Dora e Roberto si incontrano Roberto è già comunista. “Mio padre con i suoi abitava a San Lorenzo, erano ferrovieri fiorentini”. San Lorenzo, fra la stazione Termini e la stazione Tiburtina è un quartiere popolare, con una presenza elevata di ferrovieri.

“Nel ‘17 c’era stata la rivoluzione russa. Quella di febbraio, il capo del governo rivoluzionario, Kerenskij aveva dichiarato: la guerra continua. Ma i russi sul fronte si erano indeboliti. I tedeschi decidono di approfittare della rivoluzione per mettere fuori gioco i russi”. Finanziato dai tedeschi, Lenin arriva con il treno speciale, raggiunge Pietroburgo. “Viene accolto dalla rivolta di marinai, di soldati che avevano iniziato la rivoluzione. Solo che questi che non erano i figli degli operai ma i figli dei contadini, guardavano con simpatia verso i socialisti rivoluzionari, che promettevano la terra. Lenin si allea con i socialisti rivoluzionari di sinistra, lui li chiamava compagni di strada (ma già meditava di liquidarli, tra le vittime dei bolscevichi ci saranno molti protagonisti dell’ottobre, come i marinai di Kronstadt). ‘ Pace terra libertà’ era il vecchio slogan dei socialisti rivoluzionari e prima ancora dei populisti. Mio padre guarda a questo Lenin come uno che vendicherà i morti, gli sfregiati, gli invalidi. Lo fa anche in contrasto con suo padre sindacalista socialista che diceva: uccidere intere famiglie come quella dei Romanov non ha niente a che vedere con la giustizia sociale. (Lo puoi trovare, mio nonno, Picchianti Enrico, nel Casellario politico centrale). Per mio padre, per mio zio Sandro, Lenin è prima di tutto quello che si oppone alla guerra. Mia madre che già aveva maturato dalla sua esperienza della guerra un orientamento ribellista non inquadrato quando incontra mio padre comincia a sperare anche lei nel comunismo. È stata l’esperienza straziante della guerra, i morti, la sensazione che per i potenti le vite loro non valessero i soldi del telegramma che ne annunciava il decesso, a spingerli verso quella speranza, verso il comunismo; è stata sete di vendetta. Mia madre poi ne aveva visti tanti mutilati e morti”. Nel 1937 Dora e Roberto si sposano e si trasferiscono in un villino di ferrovieri a Porta Latina. Massimo nascerà neanche un anno dopo, a gennaio del 1938.

La Rivoluzione d'ottobre fu il colpo di Stato di un'élite, che esordì chiudendo l'Assemblea costituente..., scrive Giampietro Berti, Domenica 5/02/2017, su "Il Giornale". Ricorre quest'anno il centenario della rivoluzione russa, uno degli avvenimenti più importanti del XX secolo. È quasi universalmente accreditata l'idea che si sia trattato in sostanza di un unico processo storico iniziato nel febbraio e conclusosi in ottobre. Niente di più falso, perché nel 1917 vi furono due rivoluzioni, quella liberale di febbraio e quella bolscevica di ottobre: due moti diversi, per non dire opposti, dato che la prima liberò la Russia dall'assolutismo, la seconda la portò al totalitarismo. Certo, tra i due eventi non vi fu di fatto soluzione di continuità, ma la loro natura segna un dualismo non sintetizzabile in un unico giudizio storico. Va detto subito che il rivolgimento del '17 avvenne a causa dall'implosione dello zarismo, consuntosi al suo interno. Tre anni di guerra avevano dissanguato il Paese, riducendo milioni di persone alla fame e allo stremo delle forze. L'ostinazione del governo nel volere continuare il conflitto, la sua ripetuta sordità a ogni richiesta di mitigare le condizioni disumane della popolazione e la sua incapacità nel far fronte ai più elementari bisogni sociali delegittimarono non solo la sua autorità politico-morale, ma anche quella sacro-imperiale dello zar. Perciò è del tutto ragionevole pensare che se non vi fosse stata la guerra, la rivoluzione non vi sarebbe stata. Va aggiunto che la società russa - da sempre dominata dai ceti piccolo- borghesi - era allora composta da circa 140 milioni di individui, di cui oltre cento erano contadini. Molti di questi non sapevano bene cosa stesse accadendo. La stragrande maggioranza della popolazione era ben lungi dal pensare e dal volere una trasformazione radicale dell'esistente, anche se, allo stesso tempo, il suo sostegno al potere costituito era per molti versi venuto meno. Tra il 23 e il 27 febbraio (secondo il calendario giuliano, 8-12 marzo per quello gregoriano) una sollevazione di popolo, in gran parte spontanea, provocò l'abdicazione dell'imperatore Nicola II, la fine della dinastia dei Romanov e dell'autocrazia. Il 23 febbraio ebbero inizio cruente manifestazioni di protesta a Pietrogrado, estesesi poi a Mosca e in altre località, che coinvolsero decine di migliaia di persone. Nel giro di pochi giorni il moto divenne inarrestabile, anche perché molti reparti dell'esercito, inviati per reprimere i disordini, fraternizzarono con la popolazione. Si formò un nuovo governo che varò alcune importanti misure, quali l'amnistia per i reati politici e religiosi; la libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero; l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza limitazione di condizione, di religione e di nazionalità; l'abolizione della polizia segreta; i diritti civili garantiti ai militari compatibilmente con il servizio prestato. Soprattutto fu decisa la cosa più importante, cioè la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggersi a suffragio universale, mentre rimase sospesa la questione del futuro assetto istituzionale. Erano tutte decisioni politiche di carattere democratico-liberale che portavano definitivamente la Russia, sia pure con grave ritardo e sotto l'incalzare di eventi drammatici, all'abbandono di ogni retaggio feudale, inserendola nel novero dei regimi costituzionali. Due furono gli errori gravissimi fatti dai due governi provvisori, il primo presieduto da L'vov, il secondo da Kerenskij: non avere avviato l'ormai improcrastinabile riforma agraria e, ancor più, avere deciso per la prosecuzione della guerra. Fu soprattutto quest'ultima decisione che diede a Lenin e ai bolscevichi un grande vantaggio politico e morale. La loro parola d'ordine di un ritiro immediato dal conflitto li accreditò favorevolmente presso l'opinione pubblica, anche se siamo ben lungi dal registrare un vero consenso popolare alla loro azione e ai loro programmi. Nel 1917 in tutta la Russia i seguaci di Lenin risultavano 23.600 - totale degli iscritti al partito - a fronte del numero complessivo degli abitanti nel Paese: come abbiamo detto, 140 milioni circa. La rivoluzione d'ottobre è la conferma del fallimento scientifico del marxismo. Marx aveva previsto che la rivoluzione sarebbe scoppiata nei Paesi ad alto sviluppo capitalistico, dove esisteva una classe operaia di gran lunga maggioritaria, mentre in tutta la Russia gli operai non raggiungevano la quota di tre milioni, vale a dire che non superavano il 2,5% dell'intera popolazione (ma si tenga conto che molti erano contadini impiegati stagionalmente nell'edilizia e nella costruzione o nella manutenzione delle ferrovie). A Pietrogrado, la città dove i bolscevichi diedero inizio alla loro presa del potere, non erano più del 5% di tutti i lavoratori industriali, numero, a sua volta, del tutto insignificante rispetto a una popolazione complessiva di due milioni di persone. Attuata tra il 24 e il 25 ottobre (7-8 novembre) la rivoluzione bolscevica non ebbe pressoché alcun carattere cruento e fu il frutto di circostanze altamente fortuite. Occupate le installazioni chiave della capitale, l'ufficio delle poste e del telegrafo, l'ufficio centrale dei telefoni, il quartier generale del comando militare del governo, i bolscevichi assaltarono il Palazzo d'inverno. L'intera guarnigione dei soldati avente sede nel palazzo Mihajlovskij si arrese senza colpo ferire: gli effetti devastanti del conflitto bellico avevano pressoché distrutto la struttura militare-poliziesca dello Stato, incapace ormai di rispondere ai comandi della sua classe dirigente, dispersa e disorientata. Ha ripetutamente scritto Trotsky che a dare seguito a questa azione furono circa 25mila militanti bolscevichi. Sono dunque stati questi 25mila rivoluzionari a decidere come doveva essere la Russia per tutti i 140 milioni di russi. La rivoluzione d'ottobre non fu una rivoluzione di popolo, ma l'esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito, privo di un vero consenso popolare. Del resto, la prova più evidente è offerta dalla significativa vicenda dell'Assemblea costituente, la sola istituzione potenzialmente democratica allora esistente. È noto che il risultato elettorale, maturato il 12 novembre, quindi dopo il colpo di mano comunista, confermò in modo inequivocabile il carattere minoritario del bolscevismo, avendo questo ottenuto il 24,7% dei consensi. A tale proposito è bene precisare che chi allora votò per i bolscevichi era ben lungi dall'avere l'esatta conoscenza di quanto gli stessi bolscevichi avevano realmente intenzione di fare una volta giunti al potere. Ciò che allora si conosceva del loro programma non era certo ciò che fu posto in atto più tardi. Riunitasi per la prima volta il 18 gennaio 1918, l'Assemblea fu subito chiusa (lo stesso giorno!) - e mai più riaperta - per volontà di Lenin e compagni. Così, dopo secoli di schiavitù dell'assolutismo zarista si passò, quasi senza soluzione di continuità, alla schiavitù del totalitarismo comunista.

CROLLA LA GRANDE TRUFFA DELLA SINISTRA. Zero Hedge rilancia un’analisi marxista di Charles Hugh Smith che condanna senza appello la “sinistra”. Questa, limitandosi alla sola difesa dei diritti delle minoranze e salutando la globalizzazione come un’opportunità per tutti, ha completamente tradito il suo compito storico di contrapporre gli interessi del lavoro a quelli del capitale. Oggi tutte le istituzioni, la politica e le strutture pubbliche, lungi dall’essere state abolite dal capitale, che in realtà dello Stato ha bisogno, sono state volte a suo vantaggio. Ma la classe lavoratrice sembra sul punto di risvegliarsi e di accorgersi del tradimento. Scrive Charles Hugh-Smith dal blog Of Two Minds, il 23 gennaio 2017 così come riportato da Henry Tough il 24 gennaio 2017 su “Voci dall’estero”. La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere.  La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il Presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso. La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo. Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante. Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito. I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica. In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato). Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio. Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi. La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato. Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale. Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici. Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra. Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro. Guardate il grafico seguente. Rappresenta la quota di PIL destinata al lavoro. Ora ditemi se la sinistra non ha abbandonato il lavoro in nome della propria ricchezza e potere personale. La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.

Inutile negarlo, la sinistra è finita, scrive Alfonso Maurizio Iacono il 4 gennaio 2017 su "Malgrado tutto". L’unico obiettivo che oggi, qualunque cosa se ne voglia pensare, appare sicuramente di sinistra è la proposta dei 5stelle del reddito di cittadinanza. Ma i 5stelle mescolano questa proposta con altre che, dal punto di vista di un’ipotetica sinistra, lasciano piuttosto perplessi. Tanti anni fa un grande storico, Arnaldo Momigliano, ebbe ad annunciare davanti a un congresso internazionale di filologi classici che di sicuro l’Impero Romano era caduto, questo era certo, ma quanto a sapere il tempo della sua caduta, allora la cosa si faceva difficile e incerta. A scuola si impara che il 476 dopo Cristo è la data cardine di questa caduta, ma se in una intervista impossibile si fosse chiesto ai romani di quell’anno se stavano cadendo, se erano decaduti, se stavano precipitando insieme alle macerie del crollo, sarebbero sicuramente rimasti stupefatti e avrebbero risposto che erano Romani e la loro storia non stava finendo affatto. Oggi, nell’anno di grazia 2017, la sinistra è crollata. Da quando, è difficile da stabilire, e se lo si chiedesse agli attuali politici che si dichiarano più o meno di sinistra, a cominciare da quelli del PD, si mostrerebbero incerti, forse dubbiosi, certamente in crisi, probabilmente in malafede, ma nessuno o quasi ammetterebbe la fine. Certo, qualcuno parlerebbe del fatto che ormai destra e sinistra sono categorie antiquate, qualcun altro direbbe che sì è in crisi ma non certamente finita, ma come i Romani del 476 dopo Cristo starebbero ancora lì a rosicchiarsi le ultime briciole di vecchi privilegi in nome di valori ritenuti eterni ma a cui non credono più. La sinistra è finita. Perfino nelle parole. Se esse talvolta (non sempre) corrispondono alle cose, l’attuale PD, sì, questo al governo, dopo la fine della Prima Repubblica si chiamava Partito Democratico di Sinistra, poi si chiamò Democratici di Sinistra, ora è Partito Democratico, una bizzarra sintesi più o meno annacquata e stinta dei vecchi PCI, PSI e DC. A sparire è la parola Sinistra. In nome di qualcosa di nuovo? Il fatto stesso che il nome sia diventato sempre meno specifico e sempre più generico tradisce sicuramente la fine di un fine. Ma, al di là del nome, quando la sinistra si sposa con la logica del profitto e della speculazione e con il crescere delle diseguaglianze, quando accetta il dominio incontrastato del privato sul pubblico con la scusa che il pubblico fa schifo, magari cercando timidamente e falsamente di indignarsi come uno che rispondesse semplicemente e debolmente con l’esclamazione: “Per Giove” a un pugno sferratogli in faccia e lo facesse per viltà e per convenienza, allora è finita. Lo è con Hilary Clinton come con Tsipras, per non parlare di Holland o di Renzi. C’era una cosa che caratterizzava le sinistre nelle loro diverse propensioni e manifestazioni, la critica e la lotta alle diseguaglianze. Risulta a qualcuno che quella critica e quella lotta siano ancora attuali? Eppure le diseguaglianze sono aumentate in tutte le forme, tra nazioni e paesi, tra cittadini e cittadini, tra cittadini e stranieri, tra persone e non persone, tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. L’unico obiettivo che oggi, qualunque cosa se ne voglia pensare, appare sicuramente di sinistra è la proposta dei 5stelle del reddito di cittadinanza. Ma i 5stelle mescolano questa proposta con altre che, dal punto di vista di un’ipotetica sinistra, lasciano piuttosto perplessi. Ma come mai quelli che si dichiarano ufficialmente di sinistra non ne discutono? Paura di disturbare i potenti che li proteggono? Inutile negarlo, la sinistra è finita. Prenderne coscienza sarà un bene perché rinasca. Ed è questo il mio augurio per l’anno nuovo. Non so come né quando, ma di una cosa sono sicuro. In mancanza di una sinistra degna di questo nome, la stessa democrazia è in pericolo e muta di forma e lo si vede con il crescere delle diseguaglianze, il dilagare del razzismo e l’avanzare di leader inquietanti che si affermano e dominano al di qua e al di là dell’Europa, ma anche nel suo seno.

La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra. Per capire il futuro dell’Europa si deve guardare alla Francia dove la sfida per l’Eliseo tra Le Pen e Fillon potrebbe dare il colpo definitivo a quel che rimane delle forze progressiste, scrive Bernard Guetta il 12 gennaio 2017 su "L'Espresso". Lasciate perdere la tradizione: dite quello che vi pare alla sinistra francese ma soprattutto, innanzitutto, non auguratele buon anno. Se lo faceste, in tale augurio essa leggerebbe soltanto beffarda ironia e crudeltà, nel migliore dei casi qualcosa di derisorio perché di fatto ha già messo una croce sul 2017, l’annus horribilis nel quale i suoi scompigli e le sue divisioni interne le riservano una primavera di sconfitte, alle presidenziali e alle legislative. A ben guardare, potreste anche individuare tre socialisti che ci credono ancora e potrebbero spiegarvi che, in fondo, non è detto che vada proprio così, tenuto conto che gli elettori occidentali ormai provano un piacere sottile a contraddire i sondaggi, vedi Trump. La Francia, vi diranno, non vorrà saperne di scegliere tra il Front National di Marine Le Pen e quell’amico di Vladimir Putin, il grande favorito degli ambienti cattolici più integralisti, che è François Fillon, il candidato della destra. Del resto, non siamo del tutto lontani dalla verità, perché desiderio dei francesi sarebbe stato quello di vedere candidato alla presidenza Alain Juppé, uomo moderato e riflessivo, aperto, filoeuropeo e ultima incarnazione di quella destra gollista che, come De Gaulle, teneva un piede a sinistra e l’altro a destra. Al secondo turno delle presidenziali, Juppé avrebbe inflitto una batosta a Marine Le Pen raccogliendo i consensi degli elettori di destra, di sinistra e del centro. Così avrebbero dovuto andare le cose, e invece alle loro primarie i militanti di destra non ne hanno voluto sapere di questo ex Primo ministro che assomiglia loro così poco, troppo moderato ma non abbastanza liberale e troppo ostile all’abolizione delle tutele sociali. Gli hanno preferito Fillon, più reazionario e più euroscettico, più incarnazione ideale del notaio di provincia, più liberale. Ormai il dado è tratto. Adesso, non soltanto la Francia dovrà scegliere tra la destra dura e pura e l’estrema destra, ma oltre a ciò il risultato del 7 maggio non è nemmeno del tutto sicuro. Sì, avete letto bene: non è più del tutto inverosimile che Marine Le Pen riesca ad avere la meglio perché, avendo come avversario François Fillon, si presenterà nelle vesti di portavoce degli esclusi della globalizzazione, e molti elettori di sinistra non vorranno dare i loro voti a un Thatcher francese nemmeno per mettere i bastoni tra le ruote all’estrema destra. L’astensione della sinistra rischia dunque di regalare l’Eliseo al Front National. Ma come? Nemmeno un pericolo simile indurrebbe la sinistra a serrare i ranghi? Prima la Brexit, poi Trump e infine Le Pen? Davvero la sinistra francese lascerebbe correre, restando immobile, incapace di scuotersi, di trascendere sé stessa, di trovare un candidato in grado una volta per tutte di ribaltare una situazione così allarmante? Restano quattro mesi al primo turno delle presidenziali, ancora molto tempo. Parecchie cose potranno cambiare da qui ad allora, ma già dalla prima settimana dopo quest’ultima linea assunta dalla destra le cose si sono messe male. È tutta questione di aritmetica. La sinistra ha nove candidati. Il 22 e il 29 gennaio sette di loro prenderanno parte alle primarie della Belle alliance populaire, vale a dire il PS e i suoi alleati. François Hollande, troppo impopolare per ripresentarsi, non vi parteciperà e la battaglia divamperà quindi tra il Primo ministro uscente Manuel Valls, uomo d’ordine e di grande rigore economico, i due rivali della sinistra socialista Benoît Hamon e Arnaud Montebourg, l’intellettuale della mischia Vincent Peillon, filosofo ed ex ministro dell’Istruzione, e gli outsider ambientalisti e radicali di sinistra. Il vincitore - inequivocabile, esperto, dinamico - dovrebbe essere Valls, ma è inevitabile che i tre dibattiti che precederanno questo primo turno riservino sorprese e può anche darsi che a vincere sia Hamon o Montebourg o Peillon, ovvero uno degli outsider, tenuto conto che prima dei dibattiti della destra nemmeno Fillon era stato preso sul serio. L’asso nella manica di Valls consiste nel fatto di poter essere un candidato di sinistra che la destra moderata potrebbe preferire a Marine Le Pen al secondo turno elettorale. Quello di Hamon e di Montebourg è di essersi dimessi dal governo non appena François Hollande ha dirottato la sua politica verso destra, esasperando la base socialista con la concessione di aiuti massicci all’industria. Peillon ha dalla sua il vantaggio di poter proporre una sintesi tra la destra e la sinistra socialiste. Quanto agli outsider, il loro asso nella manica è di essere pressoché sconosciuti, perfino ai militanti, e di poter dunque offrire agli elettori l’occasione di trasformare gli ultimi in primi. L’unica certezza è che il 29 sera non resteranno che tre candidati di sinistra: quello della Belle alliance e i due che si sono rifiutati di prendere parte alle primarie, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon. Macron è un politico in rapida ascesa in Francia, giovane ministro di bella presenza nel quale possono riconoscersi la destra e la sinistra, giovani e anziani, la provincia e Parigi. Ha studiato dai gesuiti, è stato membro del PS dal quale è uscito l’estate scorsa per fondare un suo movimento, En marche, che conta già oltre centomila affiliati. Non ha ancora 40 anni, ha sposato una delle sue ex professoresse, figlia di produttori di cioccolato, di 25 anni più grande di lui. Cresciuto ad Amiens, quintessenza della provincia borghese, è però un puro prodotto delle Grandes Écoles, è passato dalla banca Rothschild alla segreteria generale dell’Eliseo e quindi al ministero dell’Economia e delle Finanze. Promotore di una legge che snellisce il Codice del Lavoro, è adorato dai grandi proprietari d’azienda, ma ancor più dai giovani imprenditori con i quali parla correntemente di digitale e di nuova rivoluzione industriale. Ancora acerbo, con minore esperienza ma nettamente più affascinante e altrettanto filoeuropeo, Macron è la versione giovanile di Juppé della sinistra, ma con tutto ciò che egli rappresenta è in rottura con l’insieme della classe politica le cui azioni sono al minimo storico. In Francia come dappertutto. Mélenchon è il suo esatto contrario. Ex trotskista oggi 65enne, Mélenchon è stato un veterano del PS dal quale è uscito sbattendo la porta per portare a termine con successo una sorta di offerta pubblica d’acquisto del PC e della sinistra più a sinistra. È un oratore del XIX secolo, sfavillante, hugoliano, intriso di cultura francese e di storia del movimento operaio, e gli piace fare a pezzi la stampa, Bruxelles, l’imperialismo americano e tutti i partiti. È un uomo che sui suoi meeting sa far soffiare il vento del Grand Soir, l’idea di un’onda rivoluzionaria. Ciò nonostante, egli non è rivoluzionario. Molto più moderato di quanto appaia, è un socialdemocratico ma, a differenza dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, è imbevuto di una giusta collera nei confronti dell’ingiustizia e resta fedele alle radici operaie della sinistra europea. La sfida di Macron consisterà nel far vincere la sinistra federando i moderati tanto dei progressisti quanto dei conservatori, sconfiggendo François Fillon al primo turno e sbaragliando Marine Le Pen al secondo. Qualora non ci riuscisse, Mélenchon potrebbe ottenere in ogni caso un buon risultato che gli consenta di ricostituire, all’opposizione, una sinistra vicina alle nuove sinistre di Spagna e Grecia, Podemos e Syriza. Per il momento, però, la sinistra francese è perdente, ai margini, come del resto tutte le sinistre in Europa. Divisa tra la Belle Alliance, Macron e Mélenchon che raggiungono il 15 per cento delle intenzioni di voto, la sinistra non potrà che perdere al primo turno e lasciare che destra ed estrema destra si disputino la presidenza. Perché? Che sta succedendo alla sinistra, e non soltanto in Francia ma ovunque? La risposta è che il rapporto di forze tra capitale e lavoro si è capovolto quasi del tutto dagli anni Ottanta a oggi. Nel dopoguerra, la situazione era favorevole alla sinistra. La ricostruzione assicurava la piena occupazione. La minaccia sovietica e la potenza dei partiti comunisti europei avevano il loro peso sullo scacchiere politico. Ogni cosa induceva governi e proprietari d’azienda a concessioni sociali. Ogni sciopero o quasi si concludeva con nuovi aumenti salariali, nuove estensioni delle tutele garantite a operai e subordinati. Il dopoguerra è stato l’epoca d’oro della sinistra ma, una volta giunta a termine la ricostruzione, ha risuscitato la disoccupazione; il crollo sovietico ha affrancato il capitale dalla paura delle rivoluzioni; la riduzione delle distanze ha permesso al capitale di delocalizzare la produzione in paesi dai salari irrisori e dalle tutele inesistenti, e l’ascesa delle nuove potenze industriali ha condannato il settore pubblico e quello privato a ridurre drasticamente i costi salariali a fronte di una concorrenza di giorno in giorno più aggressiva. Non soltanto adesso l’industria non è più a corto di manodopera e non teme più il Comunismo, ma oltre a ciò, cascasse il mondo, deve abbassare i prezzi dei costi occidentali. Il rapporto di forze avvantaggia ormai il capitale che può fare spallucce con noncuranza davanti alle regolamentazioni sociali dei vecchi paesi industriali, perché può sempre sottrarsi a esse investendo nei paesi emergenti. Di conseguenza, gli Stati nazione non possono più trovare un punto d’accordo tra gli interessi dei lavoratori e del capitale, perché l’imperativo assoluto è mantenere l’occupazione all’interno delle loro frontiere, per ridurre la disoccupazione e i deficit di bilancio. La sinistra, in parole povere, non è più in grado di imporre il progresso e i compromessi sociali che erano la sua stessa ragion d’essere e le attiravano i voti dei salariati. La sinistra non ha tradito. È disarmata e lo sarà a lungo, perché non può invitare i suoi elettori a guardare i nuovi rapporti di forza che si sono venuti a creare senza confessare nel contempo la propria impotenza, e perché continua a indebolirsi sempre più, di elezione in elezione, visto che le soluzioni che le si prospettano - e ce ne sono - sono in ogni caso lontane o difficili da difendere. Una delle soluzioni è l’Europa. Uniti, gli Stati europei potrebbero ritrovare il loro ruolo di arbitri, perché l’ascesa di una potenza pubblica di dimensione continentale potrebbe imporre al capitale di negoziare un nuovo compromesso sociale e agli altri Stati-continente le condizioni di transazioni commerciali eque e reciprocamente vantaggiose. Unite da un potere esecutivo e da un potere legislativo comuni, le nazioni e le sinistre europee potrebbero realizzare ciò che oggi non sono in grado di fare. Peccato che l’unità dell’Europa di questi tempi non sia più un’ambizione in grado di appassionare e coinvolgere, e che in ogni caso non lo sia nelle corse elettorali. Assimilata alle politiche di risanamento di bilancio, l’Unione è diventata impopolare, è percepita alla stregua del cavallo di Troia della globalizzazione, e la sinistra incontra dunque difficoltà sia a perorarne il rafforzamento sia a dire ai salariati che ormai pensioni e assicurazioni malattia devono essere finanziate dalle imposte e non più dagli oneri sociali delle imprese. Proprio quando le entrate dei proprietari d’azienda e l’evasione fiscale delle grandi imprese sfiorano livelli osceni mai raggiunti in precedenza, la sinistra non può annunciare ai suoi elettori che, contrariamente alle industrie pesanti di ieri, le industrie innovative contemporanee - quelle dedite alla ricerca e alle tecnologie del futuro, quelle del nostro comune avvenire - non hanno ancora le spalle sufficientemente solide per garantire il perpetuarsi del modello sociale europeo. A meno di precipitare al medesimo livello di rifiuto di François Hollande – che negli ultimi tempi egli si è arrischiato ad avere, bruscamente e inspiegabilmente -, la sinistra non potrà invocare dall’oggi al domani la necessità di aiutare l’industria per salvaguardare le tutele sociali. La sinistra, francese ed europea, è dunque a un punto morto. Potrà riprendersi e uscirne soltanto attingendo a uno stesso tempo a Macron e a Mélenchon, all’indignazione dell’uno e alla volontà dell’altro di superare le frontiere del passato e riunire sotto un’unica bandiera tutti i sostenitori del compromesso sociale, tutti i fautori di un nuovo compromesso per un nuovo secolo. Impossibile? No, soltanto difficile. Siamo ancora lontani da quel traguardo ma - se non vogliamo essere costretti a scegliere tra thatcherismo e nazionalismo, tra destra dura e pura ed estrema destra, tra violenza sociale e insolvenza dei nostri paesi - sarà indispensabile passare proprio da lì e ricominciare a parlare alla sinistra per reinventarla, partire dalla realtà per trasformarla, riportare in auge l’utopia e rimettere l’immaginazione al potere.

Pd, la nuova carica dei 102: tutti gli indagati, regione per regione. Sindaci, governatori, consiglieri ed esponenti del partito sul territorio: ecco perché Renzi ora attacca i pm, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 maggio 2016. “Questione morale”. Sui blog degli elettori Pd quelle due parole pronunciate da Enrico Berlinguer nel 1981 tornano frequenti. Insieme con le polemiche sulle inchieste che toccano esponenti dem. Un’espressione che torna di attualità con la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il sindaco di Lodi, Simone Uggetti.

PIEMONTE. Gli ultimi a finire a processo sono stati il sindaco di Vercelli Maura Forte e il consigliere regionale Giovanni Corgnati. Sono accusati di aver falsificato firme per le candidature alle Provinciali del 2011. Oggi finirà davanti al tribunale vercellese Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria), sottoposto ai domiciliari il 3 dicembre scorso con l’accusa di concussione per induzione. Molti politici sono incappati in indagini su irregolarità alle elezioni. Per uscirne, non pochi patteggiano. Lo hanno fatto i politici di Verbania per accuse di irregolarità alle amministrative 2014 contestate anche all’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. Patteggiamenti anche nella vicenda delle firme false a sostegno della candidatura di Sergio Chiamparino alle regionali del 2014: il 2 marzo a Torino 9 tra funzionari ed eletti hanno ottenuto pene tra i cinque mesi e un anno. Tra di loro il consigliere regionale Daniele Valle, che ha patteggiato sei mesi. Andrà a dibattimento Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione di Torino, coinvolto anche nell’inchiesta sulle “giunte fantasma” insieme ad altri 9 eletti, tra cui la deputata Pd Paola Bragantini, indagata per truffa aggravata. Sul suo compagno Andrea Stara pesa una richiesta di condanna a tre anni per peculato nell’ambito dei rimborsi regionali. I pm lo indagheranno anche per aver calunniato la sua ex segretaria, su cui aveva scaricato la colpa dei rimborsi.

LOMBARDIA. Tre i casi chiusi: nel luglio 2013 finisce la vicenda dell’ex sindaco di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini. Arrestato nel 2010 per corruzione in un’inchiesta che coinvolge esponenti della ’ndrangheta, patteggia 2 anni e 5 mesi. Gennaio 2015, Filippo Penati assolto a Monza dall’accusa di finanziamento illecito, mentre per corruzione e concussione (un giro di tangenti) si avvale della prescrizione. Aprile 2015, spese pazze in Regione: rinviato a giudizio il capogruppo Luca Gaffuri e condannati con rito abbreviato Carlo Spreafico (2 anni) e Angelo Costanzo (1 anno e 6 mesi). Cinque i fronti ancora aperti. A Rho l’ex consigliere Luigi Addisi viene arrestato nell’aprile 2014 per riciclaggio e abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta è in corso, Addisi è ai domiciliari. Nel gennaio 2015 viene indagato il consigliere regionale Massimo D’Avolio (abuso d’ufficio). Da sindaco di Rozzano gestisce la partita milionaria del teleriscaldamento e autorizza il pagamento della partecipata Ama ad alcune società di cui sua moglie risulterebbe fra i soci. Gennaio 2016, arrestato il sindaco di Brenta Gianpietro Ballardin: è indagato a piede libero per favoreggiamento e falso. A gennaio il sindaco di Como, Mario Lucini, viene indagato (violazione alle norme edilizie e turbativa d’asta) per l’appalto sulle paratie del lungolago. A marzo tocca al sindaco di Pero Maria Rosa Belotti: abuso d’ufficio.

LIGURIA. Già l’inchiesta Mensopoli del 2007 aveva toccato i collaboratori più stretti dell’allora sindaco Marta Vincenzi (non indagata) e due ex consiglieri Ds. Per le spese pazze, quasi mezzo consiglio regionale del mandato di Claudio Burlando è stato indagato: molti rappresentanti del centrosinistra, uno del Pd. È Antonino Miceli – ex capogruppo – rinviato a giudizio per peculato e falso. Quindi le alluvioni. Per quella del 2011 l’allora sindaco Marta Vincenzi è imputata di omicidio colposo, disastro colposo, falso e calunnia. Il processo è in corso. Per quella del 2014 Raffaella Paita – allora assessore alla Protezione civile – ha ottenuto il rito abbreviato. C’è poi l’inchiesta savonese sulla centrale a carbone di Vado che secondo i pm avrebbe causato 440 morti: indagata tutta la giunta Burlando. Inchieste clamorose, come Parcopoli, sulle Cinque Terre. L’ex presidente del Parco, Franco Bonanini (Pd, poi passato al centrodestra) è stato condannato in primo grado a 7 anni e dieci mesi.

VENETO. L’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni, è imputato di finanziamento illecito ai partiti. Secondo l’accusa, avrebbe ricevuto, tramite i fondi neri del Consorzio Venezia Nuova, 560 mila euro per la campagna elettorale delle comunali nel 2010. Arrestato il 4 giugno 2014 nell’inchiesta sul Mose, Orsoni era stato scarcerato una settimana dopo; la sua richiesta di patteggiamento era stata respinta. Nella stessa inchiesta era indagato il tesoriere del Pd, Giampietro Marchese, con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti per aver ricevuto circa mezzo milione dal consorzio del Mose per “plurime campagne elettorali” dal 2006 al 2012. Marchese ha patteggiato 11 mesi e 20mila euro di multa.

EMILIA ROMAGNA. Spese pazze: sono 13 gli ex consiglieri regionali Pd a processo a Bologna, accusati di peculato. Secondo i pm, i politici avrebbero utilizzato, tra il 2010 e il 2011, i fondi dei gruppi per spese “non inerenti”: tra gli scontrini, anche quelli per un bagno pubblico, pranzi e cene di lusso, viaggi da centinaia di euro con autista e persino per sexy shop. Imputati tra gli altri l’ex capogruppo Marco Monari e l’eurodeputato Damiano Zoffoli. A Rimini i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco Andrea Gnassi, l’accusa per lui, che si ricandida a giugno, è associazione a delinquere e truffa nell’inchiesta sul fallimento di Aeradria, società che gestiva l’aeroporto. Anche a Bologna il sindaco ricandidato Virginio Merola è sotto inchiesta per omissione d’atti d’ufficio, in un fascicolo sul mancato sgombero di un’occupazione in via di Mura di Porta Galliera. Si deciderà a giugno, con un processo bis in appello, la sorte di Vasco Errani, ex governatore per il quale la Cassazione aveva annullato (con rinvio) una condanna per falso ideologico, nella vicenda Terremerse, assolto in primo grado.

TOSCANA. A Firenze, nel processo sull’urbanizzazione dell’area di Castello, nell’ottobre del 2015, la Corte di appello ha condannato l’ex assessore comunale all’Urbanistica Gianni Biagi a due anni e mezzo per corruzione insieme a Salvatore Ligresti. A un anno e un mese è stato condannato Graziano Cioni, ex assessore alla sicurezza. Sempre l’urbanistica protagonista nel processo Quadra che ha portato, nel novembre 2013, a 19 condanne fra le quali quella per Alberto Formigli, ex capogruppo Pd in Consiglio comunale: in primo grado, tre anni e 9 mesi con accusa di corruzione e peculato. A dicembre 2016 arriva, in Cassazione, la condanna definitiva a un anno e mezzo per omicidio colposo per l’ex sindaco Leonardo Domenici. I fatti si riferiscono alla morte di una giovane ricercatrice precipitata, la notte fra il 14 e 15 luglio 2008, da un bastione del Forte Belvedere. Dal dicembre 2015 è iscritto nel registro degli indagati il sindaco di Siena Bruno Valentini. Le ipotesi di reato sono falso in atto pubblico, abuso di ufficio e truffa. Le indagini, che coinvolgono altre 8 persone, riguardano la costruzione di un campo da baseball a Monteriggioni dove l’esponente dem è stato primo cittadino tra il 2011 e il 2014. A Livorno indagati per la gestione dell’azienda dei rifiuti l’ex sindaco Alessandro Cosimi e gli assessori Bruno Picchi e Walter Nebbiai.

LAZIO. Il Pd di Roma e del Lazio è stato straziato da Mafia Capitale. Il primo giudizio è arrivato nei confronti di Daniele Ozzimo, ex assessore dem: lo scorso 7 gennaio è stato condannato in primo grado a 2 anni e 2 mesi per corruzione. Ha annunciato l’appello. Nell’inchiesta sono finiti altri democratici. Tra i 46 imputati c’è anche Mirko Coratti, accusato di corruzione: prima dello scandalo era presidente dell’Assemblea capitolina. Indagati anche Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, e Andrea Tassone, ex presidente del X municipio, quello ad alta densità mafiosa di Ostia. Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd, è anche lui accusato di corruzione e turbativa d’asta. L’indagine sulle spese pazze della Regione tra il 2010 e il 2013 è stata chiusa lo scorso dicembre. Riguarda 14 ex consiglieri dem: tra loro l’attuale sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia e Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano. Lo stesso Di Stefano è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, truffa e falso per presunti illeciti legati a un mega affare immobiliare. Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd, è stato condannato in primo grado a 8 anni per appropriazione indebita, per aver messo le mani sui rimborsi elettorali della Margherita, di cui è stato tesoriere (2002-2012). Ignazio Marino rischia due processi: scontrini e onlus.

MARCHE. La Procura di Ancona ha chiesto 66 rinvii a giudizio per l’inchiesta delle spese pazze in Regione. Praticamente tutto l’ex Consiglio. Le spese contestate a esponenti di destra e sinistra ammontano a 1,2 milioni di euro. Indagati l’ex governatore Gianmario Spacca (eletto con il Pd, poi avvicinatosi al centrodestra), l’ex presidente del Consiglio Vittoriano Solazzi (ex Pd), nonché assessori dell’attuale giunta come Angelo Sciapichetti.

UMBRIA. L’inchiesta della Procura di Terni sullo smaltimento del percolato dalla discarica di Vocabolo Valle vede fra gli indagati il sindaco della città Leopoldo Di Girolamo. Fabio Paparelli, vicegovernatore, è a processo per stabilizzazioni sospette di personale della Provincia.

ABRUZZO. Tangenti per i lavori all’oratorio Don Bosco de L’Aquila dopo il terremoto del 2009. Con questa accusa nel novembre 2015 è finito ai domiciliari l’ex vicesindaco della città Roberto Riga. L’inchiesta riguarda appalti per 28 mila euro.

PUGLIA. Il nome più noto è l’ex assessore regionale della giunta Vendola, poi diventato senatore, Alberto Tedesco: deve ancora affrontare un processo, negli altri – sempre del filone sanità – è stato prosciolto. L’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales è stato messo ai domiciliari il 6 febbraio scorso con l’accusa di aver intascato tangenti. L’ex presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, e il suo assessore all’ambiente Michele Conserva, sono accusati di pressioni sui dirigenti della Provincia per la concessione all’Ilva dei Riva dell’autorizzazione a smaltire i rifiuti nelle discariche interne alla fabbrica. Nella stessa inchiesta, con l’accusa di favoreggiamento, è finito un altro assessore della giunta Vendola, il tarantino Donato Pentassuglia. Altre inchieste: il consigliere regionale Michele Mazzarano è sotto processo per finanziamento illecito ai partiti per aver ricevuto 70 mila euro da Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore che avrebbe organizzato le serate per Silvio Berlusconi. Ancora: il consigliere regionale Fabiano Amati, condannato in appello a 6 mesi per tentato abuso d’ufficio; Gerardo De Gennaro, ex consigliere regionale, coinvolto in un’inchiesta su sei grandi opere edilizie a Bari, e, ultimo in ordine di tempo, il consigliere regionale Ernesto Abaterusso condannato a un anno e 6 mesi (primo grado, il pm aveva chiesto l’assoluzione) per truffa all’Inps.

BASILICATA. Il governatore Marcello Pittella è imputato in Rimborsopoli – è stato già condannato dalla Corte dei conti insieme, tra gli altri, al deputato Vincenzo Folino – ed è indagato per corruzione elettorale nell’inchiesta sul dissesto di Potenza, il buco da quasi 24 milioni. Trentacinque gli indagati sul crac del municipio, tra cui gli ex assessori Giuseppe Ginefra e Federico Pace. Tra i rinviati a giudizio con l’accusa di aver percepito indebitamente rimborsi dal fondo per le attività istituzionali ci sono anche il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia.

CAMPANIA. Il governatore Vincenzo De Luca è, nell’ordine: imputato di associazione a delinquere e tentata concussione per il progetto Seapark di Salerno (il pm ha chiesto l’assoluzione) e di abuso d’ufficio per la realizzazione del Crescent; indagato di concussione per induzione per la trattativa intorno alla sentenza del giudice civile che lo ha mantenuto in carica nonostante la legge Severino ne imponesse la sospensione dopo una condanna in primo grado nella vicenda del mai realizzato termovalorizzatore di Salerno (condanna annullata in appello). Tre suoi stretti collaboratori sono indagati: l’ex segretario Nello Mastursi, ritenuto uno dei registi della trattativa sulla sentenza; il consigliere per la Sanità, Enrico Coscioni, accusato di tentata concussione; il consigliere per l’Agricoltura, Franco Alfieri, raggiunto da un avviso di garanzia per omissione di atti d’ufficio per non aver acquisito beni confiscati a un clan criminale al patrimonio di Agropoli, di cui è primo cittadino. A Napoli Antonio Bassolino è uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti. Ne pende ancora uno che lo vede imputato di peculato. Più grave la posizione processuale dell’ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi, condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica. Due sindaci devono difendersi in inchieste su appalti pilotati: Giosy Ferrandino (Ischia), sotto processo per le presunte tangenti di Cpl Concordia sulla metanizzazione dell’isola, e Giorgio Zinno (San Giorgio a Cremano), raggiunto da un avviso di conclusa indagine.

CALABRIA. Concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione elettorale e voto di scambio. Sono tra i reati contestati a politici dem investiti nel 2014 dall’inchiesta Rimborsopoli e da alcune indagini antimafia. L’ex sottosegretario Sandro Principe è finito ai domiciliari nell’inchiesta “Sistema Rende”: voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan. Per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso è indagato il consigliere regionale Orlandino Greco. Ha trascorso 9 mesi ai domiciliari l’ex assessore regionale Nino De Gaetano, nell’inchiesta Rimborsopoli per la quale sono indagati anche Nicola Adamo, ex consigliere regionale, l’ex presidente del Consiglio Antonio Scalzo, l’ex assessore Carlo Guccione e l’ex vicegovernatore Vincenzo Ciconte. Il consigliere regionale Michelangelo Mirabello è rinviato a giudizio per concorso in bancarotta.

SICILIA. È indagato a Enna Mirello Crisafulli, per abuso di ufficio e occupazione abusiva di suolo pubblico per l’apertura della facoltà di medicina dell’Università romena Dunarea di Jos Galati. Ha ricevuto il 10 dicembre scorso un avviso di garanzia per una distrazione di fondi destinati all’università Kore. A Roma Crisafulli deve rispondere con il ministro Alfano di abuso di ufficio per il trasferimento del prefetto di Enna Fernando Guida. Insieme a Elio Galvagno, ex deputato regionale, Crisafulli infine è stato condannato a due mesi per un blocco dell’autostrada Pa-Ct nel 2010: per entrambi il tribunale ha pronunciato la prescrizione per una truffa da 9 milioni di euro all’Ato rifiuti. A Marsala sta per essere processato per voto di scambio il consigliere comunale Vito Daniele Cimiotta, a Trapani è a giudizio il deputato Nino Papania per associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio alle amministrative del 2012 di Alcamo: cibo e promesse di lavoro in cambio del voto. Per le spese pazze del gruppo parlamentare Pd all’Ars le indagini sono state chiuse per peculato nei confronti di 5 deputati regionali. Sorpreso a intascare una mazzetta di 10 mila euro il loro ex collega Gaspare Vitrano è stato condannato a sette anni per concussione.

SARDEGNA. Il segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, Renato Soru, è accusato di evasione fiscale: avrebbe sottratto al fisco più di due milioni. Per lui anche una contestazione di false comunicazioni sociali in un procedimento (è indagato) nato da accertamenti sulla sua Tiscali. Francesca Barracciu, dopo il rinvio a giudizio per peculato, ha dovuto lasciare la poltrona di sottosegretario alla Cultura del governo Renzi: avrebbe speso in modo improprio i fondi ai gruppi del Consiglio regionale, così come una trentina di esponenti Pd. Tra loro il senatore Silvio Lai e i deputati Siro Marrocu e Marco Meloni. C’è un primo condannato: l’ex sindaco di Porto Torres Beniamino Scarpa, in primo grado, si è beccato 4 anni e mezzo.

Da Il Fatto Quotidiano del 21 Aprile 2016. Aggiornato da Redazione web del 3 maggio 2016. A cura di Maddalena Brunetti, Francesco Casula, Michela Gargiulo, Andrea Giambartolomei, Vincenzo Iurillo, Giuseppe Lo Bianco, David Marceddu, Ersilio Mattioni, Lucio Musolino, Tommaso Rodano, Ferruccio Sansa e Andrea Tornago.

I CATTIVI MAESTRI DELLA SINISTRA.

L’Arte è Arte, non è parte. L’Arte non ha tempo, né ideologia. Chi riflette luce estemporanea ed ha una ideologia, non è artista, ma partigiano. Chi è invitato da un boss criminale sanguinario mafioso può avere dei ripensamenti. Chi viene invitato ad esibirsi per l’insediamento del presidente democraticamente eletto del paese più democratico e sviluppato del mondo, e onorare il paese, da cui proviene e si rifiuta per fini politici, non merita di essere definito artista, ma semplicemente comunista, senza arte, con parte...

Il Volo dice no a Trump: non canteremo per chi punta su populismo e xenofobia. I tre italiani hanno declinato lʼinvito ad esibirsi alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente. "Mai dʼaccordo con le sue idee - spiegano - ma non va criminalizzato chi canterà per lui. E nemmeno chi non lo fa, scrive "TGCom 24" il 6 gennaio 2017. Il Volo prende le distanze da Donald Trump: il trio italiano, nonostante l'invito, non canterà alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Usa. I tre spiegano al "Corriere della Sera" i motivi del rifiuto: "Non siamo d'accordo con le sue idee, non possiamo appoggiare chi si basa su populismo oltre che su xenofobia e razzismo dicono Boschetto, Ginoble e Barone. Nessun problema per chi si esibirà al posto loro: "Non va criminalizzato chi canterà per Trump, così come chi non lo fa". Il Trio ha un vastissimo seguito negli Usa: il loro live al Radio City Music Hall del 4 marzo è tutto esaurito. È proprio per questo motivo che Il Volo non si preoccupa delle possibili conseguenze che potrebbe comportare il due di picche al nuovo presidente americano: "Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo", sostengono decisi i tre. "Chi ci ama ci seguirà ugualmente". C'è da dire però che i tenori non sono stati i primi e nemmeno gli unici a declinare l'invito del tycoon alla cerimonia di insediamento. La lista delle celebrity che ha voltato la faccia al neoletto Trump spazia dal rapper Kanye West al bassista Gene Simmons dei Kiss, da pop star del calibro mediatico di Justin Bieber a Bruno Mars, Katy Perry e Justin Timberlake. Grande clamore ha suscitato anche il presunto rifiuto di Andrea Bocelli, peraltro amico de Il Volo, che avrebbe deciso di non esibirsi alla Casa Bianca. Non ci sono state smentite e nemmeno conferme, ma è bastata l'ira dei fan - che sono insorti in Rete lanciando l'hashtag #BoycottBocelli - a scoraggiare un'ipotetica presenza del tenore sul palco presidenziale. Sulla questione il trio italiano ammette di essere a conoscenza della versione ufficiale, ovvero quella dell'invito pervenuto e rispedito al mittente, ma sottolinea: "Quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica".

Anche Il Volo dice “No” a Donald Trump: i suoi atteggiamenti sono xenofobi e razzisti, scrive "Novella 2000" il 6 gennaio 2017. Donald Trump, il neo presidente degli Stati Uniti, ha chiesto a Il Volo di esibirsi per il concerto della sua cerimonia di insediamento (il 20 gennaio), ma i tre tenori, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, hanno risposto: “Grazie no, Mr. President”. Anche loro, dopo Elton John e Andrea Bocelli, hanno rifiutato l’offerta, motivandola con queste parole: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». I tre cantanti, lanciati da Antonella Clerici, non sono andati tanto per il sottile convinti che la musica e la politica abbiano un legame: «Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». Negli Stati Uniti, Il Volo è adorato e il dire “No” a Trump non preoccupa i tre cantanti: «Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti, poi, non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato… Noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». Gianluca, Ignazio e Piero, hanno pure affermato che molto probabilmente non seguiranno la cerimonia d’insediamento di Donald Trump nemmeno in Tv: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», ha affermato Gianluca, per poi aggiungere «Nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti…». Ora per Donald Trump diventa sempre più complicato reclutare artisti disposti a suonare per lui, mentre alla cerimonia di insediamento di Barack Obama star come Beyoncé, Lady Gaga, Stevie Wonder e Aretha Franklin avevano fatto a gara per esserci.

Il gran rifiuto del Volo a The Donald. Il celebre trio non canterà all’inaugurazione del nuovo presidente americano, il prossimo 20 gennaio: «Non appoggiamo il populismo xenofobo», scrive Chiara Maffioletti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Quante volte può capitare a un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? osì, quando qualche settimana fa la proposta di Donald Trump è arrivata a Il Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, si sono confrontati, ci hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire grazie no, Mr. President. «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». Insomma, non ci girano attorno. E, al contrario di quello che magari ci si potrebbe aspettare, non giocano la prudente carta — cara a tanti loro colleghi — del: «La musica non c’entra con la politica». Anzi, sono tutti e tre ben consapevoli del fatto che «come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». E come loro devono averla pensata anche tutti gli altri artisti che hanno declinato il presidenziale invito. «Ma la democrazia è importante. Non va criminalizzato chi si esibirà quel giorno, così come non va fatto con chi la pensa diversamente da noi. Per quanto ci riguarda ci rendiamo conto di essere un esempio per molti, soprattutto giovani, ed è per questo che raccontiamo la nostra idea». Negli Stati Uniti Il Volo è adorato. Il concerto del prossimo 4 marzo alla Radio City Music Hall è già «sold out» tanto che ora si prevede una nuova data. Dire no a Trump ad altri avrebbe fatto venire il dubbio di vedersi chiudere qualche porta a stelle e strisce. «Ma pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato...». Anche se non lo ha mai confermato: non si sa se sia stato davvero invitato da Trump... «Ah. Beh noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». La loro decisione di prendere posizione e raccontare perché hanno detto no a Trump dipende invece dal fatto che «se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda». Se vi avesse chiamati Obama sareste andati? Qualche attimo di lieve, divertito, imbarazzo. Poi se la cavano così: «Comunque non ci ha chiamati». Non sanno se seguiranno la cerimonia di insediamento, il 20 gennaio: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», commenta Gianluca, ma, facendosi di nuovo seri, sono tutti e tre certi che se anche la guarderanno, non avranno «nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti. Davanti a noi poi abbiamo un tour bellissimo, gireremo l’Italia, canteremo in posti fantastici...». Non solo America quindi. E anche se non sanno cosa guarderanno in tv il giorno dell’insediamento, pare già certo che Sanremo non se lo perderanno... «Ehhh, il Festival certo che lo seguiremo, non possiamo non farlo».

I tre tenori de Il Volo rifiutano di cantare per Donald Trump. Gli artisti de Il Volo hanno declinato l'invito di Donald Trump e non canteranno alla cerimonia del suo insediamento. "Non condividiamo nulla con lui", scrive Anna Rossi, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". "Abbiamo rifiutato di cantare alla cerimonia di insediamento di Donald Trump perché non siamo mai stati d'accordo con le sue idee". Così Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone de Il Volo hanno declinato l'invito del nuovo presidente degli Stati Uniti. In un'intervista al Corriere della Sera i tre cantanti motivano la loro decisione. "Non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti. Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente" - spiegano gli artisti de Il Volo. Il grande rifiuto dei tre cantanti non è passato inosservato e sono tanti quelli che accusano i tre ragazzi di essersi "montati un po' troppo la testa". "Quante volte può capitare ad un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? Pochissime. Snobbare un invito di questa portata mi sembra un po' azzardato", scrive un utente in rete. E di commenti di questo tipo ce ne sono a bizzeffe, come d'altro canto ci sono tanti altri utenti che condividono pienamente la decisione dei tre artisti. "Non pensiamo - continuano - che il nostro futuro dipenda dal nostro rifiuto a Donal Trump. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato". La loro decisione di prendere una netta posizione e raccontare perché hanno detto "no" a Trump - dicono - dipende dal fatto che "se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda". Condivisibili o meno, sono queste le motivazioni che hanno spinto i tre cantanti de Il Volo a rifiutare l'invito di Donald Trump.

Inauguration day, ecco chi ha rifiutato l’invito di Donald Trump, scrive “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2017. Il no di Andrea Bocelli e del Volo. E tutti gli altri artisti che hanno declinato l’invito (o che lo declinerebbero se invitati) per la serata di gala del 20 gennaio 2017.  

1. Il rifiuto del Volo. Un rifiuto anche dall’Italia, il no a Trump del gruppo Il Volo: «Non siamo stati mai d’accordo con le sue idee politiche e con i suoi atteggiamenti xenofobi e razzisti». Dieci settimane dopo aver sorpreso l’America e il mondo con la sua vittoria nelle elezioni americane, Donald Trump il 20 gennaio giurerà come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Ma sono già numerosi gli artisti di mezzo mondo che, invitati a esibirsi all’evento, hanno rinunciato motivando il rifiuto con una presa di posizione contro il neo eletto leader Usa. Un illustre «No» arriva anche dall’Italia, con il Volo, l’ensemble canoro che ha poi spiegato: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti».

2. L’elegante rifiuto di Celine Dion. Secondo il sito di gossip Usa Tmz, Celine Dion avrebbe declinato l’invito presidenziale perché «già impegnata».

3. Il no politico dei Kiss. La trasgressiva band Usa ha declinato l’invito del neo presidente. A riferirlo la moglie del leader Gene Simmons, Shannon Tweed.

4. La smentita di Elton John. Il portavoce dell’artista inglese, Fran Curtis, ha comunicato ufficialmente che «Elton non si esibirà all’inaugurazione della presidenza Trump». La nota si è resa necessaria dopo l’annuncio fatto da un membro dello staff del neopresidente.

5. Garth Brooks non ci sarà. Non sarà della serata neppure la star del country Garth Brooks. A confermare il suo «gran rifiuto» la rivista «Daily Variety».

6. Lo scherzo ai The Chainsmokers. Un giornalista, forse per scherzo, aveva annunciato che i due dj riuniti sotto il nome di The Chainsmokers avrebbero partecipato alla serata inaugurale del 20 gennaio. La «battuta» è stata in ogni caso smentita dal manager della band.

7. La giovanissima star di «America’s Got Talent». Jackie Evancho, reginetta sedicenne della fortunata trasmissione poi esportata in tutto il mondo, è al momento uno dei pochi artisti confermati all’Inauguration day di Donald Trump.

8. I mal di pancia delle danzatrici. Anche l’ensemble di danza The Radio City Rockettes ha confermato che parteciperà all’evento del prossimo 20 gennaio. Tuttavia, alcune ballerine si sono dette perplesse, imbarazzate o preoccupate, nessuna di quelle di colore inoltre ha deciso di partecipare.

9. Il no di David Foster. Il musicista canadese ha diramato una nota per rispondere a quanti davano per scontata la sua partecipazione (o addirittura un suo ruolo organizzativo) in vista della serata inaugurale della presidenza Trump: «Ho cortesemente e rispettosamente declinato. Ogni altra notizia in merito è priva di fondamento».

10. Lo scontato no di Ice T. Ice T ha twittato il suo rifiuto ufficiale all’invito che gli è pervenuto telefonicamente: «Non ho neanche risposto e poi ho bloccato il numero di chi mi aveva chiamato», ha scritto l’artista afro-americano.

11. La condizione di Rebecca. La cantante britannica Rebecca Ferguson ha spiegato che si esibirà solo se potrà interpretare la canzone «Strange Fruit», il brano reso celebre da Billie Holiday diventato l’inno delle campagne antirazziste nel mondo.

12. Il sì del coro mormone. L’ensemble vocale The Mormon Tabernacle Choir ha confermato la sua partecipazione attraverso il sito Internet ufficiale della chiesa mormona statunitense.

13. Il no preventivo di Adam Lambert. Interpellato dalla Bbc su una sua eventuale partecipazione al concerto in onore di Donald Trump, il cantautore statunitense ha risposto che «non prenderei mai soldi da un tipo simile».

14. Il no di Matt Healy dei The 1975. Anche Matt Healy, leader del gruppo britannico di indie rock The 1975, sarebbe poco disposto ad accettare: «Accetterei se mi strapagassero. Ma poi scoppierebbe una rivolta».

15. L’intervista a Idina. La cantante Idina Menzel ha detto a «Vanity Fair» che probabilmente Trump dovrebbe cantare da solo: «Forse pensa di avere una bella voce, del resto crede di fare tutto benissimo».

16. La dichiarazione di John Legend. Il cantautore John Legend ha dichiarato alla Bbc: «Chi lavora con la propria creatività è portato a rigettare l’odio e l’intolleranza. Di solito aspira ad avere una mentalità aperta. Penso che sia spiacevole che molti creativi accettino di essere associati a qualcuno che si comporta in modo bigotto, predicando odio e divisione».

17. Il no delle Dixie Chicks. Anche il gruppo di country tutto al femminile ha spiegato, attraverso il proprio manager, che non accetterebbe mai un invito del genere.

18. La battuta di Rick Astley. «Dipende da quanto è grande l’assegno», il cantante britannico ha risposto così alla domanda della Bbc a proposito di una sua eventuale partecipazione alla serata del 20 gennaio. Ma subito dopo ha aggiunto: «Tuttavia, che sia Donald Trump o chiunque altro, non sono sicuro che andrei mai a suonare per un presidente americano. A dirla tutta, non è posto per un artista britannico».

19. Gli indecisi Beach Boys. I Beach Boys sono stati invitati ai primi di gennaio e non hanno ancora sciolto la riserva sulla loro partecipazione alla Inauguration day del 20.

20. Il no tardivo di Andrea Bocelli. L’artista italiano aveva inizialmente accettato, poi però ha cambiato idea sotto l’incalzante pressione dei fan sui social media: «La situazione si sta animando troppo, sta suscitando troppo clamore. Non c’è modo che io faccia questo concerto», avrebbe confidato a una fonte del «New York Post».

"Come sono strani i cantanti...". Esordisce così Vittorio Sgarbi in un video pubblicato su Facebook il 7 gennaio 2017, dove, a modo suo, interviene su uno dei temi di più stringente attualità, tra spettacolo e politica, ovvero i rifiuti incassati da Donald Trump da parte degli artisti che non vogliono esibirsi per lui alla cerimonia per l'insediamento alla Casa Bianca. Dopo una battuta su Bob Dylan che rifiuta di ritirare il premio Nobel, si passa ad Andrea Bocelli e a Il Volo.

“Come sono strani i cantanti”, esordisce Vittorio Sgarbi incredulo per alcuni atteggiamenti e cita alcuni casi eclatanti: Bob Dylan che non ritira il Nobel e il rifiuto di Andrea Bocelli sino a quello del trio Il Volo di andare a cantare per il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Spiega Sgarbi: “È strano che dei cantanti vengano chiamati dal presidente degli Stati Uniti a cantare e dopo che sono sempre stati dalla parte dei capitalisti e sono pieni di soldi”. “Io conosco bene anche il trio Il Volo – sottolinea -, li ho visti da bambini, erano dei bambini, piccoli, gentili, carini come i tre porcellini. Il Volo erano tre bambini piccoli, gentili, carini però solo il desiderio di essere famosi e così vengono chiamati da Trump, ecco Trump, ma metti un disco e mandali a fare in culo, che te ne frega di avere Bocelli dal vivo, che ti ferma che sia lì, così risparmi. Vabbè, non vuoi risparmiare e così li inviti e loro cosa fanno? Il grand rifiuto del trio Il Volo a Donald? E perché non canteranno? Sono impegnati come Bob Dylan col Nobel? No, "non appoggiamo il populismo xenofobo". Io non so se sanno esattamente cosa voglia dire, però hanno risposto così, si sono confrontati e alla fine hanno detto "Grazie, no, Signor Presidente". "Non siamo mai stati d'accordo con le sue idee", ma perché avete avuto delle idee? Devono cantare o avere delle idee?”. “Così quando qualche settimana fa – prosegue Sgarbi - la proposta di Donald Trump è arrivata al Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Baroni dopo la sorpresa iniziale si sono confrontati, ve li immaginate il trio che si confronta? C’hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire: grazie no Mr President. Le motivazioni? "Non siamo d’accordo con le sue idee", ma erano dei bambini, hanno avuto le loro idee? Qualcuno le conosce le loro idee? Loro devono cantare o essere d’accordo con le idee di Trump?”. “Vorrei ricordarvi – racconta – che voi siete stati lanciati dal vostro amico e mio amico Tony Renis. Tony Renis è un italiano culo e camicia con Berlusconi, xenofobo e razzista, bravissimo e simpatico. L’avete anche inculato dopo che lui vi ha sostenuto, vi ha aiutato, voi l’avete tradito e siete con torpedine Michele Torpedine, nel 1999 è stato rinviato a giudizio per frode fiscale, corruzione e falso ideologico, certo non è come essere xenofobo e populista”.  “Sarà falso – continua il critico -, ma perché frequentate questa gente? Perché frequentate Tony Renis amico di Trump e di Berlusconi? Perché frequentare Torpedine di cui sono convinto che sia innocente, ma di cui Wikipedia racconta questo che vi ho letto?”. “Allora andate a cantare e non rompete il cazzo – esclama Sgarbi -. Andate da Trump, non fate le seghe, tre coglioncelli inutili, andate e cantate di corsa, non in volo. E altrimenti lui può mettervela nel culo lo stesso, metterà su un vostro disco e voi canterete nel vuoto senza esserci per qualcuno che dirà siete in un angolo in fondo e vi ha tenuto in cucina vi lascia cantare dalla cucina, perché si vergogna di voi”. E conclude: “Io mi guarderei da fare considerazioni del cazzo su argomenti del cazzo”.

Sgarbi: "Il Volo non va da Trump? Coglioncelli". La replica: "Non siamo cd", scrive il 07/01/2017 "ADNKronos". "Tre coglioncelli inutili... Il Volo erano tre bambini carini, come i tre porcellini. Trump, metti su un cd e mandali a fare in culo". Vittorio Sgarbi commenta così la decisione con cui Il Volo ha declinato l'invito di Donald Trump, che avrebbe voluto un'esibizione del trio per la cerimonia del proprio insediamento. "Non andate a cantare perché lui è un populista... Bravi... Vorrei ricordarvi che siete stati lanciati dal mio amico Tony Renis, xenofobo e populista, bravissimo e simpatico", dice Sgarbi in un video pubblicato su Facebook. A rispondere, senza citare il critico d'arte, è Piero Barone, che forma il trio con Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble. "'Siete cantanti, vi hanno chiamato, dunque cantate', con questo semplice ragionamento personaggi pubblici, leoni da tastiera e odiatori seriali si stanno accanendo contro le nostre recenti affermazioni", scrive Barone su Twitter. ''Dunque per la logica che loro rivendicano, un cantante deve cantare, non deve avere un pensiero critico. Sono sicuro che nel caso avessimo detto sì, cantando alla cerimonia di insediamento, le critiche sarebbero state le stesse, forse peggiori", prosegue il messaggio. "Ecco quindi che siamo stati solo la quotidiana dose di odio di cui si nutre il dibattito social, domani toccherà ad altri o ad altre cose. Rimango del parere che un cantante - conclude - non è un cd ma una persona libera di scegliere come, quando, per chi cantare".

Bufera su Charlie Sheen: "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego". È scoppiata una furiosa polemica per un tweet pubblicato sui social network dal noto attore hollywoodiano, scrive Marta Proietti, Giovedì 29/12/2016, su "Il Giornale". Il 2016 è stato un anno caratterizzato da molte morti illustri. Dal cantante George Michael all'attrice Carrie Fisher, "principessa Leia" di Star wars, a cui è poi seguito il decesso della mamma. Ad hollywood però qualcuno spera che il prossimo a morire sia il neopresidente eletto Donald Trump. È scoppiata una furiosa polemica dopo che l'attore Charlie Sheen ha pubblicato un tweet sui social network. "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego", ha scritto Sheen, che pure si è di recente proclamato repubblicano, attirandosi l'ira dei conservatori.

Lo schifo statunitense…scrive Alessandro Bertirotti l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. È tutta questione di...indecenza. Leggere questo tipo di notizia ci fa ben capire come siamo ridotti, e mi riferisco all’intera umanità che abita indegnamente questa meravigliosa terra. È vero che internet è un grande secchio di spazzatura, all’interno del quale, però e con la giusta attenzione, è possibile rinvenire occasioni di studio, confronto e miglioramento. Certo, il prezzo è proprio di questo tipo: leggere notizie che evidenziano l’infimo livello di qualche esponente umano pubblico, come nel caso di questo attorucolo. Che gli attori siano, specialmente se hollywoodiani, quasi inutili individui para-pensanti non è novità. Il lusso delle feste inutili, la frequentazione con droghe d’abuso, la solitudine e la depressione della ricchezza, l’esistenza reale confusa con quella virtuale: tutte situazioni che inducono ad espressioni di questo tipo. Io non so come si comporterà Donald Trump, mentre so di certo come si è comportato Barak Obama: il peggior presidente che gli Stati Uniti d’America abbiano avuto in tutta la loro storia. Ossia, quel presidente che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2009, e che ha seguito i consigli di una come la Clinton, la quale non è proprio del tutto estranea all’Isis, alla Libia e a tutto quel difficile mondo che si chiama Siria. Dunque, prima di augurare la morte a qualcuno e pubblicamente, sarebbe forse più civile imparare a tacere, e verificare, con attenzione politicamente corretta, quali saranno i comportamenti che il nuovo Presidente degli Stati Uniti vorrà adottare, sia verso il Paese che lo ha eletto legittimamente, che verso la comunità internazionale. Intanto, loro, gli Stati Uniti, votano ed hanno un Presidente eletto, noi, in questa povera Italia, anche se legittimato dalla Costituzione (che abbiamo, deo gratias, salvato…) chissà quando torneremo a votare.

L'ordine di Putin. Le carte nelle mani di Trump: l'attacco segreto dello zar agli Usa, scrive “Libero Quotidiano” il 7 gennaio 2017. Nel rapporto delle agenzie di intelligence Usa illustrato oggi al presidente eletto Doanld Trump si sostiene che Putin ha cercato di aiutare l’elezione di Trump e di screditare la candidata democratica Hillary Clinton. Nel testo i vertici degli 007 Usa sostengono anche che la Russia tenterà nuovamente di influenzare le elezioni, stavolta di alleati Usa. Riferimento alle prossime elezioni in Europa, a partire da quelle presidenziali a aprile/maggio in Francia e legislative in Germania a settembre. «Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l’elezione presidenziale Usa. L’obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario (di Stato Hillary) Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente» si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa. Nel testo i capi delle agenzie di intelligence Usa aggiungono che «Putin e il governo russo hanno manifestato una chiare preferenza per il presidente eletto Trump». Trump che stasera dopo aver ricevuto il rapporto ha sostenuto che gli attacchi - senza nominare solo la Russia ma citando anche genericamente «la Cina, altri Paesi e gruppi» - ci sono stati ma che non hanno influito in alcun modo sull’esito finale: «Non ci sono stati assolutamente effetti sul risultato delle elezioni (presidenziali dell’8 novembre) incluso il fatto che non c’è stata alcuna alterazione delle macchine per votare» ha dichiarato il prossimo inquilino della Casa Bianca la cui elezione è stata ratificata oggi anche formalmente dal Congresso. Il rapporto, invece, sostiene «con alto grado di fiducia» che «i tentativi russi di influenzare l’elezione presidenziale Usa nel 2016 rappresentano la più recente espressione del desiderio di lunga data di Mosca di minare l’ordine democratico liberale Usa, e queste attività hanno dimostrato una significativa escalation nel livello di attività, scopi e sforzi rispetto a precedenti operazioni» di Mosca. Nel testo, prosegue la Cnn, gli 007 spiegano che Mosca ha usato diversi mezzi per tentare di alterare il risultato con «operazioni coperte (segrete), come ciber-attacchi, e con operazioni a volto scoperto da parte di agenzie governative russe, media finanziati da Mosca, intermediari di terze parti e attività a pagamento di troll (account di attacco attivi sui diversi sistemi di social network, ndr)». Il testo dato a Trump, e trapelato staserà, è quello di 25 pagine, non quello di 50 contenenti informazioni classificate - come le metodologie usate per accertare le responsabilità di Mosca - fornito al presidente uscente Obama, anche se le conclusioni sono identiche. In una dichiarazione l’ufficio di Clapper ha sottolineato che «la comunità di intelligence (Usa) non ha preso alcuna posizione sull’impatto delle attività russe sull’esito delle elezioni (presidenziali) del 2016». Il ministero della Sicurezza Interna (Homeland Security) ha aggiunto, sottolinea la Cnn, che «nessuno dei sistemi colpiti o compromessi dai russi erano coinvolti nella conta dei voti».

Russofobia: due secoli di “fake news”, scrive Giampaolo Rossi il 6 gennaio 2017 su “Il Giornale”. La russofobia è un sentimento diffuso nel mondo anglosassone e affonda le sue radici in almeno due secoli di storia. Per gli inglesi d’inizio ‘800, la Russia divenne un incubo quando lo zar Alessandro I ricacciò i francesi da Mosca inseguendoli fino a Parigi dove entrò trionfalmente quel 30 marzo del 1814 che segnò il destino di Napoleone. Quel giorno un brivido scosse anche i circoli diplomatici di Londra e la corte britannica fino a quel momento simpatizzanti di Mosca: se i russi potevano arrivare in Francia, voleva dire che potevano arrivare dovunque. Per gli inglesi il timore non era il continente europeo ma l’Asia Centrale e sopratutto l’India, fulcro della potenza imperiale britannica. E fu allora, di fronte alla impressionante prova di forza degli “uomini delle steppe”, che si diffuse una delle più incredibili “fake news” mai inventate nella storia: il “Testamento di Pietro il Grande”, il presunto ordine impartito dal grande zar sul suo letto di morte, con il quale disegnava il futuro dominio dell’Europa e del mondo da parte di Mosca, partendo dalla conquista di Costantinopoli. Il Testamento di Pietro il Grande era un bufala scritta nel 1756 su commissione dei servizi di propaganda francesi; in esso si attribuiva al grande Zar l’ammonimento ai suoi sudditi e successori circa la missione divina della Russia: “In nome della Santissima e indivisibile Trinità, noi, Pietro, imperatore e autocrate di tutte le Russie, (..) rischiarati con la luce di Dio a cui dobbiamo la nostra corona (…) ci permettiamo di guardare il popolo russo come chiamato per il futuro al dominio generale dell’Europa”. Se fino a quel momento, questa fake news era stata utilizzata dai francesi (per giustificare le ambizioni di conquista di Napoleone) e dagli ambienti nazionalisti polacchi e ucraini, con l’ergersi di Mosca ad unica rivale della Gran Bretagna, fu adottata da Londra. Eppure, come spiega Guy Mettan, in un libro che dovrebbe essere letto da molti dei parolai anti-russi del giornalismo occidentale, la russofobia inglese elevò il pericolo russo a livello globale (non semplicemente la conquista dell’Europa, ma del mondo) cambiandone la natura: mentre per i francesi la russofobia rimase limitata ai circoli diplomatici e filosofici (la disputa su democrazia e dispotismo era in fondo una battaglia delle idee), gli inglesi la “democratizzarono”, la trasferirono sull’opinione pubblica, sulla manipolazione dell’immaginario simbolico. Per tutto l’800, nella pubblicistica britannica, “l’isteria anti-russa” raggiunse vette mai viste in Europa producendo una quantità infinita di stereotipi anti-russi che plasmarono i pregiudizi in maniera simile a quella che provano a fare oggi i media occidentali. E così, ad esempio, durante la guerra russo-turca (1877-1878) la pubblicistica inglese si prodigò a dimostrare come i russi e i loro alleati bulgari fossero “selvaggi subumani, corrotti, ignoranti e viziosi”, arrivando a dipingere i turchi come eroi e a nascondere le atrocità compiute da loro contro le popolazioni cristiane; esattamente come oggi, i media americani e inglesi hanno trasformato i sanguinari mercenari islamisti al soldo dei sauditi (e della Cia) in “ribelli moderati” ed eroici combattenti per la libertà. Motivo per cui, per esempio, la liberazione di Aleppo dopo anni di terrore jihadista (finanziato dagli Usa e dai sauditi) diventa un crimine compiuto da russi e siriani. E così come oggi Hollywood alimenta l’immaginario del russo cattivo, criminale, perfido, così nell’800 la letteratura inglese costruì l’immaginario spaventoso del russo orribile e demoniaco; come ricorda Mettan, il personaggio di Dracula uscito dal romanzo di Bram Stoker (cantore dell’imperialismo di Sua Maestà) altro non era che la riproposizione in chiave horror degli stereotipi peggiori che l’Inghilterra vittoriana aveva costruito sulla Russia e sul mondo slavo governato da principi barbari, crudeli e demoniaci. E non è un caso che l’eroe che ucciderà il mostruoso conte Dracula, liberando il mondo dall’orrore del vampiro, era un avvocato inglese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la russofobia fu esportata oltre Oceano e secondo uno schema che ereditarono gli Usa, Mosca che fino a qualche anno prima era stata l’alleata preziosa contro la Germania (così come nell’800 lo era stata per gli inglesi contro la Francia), divenne improvvisamente il nemico numero uno. Non è un caso che Henry Truman, il presidente Usa della Guerra Fredda, fece ancora riferimento alla “bufala” del Testamento di Pietro il Grande. Ovviamente la russofobia, ieri come oggi, ha un fine preciso: giustificare le politiche imperialiste di Gran Bretagna e Stati Uniti. Nell’800, mentre Londra diffondeva la “bufala” del Testamento di Pietro il Grande per dimostrare l’espansionismo russo, l’Impero britannico aumentava di almeno 20 volte le sue dimensioni, così come la Francia coloniale. E anche oggi la “russofobia” paventa un Occidente preda della sfrenate ambizioni di dominio planetario del nuovo Pietro il Grande, quel Vladimir Putin che, secondo quello che politici e i sicofanti intellettuali dell’Occidente raccontano, è in procinto di conquistare l’Europa, il mondo, il sistema solare. Ma come abbiamo già scritto, semmai è il contrario: mentre l’Occidente grida “al lupo al lupo”, o meglio, “all’Orso all’Orso”, la Nato allarga i suoi confini, le sue sfere d’influenza e arriva a lambire proprio la Russia con un rapporto di forze talmente sbilanciato da rendere irrealistico il solo pensare che la Russia possa provare a coltivare sogni di conquista dell’Europa. E così, dopo aver destabilizzato il Medio Oriente con le finte Primavere Arabe, scatenato guerre “umanitarie” in Iraq, Afghanistan e Libia; dopo aver alimentato il conflitto in Siria, giocato un ruolo ambiguo con il Califfato islamico e con l’Isis, aiutato a diffondere l’integralismo islamista abbattendo tutti i regimi laici e finanziando i gruppi di Al Qaeda; dopo aver seminato rivoluzioni colorate e costruito colpi di Stato democratici (come in Ucraina), e mentre partecipa per procura alla guerra saudita nello Yemen, l’Occidente prova a raccontare che il pericolo per la pace del mondo è la Russia. Il Testamento di Pietro il Grande ha fatto scuola e mentire come il diavolo è la vera regola dei cantori stonati della democrazia.

Luttwak brutalizza Obama: "È finito, come l'ha ridotto Putin", scrive “Libero Quotidiano” l'1 gennaio 2017. Un bambino stizzito e vendicativo, una fine patetica. Non va per il sottile Edward Luttwak, che in un'intervista commenta così, senza troppi giri di parole, il finale di presidenza di Barack Obama. Lui caccia 35 russi dal suolo americano con l'accusa di spionaggio e Vladimir Putin, invece che buttare fuori altrettanti diplomatici americani dalla Russia, fa finta di nulla e, anzi, fa pure gli auguri a Barack. Una umiliazione, sottolinea il politologo americano, che ha due motivazioni. "Non reagendo Putin vuole dimostrare che Obama non conta più nulla. Che il suo è il dispetto di un personaggio frustrato e rancoroso. Che non si rassegna ad accettare la sconfitta elettorale della candidata democratica Hillary Clinton. Che vuole compromettere più di quanto abbia già fatto il futuro delle relazioni russo-americane. Che vuole legare le mani al suo successore Donald Trump". La seconda è che in realtà lo scandalo delle mail rubate alla Clinton porta con sé una domanda molto più importante e imbarazzante per Obama e i democratici: "Erano vere o erano false? Se erano vere, come pare nel caso del sabotaggio subito da Bernie Sanders (il rivale della Clinton nelle primarie democratiche, ndr) gli elettori americani dovrebbero essere grati a Wikileaks che si è assunta la responsabilità della pubblicazione, li ha aiutati a chiarirsi le idee e a scegliere". Tra l'altro, aggiunge Luttwak, non ci sono prove che dietro Assange e Wikileaks, responsabili della pubblicazione di quelle mail, ci sia il Cremlino. "A questo punto - conclude Luttwak - le espulsioni decise da Obama appaiono frutto di una reazione avventata se non addirittura infantile. Non è sbagliato dirlo". A Putin non resta che aspettare Trump, che "può annullare con un colpo di penna quelle espulsioni. E allora la strada sarà libera per prospettive nuove sia in politica che in economia. Queste sono le priorità di Trump e di Putin. Avrebbe dovuto immaginarlo anche Obama".

La mia famiglia ha votato Trump. E io li capisco. Pubblichiamo uno dei testi apparso sul numero 5 di Futura, la newsletter di Corriere, scrive Claudia Durastanti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".

"Non ho ereditato una formazione politica dalla mia famiglia. I primi anni della mia vita li ho trascorsi in un quartiere italo-americano storicamente repubblicano di New York, il cui orientamento politico si basava su assunti e forme di saggezza popolare di questo tipo: «se hai una caramella e puoi darla a un bambino bianco o a uno nero, dalla a quello bianco». Non sembrava una questione di razzismo quanto di sopravvivenza: erano gli anni di Spike Lee, i bianchi non andavano a Bed Stuy e i neri non venivano a Bensonhurst. L’eroe della mia famiglia era il fratello di mia madre, nato in Basilicata ma cresciuto negli Stati Uniti, che a vent’anni si era messo giacca e cravatta ed era andato a fare un colloquio per una società informatica. Durante il tragitto di ritorno, senza sapere l’esito del colloquio, aveva incontrato un amico che gli aveva parlato di una possibilità immediata in una grossa compagnia a cui lui non poteva prendere parte. Mio zio era tornato di corsa a Manhattan, si era presentato al colloquio al posto dell’amico ed era entrato in Goldman Sachs, dove avrebbe lavorato per circa quarant’anni. Dopo il 2008, ha fatto le scatole di cartone come tutti gli altri. Quando l’ho visto la scorsa estate mi ha detto che avrebbe votato Donald Trump, e a me è sembrata una scelta coerente con la vita che aveva vissuto. Trump era solo un’effigie rossa e scintillante su un edificio in cui i cocktail costavano più che altrove. Quando ero piccola, i miei genitori e i miei parenti non mi portavano al Natural History Museum o al Metropolitan, ma a vedere le case dei ricchi. Le gite in famiglia erano questi pellegrinaggi a Dyker Heights, a vedere ville bellissime in cui vivevano donne che somigliavano alle mogli di John Gotti o altri affiliati della famiglia Gambino, oppure a Holmdel in New Jersey dove vivono tuttora i CEO delle più grandi società d’affari di New York. Penso di essere entrata in ogni grattacielo di Manhattan accessibile al pubblico in quegli anni. Ho trascorso ore al World Trade Center, all’Empire State Building e al Trump Plaza a comprare gadget orrendi che mia madre custodisce ancora — magneti da frigorifero e portachiavi ormai sbiaditi — e ogni volta che tentavo una deviazione per una meta più adatta ai miei interessi di ragazzina, venivo dirottata verso la Quinta Strada a imparare che in America era tutto possibile. Anche all’epoca Trump era ovunque: faceva apparizioni nei film di Natale, e somigliava a uno zio buono e un po’ scemo che voleva solo farti divertire. Ho sprecato tempo pure nell’edificio che portava il suo nome ad Atlantic City; un’altra delle mete culturali preferite dalla mia famiglia erano i casinò. Anche se ho trascorso l’infanzia a sognare di essere adottata da una famiglia novecentesca ed ebrea che dissemina romanzi mitteleuropei sul tappeto del salotto, la realtà è che mio nonno adorava Rudy Giuliani finché questo non ha deciso di ripulire Midtown e mio nonno non si è convinto che il suo quartiere a Brooklyn si sarebbe riempito di eroinomani e locali a luci rosse. Per gli italo-americani, la tutela del proprio spazio conquistato a fatica veniva sempre prima del bene collettivo. Non ho ereditato un pensiero politico dalla mia famiglia: quello che ho ereditato, invece, è un miscuglio di aspirazione, vittimismo, cabala, accidia e rabbia che possono assumere qualsiasi orientamento ideologico conveniente e a disposizione. Riesco a tenere questi impulsi populisti a bada solo perché ho studiato e ho deciso che dovevo dare un significato meno limitato alla mia sofferenza di classe. Ho cercato di autodisciplinarmi e di educarmi per non essere debole e strumentalizzabile, senza sapere che sarei diventata solo antistorica. Eppure, questo corredo genetico inutile e triste mi torna utile in circostanze come la Brexit e l’elezione di Donald Trump. È come se avessi dei sensori che mi permettono di anticipare le agitazioni collettive pur essendo molto meno informata dei miei conoscenti che si occupano attivamente di politica: una specie di riluttante familiarità con il disastro, che mi salva dal trauma epistemologico di una politica che non va nella direzione in cui voglio. L’ultima volta che ho preso un volo per New York da Heathrow ho visto un signore con il cappellino «Make America Great Again» e la maglietta «I stand with Chrysler», mentre su uno schermo luminoso c’era la promozione di un volo per l’Iraq sotto la dicitura «Welcome to Baghdad». Ho mandato subito un messaggio in cui raccontavo la coincidenza e chiedevo: Quand’è che la nostra vita è diventata un libro di DeLillo? Non penso di essere una buona elettrice o una buona partecipante alla vita pubblica: in me prevalgono sempre l’impressione e la suggestione, mi soffermo sulla simbologia di certe derive autoritarie, perdo tempo sulla metafora. Poi subentrano il buon senso e la difesa dei diritti di chi mi circonda, e la mia militanza diventa pratica. Nel caso delle elezioni americane ho fatto quel che si conveniva al mio profilo democratico: Sanders alle primarie e Clinton alle presidenziali. Ma ero consapevole che si trattava di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stava succedendo negli Stati Uniti: era la cosa giusta da fare, non quella reale. Quando torno in America, tendo a evitare i luoghi di ritrovo da giovane intellettuale bianca e triste e trascorro gran parte del tempo con una famiglia molto diversa da me. Lo faccio per ragioni di affetto ma anche di interesse. Un incontro di slam poetry nell’East Village non ha nulla da insegnarmi; imparare come gli addetti portuali riescono a imbrogliare i controlli del sindacato facendo pipì da un fallo di plastica per potersi drogare mi aiuta ad avere un’idea di società più larga di quella a cui appartengo. E così quando sono a Manhattan torno a essere la ragazzina che entrava nei centri commerciali di lusso, si sedeva sui divanetti del Trump Plaza e si annoiava nei casinò mentre gli adulti scommettevano lo stipendio, e all’improvviso mi ricordo di tutta quella gente che vuole diventare ricca e si incattivisce sperando che non lo diventino gli altri. Con il tempo è subentrata una sorta di compassione. Quando una persona a cui vuoi bene ti porta sul tetto di un condominio privato di Tribeca convincendoti a imbucarti, ti fa ammirare la vista della città e ti chiede «Won’t you literally kill someone for this?» ti ritrovi a balbettare, perché non sai cosa rispondere, e hai paura di offenderla con il tuo distacco. Per me get rich or die trying è solo un’espressione un po’ coatta che uso quando faccio il verso ai rapper americani che pure ascolto, non un interesse che perseguo nella vita. Ma in America quell’interesse è ovunque da sempre, è un impulso che attraversa qualsiasi classe ed etnia sociale e non ha differenze di genere. Stokely Carmichael diceva che la violenza è americana come la cherry pie, e il desiderio di farsi da sé e di scavalcare posizioni sociali è il suo contrappunto perfetto: il mito del self-made man non è una falsa coscienza tipica degli anni Ottanta, è l’archetipo della nazione. Solo perché oggi invece di indossare un vestito dei Brooks Brothers ordina dei latte a Carrol Gardens e lavora nell’industria creativa, non significa che lo yuppie sia morto. Ha solo cambiato vestito. Che poi, al netto di misoginia, desiderio di impunità, razzismo e un senso dell’umorismo da cartone animato, forse ho più di qualche tratto in comune con un elettore di Donald Trump. Sono insoddisfatta dall’offerta politica, sospettosa dell’istituto democratico, ho istinti di rivolta ma sono troppo pigra e narcotizzata e libresca per soddisfarli, e vedere Citizen Four, Black Mirror e Hypernormalization di Adam Curtis non hanno fatto di me una cittadina più accorta ma solo più spaventata e quasi tendente all’esoterismo. Il senso di militanza provato all’epoca della seconda invasione americana in Iraq nel 2003 l’ho perso, e ogni volta che assisto a un evento politico di queste proporzioni alla mia preoccupazione si sovrappone una forma di perversa fibrillazione, un autentico istinto alla distruzione, familiare e insopportabilmente vicino. E per quanto ripudi quegli americani bianchi appena usciti da una confraternita universitaria (per tanti aspetti questo è stato il voto dei «dude bro») che promettono di giocare a Call of Duty per le strade con ogni outsider che incontrano, e sia genuinamente terrorizzata da quello che accadrà a metà dei cittadini di quella nazione, c’è anche questo senso di colpa in fondo un po’ cattolico, di dover espiare il peccato originale di un Occidente che merita la fine, una stanchezza sotterranea che è difficile spiegare e che forse posso permettermi perché la mia immediata sussistenza biologica non è minacciata da Donald Trump, e in fin dei conti la Brexit non sarà una deportazione di massa. Se invece di ascoltare Alanis Morissette mi fossi ritrovata a impastare sterco e paglia in India per fare dei mattoni, se i miei genitori mi avessero data in matrimonio a un uomo più anziano e avessero fatto di me una concubina giovane, se fossi cresciuta a Swansea figlia di una ragazza madre, cosa avrei fatto della mia esistenza? E la risposta che mi sono sempre data è che a vivere in un sobborgo del mondo occidentale avanzato avrei avuto un dente d’oro e sarei diventata una hooligan, perché quella compulsione e il desiderio insopprimibile di fare una cosa sbagliata, esasperata e brutale, li capisco. È una forza elementare che sono l’istruzione ma anche il caso e la Storia a convogliare: avrei potuto diventare una Pantera Nera come una skinhead, una alt-right come una suffragetta. A maggior ragione in un Paese come gli Stati Uniti, dove senza una borsa di studio o un genitore con un trust fund studiare è impossibile e impari molto presto il concetto di limite. Nei casi migliori a convogliare questa forza è Bernie Sanders, nei peggiori il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Nel mio addestramento maldestro al pensiero democratico e liberale, nella mia attuale frustrazione, l’unica certezza che persiste è il dovere politico e umano di immedesimarmi nella condizione dell’altro, soprattutto se l’altro è più debole di me, e questo vale per qualsiasi cittadino o soggetto. Anche laido, ostile e difficile da amare. Se c’è una cosa che trovo davvero terrificante e distopica è l’idea di trovarmi a popolare un mondo estraneo, in cui ho la presunzione di umanità e tutti gli altri sono ridotti a zombie, assassini e parassiti. Cosa me ne faccio della mia umanità in quel caso? Forse spererei solo di essere morsa e di diventare come loro. A volte mi auguro che questo processo di polarizzazione nella società occidentale si chiuda così, con la formazione di un esercito di individui mutanti, senza genere, razza o classe sociale; che a furia di spinte contrapposte diventino tutti uguali, un branco di scimmie in coro che di libertà non vuole neanche sentire parlare. Perché è a quella libertà che ho cercato di educarmi, e ci sono giornate in cui mi convinco che non è servito a molto: l’unica cosa che mi pare di aver imparato da queste elezioni, come da altri episodi recenti, è che non c’è istinto umano più condiviso che il piacere di distruggere una cosa bella". La versione originale di questo pezzo è apparsa su Pixarthinking. 

Eutanasia di una rivoluzione, ovvero il comunista terminale, scrivono Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro su BastaBugie n.118 del 11 dicembre 2009. A conoscenza di chi scrive, in Occidente è rimasto un solo vero, serio e solido comunista. Si chiama Carlo R. ed è uno che si commuove pensando ai bei tempi di Baffone, piange al suono dell’Internazionale, non vede l’ora di morire per farsi avvolgere nella bandiera rossa con falce e martello e assomiglia a Pino Rauti. Carlo R., che abita nel Levante genovese e recita a memoria brani della Messa in latino e interi capitoli del Don Camillo, quando lo si interpella sulla caduta del muro di Berlino ha un tuffo al cuore e, con enfasi non priva di dolore, proclama: «Per me non è caduto un cacchio». In realtà, Carlo R. non si esprime in linguaggio così urbano, ma in una gustosa parlata ligure che tradurre sarebbe come profanare. Chi ha pratica di mondo può immaginarla. Questo capitolo non tratta di lui, che, come Peppone, vive nel sogno di un socialismo profumato dalla redenzione del proletariato. Tratta di coloro che respirano avidamente il fetore nauseabondo dell’idea comunista in putrefazione. Qui non si parla di un vivo che teme di morire, ma di moribondi convinti di essere in buona salute. Carlo R. non è un comunista terminale. Lui non ha esultato quando, nel novembre 2008, l’ex deputato di Rifondazione comunista Guadagno Wladimiro, meglio conosciuto come Vladimir Luxuria, ha trionfato all’Isola dei Famosi battendo in finale Belen Rodriguez. Non sapeva che la vittoria in un reality show di un omosessuale che si è pompato il seno, rifatto il naso, depilato permanentemente e autodefinito transgender è una vittoria del proletariato. Carlo R. è rimasto indietro di due o tre aggiornamenti della rivoluzione. Tanto che, fin dal 2006, all’epoca della candidatura di Guadagno Wladimiro nelle file del suo partito, aveva commentato il fatto con espressioni così colorite e così politicamente scorrette da finire sotto accusa per deviazionismo fascio-clerico-leghista. Nuovo tipo di deviazionismo che, in seguito agli aggiornamenti della rivoluzione, ha sostituito quello borghese, in base al quale oggi anche i cosiddetti probi viri del partito finirebbero diritti sul banco degli imputati. Contrariamente a Carlo R., il comunista terminale vede nella causa del transgender Luxuria la nuova frontiera della rivoluzione e, da questo punto di vista, ha perfettamente ragione. Ha capito che la rivoluzione procede di negazione della distinzione in negazione della distinzione. Il comunista terminale ha compreso che il processo rivoluzionario parte dalla negazione delle diversità dovute alla vita sociale, alla cultura, ai costumi, alle tradizioni per arrivare fino alla presunzione di cancellare la diversità più evidente decretata dalla natura: quella tra maschio e femmina. La proclamazione dell’equivalenza tra uomo e donna è l’esercizio massimo e ultimo dell’ideologia rivoluzionaria, oltre il quale c’è solo la negazione della distinzione tra uomo e Dio. Ma, si sa, per il rivoluzionario Dio non esiste, altrimenti non sarebbe rivoluzionario. Il comunista terminale vive beato in un mondo infettato dall’ideologia egualitaria in cui esiste una sola eccezione: lui stesso. Lui, secondo la migliore applicazione della prassi leninista, appartiene all’avanguardia che ha il dovere e il diritto di tracciare la strada lungo la quale poi procederà il popolo bue: uguale, ma non del tutto. Le cattedre non gli mancano, perché ha smesso da tempo di fare l’operaio e si è dato alle professioni intellettuali. Insegna nella scuola pubblica e privata, lavora nelle case editrici, ha colonizzato i giornali, fa televisione, non di rado si esibisce dai pulpiti. Semina, coltiva, raccoglie. Poi, quando è il momento, proclama la vittoria, come ha fatto «Liberazione» con il trionfo di Luxuria sull’Isola dei Famosi. «Un duello epico» ha scritto il quotidiano comunista. «Vladimir contro Belen, la trans contro la donna vera. Il risultato, strepitosamente, spariglia le carte. […] Il momento più brutto è stato quando si sono trovate l’una davanti all’altra. Belen, la donna bella, secondo il pregiudizio l’unica donna vera, contro Vladimir la pasionaria, la donna che ha scelto di essere donna. Due donne, due storie, due modelli, due culture. Lì siamo rimasti col fiato sospeso, abbiamo temuto che Vladimir non ce la facesse.» Ma poi Vladimir ce l’ha fatta. E allora gli italiani, che quando votano alle elezioni sono dei poveri imbecilli perché fanno vincere Berlusconi, quando invece tele votano all’Isola dei Famosi diventano dei raffinati intellettuali perché fanno vincere il compagno transgender Guadagno Wladimiro. Non fa niente se la televisione, fino al giorno prima, è stata considerata spazzatura per minorati mentali: il giorno dopo diventa uno strumento della rivoluzione, una corazzata Potëmkin che spara sui cattivi soldati zaristi del terzo millennio. Come aveva scritto Karl Marx: «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia e la seconda in farsa». E qui, come si può immaginare, la tragedia è passata da un pezzo. Ma non fa nulla, perché il comunista terminale, con grande sprezzo del ridicolo, vive dei miasmi esalati dalla tragedia in avanzato stato di decomposizione. Aiutata da pietosa e farsesca eutanasia, munita del conforto dei suoi cinici cari è morta una fase della rivoluzione e, dal suo stesso cadavere, ne nasce un’altra. Si volta pagina. Così, aiutato anche dal fatto che il cashmere logora chi non ce l’ha e che il toscano adesso si fuma nei salotti, il comunista terminale ha sterzato decisamente sul versante “radical”. Visto che “chic” lo era già, come resistere alla tentazione di mettere insieme le due cose? E infatti non ha resistito. Al diavolo le volgari rivendicazioni salariali, al diavolo le nuove povertà e al diavolo anche le vecchie. È arrivato il momento di radicaleggiare. Chi meglio del compagno terminale Fausto Bertinotti, nonostante ora sia stato messo un po’ in ombra dalle batoste elettorali, incarna il prototipo del cattivo maestrino dalla penna rossa esperto di rivoluzione permanente? Durante l’ultimo governo Prodi, Bertinotti era presidente della Camera, terza carica dello stato, e da quell’autorevole scranno nel 2007 spiegò che serviva «una grande battaglia politica e culturale in Parlamento e nel paese sui Dico e sui diritti civili. Come ai tempi del divorzio». Qui bisogna aprire una parentesi perché il suo successore alla terza carica dello stato, onorevole Gianfranco Fini, pur appartenendo al fronte politico opposto, sostiene gli stessi argomenti. Sarà la presidenza della Camera che produce effetti indesiderati. Ma di questo ci occuperemo nell’apposita sezione. Ora chiudiamo la parentesi perché il compagno terminale Bertinotti sostenne che la battaglia culturale e politica sui Dico sarebbe stata possibile solo mettendo insieme «sinistra radicale e riformista, laici e liberali». E, sino a qui, l’onorevole Fini non è ancora arrivato. Non sfuggirà che il fondatore di un partito chiamato Rifondazione comunista, riferendosi al suo schieramento, non parlò di “comunisti” ma di sinistra radicale. Tale terminologia spiega un fenomeno del quale bisogna prendere atto: quel che resta del vecchio Pci, nei diversi tronconi che vanno da Fassino a Bertinotti, Diliberto, Luxuria e Nichi Vendola, si è trasformato in una sorta di partito radicale di massa: più agguerrito, più numeroso e persino, se mai fosse possibile, più cinico del plotoncino pannelliano. Detto questo, non stupisce se il povero Carlo R. si è trovato alle corde, accusato di deviazionismo fascio-clerico-leghista quando ha espresso il proprio parere sulla candidatura di Guadagno Wladimiro nelle file del partito che avrebbe dovuto rifondare il comunismo. Il povero Carlo R. è rimasto al Pci che faceva il Pci. Al partito che, come ricordava Massimo Caprara che ne fu il braccio destro, ebbe in Palmiro Togliatti un deciso avversario dell’aborto. Al partito che, con l’inserimento della norma sui corpi sociali nella Costituzione, non pensava certo di dare il via libera al matrimonio degli omosessuali. Al partito che espulse per indegnità morale Pier Paolo Pasolini a causa della sua omosessualità. Con ciò, non si vuole rimpiangere Togliatti e il suo Pci. Ma solo mettere in guardia i gonzi che pensano di poter trattare impunemente con gli eredi di quella storia e di quei metodi. La piazza evocata dal comunista terminale non è altro che un immenso Hotel Lux, l’albergo al civico 10 di via Gorkij a Mosca in cui ai tempi del Komintern dimoravano gli alti funzionari del partito e i capi dei partiti comunisti stranieri. Ruth Fischer von Mayenburg lo ricorda così: «Qui si discuteva, si cospirava e a volte si taceva in preda a un’angoscia di morte. Qui c’erano lacrime, sogni, tragedie». La von Mayenburg fu tra i fortunati che riuscirono a sopravvivere alle purghe staliniane degli anni Trenta. Allora tentò persino di giustificare quella carneficina di compagni traditori in nome dei grandi ideali e del grande fine ultimo della rivoluzione. Se avesse immaginato che i suoi sogni sarebbero naufragati sull’Isola dei Famosi con Vladimir Luxuria al comando di Simona Ventura, avrebbe certamente seguito l’insegnamento marxista completando il suo pensiero all’incirca così: «Qui c’erano lacrime, sogni, tragedie che un giorno diventeranno farse». In effetti, la deriva dei cattivi maestri della sinistra ton sur ton fa pensare a Marx: ma non a Karl, a Groucho. Eppure non c’è niente da ridere.

IDENTIKIT DEL CATTIVO MAESTRO.

• Dove opera: Parlamento (quando riesce a farsi eleggere), cattedre, scrivanie, strapuntini, reality show, non di rado i pulpiti. Disdegna le piazze, così rozze.

• Come riconoscerlo: Cashmere, pantaloni con le pence, scarpe su misura, cravatta all’uncinetto: se parla di operai, è un industriale; se si lamenta perché Cortina è sovraffollata, è lui.

• Come difendersi: Avvicinatevi con una pagnotta, un etto di mortadella e un bottiglione di Manduria. Dategli del tu e offrite con generosità. Se per caso accetta, allora dovete anche prenderlo in braccio come fece Benigni con Berlinguer. Ma non ce ne sarà bisogno, fuggirà prima. Voi non siete Benigni.

Erri De Luca, la sinistra spocchiosa e l’incoerenza dei cattivi maestri, scrive Tiberio Brunetti venerdì 6 novembre 2015 su "Il Secolo D’Italia”. Poche parole per ringraziare Erri De Luca. La sua esistenza mi continua a ricordare del perché, fin da piccolo, ho odiato la spocchiosa altezzosità della sinistra massimalista. Quella fatta dai contestatori con la pistola del ’68, il cui impulso anarchico finiva fuori dalla porte delle ricche ville di famiglia. Quella degli intellettuali che promuovevano la lotta di classe, ma che non aspettavano altri che sedersi a cena col potente di turno per ottenere un lauto incarico e al diavolo la difesa del proletariato. Quella dei politici che predicavano la questione morale e poi andavano a prendere le tangenti fino in Russia.

Erri De Luca e le sue contraddizioni. Erri De Luca è la degna prosecuzione di quella scuola di pensiero, ancora lontana dall’essere rottamata, che tutto dice e tutto smentisce sulla base della propria convenienza personale. Si tratta della coerente incoerenza dei cattivi maestri, cui lo scrittore napoletano è tra i principali esponenti contemporanei. Al momento dell’assoluzione dal processo per istigazione a delinquere, subìto per i continui inviti a sabotare in ogni modo la Tav in Val di Susa, Erri De Luca dichiarò: «È stata impedita un’ingiustizia. È stata ripristinata la legalità dell’articolo 21». Adesso, invece, a distanza di due settimane, così commenta – e giustifica – la querela del Comune di Napoli nei confronti di Massimo Giletti che aveva definito “indecoroso” lo stato della città: «Potrebbe servire per cercare di moderare i termini di quelli che si allargano troppo nei nostri confronti, la città di Napoli meriterebbe un po’ più di rispetto». No, non avete letto male. Si tratta dello stesso individuo. Prima si è fatto elevare a martire della libertà di pensiero negata. Poi, una volta assolto, si è trasformato in carnefice della libertà di pensiero altrui. Eppure, tra «la Tav va sabotata in ogni modo» pronunciato da Erri De Luca e «Napoli è in uno stato indecoroso», pronunciato da Giletti, a me sembra violento il primo concetto, non il secondo che, piuttosto, è una mera presa d’atto. È il solito doppiopesismo morale e intellettuale della sinistra massimalista di cui sopra. Singolarmente, Erri De Luca ha giustificato la querela contro Giletti poco prima di riconfermare la propria fiducia elettorale a De Magistris, altro campione di incoerenza. Come dire, Dio li fa e poi li accoppia…

L'armata dei reduci anti Cav: la lotta continua dei cattivi maestri. Guido Crainz: "Dalla stagione di Berlusconi deformazioni sociali e politiche". Anche D'Alema, Repubblica e il Fatto rispolverano i soliti luoghi comuni, scrive Luigi Mascheroni, Sabato 29/08/2015, su "Il Giornale". Quando Matteo Renzi, dal palco del Meeting di Rimini, ha detto che «il berlusconismo e per certi versi anche l'antiberlusconismo hanno messo il tasto “pausa” al dibattito italiano facendoci perdere occasioni clamorose» sapeva di fare male alla sinistra che non lo sopporta. Ma forse non così tanto. Che abbia colpito nel segno, e detto a suo modo una verità scomoda per molti, lo prova il fatto che cinque giorni dopo le pattuglie partigiane «anti-B.» in servizio permanente effettivo hanno ancora la bava alla bocca. I republicones, i Travaglio, gli ex girotondini, le «professoresse democratiche», le femministe fuori tempo massimo del «Se non ora quando»... Sono tutti idrofobi. Basta leggere Repubblica, organo di stampa ufficiale, oggi in crisi di identità, dell'antiberlusconismo. O il Fatto quotidiano, organo di stampa ufficioso, oggi in crisi di copie. O scorrere Twitter ... È una rabbia montante. Un'ira scomposta da parte di quanti, reduci dalla guerra anti-Cav, desiderosi di sfoggiare medaglie e di incassare ricompense politiche, si vedono invece messi da parte dal nuovo Comandante in capo, Matteo Renzi. Finiti a elemosinare un riconoscimento postumo del proprio eroismo, ormai dimenticati, come tristi e incattiviti reduci del Vietnam. Con la differenza che questi sono convinti di averla vinta, la guerra. Massimo D'Alema alla festa dell'Unità di Milano, offesissimo, ha risposto al premier che «Non si sputa sul passato» e, retrocedendo alle guerre puniche, ha ricordato che «le politiche dell'Ulivo possono ancora essere considerate di riferimento». A Repubblica invece non è sembrato vero potere di nuovo sbandierare i fasti delle battaglie di resistenza al Signore di Arcore, e ieri hanno fatto salire in cattedra, in prima pagina, lo storico Guido Crainz, a suo tempo militante di Lotta continua (formazione che faceva politica non con le leggi ad personam ma con spranghe e pistole), il quale ha tentato di spiegare a Renzi, che all'epoca non c'era, cosa hanno fatto quelli come lui, che all'epoca c'erano sempre, per opporsi al «Caimano». Dovendo per altro lui stesso riconoscere - bontà sua - che «certo, un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti, e sono state molte le responsabilità del centrosinistra, incapace di un rinnovamento radicale della politica». E non staremo a citare Fabrizio Rondolino, eminenza grigia del dalemismo, che ieri ha twitatto: «L'antiberlusconismo è molto, molto peggio del berlusconismo: basta leggere Repubblica (oggi, e in qualsiasi altro giorno)». Dal canto suo il Fatto quotidiano - un foglio che ha intelligentemente trasformato l'antiberlusconismo in un brand di successo e di denari - ha chiamato a raccolta la meglio gioventù della peggior stagione anti-Cav, da Pino Corrias a Ottavia Piccolo, per ricordare l'antico eroismo di chi non si piegò al Tiranno: Andrea Scanzi, con il consueto senso della misura, scrive che «essere antiberlusconiani è stato l'unico modo per essere partigiani di fine millennio. Un merito, una Resistenza», scritto con la “R” maiuscola, ripetendo così la medesima follia ideologica che ha dato forza - appunto - all'ala più falsa e pericolosa dell'antiberlusconismo, quella degli Asor Rosa e dei Camilleri - ve lo ricordate? - i quali inclinavano a credere, e far credere, che «Berlusconi è peggio del fascismo». Devastando davvero la verità storica e il buonsenso. Di fronte ad affermazioni del genere, forse si può davvero pensare, come suggerisce Matteo Renzi, che anche l'antiberlusconismo ha fatto parecchi danni al Paese. Il problema però - crediamo - non è quello di separare e contrapporre «berlusconiani» e «antiberlusconiani». Ma semmai faziosi e intelligenti. Un berlusconiano che pensasse che il Cavaliere ha fatto tutto e sempre bene, è fazioso. Punto. E un antiberlusconiano che pensasse che B. ha fatto tutto e sempre male è altrettanto fazioso. Ancora punto. Più intelligente sarebbe distinguere, in un campo e nell'altro, errori ed eccessi. Le celebri cene con le olgettine forse non furono così eleganti, ma trascinare un minorenne sul palco del Palasharp per dare sfogo al proprio odio politico fu ben peggio. Solo così si potrà passare da una (vecchia) sanguinosa e sterile battaglia ideologica a una (nuova) più proficua e onesta discussione politica.

Luciano Pellicani: "Cattivi maestri della Sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukàcs, Sartre e Marcuse". Collana: Zonafranca. Anno: 2016. Sin dalla Rivoluzione Francese, che le ha dato i natali, la sinistra non è mai stata un singolare. Sono sempre esistite due sinistre di cui una era la negazione secca dell'altra. Di qui il duello permanente fra la sinistra liberalsocialista, determinata a universalizzare la fruizione dei diritti e delle libertà, e la sinistra totalitaria, animata da un progetto profondamente liberticida centrato sull'idea che la costruzione del comunismo esigeva l'abbattimento violento di tutte le istituzioni sociali esistenti e l'instaurazione del terrore catartico quale strumento di purificazione della società borghese, corrotta e corruttrice.

I cattivi maestri della sinistra. Alla Verità del Partito tutto doveva essere sacrificato, scrive Giancristiano Desiderio, Domenica 08/01/2017, su "Il Giornale". La condizione umana è caratterizzata dal conflitto. Gli uomini hanno fini diversi e usano mezzi diversi. La domanda «come devo vivere?» ha molteplici risposte tra loro in contrasto perché gli uomini non sanno cosa sia il bene o ne hanno concezioni svariate e opposte che possono esistere non solo nella stessa società ma anche nello stesso individuo. Il conflitto, però, lungi dall'essere un male è la garanzia della libertà che la democrazia liberale mitiga conservandone i due frutti più importanti: il pluralismo e il dissenso. Tuttavia, c'è chi ha sostenuto - e chi ancora sostiene - che dal conflitto tra interessi e valori opposti si possa uscire e così realizzare la pacificazione dell'umanità con se stessa attraverso un sapere superiore che conciliando l'inconciliabile faccia nascere il regno di una libertà autentica e pura. Karl Marx dopo avere elogiato la società borghese per la sua capacità di produzione, la descrive come un «deserto popolato da bestie feroci» dal quale si esce con la «rivoluzione comunista» che è «il risolto enigma della storia». Il marxismo crea le condizioni teoriche per giustificare il superamento dello Stato borghese tramite la violenza rivoluzionaria e il terrore catartico. Una volta che la verità definitiva, che supera ogni conflitto, è venuta alla luce non c'è altro da fare che adeguare la società alla sua verità. Il Partito comunista, che unisce i proletari, nasce con questo scopo: usare il Potere per realizzare la Verità. Usare il potere senza limiti cioè anche facendo il male giacché in questo caso il male è fatto da chi conosce la verità e sa che il male è solo l'altro volto del bene e che, in fondo, lo sterminio di massa è necessario e fatto per il bene dell'umanità. La rivoluzione è solo un acceleratore di una verità necessaria che compie l'essenza umana liberandola e purificandola per sempre. I borghesi sono solo «insetti nocivi» (Lenin), «topi viscidi» (Sartre), «ripugnanti piccolo-borghesi» (Lukács) e lo «sterminio di classe» è giusto. Dunque, perché non dare una mano alla storia? Il Partito è nato per questo e Gramsci, Togliatti, Lukács, Sartre, Marcuse, in quanto accettano il dogma di Marx, Engels e Lenin di una verità che si fa potere e di un potere che si fa verità, sono i cattivi maestri della sinistra. I Cattivi maestri della sinistra - come recita il titolo dell'ottimo libro di Luciano Pellicani ora in uscita da Rubbettino - ritengono di essere infallibili e giusti. L'infallibilità deriva loro da un supersapere che li libera dal falso facendogli conoscere la necessità. La giustizia è casa loro perché essendo liberi dagli errori sono anche liberi dalle scelte sbagliate e fanno l'unica cosa vera. Tutto era già scritto nell'undicesima tesi di Marx su Feuerbach: «I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo». Non c'è più nulla da pensare perché tutto il pensabile è stato pensato e la Verità è già pensata dal Partito che riassume in sé la storia e la funzione di compierla. Marx ha dettato la linea - via lo Stato borghese, fine della proprietà privata, abbattimento violento di tutte le istituzioni sociali, fine delle libertà dei moderni e del capitalismo, origine di tutti i mali ancora esistenti - e Lenin si è incaricato di applicarla con il Partito dei rivoluzionari di professione. Lenin con la rivoluzione d'ottobre e il Partito aggiorna la teoria e crea la pratica: da questo momento gli intellettuali e i leader politici, avendo la rivoluzione come mito fondante, sono chiamati a giustificare il terrore e il totalitarismo. I cattivi maestri della sinistra si mostrano bravi e scrupolosi scolari che adeguano ai tempi il verbo marxista-leninista. Gramsci non solo sarà fedele alla concezione leninista del Partito ma la integrerà con la dottrina dell'egemonia del moderno Principe che sarà, in ogni regime comunista, la legittimazione della dittatura totalitaria degli intellettuali sulle masse lavoratrici. Togliatti, tramite «il legame di ferro con Mosca», applicò l'ideologia gramsciana dell'egemonia facendo del Pci un contro-Stato e una contro-Società con il mito della purezza ideologica e con la pratica di un'organizzazione capillare del Partito. Berlinguer, del quale è rimasto il mito della diversità, ancora nel 1981 parlava del Pci come di una «preziosa anomalia» perché costituiva una «alterità culturale». Invece, la diversità, l'anomalia, l'alterità le abbiamo pagate a caro prezzo con una democrazia bloccata, una morale doppia, una cultura organica fino alla fine dell'Urss che aveva rinchiuso interi popoli in un mostruoso Stato totalitario centrato sulla satanica ideologia, come dice Pasternak nel Dottor Zivago, che faceva in modo che «la gente disimparasse a giudicare e pensare, costringendola a vedere ciò che non esisteva e dimostrare il contrario dell'evidenza» per ottenere - per dirla con Solzenicyn - «una completa resa dell'anima: una partecipazione attiva e costante alla generale Menzogna». E si era partiti dalla verità e dalla giustizia!

Così la sinistra ha pianificato l'invasione degli immigrati. La legge Turco-Napolitano sui centri di permanenza è del 1998. Ed era pronto anche il voto agli stranieri, scrive Domenico Ferrara, Sabato 07/01/2017, su "Il Giornale". La madre dell'invasione che stiamo subendo ha un nome: sinistra. Le porte spalancate indiscriminatamente, il caos dei centri di identificazione e lo scandalo dell'accoglienza non sono accaduti per caso. La sinistra ha la memoria corta e non impara dai propri errori. Per questo non deve stupire che il governo Gentiloni voglia affrontare il presente con le ricette fallimentari del passato. Ricette che i democratici stessi hanno inventato in nome di quell'osannato multiculturalismo che oggi persiste insieme alla nuova parola del rigore. «I Cie non avranno nulla a che fare con il passato», ha annunciato il ministro dell'interno Marco Minniti, quasi a voler tracciare un solco. Ma è una soluzione già vista, il cui fallimento è stato dimostrato dalle cronache quotidiane e i cui inventori hanno il nome di Livia Turco e Giorgio Napolitano, rispettivamente ministro per la Solidarietà sociale e titolare del Viminale durante il primo governo Prodi. Facciamo un passo indietro. È infatti intestata a loro la legge 40 del 1998 che istituiva, tra le altre cose, i Centri di permanenza temporanea, i Cie di oggi, in cui venivano identificati e «reclusi» i clandestini in attesa di essere espulsi. Erano i tempi in cui all'ondata migratoria degli albanesi si aggiungeva quella del centro e del nord Africa. Per la sinistra di allora le nuove norme avrebbero rappresentato un toccasana per la gestione dei flussi e per la sicurezza. E per questo vennero sponsorizzate in pompa magna. Un mese prima l'approvazione della legge, la Turco dichiarava: «Non siamo di fronte a una massa di clandestini, è stata fatta una netta distinzione tra clandestini (fantasiose le cifre sulla loro presenza) e gli irregolari, quindi non ci saranno esodi». E, non contenta, spiegava già quale sarebbe stato il passo successivo, cioè il voto agli extracomunitari: «Dobbiamo togliere dall'immaginario collettivo lo stereotipo del clandestino che non rispetta le regole per introdurre l'immagine dell'immigrato inserito, con la sua soggettività politica, anche perché per vincere la battaglia sul diritto di voto bisogna creare le premesse culturali». L'allora ministro Napolitano le dava manforte scagliandosi contro quelli che oggi verrebbero definiti populisti e spiegando che «l'Italia è impegnata a costruire politiche comuni europee per immigrazione e asilo su basi di solidarietà e sicurezza». È lo stesso Napolitano che nel febbraio 1998 dichiarava nero su bianco: «Le imprese del Nord hanno bisogno degli extracomunitari». Pensiero ribadito due mesi dopo da Luciano Violante che lanciò l'operazione «porte aperte agli extracomunitari» in Lombardia perché «secondo la ragioneria dello Stato occorrerebbero dai 50mila ai 150mila immigrati in più per mantenere invariato nel nostro Paese il Pil». Il sempre attuale paradigma secondo cui saranno gli immigrati a pagarci le pensioni. La legge fu approvata dopo un percorso di gestazione di quasi un anno, tra molte polemiche, specialmente delle opposizioni che paventavano il rischio di un'invasione. Cassandre inascoltate. E già pochi mesi dopo sorsero problemi di attuazione del testo e i famigerati Cie erano ancora fantasmi in costruzione. Senza considerare poi quei circa 200mila stranieri che, dopo essere entrati in Italia grazie alla precedente sanatoria Dini, rimasero nel limbo. Insomma, quel pugno duro annunciato non si è mai visto né sentito. Anzi, i Cie e quella legge adesso sembrano l'inizio del caos. L'ennesima dimostrazione di una politica ipocrita e soprattutto miope. Se a ciò si aggiungono le inchieste giudiziarie che hanno certificato sperperi pubblici e un vero e proprio business ad opera delle coop che gestiscono l'accoglienza, ecco che la storia oltre a ripetersi sembra passare da tragedia in farsa. Soprattutto oggi, che sebbene i Cie in funzione siano solo cinque con una capienza molto ridotta rispetto a quella prevista, un altro governo di sinistra vuole riportarli in auge. L'invasione continua.

LA SINISTRA E LA SINDROME DEL TRADIMENTO.

Tiranni e traditori. Non c’è miglior sorriso di quello strappato nello sberleffo di chi si prende troppo sul serio, scrive "Botta di Classe". È curioso vedere come l’accusa di tradimento o di essere dei traditori sia l’arma dei dittatori più feroci. Nel senso che, proprio quelli che tradiscono il popolo, gli ideali e gli amici, sono gli stessi che urlano al tradimento per addossare ad altri un comportamento miserevole che invece gli è proprio. Facciamo qualche esempio: pensate a Stalin, qualsiasi forma di dissenso durante la sua dittatura era tacciata di complotto da parte di traditori. In questo modo fece fuori tutta la vecchia guardia della rivoluzione bolscevica, le famose “purghe staliniane”. La stessa arma dell’accusa di tradimento come strumento di dominio è stata usata più volte dalla “dinastia” Kim in Corea del Nord, uno dei paesi più vessati dalla follia dei tiranni. La cosa che accomuna questi folli personaggi è, oltre all’essere stati dei feroci dittatori, il culto della personalità. L’elevazione dell’uomo, in questo caso il dittatore, a divinità infallibile. Viene da se che, con i presupposti di infallibilità, chi dissente è automaticamente un traditore. Scendendo ad una scala minore, ma rimanendo nell’ambito dell’uso spasmodico di tacciare chi dissente di tradimento, troviamo Vladimir Putin. Ancora culto della personalità e attacco feroce ai dissidenti. Su di lui si allungano ombre poco rassicuranti riguardo all’uso dei servizi segreti per “liquidare” gli oppositori: dove non arriva la stigmatizzazione del tradimento, si procede all’eliminazione. Scendendo ancora nella scala dei fruitori del tradimento come arma di propaganda, troviamo un politico di casa nostra. Non si può negare come anche l’ex Cavaliere abbia usato, tramite i giornali di famiglia, il tradimento come arma di propaganda e come sia chiaramente affascinato dal culto della personalità. Anche il cosiddetto Centro Sinistra non è immune a questo tipo di operazioni. Fausto Bertinotti e l’allora sinistra furono accusati di tradire il Governo Prodi. Quello sul leader di Rifondazione Comunista è stata una macchia che ha segnato politicamente, in maniera tragica, il futuro della sinistra radicale. Nel piccolo come nel grande, nei giochi di palazzo come nel quotidiano, troviamo persone che accusano di tradimento chi dissente, attribuendo ad altri la macchia della propria infamia. Persone profondamente ipocrite, che non si mettono mai in discussione, ossessionate dal potere, ma incapaci di ammettere persino a loro stesse la loro assenza di empatia. Vogliono apparire come non sono e attribuiscono ad altri, avversari come competitori, i loro difetti e la loro piccolezza morale. E’ più facile parlare di tradimento che ammettere le proprie colpe o affrontare un problema. A buon intenditor…

Il Tradimento di Benigni, scrive Massimo Recalcati il 7 ottobre 2016 su "La Repubblica". La cosa che più mi colpisce non è quindi né l'infiammarsi del dibattito politico, nè la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del " tradimento". Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l'antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali. L'accusa patologica di tradimento implica innanzitutto l'idea di una degradazione antropologica del traditore, di una sua irreversibile corruzione morale. Non un cambio di visione, non la formulazione, magari tormentata, di un giudizio diverso, non l'esistenza di contraddizioni difficili da sciogliere, non il travaglio del pensiero critico. Niente di tutto questo. Il traditore è colui che ha venduto la propria anima al potere, al regime, al sistema. È l'accusa che risuona oggi, non a caso, nella bocca di diversi intellettuali schierati per il No rivolta verso quelli che sostengono le ragioni del Sì: venduti, servi, schiavi dei "poteri forti". Non a caso agli inizi della campagna referendaria Il fatto quotidiano ne pubblicò addirittura una lista di 250 per mostrarne l'indegnità e la consistenza risibile. L'accusa è che il traditore abbia subdolamente cambiato idea o abbia condiviso un'idea ingiusta per difendere avidamente i propri interessi personali. Il che lo rende moralmente ancora più infame. Egli ha barattato in modo sacrilego la purezza assoluta dell'Ideale con la volgarità interessata e meschina del proprio Io. Ambizione personalistica, prevalenza dell'individuale sul collettivo, incapacità di servire umilmente la Causa perché l'attaccamento "borghese" al proprio Io prevarrebbe cinicamente sul senso universale della storia e sulle sue ragioni.

Questo fantasma del tradimento non anima evidentemente solo la vita politica della sinistra — recentemente Alfano fu accusato da Berlusconi e dai suoi di alto tradimento, come Hitler accusò alcuni suoi generali dissidenti, o, per fare un esempio un po' più modesto, la Lega inveii con il Trota impugnando le scope che avrebbero dovuto ripulire il partito dall'ombra della corruzione — . E, tuttavia, è proprio a sinistra che esso trova il suo terreno di attecchimento più fertile. Perché? Perché l'accusa di essere un traditore degli Ideali è un sintomo tipico della sinistra? Tocchiamo qui la radice profondamente stalinista di questa cultura che è dura a morire. Ogni uomo di sinistra — quale io mi ritengo d'essere — dovrebbe provare a fare sempre i conti con questa radice oscena. Dovrebbe sforzarsi, innanzitutto soggettivamente e non solo collettivamente, di confrontarsi con il suo carattere scabroso, anti-liberale e anti-libertario: dovrebbe provare a fare sempre attenzione allo stalinista che c'è in lui per lavorarci contro, per impedire che questo grave morbo lo accechi e lo condizioni nella sua azione. La radice inconscia del fantasma del tradimento porta alle estreme conseguenze un principio che appartiene a sua volta al fondamentalismo insito nel concetto "marxista" di militanza. La Causa obbliga alla spogliazione di sé, al sacrificio assoluto della propria individualità, alla soppressione del pensiero critico come un bene superfluo e borghese. Il traditore della Causa è insopportabile perché sancisce invece il ritorno dell'Io e della sua puerile meschinità laddove l'affermazione militante del collettivo avrebbe dovuto estirparne ogni ambizione soggettivistica. Se una personalità pubblica di sinistra oggi difende le ragioni del Sì, le accuse di incoerenza (ma come? prima era per il no ed ora ha cambiato opinione?) ne ricoprano, in realtà, altre ben peggiori. È il caso tipo di Benigni: lo fa per avere contratti, soldi, potere, riconoscimenti o, peggio ancora, perché è servo della finanza, delle banche, dell'Europa dei burocrati o degli Stati Uniti imperialisti, o di chissà quale altro, non meglio identificato, "potere forte". Lo fa, insomma, perché si è smarrito moralmente. Vizio storico, ancestrale, primario della sinistra anti- liberale, anti-libertaria e anti-riformista. È la corruzione etica a spiegare la ragione ultima del ragionamento politico, nel senso che quest'ultimo non è altro che il frutto di un calcolo cinico e puramente strumentale del "traditore". In esso non c'è nessun senso del bene comune, nessun senso della Causa, ma solo un incontenibile protagonismo narcisistico dell'Io. Ai tempi di Stalin questo portava dritti verso il plotone di esecuzione oppure verso i campi di rieducazione (il modello maoista fu, in questo, un esempio notevole di applicazione della pedagogia autoritaria al servizio dell'ideologia). Oggi, in un sistema democratico, conduce tendenzialmente alla diffamazione. La corruzione morale non viene soppressa con la morte, ma con il linciaggio mediatico. La lista dei degenerati attende sempre di essere completata con una tessera in più.

Su Cuperlo la rabbia social riecco l’accusa “traditore”. Scrive Massimiliano Panarari. Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 07/11/2016 de "La Stampa". Così come da copione la furia dei social si è abbattuta sul gentile e mitteleuropeo intellettuale prestato alla politica Gianni Cuperlo. Un effetto dell’inarrestabile muscolarizzazione e maleducazione che imperversa in rete tra i leoni e gli avvoltoi «da tastiera», certamente, ma anche qualcosa che viene da più lontano, e sta scritto nel dna stesso della sinistra (italiana e internazionale). L’epiteto che si è sprecato a proposito di Cuperlo, «reo» di avere firmato il documento di accordo sulla riforma dell’Italicum, è infatti quello infamante di «traditore»; e l’accusa di tradimento rappresenta un elemento di lunga durata della storia delle sinistre, dove tertium non datur, ragion per cui posizioni intermedie (e meditate) vengono pavlovianamente associate alla figura del voltagabbana. Non per nulla, nei giorni scorsi, Pierluigi Bersani – che con i suoi aveva ripetutamente votato a favore della riforma costituzionale – ha messo le mani avanti dicendo di non essere un «traditore» del Pd (che vorrebbe riconvertire col No al referendum nella versione, a lui più congeniale, della «ditta»). Oggi antirenziani e renziani si imputano reciprocamente di venire meno ai patti, ma si tratta soltanto dell’ultima puntata di una saga eterna. In Italia a sconfessarsi reciprocamente, prima e durante il crollo del Muro di Berlino, erano comunisti, socialisti e socialdemocratici; nel Secolo breve a darsi la croce addosso come traditori del movimento operaio furono socialisti massimalisti e riformisti e, risalendo ancora per li rami, anarchici e marxisti. Del resto, anche la celebre massima novecentesca del radicale francese René Renoult «Pas d’ennemi à gauche» («mai avere nemici a sinistra») lo testimonia, sottolineando i pericoli e la virulenza degli attacchi che possono venire da qualcuno che, alla propria sinistra, ti considera un potenziale traditore che si è spostato dalla casa madre originaria. Ovvero dalla condizione della purezza ideologica: e l’allontanamento da essa, nella storia delle sinistre mondiali, non corrisponde a un puro e «semplice» cambiamento di opinione, ma direttamente al passaggio all’apostasia. Si diventa così rinnegati e traditori; e le vicende dei dissidenti (considerati alla stregua di autentici eretici) del Pci – da Ignazio Silone ai «Magnacucchi» – risultano da questo punto di vista esemplari. La sinistra ha una tradizione di altissima litigiosità interna proprio perché le sue ideologie sono state fondamentalmente delle versioni immanenti e mondane di una religione della salvezza; e i suoi eredi attuali hanno vissuto la secolarizzazione completa e la fine di tali ideologie, ma non hanno perduto certi vizi. Come quello, appunto, di scagliarsi addosso anatemi e scomuniche: l’accusa di tradimento, insieme all’estremismo, la si può pertanto considerare una malattia infantile del postcomunismo (tanto per parafrasare Lenin, ossessionato dal «traditore e rinnegato» Karl Kautsky). 

La vera storia dei 101 “traditori” nei giorni che bruciarono Prodi. Il ruolo di Bersani, D’Alema, Rodotà e Renzi nel no al Professore, scrive Fabio Martini il 26/01/2015 su "La Stampa". È una storia infinita. Ogni giorno si arricchisce di un nuovo colpevole. Di un nuovo, fantomatico capo. Ma la vera storia dei centouno grandi elettori del centrosinistra che «tradirono» Romano Prodi il 19 aprile del 2013 è molto diversa dalla vulgata prevalente: nei 21 mesi da allora trascorsi tanti tasselli si sono via via ricollocati e altri, ancora inediti, compongono un plot davvero spiazzante. Privo di una regia unica e di «uomo nero», ma ricco invece di «colpevoli» rimasti nell’ombra. Una storia esemplare anche in vista della conta ormai imminente. Il primo «piano sequenza» inquadra Eataly, il mega-store di prodotti culinari italiani inventato da Oscar Farinetti. È la sera del 18 aprile 2013 e il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale dell’accordo tra Bersani e Berlusconi. In quelle ore il Pd sta decidendo di cambiare cavallo e strategia e a quel punto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sempre così restio a farsi vedere a Roma, si scomoda. Convoca i «suoi» 35 parlamentari al ristorante e gli comunica: «Si vota Prodi». Renzi non mostra incertezze, perché intuisce che se si forma un governo di legislatura, lui rischia di finire per cinque anni nel freezer. In quelle ore un politico dal naso fine come Gaetano Quagliariello constata: «Prodi è una scelta legittima ma che va inevitabilmente verso la fine della legislatura». Renzi scommette su un Capo dello Stato indipendente, capace di sciogliere le Camere. Uscendo da «Eataly», a chi gli chiede se si senta il vincitore della giornata, il sindaco replica: «No. Vince l’Italia se domani sarà eletto un presidente di grande rilievo internazionale». Dunque, fortissimamente Prodi. Candidato e profilo recentemente persi di vista, ma è pur vero che la sparata di qualche giorno fa da parte di Stefano Fassina («Renzi è il capo del 101!») risulta priva di fondamento. Ma quella notte accadono altre due cose decisive: Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: «La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente». Una ricostruzione postuma che si incastra perfettamente con l’altro colpo di scena di quella notte: D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto! Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. E qui va in scena il secondo «piano sequenza». Diciannove aprile, ore 8, cinema Capranica. Bersani propone ai grandi elettori del Pd la candidatura di Romano Prodi e a quel punto accade l’imponderabile: all’annuncio del nome di Professore, le prime due file, ma solo quelle, si alzano in un applauso entusiastico, Bersani e Zanda «cedono» all’acclamazione senza voto. Racconterà più tardi Massimo D’Alema a Marco Damilano nel suo «Chi ha sbagliato più forte»: «In sala c’è stato l’errore grave di chi doveva parlare e non lo ha fatto». E cioè Anna Finocchiaro. Non si è mai capito invece chi fossero i parlamentari della claque anti-voto segreto e oggi uno di loro confida: «Renzi ci fece sapere che era meglio “lanciare” subito Prodi, evitando il pericolo D’Alema». A quel punto, sono le 9 del mattino, il Professore è in pista. Visto che dal Pd nessuno si preoccupa di coinvolgere Monti, Rodotà, Grillo, è Prodi stesso, in Mali per una missione Onu, a farsene carico. Telefona a Massimo D’Alema, che è sincero e gli dice: «La situazione, dopo l’esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi annota mentalmente: D’Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama il suo vecchio amico Mario Monti, che gli rinnova tutta la sua amicizia ma gli dice: «Romano la tua candidatura è divisiva...». E due. In quelle ore convulse chi può ancora fare la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Vanno da lui i capigruppo Crimi e Lombardi per chiedergli se sia pronto a lasciare il campo a Prodi e invece la sorpresa: non si ritira e mette il suo mandato nelle mani del Cinque Stelle. Ha confidato di recente uno dei due ex capigruppo: «Eravamo sicuri che Rodotà si sarebbe ritirato e invece...». Anche Prodi cerca Rodotà, che fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione «alta» come quella di Prodi, Rodotà non si ritira. Il Professore conclude le sue telefonate e intanto in Parlamento si prepara l’affondamento. Ha scritto Sandra Zampa nel suo libro su quei tre giorni che il senatore Ugo Sposetti (dalemiano doc) «faceva telefonate per sollecitare un no a Prodi», ma non era «l’unico telefonista in servizio». Anche perché erano tante le tribù «offese» dagli errori di quelle ore, dalemiani, orfani di D’Alema, ex popolari orfani di Marini. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: «Non passerò». 

Pd, chi ha tradito Prodi scagli la prima pietra. Fassina parla di «regia di Matteo Renzi», ma i 101 furono molti di più. E le correnti sono note, scrive Alessandro Da Rold il 23 Gennaio 2015 su “L’Inkiesta”. Trovare i nomi degli ormai noti 101 franchi tiratori che affossarono Romano Prodi il 19 aprile del 2013 nella corsa al Quirinale non è un esercizio semplice. Forse non si sapranno mai con esattezza, nascosti dal voto segreto. Ma le aree, le correnti e gli identikit dove si annidarono i cecchini del professore di Bologna non sono più un tabù, basta ripescare alcuni libri sulla vicenda e andare a riprendersi le dichiarazioni uscite all’indomani della “strage quirinalizia”, come notare che con la fine di Prodi e (di Pier Luigi Bersani ndr) di fatto di aprirono le porte alla larghe intese e al patto del Nazareno di Matteo Renzi con Silvio Berlusconi. Si tratta in sostanza di una maionese impazzita, dove deputati e senatori si mossero per motivi diversi e differenti, tra questioni personali e politiche, ma che alla fine si rimescolò e ricompattò contro un unico avversario, appunto Prodi. In pratica a impallinare il professore furono più di 101 gradi elettori. E i voti contrari, mettendo insieme i tasselli, arrivarono in particolare dai fedelissimi di Matteo Renzi - come ha sottolineato lo stesso Stefano Fassina giovedì 22 gennaio («Renzi fu il regista») - dagli uomini di Dario Franceschini, dagli ex Ds vicino a Massimo D’Alema con a capo l'ex tesoriere Ugo Sposetti, che fu beccato a fare telefonate contro il prof, dagli uomini di Beppe Fioroni e pure da alcuni Giovani Turchi. Lo sa bene Bersani, all’epoca presidente del Consiglio incaricato, che dopo quella “maledetta” quarta votazione fu messo alla porta. Lo sanno bene Chiara Geloni e Stefano Di Traglia, scudieri bersaniani, che ci hanno scritto un libro «Giorni Bugiardi» dove raccontano delle faide del Pd di quei giorni. Lo sa bene pure Sandra Zampa, prodiana di ferro, che nel libro «I tre giorni che sconvolsero il PD» ha messo in fila le fasi che decisero l’affossamento del professore di Bologna. I nomi, insomma, resteranno sempre appesi al segreto dell’urna, con deputati e senatori pronti a smentire o a querelare nel momento in cui vengono tirati in ballo. Ma le correnti ci sono. Lo stesso Marco Damilano, giornalista de L’Espresso, le ha provate a riassumere in un altro manuale «Chi ha sbagliato più forte», stigmatizzando in tre categorie «chi segò Prodi», ovvero i Dubbiosi, gli Scettici e i politicamente Lucidi. «L’esercizio è partire da chi di sicuro non fu tra i congiurati - spiega a Linkiesta un senatore dem su richiesta di massima riservatezza -. E di certo c’è che a quella faida non parteciparono i bersaniani, i lettiani e i civatiani. Non solo. Aggiungo che tra i deputati del Pd a votare contro non furono solo in 101, ma molti di più, perché per Prodi ci furono anche i voti di alcuni esponenti del Movimento Cinque Stelle e di Scelta Civica». La convinzione è dello stesso Bersani, come hanno riportato nel loro libro gli stessi Geloni e Di Traglia. «Anzi, Bersani è convinto che 101 sia una cifra approssimata per difetto» si legge «perché da qualche parte un po' di voti sparsi su Prodi sono arrivati' e quindi quelli del Pd che mancano all'appello sono di più». La Geloni in un blog di venerdì 23 gennaio annuncia che «nei prossimi giorni tutto sarà ricordato» ricorda alcuni passaggi del libro e aggiunge: «Siamo solo all'inizio di una lunga settimana». Bisogna partire dai buoni, in sostanza, da chi rimase fedele a quanto detto la mattina del 19 per capire come si mossero le truppe democratiche quel giorno. Anche se su questo punto ci sono pareri differenti, perché secondo altri deputati anche in questi fedelissimi del professore potrebbero trovarsi dei traditori, di sicuro di meno che in altre correnti. E’ comunque un esercizio utile, perché i 496 grandi elettori del centrosinistra di allora, che ora sono anche di più dopo l’arrivo di qualche ex grillino, sono gli stessi che la prossima settimana dovranno eleggere il nuovo presidente della Repubblica, rischiando di innescare una nuova stagione di faide. Questione che dà quindi la tara sullo stato di un partito «alla frutta» per dirla come la senatrice Lucrezia Ricchiuti, ormai spaccato di fronte a un segretario del Pd come Matteo Renzi sempre più impegnato nella difesa del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Continuando nell’esercizio consigliato dal senatore democratico, a non votare contro Prodi fu la maggior parte di deputati vicini a Pier Luigi Bersani, quelli di Enrico Letta, di Pippo Civati e Rosi Bindy. In un grafico dell’epoca di Youtrend i bersaniani rappresentavano la maggioranza relativa, il 35%, poi veniva l’Areadem di Dario Franceschini, Beppe Fioroni e Valter Veltroni, il 23%, poi i «Renziani» che costituivano il terzo gruppo (13%), seguiti dai «Lettiani» (6%). «D'Alemiani» e «Giovani Turchi» seguono appaiati (4,5%), così come «Bindiani» e «Civatiani» (2% e 1,5%). E di questo amalgama impazzito vanno pure citate le ebollizioni, da chi voleva diventare presidente della Camera come Dario Franceschini a chi, come Massimo D'Alema, ambiva invece a diventare Mr Pesc. Accordi sottobanco e incroci letali che danno bene l'idea della famiglia dei lunghi coltelli del Partito Democratico. La convinzione di chi ha seguito la vicenda del famigerati 101, comunque, è che non ci sia stata una regia unica dietro la caduta di Prodi. Lo ha spiegato la stessa Zampa in un’intervista a Famiglia Cristiana venerdì 23 gennaio, correggendo in parte Fassina sulla regia unica renziana: «Tutte le componenti hanno partecipato, altrimenti non si arrivava a 101. Renzi ne aveva 50-60 all’epoca e non aveva incarichi nel partito. Dopo sono diventati tutti renziani».  E allo stesso tempo la Zampa nel suo libro tratteggia così quell'area che si ritrovò coesa contro il professore: «C’era chi pensava di dover vendicare Mariniper la mancata elezione nelle prime votazioni; quelli che pensavano si dovesse dare una possibilità a D’Alema; quelli che erano convinti che l’elezione di Prodi avrebbe portato rapidamente alle urne: quelli che volevano un’alleanza di governo larga, estesa al Pdl e vedevano in Prodi un chiaro ostacolo».  Di certo alle Idi di aprile parteciparono i dalemiani, tanto che fu D’Alema a chiamare Prodi in Mali per annunciargli che non ce l’avrebbe fatta. Continua a il senatore democratico: «Mettendo insieme una ventina di franceschiniani, una decina di giovani turchi, una decina di fioroniani, un’altra decina di dalemiani arriviamo così quasi a cinquanta voti. Mancano giusto i cinquant’uno di Renzi....». E il mistero insomma non è più un mistero. E in tempi di Nazareno viene in mente la celebre frase: «Chi ha peccato scagli la prima pietra».

Cosa si nasconde dietro i 101 che hanno ammazzato Prodi, scrive il 6/07/2013 Alberto Sofia su "Giornalettismo". Il Pd si prepara al Congresso, dopo aver messo sotto il tappeto le responsabilità sul siluramento del padre fondatore dell'Ulivo. "Impallinato" per lasciar spazio alle larghe intese. Ricomporre tassello per tassello, trovando i nomi dei 101 parlamentari del Partito democratico che tradirono Romano Prodi nella corsa al Quirinale, forse non sarà mai possibile. Nascosti nel silenzio del voto segreto, hanno “impallinato” il padre fondatore dell’Ulivo, senza avere poi il coraggio di rivelarsi. Il “coming out” politico non è mai arrivato, nonostante le richieste di chi, tra i prodiani più fedeli – come Sandra Zampa e Sandro Gozi – pretendeva chiarezza e trasparenza. Ma non solo. C’è anche chi ha cercato di far passare il simbolo del suicidio politico del Pd come un semplice “errore di percorso”, qualcosa da dimenticare in fretta, per ricomporre una finta “concordia” in vista del prossimo Congresso. Tutto nel nome del compromesso, da realizzare in perfetto stile Cencelli: sia nella nuova segreteria (a tempo) di Guglielmo Epifani, che nella commissione Congresso – quella che dovrà decidere sulle regole dell’assise, ndr – le correnti si sono divise ruoli e cariche. La stessa “pax lettiana” rischia di essere scossa dal ritorno della “guerra tra bande” democratiche, in un Pd dominato da personalismi e correnti, che ora sembrano cercare di coalizzarsi in ottica anti-Matteo Renzi. Ma mentre i democratici si preparano a un Congresso ancora senza data (Epifani ha ribadito soltanto che si farà entro l’anno, ndr) e senza aver scoperto tutti i suoi candidati, il “fantasma del 19 aprile”, con l’affossamento di Prodi, è stato sotterrato sotto il tappeto. Senza risposte e senza aver prima fatto chiarezza. Eppure il progetto politico sembrava chiaro, anche senza bisogno di conoscere l’identikit dei traditori. “Prodi era un ostacolo sulla via delle larghe intese e per questo andava rimosso. E’ stato un rito di passaggio, necessario, per la formazione del governo. L’unica strada possibile”, svela un dirigente democratico che condivide la necessità del patto con Silvio Berlusconi e Scelta Civica. In pratica, senza il Professore bolognese, l’inciucio era servito. Con lui, la prospettiva era un probabile ritorno alle urne, considerata anche l’ostinazione solitaria del MoVimento 5 Stelle e gli errori di Pierluigi Bersani. Non restava che “far saltare la candidatura”. Ma chi sono stati i responsabili? Nel gioco delle accuse, c’è chi diede la colpa all’area mariniana, chi agli ex popolari e ai fioroniani, chi allo stesso D’Alema. A Matteo Renzi, o aigiovani eletti. Ma per capire meglio cosa possa essere successo serve un passo indietro. Sono i mesi del post elezioni, con il Pd che continuava a cambiare strategia politica, tentando tutte le carte per la formazione di un esecutivo. Fino a frantumarsi in un congresso anticipato nell’elezione per il presidente della Repubblica, tra i passaggi drammatici del teatro Capranica e i franchi tiratori nell’Aula. Non era stato un periodo semplice per la segreteria Bersani: dopo la rincorsa del centro durante la campagna elettorale – con l’Agenda Monti termine di paragone per il programma di una divisa “Italia Bene Comune” – il centrosinistra era riuscito nell’impresa di perdere elezioni che in molti consideravano già vinte. Una riedizione, anche peggiore, delle politiche del 2006, quando lo stesso Romano Prodi e l’Unione di centro-sinistra riuscirono a vincere per soli 25mila voti, dopo una campagna per i più incomprensibile, condotta a colpi di cuneo fiscale. Sette anni dopo il Pd non era riuscito a fare di meglio. Anzi. Tra Beppe Grillo che cannoneggiava sulla Casta e le sparate del Cavaliere sull’Imu, il Pd doveva anche difendersi dalle accuse sullo scandalo Mps. A urne chiuse, questa volta, considerati i numeri insufficienti a Palazzo Madama, nemmeno i senatori a vita potevano correre in aiuto. Bersani provò a corteggiare il MoVimento 5 Stelle, con i famosi “otto punti” del “governo del cambiamento”, dopo aver ricevuto una sorta di “incarico esplorativo” da Giorgio Napolitano. Quasi un “incarico condizionato”, abortito anche per i continui rifiuti dei grillini: “Abbiamo sbagliato totalmente la campagna elettorale e poi ci siamo limitati a rincorrere il M5S. In quei mesi i capibastone cercavano di dettare le regole, anche se non c’era sintonia tra correnti sulla strategia da adottare, mentre il giovane gruppo dirigente uscito dalle parlamentarie veniva quasi messo da parte”, ci racconta una neoeletta. Poi, un nuovo repentino cambio di linea politica: dal governo del cambiamento alla Convenzione per le riforme offerta al Popolo della Libertà. Troppo poco. Silvio Berlusconi voleva contare di più: meglio giocare una doppia partita, tra governo e Colle. Sul secondo, si consuma la tragedia: il Pd offre una rosa di nomi all’eterno nemico, cercando convergenza sul candidato per il Quirinale. E’ la strada che porta direttamente alle larghe intese e che tenta di portare Franco Marini al Colle. Eppure, prima della partita del Quirinale la tensione interna tra correnti, nel Pd, si era già manifestata. “Pochi lo ricordano, ma c’erano già segnali evidenti di come il partito fosse spaccato al proprio interno”; rivela una parlamentare bersaniana delusa. “Fu la votazione per Roberto Speranza come capogruppo alla Camera a far svelare i malumori. Allora mancarono 90 voti con modalità segreta”, ricorda. Per la deputata “c’era una parte del Pd che non voleva il cambiamento”, dato che Speranza era un segnale di discontinuità, rispetto al nome di Dario Franceschini del quale si parlava in precedenza. Ma se al Senato Zanda aveva trovato il consenso necessario, su Speranza il Pd si divide. Mancano alla fine quasi un centinaio di voti, anche se riesce ad essere eletto. “Con le unghie e con i denti, molti vecchi big tentavano di sopravvivere politicamente e controllare il partito. Il loro unico interesse resta ancora oggi quello dell’autoconservazione, non la ricerca del bene comune per il nostro Paese”, attacca. Il primo ad essere bocciato da un Pd in balia alle correnti è così l’ex sindacalista Franco Marini, un nome scelto dallo stesso Berlusconi sulla base della rosa proposta dai democratici. “Per mesi ci hanno spiegato che dovevamo fare il governo del cambiamento, poi, all’improvviso si sono presentati con il nome di Franco Marini: qualcosa di inaccettabile per noi, che avevamo compreso come fosse stato l’apripista per le larghe intese”, spiega la giovane parlamentare, una di quelle che aveva puntato su Prodi ben prima che il suo nome fosse proposto al Capranica. Non pochi ricordano come – nonostante l’assemblea durante la quale fu proposto il nome dell’ex popolare fosse stata infuocata – Bersani decise di non ascoltare le proteste: “In quei giorni il segretario sembrava frastornato”, ricorda Ivan Scalfarotto. Al teatro Capranica, arrivato insieme al gruppo dei renziani del quale fa parte, Scalfarotto – una delle voci più dissidenti nel Pd – credeva di prepararsi a una nuova battaglia quasi solitaria: “Invece ci accorgemmo come la protesta montasse. Il primo discorso a favore della candidatura di Marini arrivò soltanto dopo cinque o sei interventi. Sel si era alzata e se n’era andata. Di fatto si era rotta l’alleanza con la quale ci eravamo presentati agli elettori”, continua Scalfarotto. Che rivela tutta la tensione di quell’incontro: ad un certo punto, ricorda, interviene la prodiana Zampa: “Questo non è il segretario che io ho votato, non lo riconosco”, disse. Invano. Anche Matteo Orfini, che faceva parte dei “Giovani Turchi”, invita il segretario a prendere tempo: “Qui c’è qualcosa che non va, parliamone”. Ma la strada di Marini era ormai segnata. E Bersani non intendeva retrocedere: “Quando ha scelto l’ex sindacalista, Bersani ha scontentato altri. D’Alema? Non so, è stato uno di quelli di cui si discuteva, ma io non farò questo nome nemmeno sotto tortura, perché non so. Di sicuro c’erano altri papabili”, spiega un giovane eletto renziano. In aula, Franco Marini, che sulla carta poteva contare su un ampio margine di voti per essere eletto (745 voti, ovvero 151 più del necessario, dato che oltre a Pd, Pdl e Lista civica era arrivato in mattinata il sostegno della Lega), viene affossato dalle divisioni interne al Pd. Se i renziani, che avevano dichiarato al Capranica che non avrebbero votato per l’ex popolare, dirottano i propri voti sull’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, il resto del Pd si spacca tra schede bianche e voti dispersi per altri candidati. Compresi quelli per Stefano Rodotà, il giurista, candidato del MoVimento 5 Stelle e appoggiato anche da Sel (con l’eccezione del IV scrutinio, quello di Prodi, ndr, quando i vendoliani scelsero il Professore bolognese) che raccoglieva il consenso di gran parte della base, che dall’esterno e sui social network chiedeva che il Pd convergesse su di lui. Il verdetto dell’Aula è implacabile per Marini: alle quattordici in punto, la presidente della Camera Laura Boldrini annuncia: “Presenti e votanti 999, Marini 521, Rodotà 240, Chiamparino 41, Prodi 14, Bonino 13, D’Alema 12, Napolitano 10, Finocchiaro 7, Franco Marino 3, Cancellieri 2, Monti 2, voti dispersi 18, bianche 104, nulle 15”. Il dramma e le divisioni interne al Pd appaiono evidenti così nel voto, dopo l’accesa riunione del Capranica. “Il voto su Marini fu raffazzonato, superficiale, preoccupante anche se fosse stato eletto un presidente di una bocciofila. Figurarsi per un capo dello Stato. Se ci fermavamo in tempo, con la base in rivolta, ci saremmo risparmiati tanti guai. Anche se le contraddizioni del Pd sarebbero comunque “sbocciate”, sostiene la parlamentare ex bersaniana delusa. E’ d’accordo anche un dirigente di peso del Pd che, seppure proveniente da ambienti più di sinistra, appoggiò la mozione di Dario Franceschini nelle primarie che opposero l’attuale ministro a Bersani: “Chi ha votato Rodotà lo ha ammesso: ci siamo fatti rubare questo nome dai grillini. Ma sarebbe stato impallinato anche lui dai fioroniani, lontani anni luce dall’esperienza politica del giurista. Il Pd, frastornato, decide di votare scheda bianca nella II e III votazione, preparandosi a scegliere un nuovo nome che potesse ricompattare il partito. Si cambia di nuovo strategia, si abbandonano le larghe intese e si punta a un nome completamente diverso, quello di Romano Prodi. Ma tutto avviene in maniera “troppo superficiale”, come concordano diversi parlamentari democratici. Se l’immagine ricordata dai media è quella del Capranica che applaude compatto, dopo la proposta di Bersani, il nome dell’ex presidente della Commissione Europea, con tanto di voto seguente all’unanimità, in realtà c’è chi non è d’accordo con questa ricostruzione. Un passaggio chiave, per capire quello che poi è avvenuto in Aula, con il tradimento dei 101. “Quel giorno è stato gestito in maniera pessima dalla mattina. Non c’era unanimità sul nome di Prodi, nonostante tutti parlino di acclamazione. Ci siamo trovati in mezzo a una guerra per bande, ci siamo accorti che qualcosa non andava. C’erano gruppi di interessi e di potere organizzati che si sono vendicati per questioni che si portavano indietro da anni”, ha spiegato un’altra giovane eletta. “Che qualcosa non fosse chiaro lo si era capito: non tutti aveva applaudito, altri si erano semplicemente nascosti”, concorda la bersaniana delusa. Che aggiunge come ci fosse un disegno evidente: “L’idea che mi sono fatta è che si siano consumati dei vecchi rancori tra esponenti storici del partito, ma quanto successo a Prodi è diretta conseguenza di una strategia politica”. Ricorda come, fin dal post elezioni, ci fossero due blocchi distinti: “C’era chi, seppur facendo diversi errori, tentava la strada del “governo del cambiamento”, senza una maggioranza ben definita. Ma c’era anche chi voleva a tutti i costi le larghe intese”, aggiunge. Secondo la deputata “quei 101 erano parte integrante di quel progetto di affossamento di qualsiasi tipo di governo che non fosse quello del patto con il Pdl”. Si spinge più avanti: “Io ho sentito parlare di Governo Letta già dal 3° giorno di parlamento. Non c’è bisogno di fare alcuna ammissione: chi ha voluto e sposato le larghe intese sta dietro l’affossamento del nostro padre fondatore”, attacca. In Aula anche Romano Prodi finisce impallinato dai franchi tiratori del Pd, il partito che lo aveva acclamato come candidato. Al fondatore dell’Ulivo sono mancati ben 101 voti, nonostante la standing ovation del Capranica. Nulla di simile rispetto alle polemiche e ai voti in dissenso su Franco Marini, “foriero di larghe intese”. Ma anche in questo caso il Pd finisce preda di un Congresso anticipato, realizzato sul nome del Professore. Il risultato finale consegna a Prodi soltanto 395 voti, Rodotà sale fino a 213 (51 in più rispetto ai 162 parlamentari a 5 stelle), mentre anche Anna Maria Cancellieri, candidata dei montiani, raccoglie una decina di voti in più, attestandosi a quota 78. Poi ci sono altri voti sparsi, come le 15 schede bianche, le 15 per Massimo D’Alema, i due per Massimo e Vittorio Prodi, i 3 a Franco Marini. Per il Pd è il voto su Prodi è il simbolo del suicidio collettivo. Il Professore, amareggiato, toglie la sua disponibilità. “Chi mi ha portato qui si assuma la sua responsabilità”, spiega dal Mali, dove si trovava per conto dell’Onu. Aveva già capito da alcune telefonate che non sarebbe mai passato, come poi rivelerà la sua storica portavoce, Sandra Zampa. Annuncia le dimissioni anche Pierluigi Bersani: “Uno su quattro ha tradito: è troppo”, spiegherà. Il suo passo indietro diventa effettivo subito dopo la ri-elezione di Giorgio Napolitano, che metterà d’accordo Pd, Pdl, Scelta Civica e Lega Nord, ma non M5S e Sel che voteranno Rodotà. Il primo presidente della Repubblica rieletto della storia italiana. Dopo il tradimento di Romano Prodi nel Pd parte la resa dei conti. Tutti attaccano tutti, in modo che i veri responsabili non vengano allo scoperto. Succede di tutto: il candidato numero uno tra i sospettati diventa il “Lìder Maximo”, Massimo D’Alema. Insieme agli ex popolari di Fioroni e ai mariniani delusi, il dirigente che non si era candidato alle ultime politiche dopo le polemiche renziane e la rottamazione, diventa il principale obiettivo delle accuse. Lui si difende e minaccia di denunciare chi lo ha accusato: “Prodi sa chi ha tradito, il problema è chi lo ha candidato in questo modo così assurdo, senza alcuna preparazione”, attacca. Anche lo stesso Beppe Fioroni e i suoi mostrano le foto del voto. Per Zampa è soltanto la prova che “si sono pure preparati l’alibi”, sottolineando come la foto fosse la stessa, diffusa attraverso i telefonini. Non mancano le accuse verso fioroniani e dalemiani: “Dopo il flop di Marini, erano in ballottaggio Prodi e D’Alema. D’Alema ha chiesto le primarie, ma non gli sono state concesse. I gruppi che fanno capo a lui si sono vendicati. A questi si sono aggiunti i sostenitori di Fioroni e Marini”. C’è invece chi punta il dito contro Renzi e i suoi parlamentari: il sindaco di Firenze spiega di non aver bisogno di fare “doppigiochi”, anche perché nel caso del mancato voto a Marini i suoi lo avevano dichiarato con trasparenza. Non pochi spiegano come parte dei tiratori potrebbe aver votato Rodotà per mischiare le carte. E dare la colpa a Sel: peccato che Nichi Vendola, con un trucco degno della Dc, fece “firmare” il voto “R. Prodi” ai propri eletti, rendendolo riconoscibile. Segno che tutti avevano già capito che i rischi nel voto per Prodi fossero evidenti, dopo quello che era avvenuto il giorno prima. Ma cosa c’era realmente dietro l’affossamento di Romano Prodi? Un tentativo di trafiggere il segretario Pierluigi Bersani? Forse, ma non solo. L’obiettivo, secondo alcuni parlamentari, erano proprio le larghe intese. Per l’ex bersaniana delusa il gioco era semplice: “Dopo aver bocciato Prodi, non era più possibile presentare altri nomi. Tutti sarebbero finiti vittime del fuoco incrociato. Da lì si arriva al disegno della rielezione di Giorgio Napolitano, che è il garante di questo governo. Fin dai primi giorni, l’obiettivo era il progetto Letta-Napolitano. Non è un caso che il capo dello Stato non avesse mai dato un incarico pieno a Bersani, non consentendogli di presentarsi alla prova della fiducia. Il capo dello Stato non voleva il governo Bersani”, accusa, puntando contro lettiani, fioroniani, dalemiani e quelli “che si trovano oggi nei ruoli di vertice tra governo e commissioni”. Altri spiegano: “I nomi? Li sappiamo, o almeno, ognuno di noi ha capito chi ha tradito. Ma non li rivelerò nemmeno sotto tortura”, scherza il dirigente che appoggiò Franceschini. Questo perché “nessuno in realtà ha mai dichiarato di aver tradito”. Quindi si tratta di supposizioni, anche se “ben studiate”, precisa. E le correnti? “A tradire furono una parte di ex popolari delusi per la mancata elezione di Marini, poi una parte di lettiani e fioroniani. Ma c’era anche chi guardava alla politica più per tornaconto personale che per spirito di servizio al Paese”. Questo perché, spiega, con l’elezione di Prodi si sarebbe tornati probabilmente alle urne, così non molti temevano di perdere la poltrona. Difende dalle accuse i renziani: “Il sindaco di Firenze è molto franco, non è abituato a questi giochi di palazzo. Avrebbe fatto un grosso errore a fare le stesse manovrine che tanto contesta. I voti di Chiamparino sono passati a Prodi senza alcun dubbio”, insiste. E Massimo D’Alema? Secondo il dirigente del Pd, non avrebbe contato molto nel IV scrutinio (quello del voto che ha silurato Prodi), al contrario di altri che accusano il Lider Maximo e i parlamentari a lui vicini. “Di sicuro D’Alema ha inciso di più nella non elezione di Marini: in quel caso a mio avviso i suoi e i Giovani Turchi non hanno seguito l’indicazione di partito. Al contrario, i voti che uscivano per D’Alema al quarto scrutinio non erano reali, qualcuno voleva imbrogliare. Certo, può darsi che qualcuno dei dalemiani pensasse che fosse ancora possibile l’elezione al Colle del suo leader, ma non c’erano effettivamente le condizioni”, spiega. Tutto mentre critica l’ex segretario Bersani per la gestione della partita per il Colle: “Aldo Moro quando decise di portare avanti il compromesso storico con il Pci fece il passaggio di tutti i parlamentari. Chiacchierò fino alla fine con tutti per spiegare le motivazioni di una eventuale scelta. Bersani non ha fatto questi passaggi. Con l’applauso non si può capire nulla, dato che ci sono comunque persone che hanno applaudito e poi hanno votato contro”, conclude. Qualcuno tentò anche di paragonare la votazione flop di Marini a quella di Prodi, ma per gran parte dei parlamentari si trattò di situazioni diverse: “C’è chi dice che la disfatta del Pd derivi dal voto su Marini. Ma non è così, dato che in quel caso il dissenso fu più grande e soprattutto palese. Chi non l’ha votato come me lo aveva dichiarato, perché era foriero di larghe intese. Tanto che subito dopo c’erano già le dichiarazioni di Brunetta, Gelmini e Berlusconi sulle trattative per il governo”, spiega la bersaniana delusa. “Noi ci siamo ribellati a questa logica, in assoluta buona fede”. Spiega come con la candidatura di Prodi il progetto fosse diverso: “Magari si arrivava a nuove elezioni, ma non c’era di certo la prospettiva delle larghe intese. Un esecutivo che oggi sosteniamo con lealtà, ma che è un governo a tempo perché non potrebbe essere altrimenti date le forze così eterogenee che lo compongono”, spiega. Eppure la ferita di quanto è avvenuto è ancora aperta: “Stiamo lavorando con le nuove leve e i meno giovani che la pensano come noi per il prossimo congresso: il partito non può più essere organizzato per bande armate, ma per idee, che oggi mancano. E bisogna parlare di identità e futuro. E’ un congresso fondativo, vero, di rinascita del Pd”, rivela. Anche Sandro Gozi parla della diversità tra i casi Marini e Prodi: “Molti nel Pd cercano di far passare quello che è uno spartiacque, in un semplice incidente di percorso. Non è così: il 19 aprile è finita la prima esperienza del Pd. Ora siamo in una fase di transizione, dopo l’uccisione definitiva del primo tentativo del Pd, con la visione del Lingotto del 2007 mai realizzata, abortita e nata male”. Quando è stato silurato Prodi è stato un passaggio rilevante: questo perché è emersa la mancanza di fiducia all’interno del Pd. “Se non si affronta politicamente quell’aspetto, non si potrà mai ricostruire un vero partito basato su lealtà e trasparenza. Bisogna affrontare quel nodo politicamente”. Per questo continua a chiedere chi siano i 101: “Non perché vogliamo avere vendette, ma perché bisogna capire i motivi del voto contrario e quali obiettivi politici volevano avere”, incalza, invocando l’inizio di una nuova fase per il Pd. C’è chi, come Roberto Reggi, ex responsabile organizzativo del sindaco di Firenze Matteo Renzi, rievoca scenari del passato per spiegare chi potrebbero essere i franchi tiratori di Prodi: “Gli stessi che fecero cadere Prodi nel ’98 hanno fatto il bis, ovvero D’Alema e Marini”. Spiega come i “parlamentari renziani non avessero alcun interesse a far cadere il Professore e come, a questo punto, “poco importasse” – secondo Reggi – capire chi fosse stato: “Bisognerebbe affrontare il motivo della sconfitta. Il siluramento di Prodi è soltanto l’atto finale di un percorso suicida, partito dopo le primarie vinte da Bersani”. Su Prodi “beffato” in quanto argine alle larghe intese non si sbilancia: “Io sono più interessato a capire perché abbiamo perso le elezioni. Per me è perché abbiamo limitato la partecipazione alla politica e siamo stati incapaci di rispondere ai problemi della gente”. Non è l’unico a interrogarsi sulle responsabilità del duo Marini-D’Alema: “Loro responsabili? Io non so se i personaggi sono gli stessi rispetto al ’98, ma quel che è sicuro è che la logica è la stessa. Quella del sotterfugio, della logica di palazzo, che noi dobbiamo cambiare”. Per Gozi, oggi, “se Prodi non fosse caduto in passato, tutto sarebbe stato diverso”. Ricorda anche come nel 2008 ci fosse stato l’aspetto della corruzione: “Il patteggiamento di De Gregorio dovrebbe essere il primo punto di discussione nel Pd. Al contrario, il silenzio con cui è passata la vicenda mi ha lasciato senza parole. Sarebbe fondamentale dibattere sul fatto che con il patteggiamento ha praticamente ammesso di essere stato comprato per far cadere il governo”, attacca Gozi. Non mancarono nella giornata del 19 aprile gli strani atteggiamenti che misero in guardia Prodi e i suoi dalle congiure interne: “Io credevo che sarebbero mancati tra i 50 e 60 voti, ma mai mi sarei aspettato quelle cifre”, spiega Gozi. Anche perché spiega come in realtà i traditori dovrebbero essere qualcuno di più dei 101: “Almeno 110, considerato come ho quasi la certezza assoluta che 7-8 parlamentari di Scelta Civica abbiano votato per Prodi”. E verosimilmente anche “qualcuno del M5S”. Eppure, l’acclamazione del Capranica (che Gozi definisce spontanea), il voto seguente e il verdetto contrario dell’Aula lo lasciano ancora con poche parole: “Verranno mai allo scoperto? Lo auspico perché mostrerebbe almeno coraggio. C’è poca dignità nell’atteggiamento dei 101. Credo che l’obiettivo vero fosse rimuovere Bersani, l’ultimo ostacolo al governo di larghe intese. Impallinare Prodi permetteva poi di far rotolare il Pd verso l’accordo con il Pdl”, concorda. Non è d’accordo con chi accusa i renziani, inserendoli tra i possibili franchi tiratori: “Non credo, faccio molto fatica: Renzi stesso aveva tutto da guadagnare, si era speso per la sua candidatura. L’unico errore che fece fu la dichiarazione intempestiva dopo il voto, quando disse che la candidatura non c’era più”. Ancora prima dello stesso Prodi. Sui possibili tradimenti tra i bersaniani stessi, invece, sottolinea: “Un livello troppo raffinato di correntismo e della politica di palazzo che non riesco a interpretare. Troppo per me”. Al contrario, l’ex bersaniania delusa spiega: “Probabilmente anche tra i vecchi bersaniani qualcuno ha tradito: mi sembra assurdo che da persona intelligente non se ne sia accorto. Forse, dopo il risultato elettorale era talmente frastornato che ha riposto male la fiducia”. Anche dalla truppa di parlamentari e dirigenti vicini a Matteo Renzi arrivano le difese sulla vicenda Prodi: “Molti hanno tentato di mischiare le due cose su Marini e Prodi. Ma in quel caso noi siamo stati trasparenti. Io e tanti altri abbiamo detto che alcune tipologie di identikit personali non le avremmo votate, come Finocchiaro e Marini. Non una questione personale: semplicemente alcune figure che interpretavano una risposta sbagliata a una domanda giusta non l’avremmo votate. Il problema non era Marini, quanto il progetto politico”, sottolinea anche il deputato Mino Taricco, che ha sposato la linea di Matteo Renzi alle ultime primarie. Su Prodi e i possibili traditori spiega: “Noi siamo stati fedeli e io ho votato in maniera convinta, perché il Professore è stato una delle persone che mi ha spinto ad entrare in politica e sarebbe stato un grandissimo presidente”. Contrario alle larghe intese? “Si sarebbe discusso dopo. Non c’è nulla da andare orgogliosi nel suo impallinamento”. Anche secondo lui fu un’operazione politica: “Era più facile trovare un’intesa di governo senza di lui. Allo stesso tempo c’era anche chi aveva vecchi rancori contro di lui. Ognuno di noi ha individuati 7 o 8 possibili franchi tiratori, ma nessuno verrà mai allo scoperto. Tutto si regge sulla base di sensazioni, anche perché loro negano”, spiega. Eppure, sottolinea come “mariniani e dalemiani” abbiano fatto la loro parte, così come accusa i “giovani che si sono fatti instradare verso il nome di Rodotà”. C’è anche chi, come un giovane eletto nel gruppo renziano, aggiunge: “Confermo come noi renziani abbiamo votato con convinzione Prodi. Con Marini siamo stati onesti. Chi ci accusa lo fa per indebolire Renzi e la sua candidatura per la segreteria del Pd. Ma noi non abbiamo mai avuto paura del dissenso e quando siamo stati contrari lo abbiamo detto in modo palese”, si difende. Sui malpancisti e franchi tiratori ritiene si possano individuare tre gruppi: “C’era chi covava rancore per il mancato accordo su Marini, poi c’erano altri gruppi che volevano dare segnali a Bersani”. C’era anche chi non voleva, per motivi politici o personali, le larghe intese: “Alcuni vedevano a rischio la propria poltrona. Al contrario di Prodi, Marini aveva dato la possibilità di creare un governo insieme ai berluscones. In fondo, l’ha scelto lo stesso Berlusconi sulla rosa dei nomi”. Per il giovane renziano, quindi, non ci sarebbe soltanto, un mandante nel suicidio politico del Pd nella partita del Quirinale. Oltre ai renziani di vecchia data, c’è chi, come il presidente della provincia di Pesaro Urbino Matteo Ricci, uno dei dirigenti che stanno scalando posizioni all’interno del Pd, ha deciso da poco tempo di sostenerlo. Sui 101 franchi tiratori spiega: “Parte di quelli sono al governo, altri hanno responsabilità nelle commissioni. E’ incredibile che nessuno abbia voluto manifestarsi. E’ stato un atto di meschinità, non hanno nemmeno il coraggio di dire quanto fatto”. Ma chi sono stati i responsabili? Per Ricci è stato una vendetta personale, un mix tra correntismi o un chiaro disegno? “Io credo che sia il frutto di un partito troppo correntizio, che ha perso la bussola in un momento chiave per l’Italia. Per questo dobbiamo scardinare le correnti attuali, il nostro grave problema, in vista del congresso. Perché deve contare più Fioroni che i dieci migliori sindaci in Italia? Bisogna ripartire dai territori, dove il partito è molto più credibile che a livello nazionale. Deve andare avanti quella nuova generazione che è nata politicamente con il progetto del Pd”, incalza. “E’ difficile dire chi ha silurato Prodi: un mix tra mariniani delusi, forse qualche dalemiano. Quel che è sicuro è che da quella data si è creata una grande frattura tra il popolo del Pd e i suoi rappresentanti: la nostra gente non ha capito ancora”, ha spiegato. Eppure, nonostante le accuse di chi indica mariniani, ex popolari, dalemiani tra i franchi tiratori, queste aree rilanciano, attaccando a loro volta e puntando il dito contro i renziani: “Fedeli i parlamentari di Renzi? Non ci crederei nemmeno se avessi visto tutti loro scrivere Romano Prodi sulla scheda”, attacca un vecchio dirigente del Pd, considerato molto vicino a Massimo D’Alema, ormai non più deputato. “Noi abbiamo sempre discusso, ma nei luoghi adatti: per nostra formazione alla fine rispettiamo le decisioni del partito”, si difende. Anche da una parlamentare considerata vicina ai “Giovani Turchi” piovono accuse contro i renziani: “Sono stati loro i responsabili, insieme a chi covava rancore per la mancata elezione di Marini, a far saltare il nome del Professore”, spiega. A difendere i mariniani ci pensa invece Francesca Puglisi, volto del Pd bolognese: “Quello che è successo in quelle giornate drammatiche è stato qualcosa di scandaloso. Ma tutto è nato prima con Marini, la situazione è stata la stessa. Quella contraddizione interna si era manifestata già lì, in quell’altra proposta che io avevo votato in maniera convinta”, spiega. Punta il dito contro giovani e chi non rispetta le decisioni del partito: “In un grande partito quando si discute si può dibattere, ma in una partito le regole vanno rispettate. La decisione presa deve essere di tutti: anche noi, che abbiamo sostenuto Franceschini quando fu sconfitto da Bersani, dopo siamo stati leali con il segretario. Invece, in quelle due giornate sono venute meno le regole di base per sentirsi una comunità”, incalza. Difende l’area che fa riferimento all’ex sindacalista: “Colpe su Prodi? Non mi risulta che siano stati i mariniani. Ci sono stati molti furbetti che hanno pensato di mascherare il proprio voto con altre scelte, votando la Cancellieri di Sc o Rodotà. C’è stato chi si è astenuto”, spiega. Secondo lei non ci furono vendette su Marini: “Chi non ha votato Prodi non voleva dare la possibilità all’Italia di un governo. Per questo io ho votato Prodi: avrebbe dimostrato di poter portare l’Italia fuori dalla crisi”. Non ha molta voglia di parlare di franchi tiratori: “Come si arriva a 101? Questa ricerca non mi appassiona, è stata una sensazione spiacevole non sapere come la pensava il compagno di banco vicino. Mi dà fastidio sentire in assemblea l’elogio del franco tiratore nella prima votazione e poi trovarli tra i segugi dei 101. Fa parte delle tante ipocrisie. Non mi riferisco all’area renziana, ma agli OccupyPd. Questi comportamenti non fanno bene”, incalza, sottolineando però come, a suo avviso, oggi c’è comunque “un grande presidente della Repubblica come Napolitano”. Anche le giovani leve sono state oggetto di accusa: “E’ stato spiacevole, per noi che siamo nati con la generazione dell’Ulivo, venire accostati ai franchi tiratori. C’è qualcuno tra i vecchi leader del partito che vuole farci pagare la nostra elezione. Ma noi siamo stati eletti con migliaia di voti alle parlamentarie, al contrario di altri”, si difende una giovane eletta del Pd. “La cosa che più ci ha amareggiato? Qualcuno dei 101 ha criticato il gruppo dirigente nuovo, quello eletto con le primarie, perché “figlio dei social network”, troppo influenzato dalle proteste della base in rete. Noi sapevamo perfettamente che le logiche che stavano dietro a quel voto su Prodi. Questo progetto non nasce dalla fatalità. E’ stato portato avanti da un determinato gruppo di persone che adesso hanno ruoli di spicco di governo”, condivide la bersaniana delusa. Tra i giovani eletti c’è anche chi come Giuseppe Civati, simbolo della contrarietà alle larghe intese, nel libro di Alessandro Gilioli “Chi ha suicidato il Pd”, ha realizzato una piccola “guida” per rintracciare i franchi tiratori di Prodi. Tra i diversi “consigli”, si legge: “Non ci vogliono le spie con i baffi finti per riconoscerli. Chi dice: che noia questa questione dei 101, guardiamo avanti!”, è uno dei 101 o un loro amico. O chi alzando le spalle dichiara mortificato: «E’ stato un errore», sa di dire una scemenza, perché se fosse stato un errore vi avremmo riparato la mattina successiva, dopo avere passato la notte a valutarlo e tentato di superalo”. Ma non solo: Chi afferma: «quelli che non hanno votato Marini sono come quelli che non hanno votato Prodi» è fortemente indiziato, perché chi non ha votato Marini lo ha detto, chi non ha votato Prodi no. Nessuno”. E allo stesso modo attacca chi sostiene l’inciucio di governo: “Ma soprattutto chi si è precipitato a chiedere l’intervento di Napolitano, chi non ha voluto nemmeno aprire il dibattito sull’elezione mancata di Prodi (che infatti non è mai stato aperto) e chi ha celebrato le larghe intese con molto slancio, è molto probabilmente un centounesimo”, si legge. In vista del Congresso, ancora senza data, dai racconti dei più giovani emerge un partito ormai totalmente frammentato, dove i “capibastone” cercano ancora di influenzare il futuro del Pd, vittima della battaglia tra correnti. Così è già ripartita la battaglia per la nuova segreteria, con le diverse correnti e i papabili candidati che stanno cominciando a posizionarsi e stringere accordi. L’obiettivo sembra soltanto uno: fermare Matteo Renzi, il sindaco di Firenze in grande ascesa, dopo aver mitigato anche i toni della “rottamazione” delle scorse primarie e attirato molti delusi del partito, dopo gli errori delle ultime elezioni della segreteria Bersani, le larghe intese e l’autodistruttiva partita per il Colle. Dopo la nomina della Commissione Congresso, che rappresenta tutte le diverse correnti interne, è subito partito il dibattito sulle regole, con i vertici che sembrano puntare a restringere il campo della partecipazione, al contrario dei renziani e delle giovani leve, che spingono per primarie aperte. Allo stesso modo si continua a discutere dell’identità tra segretario e futuro premier, con l’ipotesi di modificare lo Statuto del partito, che stabilisce la corrispondenza tra le due funzioni. “Un’ipotesi comunque complicata, data che serve la maggioranza qualificata”, ricorda il renziano Roberto Reggi. Non è mancato chi ha chiesto di rinviare il Congresso, per il timore di causare attriti con Enrico Letta e il suo governo. Al contrario, non pochi, soprattutto tra i renziani, spingono per tempi brevi, chiedendo che si fermi il dibattito estenuante sulle regole. “Non possiamo vivere con la paura di non poter dibattere su nulla, dobbiamo cominciare a parlare di temi. Se ci sarà uno scontro, l’importante è che sia leale e costruttivo per il partito. E basato sulle idee. Basta con le dispute di tipo personale, hanno già fatto troppo male al partito”, attacca una giovane eletta. Le correnti sono per molti il nemico numero uno: “Il rischio è quello della restaurazione, bisogna allargare il campo e attirare nuove persone all’interno del partito”, spiega Matteo Ricci, presidente della provincia di Pesaro Urbino, che sottolinea come ci sia chi, all’interno del partito, vorrebbe far passare la sconfitta elettorale “soltanto come un errore di percorso”. Anche Lino Paganelli, “uomo d’apparato” che sostiene Renzi e storico organizzatore delle Feste democratiche, incalza: “Le regole devono essere aperte. Le primarie sono un elemento fondativo: non serve restringere la partecipazione, a meno che non si voglia mettere in conto di cambiare il soggetto politico”, sostiene. Punta a primarie aperte anche il prodiano Gozi: “Le regole attuali vanno bene, non si può sempre cambiare in base alle convenienze interne”. Secondo Sandro Gozi, il voto dovrebbe essere garantito “a tutti i cittadini che si dichiarino elettori del centrosinistra”, mentre spiega di essere “favorevole alla coincidenza tra premier e segretario”. Il motivo? “L’esperienza del centrosinistra ha dimostrato che il premier di una coalizione che non è anche leader del partito di maggioranza rischia di venire ricattato dal proprio partito”, spiega. Fa l’esempio dello stesso Romano Prodi, “fatto cadere da congiure di palazzo nel ’98 e nel 2008″: “Credo sia una lezione da cui trarre giovamento, anche perché è verosimile che si possa votare o il prossimo anno o nel marzo del 2015. Mi interessa un candidato premier che vinca e poi possa governare il paese”. Non tutti sono ancora scesi in campo: quelli sicuri sono al momento Gianni Cuperlo – proposto da Massimo D’Alema- l’europarlamentare Gianni Pittella e Giuseppe Civati. Ma da Fassina a Renzi, in molti devono ancora sciogliere le riserve: “Spero si candidi Renzi, mentre non capisco perché si parli di uno come Fassina appena nominato viceministro. Sono valutazioni che dovrà fare Fassina stesso. Indipendentemente dalla sua presenza, le sue idee devono vivere e confrontarsi al Congresso”, spiega Gozi. Questo perché spiega come sia necessario un confronto politico su idee diverse: “Fare un congresso finto, dove si va avanti per logiche di potere e di capibastone e si creano dei coaguli attorno al candidato vincente è sbagliato. Dal minuto dopo, tutti condizionerebbero il candidato vincente. I nomi sono secondari. “Passare dal “tutti per Bersani” al “tutto per Renzi” sarebbe deleterio”, aggiunge. L’obiettivo, anche se complicato, è eliminare il peso delle correnti personali: “Nel Pd non sono mai state sinonimo di pluralismo, ma soltanto aggregazioni autoreferenziali di potere per spartirsi posti e prebende. Qualcosa che fa male alle istituzioni, perché porta a nominare persone incapaci soltanto perché le correnti rivendicano quel posto”, attacca Gozi, spiegando come il correntismo abbia ucciso il merito. Per questo motivo bisognerebbe, secondo il parlamentare prodiano, organizzare il Congresso sulle idee e non sui nomi. Eppure, l’eventuale partecipazione di Renzi sarà decisiva: “A prescindere da chi appoggerò, starò dall’altra parte rispetto a chi ha fatto questo disastro. Meglio persone come Renzi o Civati, farò una scelta netta. Meglio rinunciare a una parte dell’identità che stare con chi ha permesso che il Pd prendesse questa deriva”, chiarisce la deputata ex bersaniana. Il sindaco di Firenze più volte ha manifestato il suo malumore, attaccando negli scorsi giorni Massimo D’Alema, che lo aveva invitato ad “aspettare le primarie del centrosinistra, permettendo di far eleggere un buon segretario”. Non era mancata la replica: “Non devo certo chiedere il permesso a D’Alema per potermi candidare”, aveva sottolineato, dopo aver denunciato la “caccia al piccione” realizzata contro di lui dai vertici del Pd romano. “Il Pd dovrebbe pensare più alle idee e meno alle regole”, ha incalzato, mentre Fassina – anche il viceministro è indicato tra i possibili sfidanti del sindaco, ndr – lo bacchettava, etichettando il suo “vittimismo” come “una strategia di marketing”. Se D’Alema sembra insistere con Cuperlo, Bersani aspetta e pensa alla conferma di Epifani per sbarrare la strada all’ascesa di Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze sembra quasi un soggetto estraneo all’interno del Pd, con le altre correnti che sembrano voler fare fronte comune contro di lui, nonostante le smentite. Tutti i vertici e le differenti correnti erano presenti all’assemblea dei bersaniani di “Fare il Pd”, con l’eccezione di Walter Veltroni (che aveva cercato di avvicinarsi a Renzi, senza troppo successo, ndr) e degli stessi renziani. Un chiaro segnale della spaccatura interna che rischia di far implodere nuovamente il Pd, dopo il congresso anticipato nella partita del Quirinale.

Caccia ai 101 traditori Pd che sono 120, conosciuti anche dalle fotocopiatrici. Invettiva del giornalista ravennate di “Servizio Pubblico”, direttamente dai palazzi del potere a Roma, scrive Andrea Casadio su "Ravenna e dintorni" il 09-05-2013. Visto che dai comportamenti si misura l'etica e il grado di credibilità di un partito, no, dico io, torniamoci su questo profondo mistero, questo giallo irrisolto: chi sono i centouno franchi tiratori del Pd che hanno tradito e non hanno votato Prodi? Ooooh, non lo sa nessuno, proprio nessuno. È proprio tanto difficile anche solo immaginarlo. Non sanno niente i grandi dirigenti del Partito. Walter Veltroni: «Chi ha fatto fuori Prodi? Non lo so, io sono fuori dal Parlamento». Dignitosissima intervista, più che una risposta sembra la ricerca di un alibi: «Signor Commissario, non sono stato io a uccidere il signor Pd, io ero al cinema all'ora del delitto». Massimo D’Alema: Non sono stato io, «Non c’è nessuna mia regia dietro quello che è successo, chi dice questo è un calunniatore, lo denuncerò. Dietro la sconfitta di Prodi c’è la regia di chi lo ha candidato in modo francamente assurdo, perché non si può tirar fuori in questo modo il nome di Prodi senza una preparazione, senza un’alleanza». Come dire, io non ho tradito Prodi, è Bersani che è un cretino. Certo, adesso è colpa di Bersani persino la carestia della pera volpina a Cesena. E poi, certo, tradire... onorevole D'Alema, lei una cosa del genere non l'avrebbe mai fatta, figurarsi poi con Prodi! Ah, dice la compagna Adelisa Roncuzzi di Piangipane che è stato D'Alema a fare cadere il governo Prodi nel '98 e che poi è diventato lui, D'Alema, primo ministro? Compagna Roncuzzi, lei è vecchia, vaneggia, torni a fare i cappelletti al festival e stia zitta. Infine il GdPadpr, Grande Documento Programmatico Approvato della Direzione del PD di Ravenna. Esprimiamo «profondo biasimo per i centouno grandi elettori, le cui motivazioni ed identità sono tuttora sconosciute, che, nel segreto dell’urna, non hanno sostenuto la candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, dopo averla acclamata all’unanimità». Motivazioni e identità sconosciute? Buahahahahahahahahahah! No, dico io, comicità surreale allo stato puro! Basta guardare chi ci ha guadagnato! Questi sono giorni dolorosi per un giornalista di sinistra come me, a cui tocchi incontrare ogni giorno a Montecitorio i parlamentari Pd. Se ci parli in maniera confidenziale, non ce n'è uno solo di loro che non sappia chi sono i misteriosi traditori. Sanno tutto, eccome. E te lo dicono. Come l'altissimo dirigente Pd che due giorni fa mi ha confessato: «Intanto i traditori non sono centouno. Molti di Scelta civica hanno votato Prodi, quindi i traditori nostri sono di più, quasi centoventi. Chi sono? Li conosciamo uno per uno. Ovvio, i dalemiani che trescavano col Pdl, molti popolari ex margherita, i renziani, qualche veltroniano. Lo sanno anche le fotocopiatrici in sede chi ha tradito». Quindi, si sa ma non si dice, compagni. Avete presente quel fetore nauseabondo che fanno i cumuli di pesci decomposti e di conchiglie morte che s'allineano lungo la battigia di Marina dopo una nera mareggiata invernale? Ogni buon ravennate lo conosce, ce l'ha nelle narici. Ecco, io lo sento ogni giorno in Parlamento, si sprigiona dai banchi del Pd.

Tradimenti e addii: pronti a tutto per restare a galla. I funamboli dell'opportunismo, i folgorati da Renzi, gli equilibristi della poltrona: alla Camera e in Senato record di cambi di casacca. In nome dell'antico detto: "Che s'ha da fa' pe' campà...", scrive Roberto Scafuri, Lunedì 11/05/2015, su "Il Giornale". Non è quella tragica di Bruto e Cassio, la dimensione politica di un Parlamento nel quale s'entra e s'esce dai gruppi come al grand hotel, tanto sono tutti uguali e tutti ugualmente confortevoli. Piuttosto qualcosa di più rassicurante, che il grande Leo Longanesi riassumeva nell'immagine del Tricolore con stemma d'italica gente: Tengo famiglia. Cifra che, volendo considerare evoluzione dei costumi, crescenti difficoltà a sbarcare il lunario, incidenza dei single sul tessuto sociale, potrebbe oggi aggiornarsi in un mercantilistico che s'ha da fa' pe' campà. Sospiro, più che grido o lamento. Perciò non vale la pena d'indugiare sull'epica figura dell'Angelino adottato ad Arcore, e finito a tessere quotidiane lodi dell'ex nemico di classe Renzi come una Lorenzin qualsiasi. È codesta la stirpe dei Folgorati, cui appartengono molti Ncd, l'ex prodiano Sandro Gozi, la ministro Stefania Giannini, i Settenani Rutelliani all'unisono e persino chi sta dall'altra parte e sa che solo alzando la voce, sparando al bersaglio in maniera esagerata, si può sperare di essere notati e (forse) sopravvivere. Così almeno ci prova da anni Daniele Capezzone, entrato in Forza Italia con belle speranze, ma oggi relegato in una caricatura d'oppositore interno. Come l'ex tesoriere Maurizio Bianconi, dal linguaggio sempre incontinente. Nulla a che vedere con Equilibristi del calibro della minoranza interna al Pd, quelli che strepitano senza mai uscire, o con Funamboli del pensiero come Cesare Damiano, teorico uomo di sinistra, ma impegnato a rendere omaggio al Jobs Act. Gente del livello di un Vincenzo De Luca o un Ciriaco De Mita che, dopo essersi disprezzati e avversati per una vita, ora si sorreggono l'un l'altro come la coppia Matthau-Lemmon per potere, rispettivamente, vincere e galleggiare. Strada facendo così s'arriva alla categoria dei Vae Victis: gli sconfitti da Renzi che, in piena sindrome di Stoccolma, più vengono tartassati più lo amano. Soprattutto perché non ne possono fare a meno, costituendo ormai per loro una specie di Viagra: cade Lui, cadono loro. Girone infernale cui appartiene anche il primo dei vinti, Lapo Pistelli, che lo ebbe come portaborse insegnandogli i rudimenti del mestiere. Dopo essersi combattuti e detestati, magnanimità renziana ne ha fatto un sottosegretario agli Esteri (forse a vita). Caduto in attesa di resurrezione è Matteo Richetti, protorenziano implicato in un'inchiesta emiliana che ha molto fatto arrabbiare il premier. Renzi l'ha costretto a ritirarsi dalle primarie, Richetti ha fondato una corrente di ultrà renziani. Anche fuori dal perimetro di governo la categoria fa proseliti: da ultimo Manuela Repetti che, uscita da Forza Italia assieme al marito Sandro Bondi, non perde occasione per incensare il premier, ritenendolo addirittura «bersaglio di una cultura catto-comunista» (ma non era il buon Sandro, un vecchio cat-com?). Altro gruppo di dediti alla pagnotta quotidiana sono i fuoriusciti grillini, gli Spaesati: convinti da Renzi a pentirsi ma non forniti ancora di adeguato «programma di protezione». Hanno il compito ingrato di essere carne da cannone, pacchetto di mischia, nell'illusione di potere un giorno riassaporare le delizie della politica senza scontrini. Numero uno di costoro è Massimo Artini, amico giovanile di Renzi, l'unico che può davvero sperare nell'osso del cane pastore. Sempre che gli altri del gruppo Alternativa libera non sgamino prima la fregatura. Ma per definire compiutamente quanto si è disposti a cedere in dignità, pur di sopravvivere, occorre pure un'unità di misura. La migliore sul mercato, oggi, è appunto «il» Migliore: Gennaro detto Genny. Prototipo di classe A, specialista arrangiatore di vita politica fin da quando Fausto Bertinotti lo allevò come un figlio, nutrendone le ambizioni fino al punto di fargli abbandonare l'università. Si capiva che il ragazzo aveva stoffa, anche se lui in Rifondazione veniva notato soprattutto per le curatissime stoffe. Durante un viaggio aereo assai engag é, udito in prima persona, Genny riuscì a colloquiare per due ore con analogo rampollo salottiero di scarpe fighe, orologi cult e ogni oggetto di marca all'ultimo grido. Un renziano ante litteram, se vogliamo. Aspetto che ha una sua importanza nel record d'impopolarità riscosso dal Migliore sui social. Un filmato lo ricorda capogruppo di Sel alla Camera, mentre cita Shakespeare e parafrasandolo conclude: «Quello che voi chiamate Italicum, anche con un altro nome ha sempre il non dolce ma pesante olezzo di quello che chiamammo Porcellum!». E inveisce toccandosi narici gonfie d'enfasi: «Perché le leggi si giudicano dall'odoreee!». Purtroppo però il filmato continua, ed ecco il Migliore ultimo grido, fatto nominare da Renzi relatore del medesimo puzzolente Italicum, che quasi sussurra in tv: «Siamo di fronte a un'occasione storica, quella di approvare una buona legge elettorale». Questione di odore, dunque. Ma anche di decenza e di una categoria, assai ampia negli ultimi tempi, che si definisce dei Penitenziagite. Eretici che reclamano l'agire in penitenza per il proprio riscatto, come fra' Dolcino. Metodo - con qualche precedente nell'Urss di Beria - scelto da Renzi per consentire ai nemici d'un tempo di dimostrarsi degni di Lui. Il penitente s'umilia proprio nella ferita che più gli duole, così da azzerarsi in toto e nel contempo dimostrarsi capace d'ogni cosa. Il campione di categoria è il presidente del Pd, Matteo Orfini, già giovane turco di D'Alema. Dunque ha svolto ottimo tirocinio. Così, quando il vecchio mentore ha alzato la cresta contro il nuovo padrone, il Matteo minore ha latrato pensando di dimostrarsi un buon allievo: «Dispiace che dirigenti importanti per la storia della sinistra usino toni degni di una rissa da bar». Mirabile esempio di Nèmesi orfinica, visto che il giovanotto dichiarava: «Renzi premier? Che follia». Dall'area dalemiana, forse per lo stordimento di quel potente profumo di Arrogance, emergono parecchi dolciniani pronti a tutto. Andrea Romano, per esempio, che nel periodo dalemiano veniva intervistato come storico con neo sulla guancia destra; passato con Rutelli compariva sui giornali come politologo; tradotto sull'Italia futura da Montezemolo dichiarava in qualità di grillo saccente; eletto sul carrozzone di Monti parlava da capogruppo. Dopo un paio di mesi di anticamera nel Misto, Romano è finalmente nelle braccia di Renzi, che ancora non ha deciso come svezzarlo a dovere. Il piccolo storico, temendo l'irrilevanza, non manca di frignare ogni giorno da primo della classe renziana. Dice che l'Italicum è ottimo, il Jobs Act u n miracolo e cose così. Della categoria non può non far parte Alessandra Moretti, pescata da Bersani in Veneto per smacchiare un partito decrepito e perdente, specie in tv. Così la bella Alessandra è saltata da un talk all'altro, per decantare le meraviglie del suo Giaguaro: «Bersani è come Cary Grant. Chi è più bello tra lui e Renzi? Pier Luigi tutta la vita». Ma una vita è breve assai. Per cui, quando il Capo è caduto, Ale ha immaginato di averne un'altra a disposizione. Addio al salamone felino, addio al marito, conclamata love story con Giletti, e passi a ginocchioni verso il Brut(t)o fiorentino. Che l'ha costretta a dimettersi dal Parlamento con un escamotage perfido: l'ha convinta che in Veneto poteva farcela, che il Pd stravincerà. La Moretti, vistasi in un cul de sac, ha fatto il seguente ragionamento, raccolto nel privé: se vinco, sono governatrice; se perdo, Matteo mi ricandida. Ora prega e lavora, in attesa del riscatto. Stesso stratagemma Renzi ha usato con Pina Picierno, una che gli sta cordialmente antipatica fin dai tempi in cui, a furia di sparar cazzate sui divanetti di Montecitorio, era diventata amica delle giornaliste che dettano strategie agli sprovveduti sui divanetti del Transatlantico. Lei pensava d'esser diventata un pezzo grosso, a furia d'uscite su giornali importanti. Le sue cazzate arrivavano per intervista o tweet del tipo: «Qualcuno dica a Renzi che l'Onu ha appena stabilito che deve studiare». Oppure: «Mi avvicino alla fase finale in punta di piedi dice Renzi. E che piedi c'hai scusa, Matte'?». Roba tra il goliardico e il fastidioso, fino al fatidico: «Ma Renzi per chi ci ha preso, per Renziani?!». Neppure un anno più tardi, ecco la fastidiosa Picierno sui i gradini del Nazareno ginocchioni sui fagioli. Dichiara a più non posso, cerca sponde in ogni dove, alla fine Renzi l'ammette a corte. A un patto: ho bisogno di te alle Europee. Lasci il posto alla Camera e vai a Strasburgo a studiare. Ora è lì che fa impazzire i traduttori simultanei con la sua parlata da casertana di provincia, per di più specializzata nel linguaggio dell'uomo che considera il proprio mito. De Mita.

Centrosinistra e sindrome dello scorpione, scrive il 16/06/2016 Marcello Sorgi su "La Stampa". La Stampa Benché abbia smentito di essere pronto a votare a Roma per la Raggi, aiutando la candidata sindaca del Movimento 5 stelle favorita alla vigilia, non ci sono dubbi su cosa abbia in testa Massimo D’Alema, l’avversario più dichiarato di Renzi nel Pd. D’Alema è sicuro che domenica il premier andrà incontro a una brutta sconfitta nei ballottaggi e già adesso cerchi di scaricare su altri il conto che tocca a lui pagare. Non serve neppure scervellarsi per capire ciò che sta accadendo nel partito del presidente del Consiglio. Se le previsioni della vigilia saranno confermate dai risultati di domenica 19, stiamo per assistere a uno dei più classici suicidi del centrosinistra messi a punto negli ultimi vent’anni, non diverso, forse solo più grave, per coazione a ripetere e compulsività, degne di attenta analisi psicologica. A seguire il percorso storico: nel ’94, dopo la prima sconfitta contro Berlusconi, Occhetto fu fatto fuori dallo stesso D’Alema, che mal tollerò, poi, la nascita dell’Ulivo e la vittoria di Prodi nelle elezioni del ’96, e provvide a liberarsene, per interposto Bertinotti, nell’autunno di due anni dopo. Sostituendosi a lui alla guida del governo, salvo essere deposto nel 2000 da Veltroni, intanto divenuto segretario del Pds, dopo il magro risultato della tornata di regionali su cui il «leader Maximo» si era pure permesso di scommettere. Prodi aveva fatto in tempo a ricandidarsi, nel 2006, e a vincere di nuovo, sebbene stentatamente, le elezioni contro Berlusconi, che il centrosinistra dopo neanche due anni provvedeva ad azzopparlo. Per mano di Mastella, ministro di Grazia e giustizia inquisito dalla stessa magistratura che doveva governare, e abbandonato alla deriva, ma sotto sotto anche di Veltroni, tornato in auge nel 2007 per costruire, sulle ceneri del centro e della sinistra - Margherita e Ds - il Pd. Acclamato nel 2008 come primo candidato premier del nuovo partito unico del centrosinistra, a Veltroni furono fatali la sconfitta contro Berlusconi e un paio di débâcles in successivi mini-test regionali. Dopo i quali, D’Alema già preparava dietro le quinte l’avvento della segreteria Bersani, a sua volta sepolto dalla «non vittoria» come lui stesso la definì, del 2013, e dalla fallimentare gestione della corsa al Quirinale finita con la rielezione di Napolitano. Anche Renzi, che allora era soltanto il sindaco di Firenze, fu accusato in quell’occasione di aver armato una pattuglia di pugnalatori per infoltire la schiera dei franchi tiratori che bloccarono l’elezione di Prodi alla Presidenza della Repubblica. Ma questa dei complotti e dei tradimenti orditi e rinfacciati è una costante della vicenda del centrosinistra. E se nelle faide degli ultimi anni le impronte dei killer portano sempre a sinistra, la tecnica è spiccatamente democristiana, tal che si può dire che i Democrat degli Anni Duemila sono diventati gli eredi migliori dell’antica tradizione scudocrociata che fino agli ultimi anni del Novecento vedeva riuniti, a Piazza del Gesù o alla Camilluccia, i capicorrente Dc per trovare il modo di eliminare uno dopo l’altro, con minor spargimento di sangue possibile, il segretario e il presidente del Consiglio pro-tempore, e riaprire la partita interna dando le carte di una nuova spartizione del potere. Si dirà che anche il centrodestra a un certo punto si è ammalato di faide interne, consunzione e frammentazione, fino a ridursi a pezzi com’è ridotto e a guardare come un miracolo la riunificazione di Milano sotto l’ombrello del tecnico Parisi. Ma alla crisi dell’ex schieramento berlusconiano non fu estranea quella personale del proprio leader, travolto da scandali personali, condanne giudiziarie, dalla decadenza da senatore imposta dalla legge Severino e alla fine anche dalla frettolosa rinuncia al patto del Nazareno e alla politica delle larghe intese con Renzi, che gli aveva consentito di restare a galla, malgrado le avversità e l’evidente conclusione del suo ciclo politico. Ciò che invece si va delineando nel centrosinistra contiene elementi di novità legati all’evoluzione del quadro politico. A parte la rimarchevole costanza di D’Alema nel ritrovarsi, in situazioni diverse e con qualche annetto in più sulle spalle, nei pressi del patibolo destinato al segretario-premier, a rendere più facili le manovre contro un leader come Renzi, che ha ancora il controllo del partito e del governo, ha contribuito la crisi del bipolarismo e l’avvento del terzo polo rappresentato da M5s. Finché il gioco era centrodestra contro centrosinistra, infatti, e finché l’unico collante di quest’ultimo era rappresentato dall’antiberlusconismo, i complotti nascevano e morivano all’interno dello stesso schieramento, senza o quasi sponde esterne. Mentre adesso, all’ombra dei ballottaggi e degli schieramenti trasversali di avversari interni e esterni, è diventato più semplice colpire Renzi e nascondere subito dopo la mano, scaricando le colpe sull’astensione o sulla destra che vota per i 5 stelle, e spera che gli restituiscano il favore a Milano. Al di là della tecnica facilitata dall’arrivo del tripolarismo, gli effetti, però, come in passato, saranno gli stessi: grazie alla resa nei conti nel partito e alla defezione (o al tradimento verso i 5 stelle) degli elettori di sinistra, il Pd sarà sconfitto a Roma, a Torino e a Milano - più Napoli, dove ha già perso, e magari Trieste, dove rischia molto. Di conseguenza, dovrà lasciare le amministrazioni di grandi città che da tempo controllava, preparandosi a perdere il referendum costituzionale di ottobre, dato che le due anime del partito si presenteranno schierate sugli opposti fronti del Sì e del No, e a tornare presto all’opposizione, dopo la caduta, difficilmente evitabile a quel punto, del governo. 

Il PD a un passo dal baratro. Ed è solo una guerra per il potere. L'ha detto Gianni Cuperlo: il rischio di rottura è alto. Nel PD è in corso una guerra fratricida solo apparentemente ideologica: in realtà, l'unica idea per cui si combatte è quella di comandare, scrive Maurizio Pagliassotti il 07/10/2016 su "Diario del web". Le divisioni, i dissapori, le antipatie personali, e differenze ideologiche. Il Partito Democratico ha solo più qualche mese di vita? L’esperimento voluto da Walter Veltroni, che doveva unire per sempre la sinistra post-comunista e i cattolici ex democristiani si avvita dentro un vortice che potrebbe portare alla scissione nei mesi successivi all’esito referendario. Solo due giorni fa, Gianni Cuperlo, commentando le parole di Renzi che criticavano pesantemente l’ex primo ministro Massimo D’alema, utilizzava termini definitivi: «Il Segretario ha sbagliato, rischio di rottura è alto». Parole che giungono da un uomo pacato, poco avvezzo alle polemiche e molto al compromesso. Ma ormai è evidente che le due anime del Partito Democratico non si battono più su temi reali, sulle cose di cui si compone la realtà, ma su piani inclinati composti prettamente da dinamiche umane: antipatie, sospetti, e soprattutto «tradimento». «Lui (Cristo), fra dodici scoperse i tradimento in uno solo. Io, in dodicimila, l’ho scoperto in tutti.» Questo dice Riccardo III di Shakeaspeare nella prima scena. Quando subentra la logica del «tradimento» è evidente che ci si trovi nella fase conclusiva di un rapporto. Renzi considera un traditore D’Alema, e la varia minoranza, perché non vogliono mollare il potere all’interno del partito. Cuperlo, D’Alema, Speranza, in parte Bersani considerano il Segretario del loro partito un traditore perché «berlusconiano», amico di Verdini, antidemocratico, arrogante e presuntuoso. E’ molto difficile dire dove l’analisi delle cose termini e inizi il livore umano: probabilmente in questo momento i canali comunicativi interni non solo sono interrotti, sono definitivamente compromessi per motivi caratteriali. Perché sul piano ideologico, nonostante le recenti svolte contestatrici della minoranza, è molto complicato rintracciare palesi differenze di pensiero. Molte delle riforme portate avanti da Renzi - si pensi al Job act - sono nel solco del programma neoliberista che il centro sinistra di Prodi ha sempre avuto e attuato: si pensi al durissimo «Pacchetto Treu» del primo governo Prodi. Certo, quelle di Renzi sono misure estreme, ma che affondano le radici in un solido passato. Lo stesso D’Alema, come noto, tentò di affossare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Lo scrittore maremmano Luciano Bianciardi, anarchico e genio, nel lontano 1971, scriveva che «il Pci era l’unica organizzazione comunista del mondo che non predica la rivoluzione ma le riforme». Ovviamente, le riforme di Renzi non fanno che affossare ulteriormente il Paese, e rispondono ai desiderata del mondo finanziario che di fatto ci governa dal 2011: ma che coloro che hanno sempre avuto un orizzonte culturale assimilabile a quello che definiscono in camera caritatis «il ducetto», oppure «Marchionne», non possono ergersi a rivoluzionari. Semplicemente, vogliono eliminarlo politicamente, e per fare questo sono anche disposti, dopo il referendum, a dare vita a un nuovo partito di sinistra che metta insieme tutti i vari pezzetti di quel mondo diviso e litigioso. «Siamo a un passo dalla rottura totale adesso, pensa dopo il referendum» confidava qualche sera fa un parlamentare torinese alla festa dell’Unità di Torino. «In tanti anni di politica non ho mai visto una balcanizzazione simile – continuava – e in tutto questo la politica c’entra molto poco. Esiste solo un’idea, quella di comandare. Come quelli che urlano in spiaggia». Nel caso, probabile, in cui il No prevalga al referendum, risultato che comporterà un bombardamento finanziario sull’Italia, nel Partito Democratico – questo è lo scenario che si paventa in questi giorni – si procederà ad espulsioni pesanti? In primis Massimo D’Alema, ormai nemico pubblico numero uno di Matteo Renzi? Saranno giorni molto impegnativi, l’Italia sarà senza alcun dubbio sotto attacco finanziario: e sulla testa dell’ex Primo Ministro cadrà la responsabilità politica di questa situazione. I giornali, e le televisioni, vicine a Matteo Renzi spareranno a palle incatenate. E così farà anche Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica? Nel caso in cui vincesse il Sì, è probabile che la corrente di minoranza sconfitta chieda un congresso anticipato del Partito democratico, dove tenteranno di disarcionarlo. Con ogni probabilità, D’Alema e compagni uscirebbero sconfitti: i militanti non esistono più e le primarie sono strumenti ottime per far votare gruppi organizzati. La tradizione di sinistra, mai smentita, prevede che a fronte di una sconfitta la parte minoritaria non accetti il risultato e porti avanti una scissione.

La sindrome da “Conte Ugolino” della minoranza Pd, scrive Enrico Capizzi su "Unità tv" l'11 novembre 2016. Mi rivolgo a Pier Luigi Bersani, una persona che stimo: ci ripensi, la vittoria del No aprirebbe le porte ad una destra populista, mentre il Sì ci consegnerebbe una Costituzione moderna. Francamente non so, non capisco dove vogliano andare a parare Bersani e la sua corrente. O forse sì, Lo so, lo capisco, ma la risposta mi sembra talmente assurda, devastante, che preferirei non saperla, non capirla. Nei partiti eredi del PCI, e nella sinistra in genere, sembra esistere quella che io definisco come una permanente sindrome da “Conte Ugolino”: la insana, irresistibile, pulsione a divorare i propri Segretari e /o i Presidenti del Consiglio espressione del proprio partito o della coalizione. Anche Bersani ne è stato vittima e forse è anche per questo che anche lui si sta “guastando”, si sta lasciando corrodere dall’acido. Perché è di Bersani che vorrei parlare. Non voglio essere offensivo nei confronti di nessuno, ma mi interessano poco le posizioni ed esternazioni dei vari Speranza, Gotor etc…, che secondo me sono dei ronzini, anche se alcuni di loro hanno ambizioni di leadership senza averne la statura. Bersani no. Bersani è un cavallo di razza, personalmente l’ho sostenuto alle primarie del 2012, lo ritengo una persona perbene, un politico capace e pragmatico, che ha sempre detto di considerare “la ditta” sopra ogni altra cosa. Ed è per questo che le sue esternazioni, i suoi continui attacchi al proprio Segretario/Premier, non solo mi meravigliano, ma mi addolorano, mi disorientano e mi deludono profondamente. Penso che questi (dolore, disorientamento, delusione) siano i sentimenti prevalenti nel popolo del PD. Bersani, dopo aver votato la riforma, ha, fino a pochi mesi fa più volte annunciato il proprio voto favorevole al referendum; poi, poco a poco, si è spostato su posizioni sempre più  critiche, legando la riforma costituzionale all’Italicum ed infine partecipando ad iniziative a favore del No. Renzi e la maggioranza, pur convinti della bontà dell’Italicum, hanno aperto a modifiche e nell’ultima riunione della Direzione si è deciso di dar vita ad un’apposita  Commissione, che ha raggiunto, con l’attiva partecipazione di Cuperlo, un’intesa unanime sulle modifiche della legge elettorale. Orbene, Bersani ed i suoi non si fidano, ma questa sfiducia è offensiva, nei confronti, non solo del Segretario, ma anche della Direzione, del Presidente, del Vicesegretario, dei due Capigruppo e del compagno Cuperlo. A proposito dello “stai sereno” che rimanda alla dolorosissima vicenda della sfiducia al Governo Letta (un galantuomo, onesto, preparato e capace) vorrei ricordare a Pierluigi che nel febbraio 2014 fu tutto il partito, comprese le minoranze (ad eccezione di Civati che vive in un mondo tutto suo ed era contrario sia a Letta che a Renzi) a chiedere al Segretario ad impegnarsi nella guida del Governo, dal momento che il Governo Letta era incagliato e non avanzava sulla strada delle riforme. E vorrei fare presente a Bersani che l’accordo della Commissione non è un foglio di carta, ma un documento che impegna i Gruppi parlamentari a presentare un Ddl di modifica dell’Italicum. E allora? Bersani, come scrive Rondolino, considera Renzi un imbroglione? Vorrei qui ricordare gli avvenimenti che portarono Bersani alle dimissioni dalla Segreteria. Ci fu, da parte di Bersani, un grave errore di metodo nella scelta del candidato al Quirinale. Lui, senza consultare il Partito, decise la terna e fece scegliere il candidato a Berlusconi. Vorrei, per inciso, ricordare che invece Renzi, quello che Bersani considera “l’uomo solo al comando”, per l’elezione di Mattarella ha coinvolto tutto il Partito e poi ha comunicato a Berlusconi che il nome era quello. L’elezione del Presidente Mattarella è costata a Renzi la rottura del patto del Nazareno, che avrebbe reso più agevole il cammino della riforma costituzionale, ma Renzi ha considerato prioritaria l’unità del suo Partito. Poi, tornando a Bersani, io non credo proprio che il tradimento su Prodi sia venuto da Renzi, che ha certamente tanti difetti, alcuni li ha enunciati lui stesso nel colloquio con Minoli, ma è franco, diretto e se avesse avuto remore sulla candidatura di Prodi le avrebbe certamente espresse, come aveva fatto per gli altri candidati. E allora? Se togliamo di torno l’ipotesi devastante di cui dicevo all’inizio (avere un’anatra zoppa alla Segreteria ed a Palazzo Chigi) mi chiedo anch’io cosa c’entri Bersani col fronte del No, con la rancorosa “armata Brancaleone” messa su da D’Alema. Lui dice che sta con l’ANPI e con la CGIL. Mi chiedo se stia anche con l’ANPI di Latina, che manifesta vicino a Forza nuova e il cui Presidente dice che Renzi è peggio del duce (e mi chiedo se Smuraglia prenderà provvedimenti nei confronti di questo imbecille che disonora l’ANPI e la memoria dei Partigiani). Bersani dice che preferisce Grillo a Verdini. Io avrei detto né Grillo né Verdini, se per quest’ultimo intendiamo il politico moralmente discutibile. Ma se intendiamo una destra moderata, Bersani è proprio sicuro di preferire Grillo, anche dopo che quest’ultimo esulta per la vittoria di Trump? Io, francamente non capisco quali elementi di sinistra vedano nei 5 stelle Bersani e tutti gli ex comunisti, col portafoglio gonfio, che sono passati armi e bagagli ai 5 stelle (parlo del fu Fo, della Mannoia, della Ferilli e di tanti altri rivoluzionari da salotto). La mucca che io vedo nel corridoio è il populismo, non la destra moderata alla Sarkozy, Merkel, Parisi. Il sol dell’avvenire è tramontato per sempre, nessuno ha più voglia di sinistra. Del resto, basta guardare ai risultati della sinistra in Italia, dalla Lista Tsipras a Rivoluzione civile, alle ultime amministrative. E allora io penso che la malaugurata vittoria del No aprirebbe le porte al populismo, più che la vittoria del Sì alla destra. Anzi, la vittoria del Sì sarebbe un argine grandioso nei confronti del populismo. Ci rifletta bene Bersani, prima di commettere un errore che potrebbe avere esiti disastrosi. E ripassi, per favore, tutti i provvedimenti di sinistra che sono stati adottati da quando Renzi è Presidente del Consiglio, anziché punzecchiarlo un giorno si e l’altro pure. Il Pd, secondo me, deve perseguire la vocazione maggioritaria che è nel suo atto di nascita ed allearsi con la sinistra solo se questa ritrova il senso della realtà, prendendo atto che solo una sinistra moderata può essere vincente e contrastare il vento del populismo che soffia impetuoso ovunque. Con la vittoria del No, c’è Salvini, c’è Grillo (e tra i due io non è che veda troppe differenze, sui migranti, sull’Europa, sull’euro, sull’America e su tanto altro). Con la vittoria del Sì avremo una costituzione più moderna, una nuova legge elettorale ed un futuro forse più roseo. E allora, non spacchiamo il Partito e perseguiamo uniti la vittoria dei Progressisti.

Il futuro di Renzi nelle mani dei traditori. Il voto a febbraio si allontana e il futuro della legislatura (e di Matteo Renzi) ricade su chi controlla realmente i gruppi parlamentari del Pd, ossia il ministro della Cultura Dario Franceschini, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 7/12/2016, su "Il Giornale". Chi di tradimento ferisce, di tradimento perisce. Matteo Renzi, a quasi tre anni di distanza da quel famoso #Enricostaisereno, rischia di non riuscire a realizzare il percorso politico che ha in mente per restare a galla. Il premier dimissionario oscilla tra la volontà di prendersi una pausa e il desiderio di capitalizzare il “tesoretto” del 40% dei “sì” andando subito al voto. Il ragionamento del “giglio magico” è stato molto ben sintetizzato dal tweet del fedelissimo Luca Lotti. “Tutto è iniziato col 40% nel 2012. Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!”, ha twittato ieri il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Tornare alle urne, però, non è così semplice come può sembrare. Certo, i Cinquestelle e il centrodestra reclamano il voto ma le acque agitate dentro la maggioranza indicano prudenza. Oggi l’Udc di Lorenzo Cesa è uscita dal gruppo parlamentare alfaniano di Area Popolare perché contraria al ritorno immediato al voto. Ma è dentro il Pd che si annidano le difficoltà principali con la minoranza dem, composta da circa 60/70 parlamentari, si è già detta contraria alle elezioni anticipate. "Non si può vincere sulle macerie del Paese. E allo stesso modo non si può neanche perdere sulle macerie del Paese. Perché è lì che stiamo andando...", ha detto Pierluigi Bersani conversando in transatlantico con i giornalisti. Grazie al Pd scopriamo così che in politica non serve una maggioranza solo per andare al governo ma anche per andare alle elezioni. Renzi, infatti, dopo aver perso il referendum 60 a 40, deve convincere i parlamentari del Pd che a febbraio può portare il suo partito alla vittoria alle Politiche. Impresa alquanto ardua dato che il premier non controlla i suoi gruppi parlamentari e che, secondo fonti del giornale.it, quasi nessun deputato sarebbe pronto a seguirlo su questa strada. “Chi ci garantisce che verremo rieletti?”, ci dice un deputato della minoranza che aggiunge: “tra un anno non sarà più lui a decidere le liste”. I parlamentari del Pd sono 301 alla Camera e 113 al Senato e, ovviamente, è impensabile che Renzi riesca a convincerli tutti a lasciare la poltrona. Di questi 400 e passa parlamentari solo 50-70 sono fedelissimi renziani della prima ora, mentre la corrente più numerosa è quella del ministro della Cultura, Dario Franceschini, che controlla tra gli 80 e i 100 democrat. I capigruppo di Camera e Senato, Ettore Rosato e Luigi Zanda, provengono proprio dalla corrente franceschiniana di Area dem e se il Pd ha sostanzialmente retto in questi 1000 giorni di governo Renzi è anche grazie al loro operato. Renzi, l’accoltellatore di Enrico Letta, deve, infatti, la tenuta del suo partito al tradimento di due traditori di professione: Dario Franceschini e Matteo Orfini, la cui corrente, quella dei Giovani Turchi, conta circa 40 deputati. Il primo che nel lontano 2009 si presentò come il candidato veltroniano alle primarie del Pd contro Bersani e, poco dopo essere stato sconfitto si allineò quasi subito alle posizioni del suo sfidante ottenendo in cambio la nomina di capogruppo alla Camera. Franceschini restò fedele a Bersani fino alle primarie del 2013 quando decise di appoggiare proprio Renzi, mentre Orfini tradì l’ex segretario qualche mese dopo quelle votazioni interne al Pd. Tradimento che si consuma nel giugno del 2014 quando Orfini diventa presidente del Pd dopo le dimissioni di Gianni Cuperlo. Mille giorni di governo cambiano tante cose ma “chi tradisce una volta, tradirà sempre”, dice un vecchio adagio che dovrebbe mettere in allerta il segretario-premier in vista della direzione di domani. Renzi ha la necessità di tenere uniti i gruppi parlamentari dem in attesa del 24 gennaio prossimo, quando la Consulta si esprimerà sulla legge elettorale. Una data che porta ad escludere l’ipotesi di elezioni a febbraio e che costringe, Renzi, in qualità di segretario del Pd, a lottare per imporre un suo successore che abbia scarse ambizioni politiche come il tecnico Giancarlo Padoan l’ortodosso renziano Paolo Gentiloni o il presidente del Senato Pietro Grasso. Tale operazione, però, si potrebbe scontrare con le ambizioni di Franceschini che oggi ha dichiarato che “serve un governo, per gestire in modo ordinato la nuova legge elettorale. Non possiamo andare in questo modo a elezioni anticipate”. Un avvertimento dato da chi, già da tempo, è pronto a scendere dal carro del vincitore per prenderne il posto. 

Pd, Prodi dietro Sinistra Italiana? Altri parlamentari in fuga. Un'indiscrezione destinata a fare molto rumore. Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, ambienti prodiani e bindiani sarebbero molto vicini all'operazione Sinistra Italiana, la nuova formazione politica nata sabato scorso a Roma, scrive Martedì, 10 novembre 2015, Alberto Maggi su "Affari Italiani". Un'indiscrezione destinata a fare molto rumore. Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, ambienti prodiani e bindiani - quindi vicini all'ex premier e padre dell'Ulivo e all'ex presidente del Partito Democratico - sarebbero molto vicini all'operazione Sinistra Italiana, la nuova formazione politica nata sabato scorso a Roma e che unisce molti ex Pd, Sel, la Lista Tsipras e diverse anime della sinistra radicale e ambientalista. Non si tratta di un impegno diretto di Romano Prodi - che dopo la mancata elezione al Quirinale ha chiuso con l'attività politica in prima persona - ma piuttosto di personalità soprattutto bolognesi che negli anni 90 sono state molto vicine al Professore che starebbero guardando con molto interesse al nascente soggetto politico a sinistra del Pd. E' ovvio - spiegano fonti qualificate - che anche se non ci dovesse essere un endorsement diretto e ufficiale di Prodi, comunque si può parlare di una benedizione politica all'operazione Sinistra Italiana. Non si può dimenticare, d'altronde, che l'ex presidente del Consiglio ha il dente avvelenato con Matteo Renzi almeno per due motivi: i 101 'franchi traditori' che gli hanno impedito di diventare Capo dello Stato e la clamorosa mancata citazione nei ringraziamenti per l'Expo di Milano durante la cerimonia di inaugurazione lo scorso Primo Maggio a Rho Fiera. Non solo, come detto, dietro le quinte anche Rosy Bindi - da sempre molto vicina a Prodi - sarebbe interessata all'operazione SI. E' evidente - spiegano fonti parlamentari ex Pd - che tutto ciò potrebbe portare nei prossimi mesi, quando il soggetto politico sarà nato e radicato sul territorio, a un ingresso di parlamentari prodiani e bindiani (se non la stessa Bindi) attualmente democratici nel gruppo SI di Camera e Senato. D'altronde, gli stessi promotori della formazione politica della sinistra hanno sottolineato fin da subito che tra i loro punti di riferimento, oltre a Berlinguer e a una politica economica neo-keynesiana, c'è proprio l'esperienza dei governo dell'Ulivo. E non a caso tra il padre dell'Ulivo è stato proprio Romano Prodi...

Caro Renzi, altro che Bertinotti. Fu Prodi a spianare la strada alle destre, scrive Paolo Ferrero il 16 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano. “Lo dico agli amici dell’Anpi, fuori dal Pd non c’è la rivoluzione proletaria o la sinistra mondiale. C’è la destra di Grillo e Salvini. A furia di urlare "più sinistra, più sinistra, più sinistra" si va a finire come con Bertinotti. Si mandano a casa i nostri e si apre la strada alla destra”. Con queste parole Renzi ha inteso chiudere politicamente ogni possibilità di alternativa positiva al suo governo, al suo partito, alla sua linea. A pensarla così non è solo Renzi ma una bella fetta di popolo. Per questo mi preme tornare su quella vicenda proponendo un punto di vista radicalmente diverso da quello di Renzi. Lascio perdere che quando cadde il governo Prodi I (96/98) non arrivò la destra ma il governo D’Alema – e poi il governo Amato – che fecero sfracelli – dalla guerra alle privatizzazioni – e aprirono effettivamente la strada alla destra. Per stare al merito politico della questione il punto fondamentale è che Prodi poteva tranquillamente evitare la crisi e continuare a governare fino alla fine della legislatura se avesse rispettato i patti e cioè fatto la legge sulle 35 ore. Rifondazione Comunista infatti votò contro il governo Prodi non per un capriccio ma per sacrosante ragioni che oggi sono ancora più evidenti. L’oggetto del contendere era la legge sulle 35 ore: Rifondazione Comunista chiedeva che l’Italia facesse una legge sulle 35 ore come quella appena approvata in Francia e come quanto era stato conquistato per via contrattuale dall’IG metal per i metalmeccanici tedeschi. In altre parole alla fine degli anni 90, in Europa si andava affermando un’impostazione politico-sindacale che metteva al centro il tema dell’occupazione e della riduzione dell’orario di lavoro. Questa spinta non arrivava da paesi marginali ma dalla Francia e dalla Germania, cioè dal nucleo fondativo dell’Unione Europea. E’ del tutto evidente che quindi le 35 ore non erano un azzardo: se anche l’Italia avesse sancito le 35 ore, questa tendenza avrebbe vinto in tutto il continente e si sarebbe generalizzata al complesso dei paesi. In altri termini gettando il peso dell’Italia dalla stessa parte del governo francese e del più grande sindacato industriale del mondo (l’IG metal), si sarebbe potuto determinare un indirizzo diverso per l’Unione Europea, mettendo al centro il lavoro. Prodi, nonostante avesse sottoscritto nel 1997 un accordo sulla necessità di dar vita alla legge sulle 35 ore, non ne volle sapere di onorare l’accordo e non volle fare la legge. Con questa decisione politica Prodi non solo condannò il suo governo, ma lasciando solo Jospin condannò il governo francese all’isolamento continentale e quindi all’irrilevanza della proposta della riduzione d’orario. In Germania, l’isolamento della IG metal rese relativamente facile per Schröder mettere in campo all’inizio del nuovo secolo Agenda 2010, cioè tutte le misure di precarizzazione del lavoro e di taglio del welfare che hanno permesso alla Germania di recuperare competitività e di imporre a tutta Europa la ricetta mercatista, cioè l’esatto contrario della strada della riduzione dell’orario di lavoro. La strada alla Merkel e alle politiche liberiste e di austerità l’ha spianata l’ottusità politica di Prodi, o se volete la sua scelta di affossare la possibile e praticabile ipotesi di sinistra che era oggettivamente in campo in Europa: la riduzione dell’orario di lavoro. La scelta di Prodi di non fare le 35 ore in Italia è all’origine della sconfitta delle 35 ore in Europa e della conseguente vittoria della strada opposta, quella basata sulla compressione dei diritti del lavoro e dell’occupazione e dello strapotere della finanza nella logica della massima concorrenza. Rifondazione Comunista indicava la strada – possibile e praticabile – per indirizzare l’Europa sulla strada giusta, Prodi si è opposto ed ha preparato la strada all’offensiva di destra, tutt’ora in corso e di cui Renzi è un fedele esecutore e di cui la manomissione della Costituzione è un punto decisivo. Aggiungo anche che la strada a Salvini la aprono le politiche di Renzi, non certo le politiche di sinistra: più il lavoro è precario e il welfare viene distrutto e più la gente ha paura. Più la gente ha paura e più si chiude su se stessa cercando di difendere il proprio orticello: il razzismo è un tragico effetto del dover vivere in un mondo imbarbarito da una concorrenza spietata. Le 35 ore servivano proprio ad evitare che finissimo in questa schifezza in cui imperversano due destre, quella di Renzi e quella di Salvini: una mette al centro la concorrenza e l’altra il razzismo, entrambe contribuiscono alla guerra tra i poveri.

CERCANDO LA SINISTRA: COMUNISTI COL ROLEX.

"Comunisti col rolex", svelato il titolo dell'album di Fedez e J-Ax. A pochi giorni dall'uscita del nuovo singolo Assenzio, i rapper milanesi presentano il loro primo disco insieme, scrive Marta Proietti, Lunedì 21/11/2016, su "Il Giornale".  In una diretta Facebook, pubblicata poco meno di un mese fa, Fedez aveva dichiarato che il nuovo album gli avrebbe procurato delle cause legali. E a giudicare dal titolo, svelato oggi, non è da escludere. Si chiama "Comunisti col rolex" ed è il primo disco di Fedez e J-Ax. È il rapper più giovane a postare sulla propria bacheca Facebook la copertina del disco: un pugno chiuso con al polso un orologio d'oro con falce e martello rossi nel quadrante. L'atteso album uscirà il prossimo 20 gennaio per Sony Music. La cover, nata da un’idea di J-Ax e Fedez, è stata realizzata da Studio Cirasa. Il disco, che conterrà brani inediti scritti dai due rapper milanesi oltre a diverse collaborazioni, è stato anticipato dal tormentone estivo che ha vinto cinque dischi di platino, "Vorrei Ma Non Posto", e dal nuovo singolo "Assenzio" feat. Stash e Levante. Quest’ultimo, in radio e in digitale da venerdì 18 novembre, ha già raggiunto oltre 2 milioni di visualizzazioni in soli tre giorni.

Questo la dice lunga sugli schieramenti degli artisti.

Referendum, il documento sui vip che votano: chi dice Sì, chi dice No: tutti i nomi, scrive “Libero Quotidiano” il 21 novembre 2016.

Il partito del Sì contro quello del No. I vip italiani - artisti, rapper, intellettuali e volti della tv - sono divisi sulla competizione elettorale, una delle più agguerrite degli ultimi anni: da una parte chi è favorevole alla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi (da Roberto Benigni a Gad Lerner), dall'altra chi dice No (da Marco Travaglio al rapper Fedez). Il 4 dicembre il verdetto. 

I vip per il Sì - Archinto Rosellina; Asti Adriana; Baresani Camilla; Barone Piero; Boschetto Ignazio; Ginoble Gianluca (Il Volo); Battistelli Giorgio; Betta Marco; Bises Stefano; Bocelli Andrea; Bolle Roberto; Boeri Stefano; Boni Alessio; Boni Chiara; Brizzi Fausto; Caselli Caterina; Capotondi Cristiana; Cima Francesca; Comencini Cristina: Contarello Umberto; Corsi Tilde; Cotroneo Ivan; Dante Emma; De Luigi Fabio; Dettori Giancarlo; Favino Pierfrancesco; Ferrara Giorgio; Ferrari Isabella; Ferretti Dante; Ferri Ozzola Sandra; Ferri Sandro; Fiorello Beppe; Genovese Paolo; Ghini Massimo; Fracci Carla; Giaccio Paolo; Giuliano Nicola; Gianani Mario; Izzo Simona; Manfridi Giuseppe; Mauri Glauco; Maccarinelli Piero; Mazzoni Roberta; Mehta Zubin; Mieli Lorenzo; Milano Riccardo; Minaccioni Paola; Mozzoni Crespi Giulia Maria; Natoli Salvatore; Nesi Edoardo; Neumann Andres; Nogara Anna; Nuti Franca; Occhipinti Andrea; Orlando Silvio; Ozpetek Ferzan; Pende Stella; Placido Michele; Preziosi Alessandro; Pugliese Armando; Ranieri Luisa; Recalcati Massimo; Salvatores Gabriele; Sandrelli Stefania; Savignano Luciana; Scaparro Maurizio; Scarpati Giulio; Sessa Roberto; Sforza Orsina; Shammah Andree; Soldati Giovanni; Sorrentino Paolo; Tamaro Susanna; Tardelli Marco; Tedeschi Luciano; Tognazzi Ricki; Tozzi Riccardo; Veaute Monique; Veronesi Giovanni; Villoresi Pamela; Vincenti Federica; Virgilio Luciano; Vita Zelmann Massimo; Virzì Paolo; Volli Ugo; Zingaretti Luca.

I vip per il No - Fedez; Sabrina Ferilli; Alba Parietti; Ficarra e Picone; Paolo Rossi; Fiorella Mannoia; Leo Gullotta; Claudio Santamaria; Rosita Celentano; Piero Pelù; Monica Guerritore; Giorgia; Sabina Guzzanti; Daniela Poggi; Citto Maselli; Roberto Faenza; Anna Oxa; Erri De Luca; Maurizio Costanzo; Monica Guerritore; Piergiorgio Odifreddi.

Da idiota a infame, nel Pd l'insulto vola facile. Tra un appello all’unità e l’altro, nel Partito democratico se ne dicono di tutti i colori.  Lo scontro si gioca ormai sul confine strettissimo tra lo sfottò e l’ingiuria.  E più si avvicina il referendum più il clima si fa rovente, scrive Luca Sappino il 10 ottobre 2016 su "L'Espresso. «Irresponsabili» è una delle cose più carine, tanto da sembrare un complimento. Con l’avvicinarsi del referendum costituzionale, i rapporti dentro il Partito democratico sono infatti tesissimi, e - complice un certo abuso di social - esponenti di maggioranza e minoranza interna si abbandonano a parole forti, dimostrando, come minimo, di avere scarsa stima gli uni degli altri. Veramente pochissima. Spesso quelli che si scambiano sono veri e propri insulti, altre volte i dem si rinfacciano solo determinati comportamenti o scelte politiche, con toni però sempre molto aggressivi. «Incoerente» è un altro complimento, evidentemente: o almeno è il minimo che si legge in giro. Lo scontro nel campo democratico si gioca insomma ormai sul confine tra lo sfottò e l’ingiuria. Confine strettissimo. E così se Pierluigi Bersani descrive Matteo Renzi come un «furbetto», i renziani fanno sentire Bersani un «rottame», come confessa l’ex segretario al Corriere della Sera nell’intervista con cui spiega di non fidarsi per nulla del premier, in particolare sulla promessa di modifica dell’Italicum: «Non mi si può dire che gli asini volano», dice. E considerando che Renzi è segretario del suo partito ed è il presidente del governo che Bersani continua a sostenere, la dichiarata diffidenza - converrete - è già cosa abbastanza sorprendente. Ma è Bersani stesso a lamentarsi dei toni del dibattito, ripescando l’accusa che il sottosegretario Luca Lotti ha rivolto a Massimo D’Alema, dipinto come un rancoroso mosso solo dalla delusione per una poltrona negata: «Sono stato trattato come un rottame», dice infatti Bersani, «non ho ragione per difendere D’Alema, ma deve esserci un limite a questa cosa volgare del vecchio e nuovo, che riguarda le idee e i protagonisti». Attenzione poi alle sfumature della lingua: «Quando questo Lotti dice a D’Alema», continua l’ex segretario, «va fuori dal seminato». «Questo Lotti». «Coso», praticamente: siamo a un passo dalla citazione renziana, a un passo dal «Lotti chi?». I commenti all’intervista sono però stati ben più duri. «Irriconoscibile», definisce Bersani Pierluigi Castagnetti. «Che brutta fine», sentenzia invece Anna Rita Leonardi, dirigente del Pd campano, renziana, già candidata sindaco a Platì. L’intenzione di Leonardi è nulla, però, se paragonata alla foga che hanno twittatori ben più rodati come Fabrizio Rondolino, commentatore e firma dell’Unità, un tempo consulente di D’Alema e oggi alfiere del renzismo. Rondolino prima definisce Bersani un «perdente seriale», poi gli contrappone le «persone perbene» che, se lui si schiera per il No, «si sentono rincuorate», e infine, redarguito da un lettore, dice che non è certo lui ad insultare. È Bersani che «è un insulto», dice Rondolino perfettamente a suo agio sui toni che non sono ormai più esclusiva del verace Vincenzo De Luca, che parla sempre colorito. «Nessuno immagini», ha detto ad esempio durante una direzione, «che essere minoranza o maggioranza possa significare avere una rendita di posizione. Se uno è un idiota è un idiota, che sia minoranza o maggioranza». Nel Partito democratico, insomma, ultimamente si finisce spesso sul personale, non sentendosi - nessuno - più in dovere di controllare la rabbia. E figurarsi quando è legittima, come quella di Ignazio Marino. Incassata l’assoluzione per la vicenda degli scontrini e per la supposta truffa all’Inps della sua Onlus, l’ex sindaco si è ad esempio lasciato andare a commenti tanto forti quanto poco carini su Matteo Orfini. Parole che porterebbero in realtà a chiedersi come i due possano ancora stare nello stesso partito. Per Marino, Orfini è infatti «uno che non ha mai lavorato un giorno in vita sua», uno che «dovrebbe dimettersi», e invece sta «attaccato con l’attack alla poltrona». Orfini, sì, che con Marino non si è scusato, ovviamente, pur avendolo cacciato da Roma anche - seppur non solo - per la vicenda degli scontrini e della panda rossa, pure quella archiviata. Orfini che ha anzi preferito concentrarsi, a poche ore dalla direzione Dem dove la minoranza argomenterà il suo no al referendum, sulle mosse di Roberto Speranza e Bersani. Chiedendosi retorico: «A che gioco stiamo giocando?». Una risposta gliela dà Francesca Barracciu, già europarlamentare e sottosegretario, politica sarda. «In Sardegna», spiega, «è definito il gioco dello "sparare da dietro un muretto a secco", ed è tipico degli infami». Infami, dice, e lo ribadisce a un utente che le segnala l’infelice scelta del termine. «Il solo usare la categoria di "infame" - tipico lessico mafioso - dimostra il degrado della politica», le scrivono su twitter. E lei: «No signore, stia al significato del termine non a chi lo usa. Degrado è sparare alle spalle». Alle spalle come gli infami. Altrettanto tranchant è poi il giudizio che sempre di Barracciu dà dell’ex sindaco di Roma: che è un «piccolo uomo» ovviamente «con un ego ipertrofico». Si potrà notare che è almeno dai tempi della rottamazione - quando i dem polemizzarono tra loro per la non carinissima parola scelta da Renzi per sintetizzare il suo piano per il Pd del futuro - che nel Pd si abbonda in aggressività, spesso ammantata di sarcasmo. «Masochisti» sono così Bersani, Cuperlo e tutti coloro che prendono le distanze dal presidente del consiglio pubblicamente, ma lo è anche Renzi, almeno secondo il deputato della minoranza dem Miguel Gotor che gli rinfaccia così l’alleanza con Verdini, che sarebbe costata al Pd le scorse amministrative: «Puro masochismo». Sempre Gotor - che giustamente ricorda la passione di Renzi per i «gufi» e il «ciaone» del renzianissimo Ernesto Carbone - tempo fa condannò il «surplus di disonestà intellettuale» del ministro Dario Franceschini, colpevole di aver detto anche lui che la minoranza del partito, votando no al referendum, vuole in realtà solo dare una spallata a Renzi. Gotor riprese peraltro quanto già detto da Gianni Cuperlo che - posato, per carità - in quei giorni aveva scritto testuale: «Franceschini è, ai miei occhi, l'espressione imbarazzante di una profonda disonestà politica e intellettuale». L’insulto a volte è diretto, nel Pd, senza problemi, spesso però basta evocare l’interessato, come fece lo stesso Renzi con Michele Emiliano in occasione della sua vittoria sulle trivelle. I due durante la campagna elettorale se ne sono dette di divertenti, ma il vittorioso Renzi evitò persino di chiamarlo per nome, nel festeggiare, mentre gli dava in sostanza dell’opportunista calcolatore: «Chi vota non è mai sconfitto», disse solo, «lo sono invece quei pochi consiglieri regionali e qualche presidente di Regione che hanno voluto cavalcare il referendum per ragioni personali, politiche, per esigenze di conta interna, per sognare una spallata al governo». Il referendum costituzionale ha così radicalizzato senza dubbio lo scontro interno. Quando Maria Elena Boschi disse «chi vota no vota come Casapound» («È una constatazione», precisò) non per nulla Speranza chiamò in ballo proprio l’educazione: «Esistono undici ex presidenti della Corte costituzionale che dicono No alla riforma. Non li puoi insultare come fossero degli skinheads». L’insulto, lo sfottò, la pernacchia. Spesso scappa, spesso lo si pondera bene, come sembra fare, ad esempio, Chiara Geloni, giornalista ma vicina a Bersani e ai tempi direttrice di Youdem, la fu televisione del partito. Fuori dai denti dice: «Oggi è il giorno in cui i 101 e i loro amici voltagabbana danno lezioni di coerenza a Bersani». Voltagabbana, detto ovviamente con affetto.

La sottile linea rossa. Viaggio in Italia cercando la sinistra. Dov'è finita la sinistra? La nostra inchiesta parte da Torino, dal tram numero 3 che taglia e ricuce due città: quella del salotto e quella dei nuovi esclusi. Sono loro che hanno gonfiato il vento dei grillini, scrive Ezio Mauro il 20 novembre 2016 su "La Repubblica". Cercando la Sinistra conviene salire sul tram numero 6 al capolinea di piazza Hermada nell’Oltrepò torinese e poi proseguire col 3 da corso Tortona. Sulla vettura c’è scritto “Vallette”, il nome della stazione d’arrivo dopo nove chilometri di viaggio, ventiquattro fermate, un’ora di tempo per attraversare la città: partendo dai piedi della collina con le case più belle nascoste nel verde per arrivare al ghetto dormitorio di periferia che qualcuno negli anni Sessanta ha cosparso di nomi dei fiori, via dei Gladioli, via delle Primule, via delle Pervinche, attorno a viale dei Mughetti e ai sedicimila vani costruiti per gli immigrati del sud trasformati in operai. I torinesi dicono che è una linea che non arriva da nessuna parte e non porta in nessun posto. Ma bisogna salire sul “3” con Marco Revelli, professore di scienza della politica e in realtà speleologo sociale appassionato della natura profonda di Torino per scoprire che tra i due capolinea si invertono i quozienti elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei consensi contro il 26 della sinistra. Inspiegabile? Mica tanto, se si scopre che tra le due stazioni c’è una differenzanell’aspettativa di vita di sette anni e dunque è come se a ogni chilometro percorso dal “3” dalla precollina alla periferia si perdesse poco meno di un anno di vita. Eccola qua la Moriana di Calvino, dice Revelli, città con una faccia di marmo e di alabastro e una di latta e di cartone. Ma il punto è che nei marmi vive la sinistra, mentre sopravvive invece debole e insignificante nel mondo costruito con materiali più fragili e senza colori, rovesciando la sua storia e forse il suo destino. Sul computer del professore c’è la mappa di questa separazione e mentre il mouse passa sui seggi elettorali si vede il Pd afflosciarsi man mano che dal centro dov’è in testa si va nelle “barriere”, come qui chiamano le periferie ex operaie, oggi popolate da pensionati che dopo una vita in fabbrica, grazie alla crisi, stringono in mano un pugno di mosche: prepensionati che si sentono ancora attivi senza poterlo più essere, con figli torinesi di seconda e terza generazione che capiscono il dialetto ma non capiscono più la città. Suprema eresia in una Torino che pareva disegnata in fabbrica con le sue linee rette e squadrate e poi montata fuori con gli stessi strumenti operai delle officine, tanto da far dire a Herman Melville che “sembrava costruita da un unico capomastro per un unico cliente”. Vado con Paolo Griseri a vedere la “ciambella”, come lui la chiama, quegli atolli intermedi e quelle isole periferiche che circondano il centro e che Giorgio Bocca arrivando da Milano attraversava come barriere coralline disposte a protezione del cuore di Torino. La sinistra non abita più qui, o ci abita in affitto. I Cinque Stelle vincono quasi dovunque, più ci allontaniamo dal salotto torinese più crescono. Quelle isole coralline si ribellano, tutte insieme, tornano vulcaniche formando una specie di città circolare che pensa e parla e borbotta diversamente dal nucleo centrale così sabaudo e insieme straniero, pieno com’è oggi di turisti che riscoprono la sua antica bellezza. Ma c’è qualcos’altro da capire, e come capita spesso la lezione torinese rischia di valere per tutta l’Italia. Basta camminare per piazza Foroni (ribattezzata piazza Cerignola dai pugliesi arrivati in massa fin qui), dove si vendono taralli cerignolesi originali a tre euro e cinquanta ogni mezzo chilo, per avere la percezione che la separazione non è puramente geografica e non è nemmeno soltanto economica, neppure esclusivamente sociale. Gli studiosi dei flussi e delle tendenze dicono che a Torino i grillini hanno vinto senza avere una tradizione. E questo si sa, anche se la città era stata tre anni fa la capitale dei “Forconi” (movimento effimero nato e bruciato per autocombustione dopo aver bloccato per due giorni piazza Castello) e anche se qui era andato in scena uno dei primi “Vaffa day”, con piazza San Carlo piena zeppa ad ascoltare gli insulti lanciati a mezzo mondo dal comico leader di fianco al “Caval d’Brons” impassibile. Ma hanno vinto anche senza insediamento politico, senza organizzazione, senza base sociale. Questo perché hanno saputo trasformarsi in “vela” per il vento che soffiava, vento di rabbia e di frustrazione, un vento che si è gonfiato proprio qui nelle barriere torinesi, mescolando cassaintegrati cronici, professori incazzati, piccoli imprenditori dell’indotto Fiat abbandonati dalla crisi, da Confindustria e dall’internazionalizzazione dell’azienda. È il sentimento — anzi, il risentimento, potente e nuovissimo — dell’esclusione. Quel tram che taglia e ricuce la città disegna dunque un’inedita e sottile linea rossa, tra la sinistra e gli “esclusi”. Non sono necessariamente poveri, e neppure quantitativamente, tanto meno professionalmente, ma come dice Ian Buruma hanno un’ “auto- immagine” di impoverimento sociale, civile, morale. Sono i tagliati fuori, quelli che scoprono che la democrazia formale è intatta nelle sue espressioni ma rimpicciolita nella sua sostanza, gli ascensori sociali si sono bloccati, il circuito della rappresentanza si è rotto, loro hanno perso il collegamento. Percepiscono i diritti democratici come un sistema di garanzie che vale solo per i garantiti e a un certo punto si scoprono a coltivare un sottile disincanto per la stessa democrazia, che sembra non incidere più sulla materialità della loro esistenza, sulla concretezza delle loro condizioni di vita. Naturalmente la democrazia, se potesse parlare, direbbe loro di rivolgersi alla politica, che è stata inventata proprio per tradurre in forme concrete e pratiche i principi della cornice democratica repubblicana. Ma per gli esclusi la politica è lenta, senza vocabolario e lontana, soprattutto si mostra indifferente, quasi insensibile alle domande che arrivano da un ceto medio proletarizzato nelle speranze se non nel reddito, nelle aspettative rovesciate in delusioni. È quel ceto che nel pendolo sociale si è alleato negli anni Settanta alla sinistra per scrollarsi di dosso almeno un po’ il morbido giogo democristiano profumato d’incenso, e che nei primi Novanta ha creduto a Berlusconi che lo invitava a mettersi in proprio, diventare soggetto politico autonomo, prendersi la politica. Erano due modi, opposti, di accettare la regola della politica e la sfida delle istituzioni, addirittura di crederci. Oggi, al contrario, siamo davanti al ribellismo del ceto medio che si sente depredato del presente, altro che futuro, mentre si accorge di camminare all’ingiù nella scala sociale e avverte che le classi sociali sono diventate gabbie in cui si entra per nascita e solo molto faticosamente si esce per istruzione e per merito. Gli spostati — che Donald Trump ha appena battezzato forgotten men togliendoli dall’oscurità, segnalandoli al mondo e facendone la sua base politica — si sentono messi di lato rispetto al mainstream, a cui non credono più perché non li riguarda e perciò diventa parziale e menzognero, li inganna. Lo spostamento è decisivo, perché è proprio quel nuovo spazio grigio la terra di nessuno in cui si percepisce la perdita di senso sociale e cresce la delusione, la nuova solitudine repubblicana, la silenziosa secessione democratica. Intendiamoci, dice l’ex sindaco Piero Fassino che questa deriva l’ha vistaarrivare prima del ballottaggio, non è vero e non è possibile che la società di oggi provochi un fenomeno così ampio e cosciente di esclusione; ma è vero che genera questa sensazione, questa rappresentazione di singoli e di gruppi che si sentono esclusi, ed è ciò che conta, soprattutto politicamente. Aggiunge una spiegazione: poiché la linea rossa di separazione divide chi si sente ancora rappresentato e chi invece vive nella solitudine politica, senza rappresentanza, noi paghiamo qui la crisi di tutti i corpi intermedi, sindacati, Confindustria, Confcommercio e quant’altro. Pezzi di ceto, parti di professione, gruppi di interesse, singoli individui fuoriescono e si sentono “spostati” come dopo l’uragano, fuori da ogni tutela, da qualsiasi possibilità di trovare un’espressione comune ai loro problemi personali. Vento che soffia, cercando una vela. Gli esclusi sono contro. Dunque possono accettare rappresentanza solo da un partito che sia contro, talmente contro da non essere nient’altro, da ridursi a questa sola dimensione (oltre a quella — totalmente prepolitica — dell’onestà, che dovrebbe essere una pre-condizione ovvia per tutti, mentre il Pd sembra non accorgersi del numero enorme di inquisiti tra le sue file), rifiutando ogni intesa e ogni accordo per paura di una contaminazione che inquini la diversità ontologica del movimento, la sua estraneità, come di alieni che vivono permanentemente in un altrove politico. Questo comporta un assolutismo integrale, che porta a credere in una propria Verità con la maiuscola, mentre in un parlamento democratico le verità sono tutte minuscole perché relative, e si combinano con le verità altrui, cercando la regola democratica della maggioranza nella combinazione dei programmi e dei numeri, come vuole il compromesso democratico liberamente accettato. Movimento permanentemente separato, il grillismo rappresenta la separazione degli esclusi quasi antropologicamente, segnalando la sua diversità fino all’estraneità dalla politica, dalle istituzioni. Fino a rifiutare la scelta di campo, capitale in Occidente, tra destra e sinistra, nella tentazione del partito- ovunque che sconta l’ambiguità pur di allungare e allargare l’identità nel rancore. Non conta chi sei, come hai vissuto e ciò che sai, l’importante è venire da fuori, rispetto al Palazzo, vivere fuori, non cadere dentro, certificare l’altrove ben più che il merito o il sapere. La differenza conta più dell’esperienza. L’alienità vince sulla competenza, perché è sciolta dai riti del potere. L’alterità prevale sulla conoscenza, perché non è castale né professionale, ma ha la cifra permanente dell’eterno dilettante. Siamo vicini all’ignoranza esibita come garanzia di innocenza. Lenta e appesantita dalle responsabilità del potere la sinistra è spiazzata. Ha creduto per un secolo nella politica come pedagogia, non sa cosa fare quando la da arte sociale a esperimento virtuale, che ribalta i suoi esiti in Parlamento ma li coltiva fuori, nello streaming, nei vertici chiusi all’hotel Forum di Roma, nel direttorio. Ma la sinistra è spiazzata prima di tutto da se stessa, per sua colpa. Nel voto ribelle di Torino, c’è anche il rifiuto per una politica che si è fatta establishment permanente e controlla il potere da troppi anni, quasi fosse una “classe eterna”, come dicevano in Russia della nomenklatura sovietica. Come se in mezzo al “castrum” centrale, tra i palazzi barocchi, fosse cresciuto un Castello invisibile ma presente, un recinto del potere che ha per lati la Fiat, la fondazione San Paolo, la Cassa di Risparmio, il Politecnico. Diciamo un giardino, ammette Sergio Chiamparino, ex sindaco e governatore del Piemonte, con l’erba verde e gli alberi frondosi per chi sta dentro, e la porta chiusa per chi si sente fuori. «È evidente che in giro siamo percepiti come un tutt’uno con l’establishment, e questo è forse inevitabile quando la sinistra raggiunge il maggior tasso di potere della storia, a livello nazionale e locale. Provi a guardarsi intorno: abbiamo tutto, il presidente della Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera, città e regioni. D’accordo che il potere logora chi non ce l’ha, ma rischia di separare chi ce l’ha, e di rinchiuderlo. Col risultato che noi peschiamo dentro il giardino, i Cinque Stelle fuori, nel mare più vasto e più mosso. Bisogna ricordarci che siamo venuti al mondo per dischiudere le opportunità a chi le merita, ma soprattutto per rappresentare i più deboli. Si possono tenere insieme le due cose, altrimenti ci si rintana, o si cambia pelle. Soprattutto, non si governa una società sfrangiata come la nostra». Torino: la fermata "Vallette" del tram numero 3, il capolinea. In questa zona la neosindaca grillina Chiara Appendino ha ottenuto il 74 per cento dei consensi: mentre Piero Fassino, del Pd, solo il 26 per cento. Vince il rifiuto per una politica che è diventata "classe eterna". Chiamparino: "Abbiamo tutto: Quirinale, Palazzo Chigi, Camera, Senato. Il potere logora chi non ce l'ha, ma separa dal Paese chi ce l'ha". Il buonsenso riformista di Chiamparino lo chiama establishment, classe dirigente. Ma gli esclusi la chiamano élite, casta, circolo chiuso, dando corpo alla teoria dei “giri” di Gustavo Zagrebelsky, strutture impermeabili di comando e di sottopotere che procedono per cooptazione e per esclusione, autogarantendosi e perpetuandosi, immobili. Su quell’élite — nazionale, europea — si scaricano oggi tutte le colpe, i rancori, le frustrazioni insieme con le delusioni e la condanna per l’inefficienza delle istituzioni, per la vacuità della politica. Per la lontananza e la grande dimenticanza. Ma la sinistra, dopo la sua lunga marcia, può andare al potere in Occidente senza farsi establishment? Un bel problema. Magari ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati, alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi, ma solo cenere di antichi fuochi parastatali. Detto questo, che è metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze. Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica. Il vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella libertà e per il mercato. La partita non è finita, perché il Pd è nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari». Quel welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo «perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini, soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa». Quanta fatica per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente. Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca, rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica. Il riformismo in Italia è sempre stato minoranza. Ma a Milano con Pisapia e con Sala ha funzionato l'alleanza tra sinistra di governo e borghesia. Salvati: è l'unico modo per mettere le briglie al neoliberismo dominante. Dal suo doppio osservatorio, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino, Salvati si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città — cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto sì e si sono vinte le elezioni. L’avvocato milanese lo fermano ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui — la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al nuovo skyline della città. Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al circolo “Bellezza”, il presidente è Maso Notarianni che viene dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle 23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli. «I borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona, e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi, stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo. A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la sinistra sembra non conoscere più». Attenzione però, avvisa Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio. Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario: sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno riusciti di centro-sinistra. La cifra politica di centro che lui cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna, capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta, occidentale, europea, moderna. Tante cose. Il Referendum è in sé una faglia vivente. Alla Camera del Lavoro di Porta Vittoria i compagni per il "Sì" e quelli per il "No" hanno litigato anche sull'affitto della sala grande. Polemica a fior di pelle che attraversa la Cgil e i rapporti col Pd. Per arrivare a dire, poi, che la sinistra borghese non basta più. Per Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina, Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”? Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini, quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro, scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la pelle — l’idea che la faglia passi anche attraverso la Cgil, tra la sua naturale difesa della Costituzione e il suo legame col Pd. E qui si apre la questione eterna delle due sinistre, torna in campo il buon vecchio Turati, il riformismo e il massimalismo in guerra, quando non siamo nemmeno sicuri di avere finalmente un riformismo di governo, dopo un secolo: e per questa strada tormentata si arriva fino a Bertinotti. O meglio, a Pisapia, perché l’avvocato uscito da palazzo Marino ha ormai un ruolo nazionale come uomo-ponte tra i mondi separati delle due sinistre. A parte il fatto che non i pontieri, ma i pompieri oggi troverebbero abbondante lavoro all’interno del Pd (che vive dentro un incendio permanente, bruciando ogni giorno la casa comune purché muoia il vicino di stanza), la sinistra radicale oggi è un sentimento sparso e disperso, senza più un’organizzazione. Ponte con che cosa, dunque, verrebbe da chiedersi, se manca una sponda? Vittorio Foa spiegava “l’assurdità di unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra loro così come sono, ma solo cambiando se stesse”. Ma Pisapia sta girando l’Italia e giura che c’è una rete spontanea pronta a riformarsi, se nasce l’occasione. Ecco dunque il sogno del Ponte a tre campate per vincere, governare e salvarsi l’anima. Ma per provarci, ci sono due precondizioni che l’ex sindaco mette sul tavolo a ogni suo incontro: la prima è che la sinistra-sinistra la smetta di dire solo no e soprattutto la pianti con la storia della mutazione genetica dei riformisti, che trasforma il Pd nel nemico principale da abbattere; la seconda, che il Pd la finisca di credersi l’unica sinistra, e dunque l’unica forza abilitata a decidere, l’unico attore in scena in questa metà del terreno di gioco. Sono due ostacoli simmetrici, quasi le ultime ideologie rimaste a sinistra, e bisogna disarmarli insieme con buona volontà e soprattutto con realismo, se non si vuole regalare il Paese alla destra o a Grillo. Pisapia lo ha anche detto a Renzi: può darsi che un giorno accada quel che oggi non è possibile e che il Pd diventi padrone incontrastato del campo, ma prima che da solo possa rappresentare l’intera sinistra deve passare una generazione, forse addirittura devono passarne due. “E intanto, che facciamo?”. Rispondono i personaggi di Ellekappa, nella loro indagine permanente sui tormenti della sinistra: “Il sogno, la casa comune di tutta la sinistra”, dice il primo. E l’altro risponde: “L’incubo, le riunioni di condominio”. Il circolo Arci Bellezza è il laboratorio perfetto: diecimila iscritti, dibattiti sul referendum, corsi di milonga, concerti rock: "Qui vengono tutti: professionisti, pensionati, ragazzi. E' un gran mischione che funziona". Per capire che fare, bisognerebbe prima sapere cosa dire. Davanti a una crisi economica senza precedenti, con una destra che abbattendo il politicamente corretto si è presa la più estrema libertà di parola, sfondando il linguaggio politico e stravolgendo i riferimenti culturali tradizionali del suo campo, la sinistra ha chiuso il vecchio vocabolario e non ha trovato il nuovo. Nessuno si preoccupa di scriverlo, tutti sono troppo occupati a cercare la battuta efficace nei centoquaranta caratteri di un tweet, invece di mettere in campo un pensiero lungo, accettando l’uno contro tutti dei social network dove vive la democrazia del libero scambio di opinioni, senza più il pulpito e il messaggio verticale: ma dove cresce anche la società del rancore. Intanto la destra sa di cosa parla, e sa persino come farlo. La battaglia di Donald Trump si appoggia sulle parole “prendere”, “guardare”, “dire”, “Paese”, “occupazione”, “gente”, “grande”, “grosso”, “cattivo”. I comizi di Viktor Orbán lamentano “la sparizione delle nazioni europee e dei loro valori” e la volontà di “renderle irriconoscibili” e chiedono che “l’Europa resti agli europei” e che i vari paesi rifiutino di “farsi sovietizzare da Bruxelles”. L’ideologia di Marine Le Pen costruisce uno scenario psicopolitico di assedio che parte dall’evocazione del “caos” imminente, passa alla “sostituzione” degli europei con gli immigrati maghrebini, punta su un “nazionalismo rivoluzionario”, propone un “patriottismo economico”, pretende una “sovranità al servizio dell’identità”, denuncia il “tradimento delle élite” mentre sullo sfondo evoca “una Francia che noi non riconosceremo più, che diventerà per noi un Paese straniero”. Di fronte a questa costruzione meta-politica che agita il profondo di paure antiche con linguaggi nuovissimi, la sinistra non usa più le parole tradizionali del suo discorso pubblico perché le sembrano vecchie, mentre in realtà appaiono antiche solo perché non suonano autentiche. Cosa c’è di più moderno che ragionare sui diritti del lavoro negando che siano — unici tra tutti i diritti — una variabile dipendente della crisi, mentre sono invece una cifra della qualità democratica del Paese di cui usufruiamo tutti, lavoratori dipendenti, professionisti e imprenditori? E cosa c’è di più responsabile che sostenere la necessità di rimodulare il welfare per proteggerlo dall’urto di questo decennio, salvandolo? Infine: perché dovrebbe essere vecchio parlare di uguaglianza nella fase in cui la crisi addirittura sorpassa e sopravanza le disuguaglianze trasformandole in esclusione, sapendo per di più che mentre la democrazia “scusa” e sconta le disuguaglianze non può tollerare le esclusioni? Soprattutto, chi dovrebbe fare questi discorsi se non la sinistra, proprio e tanto più quando governa, e dunque ha la responsabilità dell’intero Paese e non solo di una sua parte? Ma se ti mancano le parole, le tue parole, quelle della tua storia (naturalmente interpretate secondo lo spirito dei tempi e il carattere dei leader) sei prigioniero dell’egemonia culturale dominante, gregario del pensiero unico, attore nell’agenda altrui, e intanto il concetto di sinistra sbiadisce dentro un liquido pulito e confortevole ma diverso e senza colore. L’indistinto democratico. La sinistra non sa più pronunciare la parola povertà. Ma a Bologna sono nate le "Cucine popolari" grazie ad un sindacalista Cgil. "Ero stanco di parlare di diritti dei diseredati mentre gli altri facevano da mangiare". Una parola che la sinistra non pronuncia più è proprio questa — povertà — e il suo silenzio suona forte perché la nuova miseria si sta allargando. O meglio, spiega a Bologna Roberto Morgantini, noi parliamo anche di poveri, la questione vera è che non sappiamo parlare coi poveri. Lui ha lavorato una vita nel sindacato, si occupava di immigrazione, praticamente non c’è un profugo arrivato senza niente a Bologna che non sia passato per le sue mani. A un certo punto, con Lucio Dalla, si sono messi in testa di aprire una specie di refettorio laico per dimostrare a se stessi che non c’è solo la Chiesa a occuparsi di povertà, che non c’è soltanto la carità ma anche la solidarietà, che non è il pane benedetto l’unico che può sfamare i più disgraziati. Poi Lucio è morto, e tutto sembrava finito prima di incominciare, perché non c’erano i soldi. «Ma io sentivo il disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati, cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare», racconta Morgantini. «Volevo farlo anch’io. Ho settant’anni, convivevo con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l’idea di sposarci per sfruttare i regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo raccolto settantamila euro e sono nate le “Cucine popolari”, in partenza con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l’idea della laicità è andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare». Bisogna guardarla, alle cucine di via Battiferro numero 2, la nuova geografia della povertà italiana. Perché Bologna fa parte del Paese ricco, c’è una cultura solidale antica e tenace, si sta meglio che altrove. Ma qui ci sono tutti: gli stranieri appena arrivati con qualche barcone e risaliti fin quassù con piazza Maggiore come prima immagine dell’Italia, ma anche gli italiani che mese dopo mese diventano due o tre in più, e che ormai sono la metà degli ospiti. C’è chi ha perso il lavoro e la casa come Graziella, che dorme in un centro per senzatetto, mangia qui a pranzo e incarta qualcosa per cena da portar via; c’è Maria che è una ragazza madre e si è presentata un anno fa con la figlia di un mese e poi non ha più mancato un giorno; c’è il “professore” malato di Alzheimer che povero non è ma mangia qualcosa solo qui e allora la moglie lo accompagna a mezzogiorno; al tavolo in fondo c’è Antonio che ha problemi psichici e tra un’ora, quando avrà finito il pranzo, darà una mano a sparecchiare, trasformandosi in povero-volontario. Tutto questo a cinque minuti dalla stazione, quartiere Navile, nel cuore della città “grassa”, a cui piace una sinistra «che metta le mani nelle cose», come dice il compagno Morgantini che infatti sta già macchinando per aprire un’altra cucina popolare ancor più in centro, nel Porto, un quartiere dove vivono molti vecchi soli, e per preparare i soldi che non ci sono farà una vendita straordinaria di Pignoletto, il bianco delle colline bolognesi imbottigliato qui dai volontari: per Natale due bottiglie a dieci euro, e qualche pasto a qualche nuovo povero in più. Il caso di Bologna, dove con la povera gente lavorano strutture come “Piazza grande” o quella storica di don Nicolini, oltre alla Caritas e all’Antoniano, è importante proprio perché tutta la città vede quel che succede, e lo sa. Vede i poveri, vede il volontariato, conosce insieme il problema e la sua gestione, una possibile soluzione, e anche l’evidenza concreta della solidarietà. Oltre a un problema di vocabolario, infatti, la sinistra ha un problema di sguardo. Ci sono cose che non riesce a scorgere più, non le inquadra, e se le incontra non riesce a metterle a fuoco. La distanza tra chi sta in alto e chi precipita — gli integrati e gli espulsi — è aumentata fino a diventare una vera e propria frattura sociale. Intere parti di società, di generazione, di ceto stanno sperimentando un naufragio silenzioso con l’onda della crisi che li sopravanza fino a sommergerli. La divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione e i dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali diventa incolmabile. Con questo risultato formidabile: la rottura del nesso che legava i ricchi e i poveri nel loro percorso distinto e disuguale tuttavia collegato, il venir meno di quel vincolo di destino collettivo che abbiamo chiamato società e che avevamo conservato fino a oggi. Noi fingiamo che i garantiti e gli scartati siano ancora vincolati dal sentimento di un destino civile comune, verso un orizzonte condiviso di ciò che per anni abbiamo chiamato “bene comune”. Ma dietro la crosta miracolosa di coesione sociale che tiene insieme questa divaricazione a orologeria, assorbendo o forse disperdendo le tensioni e i conflitti, ci sono gruppi e soggetti che semplicemente vanno alla deriva, finiscono sul bordo a saggiare a tentoni il margine periferico della democrazia, ne fanno un valore d’uso minimo e soprattutto insignificante: e giungono infine a considerare i suoi valori e i suoi diritti come un apparato di nobili parole, che funzionano però come un privilegio in più — supremo, perché diventa regola — per i privilegiati. Nello stesso tempo e simmetricamente il garantito non avverte più il valore o l’utilità di quel legame col povero, le condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche lo autorizzano a sentirsi svincolato, liberato da ogni responsabilità che vada oltre la sua sfera personale, perché nessuno gli chiede più conto degli altri, che dunque non lo interpellano e per conseguenza non gli interessano. Inconsapevolmente, per questa strada sconosciuta arriviamo a un passo dal luogo in cui Caino diede la sua risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Mentre la società si rompe, una parte si inabissa lentamente e ne perdiamo nozione e coscienza. Non li vediamo più, non hanno una classe che li raccolga, una storia che li racconti, un partito che li rappresenti, non proiettano un’ombra sociale, non lasciano un’impronta politica. Non fanno nemmeno più paura, non sono niente. La stessa parola “povero” non rappresenta la spoliazione identitaria cui stiamo assistendo, sembra di un’altra epoca perché indica una scala di riferimento comune, in cui l’alto e il basso in qualche modo si tengono, c’è ancora una dialettica sociale, siamo dentro il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Qui invece siamo fuori da ogni campo di forza, da ogni schema culturale, da ogni ipotesi politica. Qui si va a fondo da soli, invisibili e impronunciabili. Vergognosi. Morgantini prima di partire con il suo refettorio laico a Bologna è andato a vedersi un po’ di mense popolari in giro per l’Italia e alla fine ha deciso di organizzarsi con tavoli da sei posti e un facilitatore che gira tra i “clienti” e li spinge a parlare, proprio perché si è accorto che più le mense sono grandi più il povero è intimidito: entra, tiene la testa china sul tavolo, mentre mangia guarda solo il piatto e poi se ne va. Invisibile com’è, vuole che lo vedano ancora meno. Lo capisce chi va in via Capriolo 16 a Torino, a Borgo San Paolo, ex quartiere operaio, e attraversa la soglia con la scritta “Spazio d’angolo”. Potrebbe essere un negozio o anche uno studio di design dentro un grande caseggiato che ai tempi della città fordista — dove tutto si teneva — era l’istituto tecnico dei Fratelli delle scuole cristiane e adesso è una delle cinque mense serali di Torino. Pareti gialle e arancioni, sedie rosse, «perché chi arriva qui ha bisogno di calore e abbiamo evitato il bianco», dice Pierluigi, il direttore della Caritas che ha organizzato la mensa insieme con la cooperativa Arco. In fondo alla stanza, Andrea stasera cena da solo: «Vengo qui da due anni. Nel 2013 ho chiuso la cartoleria. Fallito. Sa cosa significa? Glielo dico io: mi sono mangiato tutto. Arrivo verso le cinque di sera, la cena la servono alle cinque e mezza. Non c’è molto spazio per parlare, bisogna avere il tempo per finire e uscire in modo da arrivare al dormitorio pubblico prima delle sette. Altrimenti rischi di dormire fuori». Ma non è nemmeno qui il grado zero della disperazione, qui dove in fila coi barboni si sono aggiunti ex impiegati, capicantiere e la scorsa settimana un ingegnere. «La crisi», spiega Pierluigi, «non si misura solo coi cinquemila pasti forniti dalle mense dei poveri, ma nella dimensione privata, invisibile delle migliaia di famiglie che negli ultimi cinque anni hanno cominciato a far richiesta quotidiana di pacchi pasto. Nella sola zona di corso Umbria, a Torino Nord, le famiglie assistite con il pacco pranzo sono cinquecento. Gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese ma non ha il coraggio di presentarsi alla mensa pubblica». Perché la povertà è terribile, ma per gli ex poveri ritornare a esserlo dopo un giro fuori è insopportabile. Noi ne sappiamo poco o nulla, tutto finisce trasformato in percentuali e quozienti nelle statistiche del pil, dei consumi e dell’occupazione. Ma è così che salta sotto i nostri occhi quello che gli studiosi chiamano il tavolo di compensazione dei conflitti, capace di tenere insieme i vincenti e i perdenti della mondializzazione. Su quel tavolo, oltre che l’equilibrio della modernità occidentale stava anche la carta d’identità della sinistra, che rischia di volare per aria, perché come spiega il premier francese Valls, l’emancipazione oggi è la sua vera missione. Tutto per aria. E poi? È la stessa domanda che l’operaio in tuta pronuncia in una vignetta del sommo Altan: “E adesso?”. “Facciamo una colletta”, gli risponde Cipputi, “e affittiamoci un uomo della Provvidenza”. La sinistra non sa più pronunciare la parola povertà. Ma a Bologna sono nate le "Cucine popolari" grazie ad un sindacalista Cgil. "Ero stanco di parlare di diritti dei diseredati mentre gli altri facevano da mangiare". Finchè arriva l'ultima sfida a sorpresa, quella del neo-nazionalismo conservatore di Theresa May, la nuova premier inglese, quando arringa i suoi: “Ascoltate come molti politici e commentatori parlano dell’opinione pubblica. Considerano il patriottismo del popolo disgustoso, la preoccupazione per l’immigrazione provinciale, l’atteggiamento verso la criminalità illiberale, la sicurezza del posto di lavoro fastidiosa”. È vero, è un ritratto della sinistra? Un po’ sì. «Abbiamo appena perso Monfalcone consegnandola alla Lega», dice uno dei giovani quadri della sinistra friulana, Federico Pirone, ventotto anni, assessore a Udine, «perché non sappiamo parlare di immigrazione. Eppure abbiamo la politica più a sinistra di tutto il continente, sia nei confronti dell’Europa che nei confronti dei profughi, Renzi in questo ha ragione. Ma dobbiamo anche chinarci sulle paure e le inquietudini dei nostri paesi. Sbagliate? Diciamolo. Ma non ignoriamo le preoccupazioni degli anziani, delle persone sole, dei sindaci che ricevono l’ordine dal prefetto di ospitare una dozzina di profughi, poi lo Stato si ritira e con la gente devono vedersela loro, e sono soli». Eccola la strada dell’inquietudine di Monfalcone, via Sant’Ambrogio: osterie giuliane e botteghe tradizionali sono scomparse, i vecchi abitanti se ne sono andati, i trecento metri pedonali sono tutti delle famiglie bengalesi con i loro negozi e con le donne dal volto velato e tra poco le luminarie e le stelle di Natale incorniceranno a festa le insegne straniere. Non ci sono stati problemi evidenti, qui. Ma c’è una prima elementare tutta di immigrati perché i genitori italiani hanno portato i figli nelle scuole di paesi vicini per non affrontare la convivenza, dice Pietro Comelli del Piccolo, ad agosto è morto annegato un pakistano di venticinque anni che viveva accampato con altri profughi sulle rive dell’Isonzo ed era entrato in acqua per lavarsi. La vera questione riguarda il tessuto sociale che il monfalconese anziano non riconosce più. E poi si aggiunge il rapporto di odio-amore con Fincantieri che ha assicurato lavoro a generazioni e oggi assicura la sopravvivenza degli stranieri, mentre molti ragazzi del posto sono disoccupati. Concorrenza sul lavoro, rivalità intorno a un welfare che si riduce sempre più, spaesamento dei luoghi, nel timore di perdere identità, di smarrire il filo di esperienze condivise. Sono le paure che gonfiano il Nordest, scese fino al delta del Po con la protesta di Gorino e dei suoi pescatori di vongole per le dodici donne immigrate inviate dal prefetto e bloccate per strada. “Qui non c’è niente nemmeno per noi”, gridavano i dimostranti dietro i blocchi stradali, “che vengono a fare?”. Un pezzo di Nordest (e anche di sinistra) si accontenta di non vederli, come se questo fosse il problema. A Trieste il tabù riguarda il vecchio silos, l’ex granaio della Coop vicino alla stazione. La città non è affatto in emergenza, ospita ottocento migranti in piccole case-famiglia gestite dalla Caritas o dal consorzio di solidarietà. Ma quando le case sono piene, come adesso, gli immigrati finiscono vicino alla stazione, occupano l’ingresso del Porto Vecchio e quando i vigili li fanno sgomberare vanno a dormire nel silos, svuotato due volte, con trentacinque denunciati, fino a diventare il luogo simbolo dell’immigrazione. Adesso il sindaco Dipiazza ha deciso di non pagare più i duecentocinquantamila euro l’anno che il Comune spende per i minori senza famiglia, ospitati nell’ostello vicino al castello di Miramare, e la Lega ha alzato i toni nell’ultima campagna elettorale: anche in una città multietnica e multiculturale come Trieste che perde qualcosa come mille abitanti all’anno e nel 2014 ha visto emigrare all’estero sette dei suoi ragazzi su mille. Silenziosamente. Finché il silenzio si rompe e Beppe Sala, sindaco di Milano, chiede l’esercito nel quartiere multietnico di via Padova, “per non lasciare l’intera questione in appalto alla destra”. Per la destra la presenza dei profughi è fisica e fantasmatica insieme, e il corpo del profugo diventa immediatamente propaganda perché parla da solo con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i segni dell’apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a puro corpo, pura quantità, presenza materiale d’ingombro, nuda esistenza che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di persone, di cittadini con diritti e doveri. E infatti le risposte sono tutte fisiche, materiali: ruspe, muri, respingimenti, fili spinati. Ma la sinistra sente che mentre la destra sceglie di vendersi l’anima commerciando con le paure lei, proprio lei e lei soltanto, è dentro una grande tenaglia. Ha il dovere democratico di rispondere con umanità e solidarietà a chi chiede soltanto libertà e sopravvivenza, e ha contemporaneamente il dovere opposto di rispondere al riflesso di insicurezza che attraversa la fascia più debole delle nostre popolazioni, uomini e donne anziani, soli, che vivono nei piccoli centri, non sono mai usciti dai confini del Paese e adesso quando vanno coi nipotini al giardinetto si trovano il mondo rovesciato sotto casa. Queste persone chiedono rassicurazione. Se non la ricevono dallo Stato, la cercano quasi naturalmente nell’antistato dei venditori di paura. Potremmo dire che il conflitto sospeso sopra i nostri paesi è tra gli ultimi e i penultimi. È una tenaglia infernale per la sinistra, costretta a portare per intero il peso e la contraddizione della democrazia occidentale: tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede di vivere, qualcosa di sacro che arriva a noi dal profondo dei secoli; ma tradisce nello stesso tempo i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è alla base del patto di rappresentanza e di sovranità moderna. La sinistra è investita pienamente perché la destra si chiama fuori, si chiama contro. E anche perché questa è la prova della tenuta dei valori democratici dell’Occidente che oggi sono la sua carta dei valori e entrano in tensione, al bivio come sono tra l’universalità con cui li professiamo in astratto e la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi. Recuperato dal primordiale, riviviamo il confronto-scontro tra i cittadini del mondo e i dannati della Terra, con i primi che troppo spesso pensano di poter fare a meno dei secondi, non vogliono vederli e scelgono il “bando” come unica politica. E la sinistra, che fa? «Prima facciamo, poi teorizziamo», dice Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. «Altrimenti ci spaventeremmo e finiremmo paralizzati davanti all’emergenza. Le cifre dicono che la nostra è una follia. Siamo l’isola più lontana dall’Italia, venti chilometri quadrati, seimila abitanti, l’acqua che fino a due anni fa arrivava solo con la cisterna, nemmeno un ospedale, solo l’elicottero del 118. Quando ti arrivano settecento profughi, all’epoca delle primavere arabe venticinquemila tunisini, raccogli in acqua dovunque gente nuda senza niente, quasi morta, che grida verso di te, allora ti ricordi che siamo gente di mare e la comunità sostituisce lo Stato. È andata proprio così. Un po’ di incoscienza, un po’ di coraggio, la natura della nostra gente ha fatto il resto. L’idea dell’invasione è una creatura della politica, sono muri, fili spinati, cancelli che danno l’idea di assedio. Rinchiudono nell’ansia chi li costruisce. Se governi questi fenomeni con la tua gente, spieghi che sono un prodotto della storia che può essere gestito, tagli le gambe alla paura e puoi farcela. Guardi qui: Lampedusa poteva finire dannata, e invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest’anno il turismo è cresciuto del trentadue per cento». Con Laura Montanari arriviamo in Toscana cercando un’altra strada della metamorfosi italiana. Via Pistoiese a Prato è una linea retta che va da Porta San Domenico, non lontano dal vecchio ospedale dismesso, verso la periferia. È l’asse portante e il cuore di Chinatown, una sventagliata di case basse senza palazzoni, negozi e laboratori che formano il distretto tessile, cresciuto dentro le vecchie fabbriche. Oggi la via è fatta di rosticcerie, supermercati etnici, agenzie di viaggi, naturalmente capannoni, negozi di parrucchieri e di massaggi, slot machine, laboratori pronto-moda e ristoranti, tutti con le insegne in doppia lingua, italiana e cinese: “Whezou”, “Zheng Shi Shou”, “Ciao”, “Ravioli Liu”. Corrono auto di grossa cilindrata tra le biciclette e i furgoncini, tra gli aromi di spezie orientali e di fritto, gli ideogrammi verniciati sui capannoni, il rumore delle macchine taglia-e-cuci che va avanti fino a tardi di sera, anche oggi che è domenica. È un circuito chiuso, le stoffe provengono direttamente dalla Cina, magliette, cappotti, camicie e vestiti finiscono in buona parte sui banchi ai mercati, gli ambulanti che vendono ai cinesi gli ortaggi li hanno comprati da contadini cinesi che affittano i campi nella piana di Prato. Circuito chiuso, irregolarità, sfruttamento, concorrenza. Come si governa questa vecchia immigrazione che crea un mondo parallelo e separato, con trentacinquemila abitanti nati fuori Prato su centonovantamila e con diciottomila cinesi ufficiali (più almeno dodicimila irregolari) e insomma la più grande comunità cinese d’Europa dopo Parigi, con la differenza che a Prato tutto è sotto gli occhi di tutti? Bisogna prima di tutto decidere che la sinistra non può lavarsene le mani, e non deve, spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato. «A Chinatown facciamo otto controlli al giorno, tutti i giorni, perché questa cosa regge se monitoriamo la sicurezza nel lavoro e la regolarità delle aziende, anche per garantire una concorrenza con i no- stri imprenditori il più possibile corretta. Se la tua gente vede che l’immigrazione è regolata, si incanala nel lavoro e nelle regole, non nascono tensioni. Nel 2009 il Pd ha perso la città proprio sulla questione cinese, nel 2014 l’abbiamo ripresa con questa politica. Ce la stiamo facendo. Ma quando il prefetto ti scarica un gruppo di migranti in piazza e ti dice pensaci tu, nascono i problemi, perché tutto passa sulla testa dei sindaci e dei cittadini». Per questo Biffoni, che è anche presidente dell’Anci toscana, ha scritto una lettera al governo che dice calma, la nostra regione doveva prendere dodicimila migranti nelle quote di ripartizione, ne ha già tredicimila, per il momento fermiamoci e vada avanti qualcun altro. «Siamo di sinistra ma non siamo ciechi», spiega il sindaco. «Dobbiamo salvare le persone, dar loro accoglienza e lo facciamo, anzi il sistema toscano è tra i migliori, nei Centri non entrano più di quattordici persone e il quartiere le assorbe. Ma bisogna che i sindaci abbiano il potere di governare questa emergenza senza subirla e bisogna che come noi tutte le regioni facciano la loro parte prendendosi la loro quota, come si fa in un condominio. Se no tutto diventa paura, e nella paura la sinistra perde la sua gente, non la ritrova più. Io sono orgoglioso dell’accoglienza ai profughi del mio Paese, Renzi ha ragione. Ma voglio che i cittadini siano orgogliosi anche della sicurezza che dobbiamo garantire, guai se non pensiamo anche a loro e non rispondiamo ai loro timori. Quelli li catturano, e non li trovi più». L'ondata dei migranti stringe la sinistra in una tenaglia infernale. La sindaca di Lampedusa: "Ci vuole un po' di follia ad accoglierne tanti. Ma l'abbiamo fatto, ed è andata bene. E' persino cresciuto il turismo". "Quelli" sono i populisti, di ogni razza. Hanno semplificato la realtà man mano che per il cittadino si complicava, offrendo un paradossale rifugio nella loro visione da fine del mondo. Hanno ridotto la politica all’osso — tutti ladri, tutti corrotti, tutti incapaci — schiacciandola su una visione unidimensionale. Hanno cancellato qualsiasi intermediazione, illudendo il cittadino che ogni governance si può fabbricare in casa, perché nel nuovo inizio non occorre sapere, basta sostituire. Hanno annullato ogni deposito di conoscenza, tecnica, esperienza, annunciando l’esperienza del trapianto permanente di civiltà. Hanno schiacciato ogni distinzione, invitando a fare di ogni erba un fascio, il mucchio selvaggio, perché tutti sono compromessi solo per essere venuti prima e nessuno è quindi innocente. Hanno scarnificato il linguaggio, rifiutando ogni elaborazione, ogni riflessione, ogni spiegazione, cercando il cortocircuito emotivo nel rancore e nell’insofferenza. Hanno modificato un costume politico, attaccando le persone per le loro caratteristiche fisiche pensando che siano difetti e che come tali vadano additati al pubblico ludibrio. Hanno puntato sulle sensazioni più che sulle cognizioni, trasportando in politica la cifra dei social network, dove un pensiero di Habermas e la battuta di un blogger sono condannati a vivere insieme il resto dei loro giorni, senza un segno distintivo che li separi, li gerarchizzi, avverta almeno di maneggiare con cura. Anzi, per la politica odierna Habermas si può buttare, è sterile, complesso e deperibile. La battuta no, va salvata: oggi ha mercato, è poco impegnativa ma cavalca tra i follower. È ciò che funziona. La sinistra è naturalmente spiazzata. Ha passato il secolo cercando di coniugare il sapere con la politica per realizzare l’emancipazione dei più deboli attraverso la conoscenza, l’esperienza collettiva, la condivisione di un’avventura civile pedagogica per tutti. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, diceva il motto gramsciano dell’Ordine Nuovo. Non è soltanto un giro retorico che si smarrisce, un’espressione del pensiero. È la forma della politica come cultura, dunque come conquista e sperimentazione del sapere, la sua dimensione più profonda, ciò che resta perché è ciò che dura, in quanto è ciò che vale. Il riconoscimento di un deposito culturale e di un orizzonte valoriale, che àncora le generazioni e crea una traccia che dura nel tempo. Il populismo crede invece nella cabala dello zero. Zero compromessi, zero intese, zero pazienza, zero attese. Tutto ciò di cui è fatta la politica viene smontato e centrifugato nell’opposizione a tutto ciò che veniva prima del populismo. Persone, funzioni e istituzioni vanno insieme demoliti, perché manca la coscienza che dietro di loro ci sono storie, tradizioni, passioni insieme con gli errori, cioè tutto quello che fa muovere le bandiere della politica, insieme con i valori e con gli interessi legittimi da tutelare: e infatti da noi (con partiti che sono nati tutti mercoledì scorso) le bandiere politiche sono flosce perché non c’è vento, come sulla Luna. Naturalmente se il populismo prospera è perché i tempi sono propizi. Gli errori evidenti della politica, l’inefficienza delle istituzioni, la corruzione sovrana gli hanno spianato la strada. La dimensione dei problemi (la più lunga crisi economica del secolo, l’assalto dello jihadismo islamista omicida, l’ondata migratoria) sovrasta ogni dimensione di governo tradizionale e annichilisce il cittadino, dandogli l’impressione che il mondo sia fuori controllo e che qualunque pretesa di governance sia inadeguata. In questa alba da day after, in cui tutto però deve ancora accadere, il cittadino si sente esposto e dunque cerca di scambiare quel poco di politica che incontra con quel molto di paura che cresce in lui. Scambio illusorio ma confortevole. Il populista ha ricette per ogni paura. Basta dare un calcio al sistema. Il fatto è che il sistema non funziona per ragioni di spazio, di tempo, di luogo, tutte insieme: perché il mercato è più largo della sovranità, la società vive nel tempo reale e la politica coi suoi meccanismi decisionali e la regola della maggioranza si muove nel tempo differito, perché i giovani abitano nella rete virtuale e la politica nella rete territoriale, con incursioni continue nel vintage televisivo che sembrano sempre più auto-rassicurazioni di esistere, in un gioco di specchi appannati. In più il populismo, radendo al suolo il passato, crea un suo tempo “anti-genealogico” senza eredità, senza trasmissione, senza passaggio generazionale: senza il senso della storia, potremmo dire, inclinandola tutta sull’anno zero, in quello che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel suo ultimo libro chiama l’”iper-presentismo”. Tempo perfetto per il populismo dove tutto è estemporaneità, interpretazione, con la politica ridotta a performance e la rappresentanza sostituita dalla rappresentazione. Torino: il mercato di piazza Foroni. La piazza, che in passato è stata ribattezzata piazza Cerignola a causa della grande presenza di immigrati dal sud Italia, si trova nel quartiere "Barriera di Milano", storica periferia operaia nella zona nord della città. La seconda Chinatown d'Europa è a Prato, riconquistata dal Pd due anni fa. Come? "Facciamo otto controlli al giorno", dice il sindaco, "se la gente vede che l'immigrazione è regolata non nascono tensioni". Un tempo maledetto per la sinistra, come l’abbiamo conosciuta. E se invece cambiasse? Se invece di arginare il populismo cedesse alla tentazione e addentasse l’ultima mela che come sappiamo ha due facce, una di destra e una simmetrica, o almeno mimetica? A ben guardare, forse è già successo. Al Sud la pianta rachitica della sinistra ha avuto un innesto con una cultura leaderistica, personale, autonoma che l’ha portata a vincere e poi ha attecchito ramificandosi come un rampicante dovunque, a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando e con il governatore Rosario Crocetta, a Bari con il presidente della Regione Michele Emiliano, a Napoli con un’altra coppia di governatore e sindaco, Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris. Come chiamarli, cos’hanno in comune oltre alla capacità di acchiappare voti e di governare? “Sceriffi”. L’immagine mi viene in mente mentre con Conchita Sannino percorriamo quel chilometro di cubetti di pietra lavica, quei 1100 metri del potere che a Napoli separano Palazzo Santa Lucia, sede della Regione, da Palazzo San Giacomo, il Municipio, fermandoci proprio nel luogo delle antiche sfide elettorali, piazza Plebiscito. Sceriffi: sono soggetti alla legge generale della sinistra — ammesso che ce ne sia una — ma in città e in regione conta solo la legge della loro stella di latta, che indica un potere sempre più autoreferenziale, nato nel Pd ma poi cresciuto e confiscato in autorità personale, conosciuto e rispettato in tutto il territorio, al punto da diventare polemico con Roma, col governo, col partito, tracciando un’altra linea rossa, tra gli sceriffoni e il Pd. De Luca, magniloquente nella sua perfidia chirurgica, ha trasformato un feudo in un principato, trasferendo il potere che si era costruito dopo vent’anni da sindaco di Salerno in comando su tutta la regione, senza perdere naturalmente il controllo sulla città: dove da quando Lucio Dalla finì l’ultimo concerto della sua campagna elettorale cantando "Attenti al lupo", tutti lo chiamano a mezza voce così, perché azzanna: “il lupo”. Credo non gli dispiaccia, visto il carattere e la ferocia con cui è saltato addosso a Rosy Bindi nell’ultimo furioso attacco. Intanto è stato eletto con 987mila voti e rotti, arrivando al 41,15 per cento, incrociando gli elettori di sinistra con quelli di Cosentino e Verdini, e con i demitiani. Poi ha fatto eleggere a Salerno il suo ex vice, Vincenzo Napoli, e quello gli ha nominato il figlio assessore al Bilancio. Quindi si è fatto allestire gli studi di Lira Tv nel palazzo del Genio Civile, e dagli schermi mette a posto tutti: il “finto ambientalismo”, la “palude burocratica”, la “sottocultura che mummifica il territorio”, la “volgarità politica”, la “cafoneria istituzionale”, le “nullità amministrative”, i “dieci pinguini che pensano di far cultura vedendosi in un salotto”. Lupi e pinguini in lotta alla Regione, il “Che” in municipio. Poi non dovremmo parlare di populismo? “Che Guevara” è l’autodefinizione che de Magistris dà di se stesso nei suoi fluviali post su Facebook, soprattutto quando nel giugno scorso andava a caccia dei 186mila voti poi raccolti in una città dall’astensionismo record, arrivando al 66,85 per cento al ballottaggio. Il suo è un populismo lirico (“Napoli stupenda e magica, intrisa di umanità, ricca di popolo di tutto il mondo, Napoli amore mio”) e insieme di guerra, che ha scelto Renzi come nemico: “Premier, devi avere paura, Napoli deve tornare capitale, Granducato di Toscana dietro, Napoli davanti”. Guerra e lirismo si fondono nel gran finale: “Renzi, ti devi cagare sotto”. La sinistra che c’entra? Intanto questa è una sua mutazione, e con gradazioni diverse gira per tutto il Sud. E poi a Napoli la sinistra tradizionale è ai minimi storici, col Pd all’undici per cento. Quei video coi voti per le primarie pagati in alcune periferie bruciano ancora sulla pelle del partito, e spiegano tante cose. Da Roma, sulla spinta della vergogna più ancora che della sconfitta, avevano promesso di scendere a Napoli con il lanciafiamme contro le vecchie abitudini di malaffare e i giochi eterni delle correnti. Battuto ma sornione, Antonio Bassolino scuote la testa: «Non si è visto neanche un fiammifero». Il filo che unisce il populismo antico e residuale, ma tutto politico, a rete, di Leoluca Orlando, quello morbido e avvolgente di Rosario Crocetta (con il “Megafono” suo partito-persona) ai populismi di sinistra napoletano e pugliese va cercato nel lamento-orgoglio di un Sud che si sente abbandonato ma nello stesso tempo magnifica il suo “far da solo”, nel personalismo più o meno carismatico delle leadership, come se lo stesso Sud fosse condannato a radunare nella Guida politica quelle qualità di admiratio, mysterium tremendum, fascinans con cui, come spiega Francesco Paolo de Ceglia nel suo libro appena uscito su San Gennaro, si celebrava fin dai primi secoli il miracolo ricorrente e rassicurante, o almeno il prodigio, dentro una regola comunque taumaturgica. Sarà per questo che Michele Emiliano non vuol sentir parlare di populismo. «Io populista?», ringhia nel suo ufficio sul lungomare di Bari, tra il palazzo della Provincia e il comando aeronautico del Sud. «Balle, mi sento un vero riformista, fino al midollo. Tutti pensano che io sia un’altra cosa, mentre io sono semplicemente quel che appaio, anche troppo». La verità è che Emiliano è un pensiero autonomo, una prassi personale, un potere indipendente. È stato dalemiano — proviamo a ragionare con Giuliano Foschini — ha votato Bersani e poi Renzi, ma alla fine è rimasto sempre fedele alla persona di cui si fida di più, se stesso. La costruzione populista, corretta Pd, nasce da lontano, nel 2009, quando da segretario del partito che corre per la rielezione a sindaco forma due liste civiche che raccolgono oltre 33mila voti contro i 30mila dei democratici, con la sua tecnica di farsi opposizione a tutto, a qualsiasi potere costituito, anche al partito che dirige in Puglia. Adesso l’ultima fiammata d’opposizione, contro Renzi, rischia di dividere il governatore dal sindaco, il suo “gemello” politico Antonio Decaro, che invece sostiene il premier e il “Sì” al referendum mentre Emiliano naturalmente è per il “No”. «Siamo amici, non esistono due Pd a Bari», garantisce il sindaco. «Non sarà un referendum a separarci con tutto quello che ci unisce», conferma il governatore. «Le parrocchie, le associazioni, la strada, le migliaia di persone che ci hanno consentito questa doppia spallata nella capitale della destra. Dicono che sono un potere autonomo perché devo dir grazie a loro, tutti, ma nemmeno a un potente. Piantiamola con le definizioni a sinistra. Se al sacrario militare il 4 novembre quattrocentoquaranta bambini mi abbracciano non è populismo, è perché mi vogliono bene, e mi vogliono bene perché rispondo a tutti, il mio telefono è 335840227, lo scriva pure, lo conosce chiunque, è sempre acceso anche di notte». Non sarà populista, il governatore, ma i veri populisti se venissero a Bari potrebbero imparare qualcosa. Luigi de Magistris si autodefinisce "Che Guevara", Vincenzo De Luca viene chiamato "il lupo": soprattutto al Sud la politica cede il passo al potere personale di leader che cavalcano l'onda anti-sistema. Ma quelli che hanno fondato il PD, che ne pensano, che idea di sinistra hanno oggi? Ecco Walter Veltroni, il primo segretario: «La nascita del Pd, che sarebbe dovuta avvenire dieci anni prima, sulla scia della vittoria dell’Ulivo, per me doveva definire l’idea di una sinistra uscita viva dalle macerie del Muro, ma che ora doveva declinare i suoi valori in una società radicalmente mutata. Per me doveva essere sinistra e sfuggire alle lusinghe dell’indistinto. Doveva esserlo nel senso alto della parola: giustizia sociale, opportunità, diritti, legalità, comunità, integrazione. Doveva essere innovatrice e mai conservatrice. Una sfida interrotta, come tante, troppe, nella storia della sinistra italiana. Sinistra, senza la quale — dobbiamo saperlo — le pulsioni prodotte dalla crisi finiranno col travolgere la stessa democrazia». Per Dario Franceschini il Pd è nato «come compimento del percorso che ha portato le culture progressiste del Paese, a cominciare dalla sinistra e dai cattolici democratici, a incontrarsi prima nella stessa coalizione e poi a confluire nello stesso partito. Questo basta a giustificare la portata storica della nascita del Pd. La crisi di quest’ultima fase nasce proprio dall’aver fatto riemergere uno scontro interno fisiologico in ogni grande partito non sulla base delle diverse visioni del futuro ma sulle provenienze, che le primarie sembravano aver rimescolato. Oggi che il mondo sembra aver sostituito allo schema destra/sinistra lo schema populismo/politica che taglia trasversalmente tutto, il Pd può diventare l’aggregatore riformista di tutte le forze che rifiutano il pericolo della scorciatoia populista e nazionalista». Pierluigi Bersani è convinto che «non può esistere in Italia, e soprattutto a sinistra, un partito-cardine del sistema che non si metta al servizio di qualcosa di più grande. E non possiamo non vedere che c’è un pezzo della nostra storia, della nostra gente e della nostra stessa vita che non si sente rappresentato oggi dal Pd. Bisogna pensare a un centrosinistra largo, moderno, europeo, che abbia il perno nel Pd ma sappia andare oltre, in modo da essere competitivo e sfidante nei confronti dei Cinque Stelle e soprattutto alternativo alla destra. Attenzione, perché la destra oggi è soltanto un sentimento, non un’organizzazione strutturata, ma quel sentire aspetta solo un catalizzatore per prendere forma politica. La destra non è nei partiti attuali, ridotti: è in un’area che sta cercando se stessa. Anche il Pd dev’essere capace di dar corpo a un’area che esiste intorno a noi, deve sentirla, capirla e organizzarla. Partendo, come deve fare ogni sinistra, dai temi dei diritti e del lavoro. Oggi più che mai». Matteo Renzi rivendica di aver favorito e accelerato la fine dell’era del trattino tra “centro” e “sinistra”, «quando non si poteva pronunciare la parola sinistra senza premettere qualche prefisso per attenuarla, quasi a prendere le distanze. Ho sempre rivendicato con fierezza l’appartenenza del Pd alla sinistra, alla sua storia, la sua identità plurale, le sue culture, le sue radici. Per questo ho spinto al massimo perché il Pd dopo anni di dibattito fosse collocato in Europa dove adesso è, dentro la famiglia socialista della quale oggi è il primo partito. Questo per dire che il Pd sa da che parte stare. Dalla parte dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme. Quella del Pd è una sfida plurale, un progetto condiviso da milioni di persone ed è per questo che non possiamo permetterci di restare fermi a un passato glorioso, ma dobbiamo rivitalizzarlo ogni giorno cambiando. La nostra idea di sinistra sta in parole che producono fatti. Perché il tempo delle parole — giuste o sbagliate — slegate dai fatti, è un tempo che dobbiamo lasciarci alle spalle per sempre». Torino: Il Parco Dora si trova in una zona postindustriale della città. Ha un'estensione di quasi 500 mila quadrati. Il tram numero 3 portava qui migliaia di lavoratori negli ex stabilimenti Fiat e Michelin, che sono stati dismessi. All'inizio degli anni Duemila è partito il progetto per il recupero completo dell'area, che non si è ancora concluso. Il governatore della Puglia, Emiliano, da renziano ad alfiere del No: "Se i bambini mi abbracciano non è populismo: è che mi vogliono bene. Qui tutti conoscono il mio numero di telefono, è sempre acceso". Nel grande disincanto repubblicano, in quella che i francesi chiamano “la grande fatica della democrazia”, torna al centro, irrisolta e drammatica, la questione del lavoro. La crisi della sinistra sta in gran parte qui e si capisce perché andando a Milano da Giuseppe Berta, storico dell’industria. «Molto semplicemente», spiega, «è il lavoro che ha creato la sinistra, le ha dato espressione, interpretazione, forza di rappresentanza. Oggi è come se stesse passando un colpo di spugna su tutto questo. La grande fabbrica dove la classe operaia era centrale e consapevole di sé, riconosciuta dalla politica e dalla società, ormai quando va bene ha qualche migliaio di addetti. Tutte così, la Dalmine, la Pirelli, la Maserati che adesso si fa a Grugliasco, mentre a Mirafiori — un simbolo più che un posto — lavorano quattromila persone, meno di un decimo dell’impianto storico». Qui il lavoro che resiste sta cambiando e nessuno se ne accorge, dunque il cambiamento non ha valore. Dice Berta che in un’officina Finmeccanica al Sud c’è un operaio che maneggia un mandrino che vale decine di milioni, e lo fa ogni giorno, fuori da ogni rapporto tra salario, livello, ruolo e responsabilità. Bisognerebbe muoversi con cura e con sapienza in mezzo a ciò che resta del vecchio concetto indistinto di “lavoro”, scoprire anche qui le aree di “lavoro 4.0”, capire quel che sta nascendo in termini di competenza e intelligenza negli spazi tecnologici più complessi di ciò che chiamiamo fabbrica, arrivare a un’individuazione di qualità nuove, di qualificazioni sorprendenti, di responsabilità fino a ieri impensabili. Valorizzando queste isole di lavoro intelligente, scongelando il pregio della prestazione che c’è dentro, si creerebbe un nuovo tipo di made in Italy della produzione, della cultura materiale e intellettuale del fare, che pure fa parte in forme diverse della nostra storia. E invece questo deposito di nuove qualità non esce dalla fabbrica, sommerso dentro la crisi non viene riconosciuto. Come non viene considerato il lavoro degli immigrati, l’unico comparto che cresce, ma viene calcolato come occupazione povera, fuori da ogni rapporto di forza, di diritti e persino di mercato perché l’immigrato spesso è pronto a tutto, prende quel che gli capita, è per forza di cose nella logica di mercato del dopoguerra, dentro una grande economia di pace, anche se asfittica. Infine, c’è l’arcipelago dei lavori che contano uno per uno perché non si riesce a riportarli a matrice comune, costruendo un insieme concettuale. Questa frammentazione coincide con il “nuovo”, anche se non lo esaurisce. Berta l’ha incontrato in treno, uno di questi lavori, l’altro giorno quand’è venuto a salutarlo un suo ex allievo della Bocconi e gli ha parlato di Foodora, l’azienda con settecento fattorini (quattrocentocinquanta a Milano) che consegnano a casa dei clienti il cibo dei ristoranti più di moda entro mezz’ora dall’ordine. «È chiaro, stiamo parlando di una cosa che è lavoro, perché quei ragazzi corrono in bici da un ristorante a un indirizzo di casa, attraversano la città più volte, fanno tre o quattro consegne all’ora. Ma il valore di una consegna media è di ventiquattro euro (il costo di tre pizze), i ragazzi co.co.co. prendono quattro euro lordi a ogni servizio, coprono la fascia dalle diciannove alle ventidue, lavorano in tutto tre ore: come lo rappresenti questo lavoro, come puoi dargli coscienza e poi voce? Non si condensa, non prende corpo, nel momento in cui cerchi di dargli identità ti sfugge, è come afferrare l’acqua. E naturalmente l’ultima cosa che ti viene in mente è che in quello spazio ridotto, sottile e frammentato ci siano dei diritti». Bel problema, per la politica che deve parlare alla società e addirittura cercare di interpretarla. Eppure l’Europa non ha ancora inventato una sinistra che prescinda dal lavoro, che nasca e cresca solo dai diritti disincarnati, solo nell’ambiente. Siamo fatti di quella materia. Se salta il nesso tra lavoro, welfare e democrazia rappresentativa salta il nucleo della civiltà occidentale, come avverte Ulrich Beck, perché la democrazia europea è nata come democrazia del lavoro, il citizen col suo salario, anche se non lo sa, paga una quota dei diritti di libertà. E ogni volta che la democrazia non sta bene, ormai è chiaro che la sinistra sta peggio. Crescono gli elettori che si dichiarano di sinistra (17 per cento), la stessa percentuale si definisce di centrosinistra: ma il problema sono i giovani, attratti da Grillo e dall'antipolitica. I riformisti sono sempre più anziani. A questo punto ho chiesto al gran diagnostico d’Italia, Ilvo Diamanti, di misurare il sentimento di sinistra degli italiani. Qualcosa di immateriale ma qualcosa di indispensabile, una natura, un carattere, un mix di testa e cuore. Dice Ilvo che quel sentimento è piuttosto diffuso nel Paese disorientato: potremmo dire che è vagante. Oggi in Italia si definisce di sinistra circa il 17 per cento dei cittadini, altrettanti si dicono di centrosinistra. Nel 2012 l’anima di centrosinistra prevaleva per quattro punti, arrivava al 18 per cento contro il 14. La crisi dunque opera anche sul sentimento, radicalizzandolo, e aprendo uno spazio a sinistra, chissà se di speranza o di disperazione. Tutte e due le tendenze portano il sentimento dentro il Pd e sulle forze-debolezze alla sua sinistra. Nel Pd il 48 per cento si considera di centrosinistra, tra gli elettori di Sel il 68 per cento si qualifica di sinistra. Poi c’è la vela acchiappavento dei Cinque Stelle, che io considero sinistra mimetica, nel senso che il gruppo dirigente usa modi, linguaggi e cornici politiche di sinistra riempite di contenuti populisti, in qualche caso di destra (sui migranti, sull’Europa, sulle istituzioni), comunque ambigui. Per gli elettori grillini, a differenza del vertice, l’ancoraggio a sinistra esiste, perché il 19 per cento si dichiara di sinistra, il 16 di centrosinistra anche se ormai la massa ha mollato gli ormeggi e il 42 per cento rifiuta di collocarsi in questo spazio, scegliendo l’antipolitica come unica dimensione. Sono quelli che Ilvo chiama gli “esterni”. La frattura è per classi di età. Gli orientamenti di sinistra sono infatti più fragili tra i più giovani, dove l’opinione progressista è più debole di tre, quattro punti percentuali. Un sentimento anziano, dunque, che sta cambiando base sociale, con gli operai che diminuiscono di numero e guardano spesso altrove, mentre si avvicina il ceto medio intellettuale, il settore pubblico. «Tuttavia», spiega Diamanti, «stare a sinistra ha ancora un senso, perché dà significato all’azione sociale e all’impegno personale. Infatti il 60 per cento di chi si posiziona a sinistra manifesta un grande interesse verso la politica, il 20 per cento più della media italiana, e ha un tasso di partecipazione alla vicenda pubblica che è il doppio del Paese». Non siamo dunque al ground zero raccontato da Zoro, quando parla di “fighetti con tanti follower, democristiani rampanti con tanti voti, nostalgici con tante salcicce da abbrustolire, opinionisti con tante poltrone in tivù”. C’è in giro anche la voglia di custodire il sacro fuoco, senza lasciarlo spegnere. Dove lo trovate un pescivendolo come Salvatore Canu di Genova? Nella pescheria ai Macelli di Soziglia, sotto via Aurea, in mezzo ai baccalà di Norvegia ha appeso alle piastrelle bianche sul muro di sinistra i nomi dei padri costituenti su un foglio, in stampatello, e degli autori della riforma su un altro «perché la gente confronti, s’informi, sappia». Una sinistra allo stoccafisso. E a Roma una sinistra-tramezzino, perché quando hanno chiuso la sezione Mazzini del Pd (dove abitavano anche Uil e Spi Cgil, un tempo persino i Comunisti italiani) per un po’ le riunioni si sono fatte a casa della segretaria Susanna Mazzà, in via Montezebio d’inverno, e d’estate si tenevano all’aperto proprio qui, nello spiazzo verde di via Sabotino di fianco alla pasticceria Antonini, che propone trenta tipi diversi di cornetti ogni mattina, mignon salati tutto il giorno e anche la torta “Cannonata”. A Milano il referendum ha addirittura fatto saltar fuori gli ex Sessantottini, naturalmente divisi tra il “Sì” e il “No” facendo riferimento alla stessa esperienza per legittimare due scelte opposte. I primi dicono di aver appreso da quegli anni «che la democrazia non è solo rappresentanza ma anche governo, non è solo popolo ma anche istituzioni». I secondi ribattono spiegando di sapere benissimo che tutto è cambiato: «non tentiamo la scalata al cielo ma non ci rassegniamo, non accettiamo le ingiustizie, crediamo nei valori della Costituzione». A Bologna Franco Cima, presidente dell’Unione dei circoli, dice che se si organizza un’assemblea per il “Sì” e per il “No” la gente si prende a cazzotti, e invece bisogna guardare al 5 dicembre, perché quel giorno sorgerà ancora il sole e non ci si può trovare con il partito spaccato. Forse proprio a Bologna era finita la vecchia sinistra senza saperlo, ma non alla Bolognina, prima, quando il gruppo punk-emiliano CCCP-Fedeli alla linea sghignazzava sulle sacre origini cantando in Ortodossia le lodi all’Emilia, “la più filosovietica tra le province dell’impero americano” e con il “Cernenko Party” sfotteva la nostalgia: “Voglio un piano quinquennale/voglio la stabilità”. È degli stessi anni un ammonimento di Luciano Lama che vale anche per oggi: “Non sta scritto da nessuna parte, in nessun libro di storia che la sinistra debba rappresentare per l’eternità un terzo dei cittadini. Se non capiremo che il modo di cambiare la società in Occidente oggi è uno solo, e per la sinistra si chiama riformismo, ebbene le nostre radici non basteranno da sole a garantirci”. Ricordo Norberto Bobbio che ascoltava, annuiva e quando il convegno sulla sinistra finì prese il microfono nella sala piena, a Roma, dicendo una frase soltanto: “La cosa c’è”. Cosa aggiungere? Forse le parole di Massimo Bucchi, che da anni tengo inquadrate davanti a me. “Io non credo più nella sinistra”, si lamenta nella vignetta l’uomo con il cappello. “Zitto”, risponde la donna al suo fianco, “e se poi esiste?”. Di Ezio Mauro

L'inchiesta è stata realizzata grazie alla collaborazione e all'intelligenza di Enrico Bellavia, Michela Bompani, Eleonora Cappelli, Stefano Cappellini, Pietro Comelli, Giuliano Foschini, Paolo Griseri, Laura Montanari, Matteo Pucciarelli, Conchita Sannino e Wanda Valli. Il direttore del "Piccolo", Enzo D'Antona, è stato la mia guida per il Nord-Est (E.M.)

De Luca contro Saviano: «Camorrologo di corte», scrive Rocco Vazzana il 21 novembre 2016 su "Il Dubbio". Dopo l'affaire Bindi il governatore torna all'attacco. Dopo le polemiche per le dichiarazioni su Rosy Bindi («un'infame, da ucciderla»), il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, non ne vuol sapere di abbassare i toni e contrattacca. «Se qualcuno pensava di costruire o inventare un episodio che potesse determinare uno sconquasso, hanno fatto guadagnare al sì qualche centinaio di migliaio di voti», dice dai microfoni dell'emittente salernitana Lira Tv. «Siamo in un Paese nel quale ti svegli la mattina per buttare il sangue in una regione come la Campania, cerchi di fare il tuo dovere da uomo libero e ti devi guardare da farabutti di ogni tipo», continua. Eppure De Luca è convinto che questo "incidente di percorso" gli abbia consentito di riconquistare «il consenso di tutto il partito trasversale dei disgustati, di cui mi onoro diessere il leader da qualche anno, e che di fronte a questi atti di fariseismo non potrà non avere un moto di ripulsa». Ma tra coloro che hanno preso le distanze dal presidente campano sull'affaire Bindi ci sono i massimi esponenti del suo partito: il Pd. Il segretario Matteo Renzi ha definito «totalmente inacettabili» le parole di De Luca, mentre il presidente Matteo Orfini ha invitato il governatore a darsi una calmata e a scusarsi con la presidente della Commissione Antimafia. L'esponente dem campano, però, non è il tipo che si cosparge il capo di cenere. Anzi, se può rilancia, polemizzando con i suoi maggiori detrattori. E nel suo mirino finisce anche finito Roberto Saviano, che aveva liquidato come «parole mafiose» le frasi contro Bindi. Senza mai nominarlo direttamente, il presidente della Regione risponde a muso duro allo scrittore: «Il camorrologo di corte troverebbe violenza anche nelle canzoni di Baglioni». Per sminuire le sue affermazioni, infatti, l'ex sindaco di Salerno chiama in causa personaggi del cinema e della musica: da Carlo Verdone ad Alberto Sordi, da Vittorio De Sica a Claudio Baglioni, appunto. «L'espressione "vai a morire ammazzato" che immaginavo fosse una espressione di folklore abbiamo imparato che in realtà è una grave minaccia. Non un'espressione di gergo ma un programma di azione», prova ad argomentare. «Voi pensavate a Baglioni come ad un uomo romantico, perfino delicato che guardava le magliette trasparenti. Ha fatto una canzone dal titolo Vai a morire ammazzato, un brano che noi non pensavamo fosse di carico ideologico, ma che il camorrologo di corte e di salotto definirebbe messaggio carico di violenza». In realtà il titolo della canzone a cui si riferisce De Luca è un altro: E me lo chiami amore, ma è vero che il cantautore romano nel ritornello intona: «Ma va' moriammazzata». Citazioni musicali a parte, tra gli obiettivi del governatore, però, non potevano mancare i 5 stelle. «Ho letto che due eminenti dirigenti del M5S avevano intrapreso un viaggio sul treno per vedere come funzionano i treni dei pendolari», dice. «Io avevo preso per buona la notizia perché pensavo che avessero deciso di fare i transfrontalieri e andare in Svizzera a lavorare. Braccia sottratte alla zootecnia svizzera, alla mungitura di mucche, alle porcilaie di Zurigo. Ed invece si sono fermati a Civitavecchia e sono tornati indietro. Questi giovani dirigenti grillini... che meraviglia».

Vincenzo De Luca, il Donald Trump nostrano. E' il governatore campano la copia più fedele, in casa nostra, del neo presidente Usa. Un uomo a cui si perdona tutto, anche le frasi su Rosy Bindi, perché fa vincere le elezioni, scrive Luca Sappino il 18 novembre 2016 su "L'Espresso". In tanti sgomitano per il titolo. Matteo Salvini, Beppe Grillo, persino Matteo Renzi che pure non si vuole mischiare alla tipologia umana, ma è convinto di poter esprimere la stessa voglia di cambiamento. Anche se ormai da mille giorni sta a palazzo Chigi, il premier dice infatti di poter esser il simbolo del sentimento anti-establishment. Tutti, in questi tempi, vogliono essere Donald Trump. Vincenti. È Vincenzo De Luca, però, che con le ultime uscite si erge una spalla sopra gli altri. «Io credo che potremo persino da Trump aspettarci qualcosa di buono», dice non per caso, anche se poi anche lui, come Renzi, conferma la distanza politica che lo separa dal nuovo presidente Usa. Lo fa con una battuta delle sue: «Io non sono tra quelli che siccome ha vinto dice che è diventato un galantuomo oxfordiano», sostiene nel suo settimanale intervento su LiraTv «Trump è sempre quello col nido di quaglia in testa, non è cambiato». E lo fa polemizzando col Movimento 5 stelle, ovviamente: «È giusto il caso di ricordare a Grillo che sotto il nido di quaglia Trump ha alcune proposte che cercherà di portare avanti. Domando a Grillo se ha capito bene che questo vuole togliere la sanità pubblica che aveva introdotto in parte Obama. Ti rallegra questa ipotesi? Hai capito che vuole mettere fine a alcuni diritti civili, come quello della donna di interrompere la gravidanza? Hai capito che vuole ampliare l’acquisto delle armi? Sei contento?». "Quello che fece la Bindi è stata una cosa infame, da ucciderla. Ci abbiamo rimesso l'1.5 - 2 per cento di voti. Atti di delinquenza politica. E non c'entra niente la moralità, era tutto un attacco al governo Renzi", così Vincenzo De Luca, a Matrix. Il presidente della regione Campania si riferisce al fatto accaduto poco prima delle elezioni amministrative del 2015: la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, lo aveva inserito nella lista dei "candidati impresentabili" per via di una condanna in primo grado. La vicinanza che rivendica De Luca è dunque nella carica umana. Se non è un galantuomo oxfordiano il presidente degli Stati Uniti, insomma, potrà non esserlo il presidente della regione Campania, no? «Non credo che Trump sia un rischio per il mondo», dice De Luca. Non lo sarà così neanche lui che pure è finito nuovamente sulle prime pagine di tutti i giornali, ancora per i suoi toni. «Ha fatto una cosa infame. Da uccidere», è infatti la frase immortalata dalle telecamere di Matrix, detta da De Luca rivangando le vicenda della lista di impresentabili, le scorse amministrative e la polemica con Rosy Bindi. Questa volta nel partito in tanti gli hanno chiesto di scusarsi e hanno espresso solidarietà alla presidente della commissione Antimafia. Ma De Luca non è certo la prima volta che dice così di Bindi. «Per me», disse a Ottoemezzo nei giorni più caldi della polemica, «impresentabile è l’onorevole Rosaria Bindi. Da tutti i punti di vista». Bisogna così solo decidere se fa più ridere il sarcasmo di De Luca o quello di Berlusconi, quando disse a Bindi che era «più bella che intelligente».  Tra un appello all’unità e l’altro, nel Partito democratico se ne dicono di tutti i colori.  Lo scontro si gioca ormai sul confine strettissimo tra lo sfottò e l’ingiuria.  E più si avvicina il referendum più il clima si fa rovente. Il confronto è con un gigante ma De Luca è formidabile nelle allusioni, nell’esibire un certo orgoglio maschio. Si stampa un sorrisetto sulla faccia, ad esempio, quando replica a un esposto di Italia Nostra preoccupata per il destino delle «passere d’Italia», la cui nidificazione, per gli ambientalisti, sarebbe stata messa a rischio dall’abbattimento di alcuni platani a Salerno: «Le passere d’Italia avranno motivo di conforto» dice sicuro il governatore. Che sa bene di non essere Brad Pitt, come ammette divertito («E lui non è George Clooney», dice indicando Bersani). Ma si lancia. «Se non siete molto esigenti sul piano estetico, vi faremo impazzire». Impareggiabile è poi negli insulti. Il cui bersaglio preferito, persino più di Bindi, più della minoranza dem («Miguel Gotor, io pensavo fosse un ballerino di flamenco»), più della destra («La Russa a giudicare dalla sua lingua non si sa se appartenga all’etnia albanese o kosovara»), è il Movimento 5 stelle. «Vito Crimi detto il procione», è la definizione più bonaria data di un esponente grillino. Di Di Maio, Di Battista e Fico disse che «sono tre mezze pippe». E anche per loro gli è scappato di evocare la morte. «I tre si odiano, si baciano, si abbracciano, ma sono falsi come giuda, ognuno vorrebbe accoltellare l’altro alla schiena», è la legittima analisi, conclusa però con un liberatorio «che vi possano ammazzare tutti». Insomma. De Luca è scomodo, ma lui ne va fiero, anche se per molti nel partito democratico comincia a esser un problema. Ma lo è sempre fino a un certo punto, finché basta una tirata d’orecchie. Perché poi con De Luca bisogna fare i conti. Bisogna fare pace, come ha fatto Matteo Renziche in Campania non per nulla ha sospeso ogni foga rottamatrice («La rottamazione si è fermata a Salerno», dice l’ex dem Fassina), preferendo rottamare Rosy Bindi più che De Luca. E alle ultime regionali, mentre Bindi parlava di impresentabili, non ha avuto nulla da ridire per l’accordo stretto da De Luca con alcuni ex forzisti. La Campania così è dove per la prima volta è uscito alla luce del sole l’accordo coi verdiniani, ed è proprio il listone messo insieme dal senatore Vincenzo D’Anna ad aver, coi suoi 35mila voti, assicurato la vittoria dell’esuberante presidente. Che oggi viene bacchettato («All’ultima lezione di tango gli avevo consigliato di non bere», dice Gotor strappando almeno un sorriso, in tutta la vicenda) ma che è sempre stato così. De Luca è quello che - sì, è vero, con fare divertito - arringa duecento sindaci campani complimentandosi con chi riuscirà a mettere insieme più voto clientelare in vista del referendum costituzionale. «Ognuno di noi deve dire quanti cittadini nel proprio comune porta a votare», dice De Luca, che non si dica che lui le campagne elettorali non sa organizzarle. «Sono arrivati fiumi di soldi: 2 miliardi e 700 milioni per il Patto per la Campania, altri 308 per Napoli», dice il governatore ai sindaci, «che dobbiamo chiedere di più?». È questo De Luca, che però, per un saggio della sinistra come Emanuele Macaluso, «segnala in maniera netta il fallimento della rottamazione renziana». Lui e la candidatura di Bassolino alle ultime primarie comunali, per Macaluso. Con una differenza: «Bassolino», ha spiegato a Giuseppe Alberto Falci, «è una personalità che ha avuto rilievo nazionale. Ha avuto ruoli di governo, ha amministrato Napoli e poi la regione. Una storia, la sua, nella sinistra del Pci, prima ingraiaiana poi occhettiana». De Luca, invece, «è stato un ottimo sindaco, ma ha una visione lontana dalla sinistra». «Quando ero direttore de il Riformista», è il ricordo, «feci un editoriale al vetriolo per come trattava gli immigrati. Arrivò a dire che gli immigrati si dovevano cacciare prendendoli a calci nei denti». 

IL COMUNISMO. UNA FEDE MORTALE.

Il comunismo, un'ideologia velenosa che ha frenato l'Occidente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 28/10/2016, su "Il Giornale". Una collana di testi storici per capire che cosa è stato il comunismo potrebbe sembrare una operazione nostalgica all'inverso, cioè tenere in vita un nemico vinto e abbattuto, almeno in quella parte del mondo da noi abitata o abitualmente frequentata. Certo, da queste parti i comunisti non mangiano più i bambini e invero non li hanno mai mangiati, ma quell'ideologia ha divorato una parte importante della nostra società, impedendone un corretto ed efficace sviluppo, ha seminato morte attraverso le sue falangi terroristiche, ha inquinato il pozzo della democrazia. Per questo noi ancora oggi, in tanti campi, dal mondo del lavoro alla giustizia, dall'editoria all'approccio alle grandi emergenze contemporanee, prima fra tutte il rapporto con l'immigrazione e la religione islamica, continuiamo a bere da fonti inquinate. Se i comunisti bandiera rossa falce e martello sono un irrilevante residuo politico e sociale, quell'ideologia continua invece a vivere mascherata sotto altri nomi, sigle e volti il più delle volte rassicuranti e per questo paradossalmente più pericolosi. Camaleonti che si annidano in ogni ambito dello Stato, della politica, della comunicazione. Parliamo di persone, molte delle quali editorialisti di grandi giornali borghesi e ospiti fissi nei dibattiti televisivi, alle quali è stato concesso di non fare i conti con la loro storia, a differenza di chi aveva sposato diverse e opposte ideologie. Hanno rimosso la colpa e la vergogna di essere stati complici della più grande tragedia del Novecento, superiore per numero di vittime e longevità persino al Reich di Hitler. L'apologia del comunismo dovrebbe essere parificata a quella del nazismo e altrettanto penalmente e civilmente perseguita. Le sue bandiere e i suoi simboli andrebbero banditi da piazze e cortei. Sappiamo che così non è stato e non sarà. Perché, al di là di come appare, il comunismo ancora esiste e ha un potere assai superiore a quello esercitato dai partiti e partitini che lo rappresentano democraticamente. Il comunismo è una fede, si può celare per opportunità, non rinnegare. E allora conoscere o ripassare quei pochi testi che sono riusciti a raccontarlo senza condizionamenti, entrare nel cuore del problema attraverso i capisaldi di quel pensiero, il Che fare? di Lenin (equivalente al Mein Kampf di Hitler) e il Manifesto di Karl Marx, può essere utile non solo per ripercorrere la vera storia ma anche e soprattutto per capire meglio il presente e i rischi non scongiurati del futuro.

Se il comunismo è morto come sistema politico mondiale, non per questo possiamo dire di essercene sbarazzati. Con il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est, pensavamo, che l’era del rifiuto delle verità difficili si fosse definitivamente chiusa, e saremmo stati finalmente in grado di comprendere la portata dei regimi comunisti e gli orrori che aveva prodotto. Ci sbagliavamo. Perché ancora oggi non si fa parola delle migliaia di civili massacrati, dei crimini e del terrore che hanno accompagnato la storia dei regimi rossi con il complice silenzio dei partiti comunisti europei, a cominciare da quello italiano. Perché, al contrario di quanto proclama fieramente il primo verso dell’Internazionale, non si può «fare tabula rasa del passato»: una collana per capire. 

Ecco il piano dell'opera: 

Il libro nero del comunismo europeo + libro Che fare? di Lenin;

I-L'Urss di Lenin e Stalin 1914-1939; II-L'Urss dalla rovina alla rinascita 1939-1964; III-L'Urss dal trionfo al degrado 1964-1991;

Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss, 1937-38;

Passione e tragedia. La storia degli ebrei russi;

Mao. La storia sconosciuta;

Il Libro nero di Cuba;

Pulizia di classe. Il massacro di Katyn;

I dimenticati. Storia degli americani che credettero a Stalin;

La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo;

Togliatti e Stalin;

Il Tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata;  

La lotta politica nel Pci Togliatti & Amendola;

Botteghe oscure. Il Pci di Berlinguer e Napolitano.

Storia e orrori del comunismo europeo. Un'indagine che smaschera i silenzi della sinistra francese sui crimini del marxismo, scrive "Il Giornale" Martedì 14/03/2006.  È questa la memoria che Il libro nero del comunismo ha sconvolto. La portata dello choc può essere misurata in base alla febbre che ha colto il mondo politico, mediatico e universitario nei mesi di novembre e dicembre 1997. La reazione più violenta è stata quella dei guardiani del tempio comunista, che si è manifestata con un marcato negazionismo. Il 7 novembre 1997, in occasione di una grande riunione commemorativa della Rivoluzione d’ottobre, Arlette Laguiller definiva gli autori del Libro nero del comunismo «sedicenti storici» e «falsificatori all’opera». Dalla «pasionaria» di uno dei principali gruppi trotzkisti francesi ci saremmo aspettati che si rallegrasse del fatto che venivano ricordati i crimini di Stalin e dei suoi emuli in Asia e nell’Europa dell’Est, perpetrati, tra l’altro, contro gli stessi trotzkisti. Ma il Libro nero affermava a chiare lettere che era stato Lenin a dare avvio a quel sistema, e quindi anche al terrore, il che era inaccettabile per una fedele seguace del bolscevismo. Il 14 novembre, il suo giornale, Lutte ouvrière, passava dal negazionismo alla minaccia, pubblicando una famosa immagine della propaganda bolscevica, un Lenin armato della scopa della rivoluzione, saldamente piantato sul globo terrestre, che scagliava nel vuoto intersiderale capitalisti, preti e monarchi, accompagnata dalla seguente didascalia: «Lenin ripulisce il pianeta. Ai personaggini da eliminare bisognerebbe senza dubbio aggiungere gli pseudo-storici falsificatori». Un'altra chiara manifestazione di negazionismo giunse da Jeannette Vermeersch, vedova di Maurice Thorez e molto vicina alla direzione del Pcf per quasi quarant’anni, la quale, su Le Figaro del 6 gennaio 1998, dichiarava senza scomporsi che Il libro nero del comunismo «era una terribile menzogna». Lei, che lo aveva conosciuto personalmente, poteva infatti affermare che Stalin aveva certamente «dei difetti e che aveva fatto degli errori», ma che era «una persona ragionevole». Nelle sue Memorie, pubblicate nel 1998, scrive a proposito del «Rapporto segreto» di Kruscev di cui, insieme al marito, segretario generale, aveva negato a lungo persino l’esistenza: «Il testo di Kruscev arrivò e venne sfruttato... : si è parlato di milioni di morti. Solzenicyn superò il centinaio ed Ellenstein si limitò a una decina... Questo consentiva di fare un paragone tra Stalin e Hitler. Io penso che tutto ciò sia falso. Non credo \ ai milioni di morti o di prigionieri politici...». Un simile atteggiamento negazionista è superbamente illustrato dalle Memorie di Jacques Jurquet che fu, vent’anni fa, capo del Partito comunista marxista-leninista di Francia (Pcmlf). Nelle sue Memorie, Jurquet ricorda i suoi undici viaggi «ufficiali» nella Cina maoista \. Questi racconti ricordano da vicino quelli dei numerosi turisti politici, comunisti e no, che visitarono l’Urss negli anni Venti-Trenta e nei decenni successivi: non una parola sui massacri di massa dei «nemici del popolo» o sulla carestia del 1959-61, che fece decine di milioni di morti, nulla su quella tragedia che fu la Rivoluzione culturale, in particolare per le élite intellettuali e tecniche, silenzio assoluto sul lento genocidio del Tibet. Più sorprendente ancora è il racconto del sostegno indefettibile del Pcmlf ai khmer rossi. Il 9 settembre 1978, alcuni mesi prima del crollo del regime e quando ormai le atrocità da esso commesse cominciavano a essere note all’estero, una delegazione del Pcmlf guidata da Jurquet giunse a Phnom Penh in visita «ufficiale». Ciò che colpisce il nostro testimone è l’aspetto «diciamo surrealista» \ della capitale cambogiana, svuotata dei suoi tre milioni di abitanti nei pochi giorni seguiti alla presa del potere da parte dei khmer rossi. Egli riconosce in tutto ciò «un evento inatteso di cui non si conosce alcun precedente nella storia, neppure durante la Seconda guerra mondiale». Una simile scena non lo induce comunque a qualche riflessione, quando proprio quell’atto tanto singolare era la prova della folle ideologia totalitaria dei khmer rossi, che avrebbe provocato i primi grandi massacri di massa organizzati dal regime. Jurquet spinge il negazionismo sino a fare propria una dichiarazione di Pol Pot, pubblicata da Le Monde il 23 ottobre 1998, in cui il dittatore cambogiano sosteneva che «il centro di tortura di Tuol Sleng era solo un'invenzione vietnamita». A quell’epoca, tuttavia, era già stato documentato che 20.000 «nemici del popolo» erano stati rinchiusi nella prigione centrale di Phnom Penh e che nessuno di loro ne era uscito vivo: tutti, bambini compresi, erano stati giustiziati dopo abominevoli torture. In Francia, il bombardamento ideologico a favore del comunismo è stato tale da contaminare, per decenni, l'intera società, togliendole la capacità di reagire. Una tendenza politica che si rifaceva al comunismo \ ha potuto così impunemente promuovere un sistema propagandistico, il quale ha assunto la forma di una memoria collettiva che osannava carnefici macchiatisi di crimini contro l’umanità e, attraverso tale sistema, farsi beffe di innumerevoli vittime provenienti in gran parte da quello stesso «popolo» che i comunisti sostenevano di «servire» o dal «proletariato» di cui si proclamavano «l'avanguardia». Tutti questi negazionisti hanno puntualmente stigmatizzato Il libro nero del comunismo e i suoi autori, presentandolo talora come una volgare operazione commerciale. \ È quindi con una certa ironia che mi appresto a rammentare che il 7 novembre 1936, sessantun anni esatti prima della pubblicazione del Libro nero del comunismo, André Gide pubblicava il suo Ritorno dall'Urss, paese in cui aveva appena fatto un viaggio trionfale ma organizzatissimo, durante il quale aveva notato che «... la minima protesta, la minima critica è soggetta alle peggiori pene e comunque subito ridotta al silenzio». E concludeva: «E ho l’impressione che in nessun altro paese oggi, nemmeno nella Germania di Hitler lo spirito sia meno libero, più piegato, più timoroso (terrorizzato), più asservito». Gide aveva subito numerose e forti pressioni da parte di intellettuali comunisti per rimandare la pubblicazione del libro, se non addirittura per rinunciarvi. \ Dato l’immenso successo di Ritorno dall’Urss (centocinquantamila copie e quindici traduzioni in un anno), una vera e propria bomba nel clima filocomunista del Fronte popolare, non mancò un compagno di strada del Pcf che dichiarò pubblicamente che il libro non era altro che un’operazione commerciale.

I moltissimi scheletri nascosti nell'armadio dei comunisti europei. Stéphane Courtois e altri storici ricostruiscono le vicende della sinistra del Vecchio continente, scrive Matteo Sacchi, Sabato 29/10/2016, su "Il Giornale".  Lo storico francese è uno dei più grandi esperti delle vicende dei movimenti politici di sinistra durante il XX secolo. Grandissimo rumore fece, nel 1997, un saggio collettaneo da lui curato: Il libro nero del comunismo. Per la prima volta in quel volume si tentava una quantificazione delle vittime della violenza dei regimi totalitari di sinistra: non meno di cento milioni di persone. Il libro scatenò, soprattutto in Francia, un vivacissimo dibattito. Aveva infranto il muro del conformismo «benevolo» di intellettuali e scrittori che, sino a quel momento, avevano nascosto sotto il tappeto della storiografia dominante le violenze di Lenin, Stalin, Mao e adepti vari... Il libro nero del comunismo europeo si muove sulla stessa linea di demistificazione, ponendo l'accento sul Vecchio continente che, per mere questioni editoriali, nel primo volume era stato trascurato. Forse il capitolo più interessante è quello intitolato Del passato facciam tabula rasa!, vergato direttamente da Courtois. Illustra in maniera magistrale come in Occidente un gran pezzo dell'intellighenzia abbia fatto di tutto per non vedere, e non raccontare, i crimini dei totalitarismi di stampo sovietico. Prima e dopo il crollo del Muro di Berlino. Anzi, per certi versi, proprio dopo il crollo del Muro, quando è diventato sempre più difficile fingere di non sapere, l'insabbiamento è divenuto più sistematico. Gli archivi sovietici, finalmente resi pubblici hanno chiaramente mostrato come il Pcus agisse per controllare i partiti satellite in Occidente. Ma molti davanti a questa evidenza hanno girato la testa dall'altra parte. Così come l'hanno girata di fronte ai documenti che provavano in maniera inconfutabile che la strage di Katyn era opera delle truppe sovietiche e non di quelle naziste. Oppure hanno continuato a considerare propaganda capitalista i milioni di morti della carestia ucraina del 1932-33. Insomma, l'amnesia e i distinguo nella cultura di massa occidentale sono tutt'altro che spariti, nonostante gli sforzi di alcuni storici. Anzi, come spiega Courtois c'è anche un'amnesia tipica dei Paesi ex comunisti. Scriveva lo storico François Furet già negli anni '90: «La fine del comunismo faceva prevedere che sarebbe stata accompagnata da scontri terribili, e invece si è compiuta nella pace civile, senza essere seguita da scontri e epurazioni». Ma questo esito incruento, in molti casi, ha avuto come prezzo la cancellazione della memoria. Una cancellazione pericolosa che rischia di far rinascere gli autoritarismi dalle loro ceneri. Ci sono agenti dei servizi di sicurezza comunisti che dopo aver ucciso o torturato centinaia di persone hanno concluso la loro vita nella più completa impunità. Basti citare il colonnello Nikolski, vicedirettore della temutissima Securitate rumena. Insomma, continua ad esistere un corposo negazionismo comunista che fatica a morire. Del resto in Italia lo si può vedere all'opera ogni volta che si parla di Istria e delle Foibe. Altre parti del libro, invece, presentano saggi che si occupano in maniera «monografica» di singoli Paesi e di singoli partiti comunisti rimasti ai margini del Libro Nero. Per noi italiani ovviamente il saggio più interessante è quello dedicato al Pci e a firma di Philippe Baillet, Togliatti e la difficile eredità del comunismo italiano. Baillet segnala con forza come nel nostro Paese, a differenza di quanto si crede, soprattutto all'estero, le dinamiche della politica non hanno preso affatto, nella maggior parte dei casi, una bonaria forma alla Don Camillo e Peppone. Spiega con chiarezza che «l'Italia fu invece l'unico Paese dell'Europa occidentale in cui la sinistra stalinista prevalse su quella democratica». La chiave del suo lavoro è un'attenta disamina dell'ascesa di Togliatti, che di questa stalinizzazione a tappe forzate fu il principale responsabile. Ne mette in luce tutte le durezze e il ruolo attivo nell'epurazione di tutti i compagni, italiani e non, che non erano intenzionati a trasformarsi in servi dell'Urss. Un appiattimento politico che forse toccò l'apice con l'articolo con cui Togliatti commentò l'invasione russa dell'Ungheria. Si intitolava Per difendere la civiltà e la pace: «Una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa... non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo».

Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione. "Gli occhi azzurri della Rivoluzione brillano di crudeltà necessaria" Louis Aragon, Le Front rouge. Il ponderoso libro sui crimini del comunismo che in pochi giorni ha già raggiunto incredibili dati di vendita in Italia, dopo essere stato in testa alle classifiche francesi, ha suscitato un grande dibattito tra giornalisti, politologi e uomini politici di sinistra e di destra. I più importanti quotidiani italiani hanno dedicato ampie recensioni a questo complesso e controverso volume che, oltre al merito di aver ricostruito in modo (quasi sempre) ben documentato ciò che è avvenuto in questo secolo nei paesi in cui erano in vigore regimi comunisti, ha anche quello di aver provocato negli ambienti della sinistra italiana un momento di riflessione e di crescita. Forse è molto difficile sfuggire all'uso prettamente strumentale dei contenuti di questa ricerca o a "ennesime richieste di abiura del passato", come dice Daniela Pasti su "la Repubblica" (25-02-1998), e proprio questa può essere la difficoltà nell'avvicinarsi alla lettura del libro, soprattutto dopo aver affrontato il primo, introduttivo capitolo scritto da Stéphane Courtois, che funge da cornice all'intero contesto e che ha suscitato polemiche anche all'interno del gruppo di lavoro, tanto che due autori di importanti sezioni se ne sono dissociati. I due storici sopra citati sono Nicolas Werth e Jean-Louis Margolin e hanno curato le sezioni dedicate all'URSS il primo e alla Cina e ai comunismi asiatici il secondo. La lunga, coinvolgente recensione di Rossana Rossanda, apparsa su "il manifesto" del 25 febbraio, valuta i capitoli dedicati all'URSS tra i più documentati e quindi tra i più interessanti anche grazie all'apertura degli archivi sovietici e alla loro consultazione da parte dell'autore. I dati offerti, che possono apparire sconvolgenti, erano in realtà per lo più noti, anzi da questa pubblicazione certi numeri che erano stati fatti per approssimazione (e spesso non ingenuamente), vengono notevolmente ridimensionati. Ma è proprio il vedere accostati tutti i crimini compiuti dai regimi comunisti e ancor più le conclusioni a cui la ricerca giunge che provocano forti turbamenti. Il comunismo è stato autore di un "genocidio di classe" che ha provocato un numero di morti maggiore del "genocidio di razza". Perché allora c'è stato "l'occultamento della dimensione criminale del comunismo"? Per Courtois sono tre le principali ragioni: l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione, la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo e un'idea forte e vitale di antifascismo che vigilava perché i crimini nazisti non si ripetessero e che non accettava il pensiero che colpe analoghe potessero venire imputate al fronte avverso. La ragioni generali che hanno motivato questa ricerca sono: "il rispetto delle regole della democrazia rappresentativa e, soprattutto, il rispetto della vita e della dignità umana. È questo il metro con cui lo storico giudica gli attori della storia." L'ultimo capitolo del libro, sempre di Courtois, ha come titolo "Perché?" ed è la risposta alla domanda fondamentale che ci si pone: perché tanta crudeltà? sono connaturati al regime comunista l'uso programmato della violenza e l'uccisione dell'avversario? La risposta, forse troppo categorica e priva di inquietudini, è "sì", un sì drastico e senza scampo, che vede proprio in Lenin (estrapolando frasi da lettere e da discorsi e decontestualizzandole) la radice teorica della natura criminale del comunismo. Se, come dice Orlando Figes nella bella intervista rilasciata a Curi e a Placidi per "l'Unità" del 25 febbraio, l'obiettivo di questo "libro nero" è il "recupero di consensi della destra non tanto nei confronti del comunismo, quanto della sinistra liberale", proprio perché nessuno oggi, a sinistra, negherebbe la violenza dei regimi comunisti, forse è tutta la cultura di origine illuministica che viene attaccata e questo può essere piuttosto pericoloso.

Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione. Titolo originale: Le livre noir du communisme. Pag. 770, Lit. 32.000 - Edizioni Mondadori (Le Scie). Pubblicato nel 1997 e tradotto in venticinque paesi, questo studio ha avviato un vasto dibattito a livello internazionale, accompagnato da inevitabili polemiche. Questa nuova opera collettiva, curata da Stéphane Courtois, approfondisce e completa il lavoro di bilancio e di analisi inaugurato allora, prendendo in considerazione i crimini del comunismo in Europa. Affermati storici e studiosi europei e americani mettono in luce tragedie che troppo spesso sono state sottovalutate o deliberatamente ignorate, per fare emergere la verità. Scopriamo così come in Estonia i "battaglioni di distruzione" comunisti abbiano avuto, durante l'ultima guerra mondiale, diritto di vita e di morte su quanti cadevano nelle loro mani; come la popolazione bulgara abbia conosciuto per decenni il terrore di massa; come nel famigerato carcere rumeno di Pitesti i detenuti venissero costretti a torturare i loro stessi compagni. Per non parlare delle angherie perpetrate con il massimo zelo dalla Stasi nella Repubblica democratica tedesca. Questo libro indaga su uno degli interrogativi più sconcertanti della storiografia novecentesca: perché il comunismo, nonostante i fallimenti e le tragedie che ha provocato per quasi un secolo, possa ancora rappresentare per moltissime persone un ideale di giustizia e di progresso.

Le prime pagine. Il libro nero del comunismo.

INTRODUZIONE: I crimini del comunismo (di Stéphane Courtois). "La vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella lotta contro il nulla".  TZVETAN TODOROV, "Les abus de la mémoire".

"Si è potuto scrivere che «la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini» e la violenza del Novecento sembra confermare questa formula in modo eloquente. Certo, nei secoli precedenti pochi popoli e pochi paesi sono stati risparmiati dalla violenza di massa. Le principali potenze europee sono state implicate nella tratta dei neri; la Repubblica francese ha messo in atto una colonizzazione che, nonostante alcuni apporti positivi, è stata caratterizzata sino alla fine da episodi raccapriccianti. Negli Stati Uniti persiste una cultura della violenza che affonda le proprie radici in due crimini principali: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indiani. Rimane, comunque, il fatto che, sotto questo aspetto, il nostro secolo sembra avere superato i precedenti. Guardandolo retrospettivamente, non ci si può esimere da una conclusione sconcertante: il Novecento è stato il secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali e il nazismo, senza dimenticare le tragedie più circoscritte dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e di tanti altri paesi. L'Impero ottomano ha proceduto, infatti, al genocidio degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata delle più irreprensibili. E la stessa piccola Svizzera deve fare i conti con il proprio passato di depositaria dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è assolutamente paragonabile a quello del genocidio. Il comunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie e ne costituisce, anzi, uno dei momenti più intensi e significativi. Il comunismo, fenomeno fondamentale di questo Novecento, il secolo breve che incomincia nel 1914 e si conclude a Mosca nel 1991, si trova proprio al centro dello scenario storico. Un comunismo che preesisteva al fascismo e al nazismo e che è sopravvissuto a essi, toccando i quattro grandi continenti. Che cosa intendiamo esattamente con il termine «comunismo»? E' necessario stabilire subito una distinzione fra la dottrina e la pratica. Come filosofia politica, il comunismo esiste da secoli, se non da millenni. Non è stato forse Platone, nella "Repubblica", a esporre per primo l'idea di una città ideale in cui gli uomini non fossero corrotti dal denaro e dal potere e in cui comandassero la saggezza, la ragione e la giustizia? Un pensatore e statista del rango di Tommaso Moro, cancelliere d'Inghilterra nel 1529, autore della famosa "Utopia" e morto per mano del boia di Enrico Ottavo, non è stato forse un altro precursore di quest'idea di città ideale? L'approccio utopico sembra perfettamente legittimo come strumento critico della società: esso partecipa del dibattito ideologico, ossigeno delle democrazie. Ma il comunismo di cui trattiamo in questa sede non si colloca nel mondo delle idee. E' un comunismo reale, che è esistito in una determinata epoca, in determinati paesi, incarnato da leader famosi: Lenin, Stalin, Mao, Ho Chi Minh, Castro eccetera e, più vicino alla storia nazionale francese, Maurice Thorez, Jacques Duclos, Georges Marchais. Il comunismo reale, in qualunque misura sia stato influenzato nella sua pratica dalla dottrina comunista anteriore al 1917 - problema su cui ritorneremo -, ha comunque messo in atto una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. L'ideologia è, dunque, innocente? I nostalgici e coloro che ragionano con una mentalità scolastica potranno sempre sostenere che questo comunismo reale non aveva niente a che vedere con il comunismo ideale. E sarebbe evidentemente assurdo imputare a teorie elaborate prima di Cristo, durante il Rinascimento o ancora nell'Ottocento, eventi prodottisi nel ventesimo secolo. Ma, come osservò Ignazio Silone, le rivoluzioni come gli alberi si riconoscono dai loro frutti. Non a caso i socialdemocratici russi, meglio noti come «bolscevichi», nel novembre del 1917 hanno deciso di chiamarsi «comunisti». Non a caso, ancora, hanno eretto ai piedi del Cremlino un monumento in onore di coloro che consideravano i loro precursori: Moro e Campanella. Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo. E' vero che in un arco di tempo variabile - che va da pochi anni nell'Europa dell'Est a parecchi decenni nell'URSS e in Cina - il terrore si è affievolito e i regimi si sono stabilizzati su una gestione della repressione nel quotidiano, mediante la censura di tutti i mezzi di comunicazione, il controllo delle frontiere, l'espulsione dei dissidenti. Ma la «memoria del terrore» ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi l'efficacia, della minaccia repressiva. Nessuna delle esperienze comuniste che hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa legge: né la Cina del Grande timoniere né la Corea di Kim Il Sung né il Vietnam del «gentile zio Ho» o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che Guevara il puro, senza dimenticare l'Etiopia di Menghistu, l'Angola di Neto e l'Afghanistan di Najibullah. I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposti a una valutazione legittima e consueta né dal punto di vista storico né da quello morale. Questo è, forse, uno dei primi tentativi di accostarsi al comunismo, interrogandosi sulla dimensione criminale come questione fondamentale e globale al tempo stesso. Si potrà ribattere che la maggior parte dei crimini rispondeva a una «legalità» di cui erano garanti le istituzioni dei regimi in vigore, riconosciuti sul piano internazionale e i cui capi venivano ricevuti con il massimo degli onori dai nostri stessi politici. Ma con il nazismo non è, forse, accaduto lo stesso? I crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto al codice non scritto dei diritti naturali dell'uomo e non alla giurisdizione dei regimi comunisti. La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione. Nell'URSS e nelle «democrazie popolari» dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato, la società ha cominciato a uscire dall'appiattimento, la coesistenza pacifica - anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» - è diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall'origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l'idea che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di percorso» propri di questa o quell'epoca. Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell'intero arco della sua esistenza. Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile. Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:

- URSS, 20 milioni di morti,

- Cina, 65 milioni di morti,

- Vietnam, un milione di morti,

- Corea del Nord, 2 milioni di morti,

- Cambogia, 2 milioni di morti,

- Europa dell'Est, un milione di morti,

- America Latina, 150 mila morti,

- Africa, un milione 700 mila morti,

- Afghanistan, un milione 500 mila morti,

- movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10 mila morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti. Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico. Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita nell'articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità. Ora, un esame dell'insieme dei crimini commessi durante il regime leninista- stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a riconoscervi ciascuna di queste tre categorie. I crimini contro la pace sono definiti dall'articolo 6a e riguardano «la direzione, la preparazione, l'inizio e la continuazione di una guerra d'aggressione, o di una guerra di violazione dei trattati, degli accordi o dei patti internazionali, o la partecipazione a un piano concertato o a un complotto per la realizzazione di uno qualsiasi degli atti di cui sopra». Stalin ha innegabilmente commesso questo tipo di crimine, non foss'altro che per avere negoziato segretamente con Hitler la spartizione della Polonia e l'annessione all'URSS degli Stati baltici, della Bucovina del Nord e della Bessarabia, con i due trattati del 23 agosto e del 28 settembre 1939. Il trattato del 23 agosto, liberando la Germania dal pericolo di uno scontro sui due fronti, fu la causa diretta dello scoppio della seconda guerra mondiale. Stalin ha perpetrato un altro crimine contro la pace aggredendo la Finlandia il 30 novembre 1939. L'attacco inopinato della Corea del Nord contro la Corea del Sud il 25 giugno 1950 e l'intervento massiccio dell'esercito della Cina comunista appartengono alla stessa categoria di crimini. Anche i metodi sovversivi, ripresi talora dai partiti comunisti finanziati da Mosca, potrebbero essere assimilati ai crimini contro la pace, perché il loro impiego ha spesso portato alla guerra: un colpo di Stato comunista in Afghanistan il 27 dicembre 1979, per esempio, provocò un massiccio intervento militare dell'URSS, dando inizio a una guerra che non si è ancora conclusa. I crimini di guerra vengono definiti, all'articolo 6b, «violazioni delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi, l'assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l'assassinio o i maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l'esecuzione capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da esigenze militari». Le leggi e i costumi della guerra sono descritti nelle convenzioni, la più nota delle quali è quella dell'Aja del 1907, che stabilisce: «In tempo di guerra, per la popolazione civile e per i belligeranti, rimangono in vigore i principi del diritto dei popoli quali risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civilizzate, dalle leggi dell'umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica». Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra. Il più impressionante rimane l'eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi fatti prigionieri nel 1939, nell'ambito della quale lo sterminio di 4500 persone a Katyn' è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai maggiore sono passati inosservati, come l'assassinio o la messa a morte nei gulag di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell'Armata rossa nella Germania occupata. Per non parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi occupati dall'Armata. Rientrano sempre nell'articolo 6b l'imprigionamento e la fucilazione o la deportazione di militanti di gruppi organizzati che combattevano apertamente contro il potere comunista: per esempio, i militari dell'organizzazione polacca di resistenza antinazista (A.K.), i membri delle organizzazioni di partigiani armati baltici e ucraini, i partigiani afgani eccetera. L'espressione «crimine contro l'umanità» è comparsa per la prima volta il 18 maggio 1915 in una dichiarazione di Francia, Inghilterra e Russia contro la Turchia, in occasione del massacro degli armeni, definito «nuovo crimine della Turchia contro l'umanità e la civiltà». Le atrocità naziste hanno indotto il tribunale di Norimberga a ridefinire la nozione nell'articolo 6c: «L'assassinio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione e ogni altro atto inumano commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra o, ancora, le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, qualora questi atti o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi in seguito a qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale o siano in rapporto con detto crimine». Nella sua requisitoria a Norimberga Francois de Menthon, procuratore generale francese, sottolineava la portata ideologica di questi crimini: "Mi propongo di dimostrarvi che qualsiasi forma di crimine organizzato e di massa deriva da ciò che oserei definire un crimine contro lo spirito, e cioè da una dottrina che, negando tutti i valori spirituali, razionali o morali sui quali i popoli hanno tentato da millenni di far progredire la condizione umana, mira a respingere l'umanità nella barbarie, non più nella barbarie naturale e spontanea dei popoli primitivi, ma in una barbarie demoniaca in quanto cosciente di sé e in grado di utilizzare ai suoi fini tutti i mezzi materiali che la scienza contemporanea mette a disposizione dell'uomo. In questo attentato allo spirito consiste il peccato originale del nazionalsocialismo da cui derivano tutti i crimini. Tale mostruosa dottrina è l'ideologia del razzismo.... Che si tratti del crimine contro la pace o dei crimini di guerra, non ci troviamo comunque di fronte a una criminalità accidentale, occasionale, che gli eventi potrebbero, non dico giustificare, ma perlomeno spiegare: ci troviamo di fronte a una criminalità sistematica, che deriva direttamente e necessariamente da una dottrina mostruosa, favorita con deliberata volontà dai dirigenti della Germania nazista". Francois de Menthon precisava, inoltre, che le deportazioni destinate a fornire manodopera supplementare alla macchina bellica tedesca e quelle volte all'eliminazione degli oppositori del regime erano soltanto «una conseguenza naturale della dottrina nazionalsocialista per la quale l'uomo non ha nessun valore in sé quando non è al servizio della razza tedesca». Tutte le dichiarazioni del tribunale di Norimberga insistevano su una delle principali caratteristiche del crimine contro l'umanità: il fatto che la potenza dello Stato fosse messa al servizio di una politica e di una pratica criminali. Ma la competenza del tribunale era limitata ai crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. Era, quindi, indispensabile estendere la nozione giuridica a situazioni che non rientrassero in quella casistica. Il nuovo Codice penale francese, entrato in vigore il 23 luglio 1992, definisce così il crimine contro l'umanità: «La deportazione, la schiavitù o la pratica massiccia e sistematica di esecuzioni capitali sommarie, di sequestri seguiti dalla scomparsa della persona rapita, della tortura o di atti disumani ispirati a motivazioni "politiche, filosofiche" [corsivo dell'Autore], razziali o religiose, e organizzati in esecuzione di un piano concertato contro un gruppo di popolazione civile». Ora, queste definizioni, in particolare quella francese recente, si attagliano a numerosi crimini commessi sotto Lenin, e specialmente sotto Stalin, e poi in tutti i paesi comunisti eccetto (con beneficio di inventario) Cuba e il Nicaragua dei sandinisti. Il presupposto sembra inconfutabile: i regimi comunisti hanno operato «in nome di uno Stato che praticava una politica di egemonia ideologica». E proprio in nome di una dottrina, fondamento logico e necessario del sistema, vennero massacrate decine di milioni di persone innocenti a cui non si poteva rimproverare nessun atto particolare, a meno che non si riconosca come crimine il fatto di essere nobile, borghese, kulak, ucraino e persino operaio o... membro del Partito comunista. L'intolleranza attiva faceva parte del programma messo in atto. Non è stato forse il massimo dirigente dei sindacati sovietici, Tomskij, a dichiarare il 13 novembre 1927, su «Trud»: «Nel nostro paese possono esistere anche altri partiti. Ma un principio fondamentale ci distingue dall'Occidente; si immagini una simile situazione: un partito comanda e tutti gli altri sono in prigione». La nozione di crimine contro l'umanità è complessa e comprende crimini ben definiti. Uno dei più specifici è il genocidio. In seguito a quello degli ebrei perpetrato dai nazisti, e allo scopo di precisare l'articolo 6c del tribunale di Norimberga, la nozione è stata definita da una convenzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948: "Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con l'intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato all'incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) misure volte a ostacolare le nascite all'interno del gruppo; e) trasferimenti coatti dei figli di un gruppo a un altro". Il nuovo Codice penale francese dà del genocidio una definizione ancora più ampia: «Il fatto, in esecuzione di un "piano concertato" tendente alla distruzione totale o "parziale" di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, "o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario" [corsivo dell'Autore]». Questa definizione giuridica non contraddice l'approccio più filosofico di André Frossard, secondo il quale «si commette un crimine contro l'umanità quando si uccide qualcuno con il pretesto che è nato». E nel suo breve e magnifico racconto intitolato "Tutto scorre", Vasilij Grossman dice del suo personaggio, Ivan Grigorievic, di ritorno dal campo di concentramento: «E' rimasto quello che era alla nascita, un uomo». Ed è esattamente questa la ragione per cui era stato perseguitato. La definizione francese permette anche di sottolineare che il genocidio non è sempre dello stesso tipo - razziale, come nel caso degli ebrei - ma può colpire anche gruppi sociali. In un libro pubblicato a Berlino nel 1924, intitolato "La Terreur rouge en Russie", lo storico russo, e socialista, Sergej Mel'gunov, citava Lacis, uno dei primi capi della Ceka (la polizia politica sovietica) che, il primo novembre 1918, diede queste direttive ai suoi sgherri: "Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che l'accusato ha fatto, in atti e parole, contro l'autorità sovietica. Chiedetegli subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione, la sua istruzione e la sua professione". Fin dal principio Lenin e i suoi compagni si sono inquadrati in una guerra di classe spietata, in cui l'avversario politico e ideologico e persino la popolazione renitente erano considerati, e trattati, alla stregua di nemici e dovevano essere sterminati. I bolscevichi hanno deciso di eliminare, sia legalmente sia fisicamente, qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva, al loro potere egemonico, non soltanto quando quest'ultima era prerogativa di gruppi di oppositori politici, ma anche quando era guidata da gruppi sociali in quanto tali - la nobiltà, la borghesia, l'intellighenzia, la Chiesa eccetera, e categorie professionali (gli ufficiali, le guardie...) -, e questa eliminazione ha spesso assunto la dimensione del genocidio. Fin dal 1920 la «decosacchizzazione» corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio: un'intera popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata in quanto tale, gli uomini venivano fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati, i paesi rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin assimilava i cosacchi alla Vandea durante la Rivoluzione francese e proponeva di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l'«inventore» del comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 «popolicidio». La «dekulakizzazione» del 1930-1932 fu la ripresa su ampia scala della decosacchizzazione: questa volta, però, fu rivendicata da Stalin, la cui parola d'ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo non furono tutti eliminati direttamente, ma il lavoro forzato al quale vennero sottoposti, in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche possibilità di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di persone persero la vita, ma il numero esatto delle vittime non si conosce ancora. La grande carestia ucraina del 1932-1933, legata alla resistenza delle popolazioni rurali alla collettivizzazione forzata, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di persone. In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio «di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista. Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l'attuazione di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di sterminio»), l'uso dei gas e dei forni crematori, ma sottolinea una particolarità di molti regimi comunisti: l'uso sistematico dell'arma della fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora nell'ultimo decennio due dei paesi dell'Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l'Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie.

E' possibile fare un primo bilancio globale di questi crimini:

- fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;

- carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;

- deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;

- assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;

- eliminazione di quasi 690 mila persone durante la Grande purga del 1937-1938;

- deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;

- sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;

- deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;

- deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;

- deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943;

- deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;

- deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;

- deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;

- lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 eccetera.

La lista dei crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi identico dai regimi di Mao Zedong, Kim Il Sung e Pol Pot, potrebbe essere estesa all'infinito. Rimane una delicata questione epistemologica: lo storico, nel delineare e interpretare i fatti, è autorizzato a ricorrere a nozioni quali «crimine contro l'umanità» e «genocidio» che, come abbiamo visto, appartengono alla sfera giuridica? Queste nozioni non sono forse troppo legate a imperativi contingenti - la condanna del nazismo a Norimberga - per essere inserite in una riflessione storica che miri a impostare, sul medio periodo, un'analisi valida? D'altro canto, queste nozioni non sono troppo cariche di valori suscettibili di falsare l'obiettività dell'analisi storica? Per quanto riguarda il primo punto, la storia di questo secolo ha rivelato che la pratica dello sterminio di massa da parte dello Stato o di partiti-Stato non è stata un'esclusiva nazista. La Bosnia e il Ruanda dimostrano che tali pratiche perdurano e che probabilmente costituiranno una delle principali caratteristiche del nostro secolo. In merito al secondo punto, è evidente che non si può tornare all'impostazione del diciannovesimo secolo, quando lo storico cercava di giudicare più che di capire. Ma di fronte alle immense tragedie umane, direttamente provocate da determinate concezioni ideologiche e politiche, egli può forse abbandonare ogni riferimento a una mentalità umanistica - legata alla nostra civiltà giudaico-cristiana e alla nostra cultura democratica - che si fonda, per esempio, sul rispetto della persona umana? Molti storici famosi non esitano a usare l'espressione «crimine contro l'umanità» per definire i crimini nazisti, come Jean-Pierre Azema nella voce su Auschwitz o Pierre Vidal-Naquet a proposito del processo Touvier. Ci sembra, quindi, che il ricorso a queste nozioni per caratterizzare alcuni crimini commessi dai regimi comunisti non sia illegittimo. Oltre alla questione della responsabilità diretta dei comunisti al potere si pone anche quella della complicità. Il Codice penale canadese, rimaneggiato nel 1987, all'articolo 7 (3.77) considera che si incorre nel crimine contro l'umanità nei casi di tentativo, complicità, consiglio, aiuto, "incoraggiamento o complicità di fatto". Sono parimenti assimilati agli atti di crimine contro l'umanità - articolo 7 (3.76) - «il tentativo, il complotto, "la complicità dopo il fatto" [corsivo dell'Autore], il consiglio, l'aiuto o l'incoraggiamento riguardante il fatto stesso». Ora, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, i comunisti di tutto il mondo e molte altre persone hanno applaudito la politica di Lenin e poi quella di Stalin. Centinaia di migliaia di uomini si sono arruolate nelle file dell'Internazionale comunista delle sezioni locali del «partito mondiale della rivoluzione». Negli anni Cinquanta-Settanta altre centinaia di migliaia di uomini hanno incensato il Grande timoniere della Rivoluzione cinese e hanno tessuto le lodi del Grande balzo in avanti della Rivoluzione culturale. Per giungere a tempi ancora più recenti, l'ascesa al potere di Pol Pot è stata salutata da un diffuso entusiasmo. Molti risponderanno che «non sapevano». Ed è vero che non era sempre facile sapere, poiché i regimi comunisti avevano fatto del segreto uno dei loro mezzi di difesa preferiti. Ma, spesso, quest'ignoranza era solo il risultato di una cecità dovuta alla fede militante: fin dagli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, molti accadimenti erano noti e inconfutabili. E se molti di questi incensatori hanno oggi abbandonato i loro idoli di ieri, lo hanno fatto nel silenzio e nella discrezione. Ma che cosa si deve pensare dell'amoralismo innato di chi abbandona nel segreto del proprio animo un impegno pubblico senza trarne la debita lezione? Nel 1969 uno dei pionieri dello studio del terrore comunista, Robert Conquest, scriveva: "Il fatto che tante persone abbiano effettivamente «mandato giù» [la Grande purga] fu probabilmente uno dei fattori che resero possibile l'intera purga. I processi, in particolare, avrebbero riscosso scarso interesse se non fossero stati convalidati da alcuni commentatori stranieri, e dunque «indipendenti». Questi ultimi devono essere considerati corresponsabili, almeno in piccola parte, di tali omicidi politici o, in ogni caso, del fatto che essi si siano rinnovati dopo che la prima operazione, il processo Zinov'ev [nel 1936], ebbe beneficiato di un credito ingiustificato". Se si giudica con questo metro la complicità morale e intellettuale di un certo numero di non comunisti, che cosa si dovrebbe dire della complicità dei comunisti? Non si ricorda che Louis Aragon si sia pubblicamente pentito di avere auspicato, in una poesia del 1931, la creazione di una polizia politica comunista in Francia, anche se a tratti è sembrato che criticasse il periodo stalinista. Joseph Berger, un ex dirigente del Comintern che è stato «purgato» e ha conosciuto il campo di concentramento, cita la lettera scrittagli da una ex deportata in un gulag, che rimase membro del Partito dopo avere riconquistato la libertà: "I comunisti della mia generazione hanno accettato l'autorità di Stalin. Hanno approvato i suoi crimini. Ciò è vero non soltanto per i comunisti sovietici ma anche per quelli del resto del mondo e questa macchia ci bolla individualmente e collettivamente. Possiamo cancellarla soltanto facendo in modo che non accada mai più nulla di simile. Che cosa è successo? Avevamo perso il senno o adesso siamo dei traditori del comunismo? La verità è che tutti, compresi quanti erano più vicini a Stalin, abbiamo fatto dei crimini il contrario di quello che erano. Li abbiamo cioè considerati importanti contributi alla vittoria del socialismo. Abbiamo creduto che tutto ciò che consolidava la potenza politica del Partito comunista in Unione Sovietica e nel mondo fosse una vittoria per il socialismo. Non abbiamo mai considerato che all'interno del comunismo potesse esserci conflitto fra la politica e l'etica". Berger, dal canto suo, attenua l'affermazione: "Ritengo che se si può condannare il comportamento di quanti hanno accettato la politica di Stalin, il che non fu il caso di tutti i comunisti, è più difficile rimproverare loro di non avere impedito questi stessi crimini. Credere che uomini, pur appartenenti alle alte sfere del potere, potessero contrastare i suoi piani significa non avere capito nulla del suo dispotismo bizantino". Ma Berger ha la scusante di essersi trovato nell'URSS e di essere stato, quindi, afferrato dalla macchina infernale a cui non poté sfuggire. Ma perché i comunisti dell'Europa occidentale, che non dovettero subire direttamente l'N.K.V.D. (una sorta di ministero sovietico che aveva alle dipendenze la polizia politica), hanno continuato a tessere le lodi del sistema e del suo capo? Doveva essere ben potente il filtro magico che li condizionava! Martin Malia, nel suo bel libro sulla Rivoluzione russa "La tragédie soviétique", svela in parte il mistero parlando del «paradosso di un grande ideale sfociato in un grande crimine». Annie Kriegel, un'altra famosa studiosa del comunismo, insisteva su quest'articolazione quasi necessaria delle sue due facce: una luminosa e l'altra oscura. Una prima risposta a questo paradosso viene da Tzvetan Todorov: "Chi vive in una democrazia occidentale vorrebbe credere che il totalitarismo sia interamente estraneo alle normali aspirazioni umane. Ma, se così fosse, non si sarebbe mantenuto tanto a lungo, attirando tanti individui nella sua orbita. Al contrario, esso è una macchina di temibile efficacia. L'ideologia comunista propone l'immagine di una società migliore e ci incita ad aspirarvi: il desiderio di trasformare il mondo in nome di un ideale non è forse parte integrante dell'identità umana? ... Per di più, la società comunista priva l'individuo delle sue responsabilità: sono sempre «loro» a decidere. E la responsabilità è un fardello spesso pesante da portare.... L'attrazione per il sistema totalitario, inconsciamente provata da moltissimi individui, deriva da una certa paura della libertà e della responsabilità; il che spiega la popolarità di tutti i regimi autoritari (è la tesi di Erich Fromm in 'Fuga dalla libertà'); esiste una «servitù volontaria», diceva già La Boétie". La complicità di coloro che si sono abbandonati alla servitù volontaria non è stata e non è sempre astratta e teorica. Il semplice fatto di accettare e/o riprendere una propaganda destinata a nascondere la verità sfiorava e sfiora comunque la complicità attiva. Perché la pubblicità è l'unico modo - anche se non sempre efficace, come ha recentemente dimostrato la tragedia del Ruanda - di combattere i crimini di massa commessi in segreto, lontano da sguardi indiscreti. L'analisi di questa realtà fondamentale del fenomeno comunista al potere - dittatura e terrore - non è facile. Jean Ellenstein ha definito il fenomeno stalinista un misto di tirannide greca e di dispotismo orientale. La formula è seducente, ma non rende il carattere moderno di quest'esperienza e la sua portata totalitaria, diversa dalle precedenti forme storiche di dittatura. Un rapido esame comparativo permetterà di comprenderne meglio la natura. Si potrebbe incominciare ricordando la tradizione russa dell'oppressione. I bolscevichi combattevano il regime terrorista dello zar, che però impallidisce di fronte agli orrori del bolscevismo al potere. I prigionieri politici dello zar avevano diritto a un vero e proprio sistema giudiziario, dove la difesa poteva esprimersi al pari, se non meglio, dell'accusa, prendendo a testimone l'opinione pubblica nazionale, inesistente nel regime comunista, e soprattutto quella internazionale. I prigionieri e i condannati godevano di un regolamento carcerario, e le condizioni di reclusione e persino di deportazione erano relativamente leggere. I deportati potevano partire con la famiglia, leggere e scrivere ciò che desideravano, andare a caccia e a pesca e incontrarsi liberamente con i compagni di sventura. Lenin e Stalin l'avevano sperimentato di persona. Perfino le "Memorie da una casa di morti" di Dostoevskij, che tanto colpirono l'opinione pubblica al momento della pubblicazione, sembrano ben poca cosa in confronto agli orrori del comunismo. Nella Russia degli anni che vanno dal 1880 al 1914 ci furono indubbiamente sommosse e insurrezioni duramente represse da un sistema politico arcaico. Ma dal 1825 al 1917 le persone condannate a morte in Russia per le loro idee o la loro azione politica sono state 6360, di cui ne sono state giustiziate 3932 -191 dal 1825 al 1905 e 3741 dal 1906 al 1910 -, cifra che nel marzo 1918, dopo soli quattro mesi di esercizio del potere, i bolscevichi avevano già superato. Fra il bilancio della repressione zarista e quello del terrore comunista non c'è, quindi, confronto. Negli anni Venti-Quaranta il comunismo ha violentemente stigmatizzato il terrore messo in atto dai regimi fascisti. Un rapido esame delle cifre mostra che, anche in questo caso, le cose non sono poi così semplici. E' vero che il fascismo italiano, il primo a manifestarsi e a dichiararsi apertamente «totalitario», ha imprigionato e spesso maltrattato i suoi avversari politici. Ma raramente è arrivato a uccidere e, a metà degli anni Trenta, l'Italia contava poche centinaia di prigionieri politici e diverse centinaia di confinati - in domicilio coatto nelle isole -, ma, in compenso, decine di migliaia di esiliati politici. Fino a prima della guerra il terrore nazista ha preso di mira solo pochi gruppi. L'opposizione al regime, rappresentata principalmente da comunisti, socialisti, anarchici e da alcuni sindacalisti, è stata repressa apertamente: i suoi rappresentanti sono stati incarcerati e soprattutto internati in campi di concentramento, dove hanno subito terribili angherie. Dal 1933 al 1939 nei campi di concentramento e nelle prigioni sono stati assassinati in totale circa 20 mila militanti di sinistra, con o senza processo. A tutto ciò vanno aggiunti i regolamenti di conti interni al nazismo, come la Notte dei lunghi coltelli, nel giugno del 1934. Un'altra categoria di vittime destinate alla morte era rappresentata dai tedeschi che si riteneva non corrispondessero ai criteri razziali dell'«ariano alto e biondo»: malati mentali, handicappati e vecchi. Hitler si è deciso a passare all'azione con lo scoppio della guerra: tra la fine del 1939 e l'inizio del 1941 sono stati sterminati in camera a gas 70 mila tedeschi, vittime di un programma di eutanasia a cui ha posto fine solo la protesta delle Chiese. I metodi di sterminio con i gas tossici messi a punto in quell'occasione sono stati utilizzati in seguito per il terzo gruppo di vittime, gli ebrei. Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35 mila internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati; 5 milioni 100 mila ebrei; 3 milioni 300 mila prigionieri di guerra sovietici; un milione 100 mila deportati morti nei campi di concentramento; parecchie centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di persone utilizzate per i lavori forzati e un milione 600 mila persone detenute nei campi di concentramento non decedute. Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine. Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone, contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore.

I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin e dai loro seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il precorrimento. A questo proposito Rudolf H”ss, incaricato di creare il campo di Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo. Già alla fine degli anni Venti la G.P.U. (nuovo nome della Ceka) inaugurò il metodo delle quote: ogni regione, ogni distretto doveva arrestare, deportare o fucilare una determinata percentuale di persone appartenenti a classi sociali nemiche. Queste percentuali erano fissate dalla direzione centrale del Partito. La follia pianificatrice e la mania statistica non si sono limitate all'economia, ma hanno imperversato anche nell'ambito del terrore. Fin dal 1920, con la vittoria dell'Armata rossa su quella bianca, in Crimea, si adottano metodi statistici, e addirittura sociologici: le vittime vengono selezionate secondo criteri precisi, stabiliti sulla base di questionari ai quali nessuno può sottrarsi. Gli stessi metodi sociologici saranno utilizzati dai sovietici per organizzare le deportazioni e le eliminazioni di massa negli Stati baltici e nella Polonia occupata nel 1939-1941. Il trasporto dei deportati sui carri bestiame ha dato luogo ad aberrazioni del tutto analoghe a quelle naziste: nel 1943-1944, in piena guerra, Stalin ha distolto dal fronte migliaia di vagoni e centinaia di migliaia di uomini dalle truppe speciali dell'N.K.V.D. per provvedere alla deportazione delle popolazioni del Caucaso nel giro di pochissimi giorni. Questa logica genocida - che, per riprendere il Codice penale francese, consiste nella «distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario» - applicata dal potere comunista a gruppi individuati come nemici, a porzioni della sua stessa società, è stata portata al parossismo da Pol Pot e dai suoi khmer rossi. Il confronto fra nazismo e comunismo per quanto riguarda i rispettivi stermini può risultare sconvolgente. Eppure, Vasilij Grossman - figlio di una donna uccisa dai nazisti nel ghetto di Berdicev, autore del primo testo su Treblinka e coordinatore, insieme con altri, del "Libro nero" sullo sterminio degli ebrei in Unione Sovietica - nel racconto "Tutto scorre" fa dire a uno dei suoi personaggi a proposito della fame in Ucraina: «... lo scrivevano gli scrittori, e Stalin in persona: tutti a darci sotto su un punto solo: i kulak, i parassiti, bruciano il grano, ammazzano i bambini. E annunciarono apertamente che bisognava sollevare il furore delle masse contro di loro, annientarli tutti come classe, i maledetti». E aggiunge: «Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così anche Lenin e Stalin: i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude, a proposito dei figli dei kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei». Ogni volta si colpiscono non tanto degli individui, quanto dei gruppi. Il terrore ha lo scopo di sterminare un gruppo individuato come nemico che, se è vero che costituisce soltanto una porzione della società, viene comunque colpito in quanto tale da una logica genocida. I meccanismi di segregazione e di esclusione del totalitarismo di classe presentano, quindi, una straordinaria somiglianza con quelli del totalitarismo di razza. La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi. E', quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali. I misfatti leninisti, stalinisti, maoisti e l'esperienza cambogiana pongono, quindi, all'umanità, oltre che ai giuristi e agli storici, un nuovo quesito: come definire il crimine che consiste nello sterminio, per ragioni politico-ideologiche, non più di individui o di gruppi limitati di oppositori, ma di massicce porzioni della società? Bisogna limitarsi, come fanno i giuristi cechi, a definire i crimini commessi durante il regime comunista semplicemente «crimini comunisti»? O bisogna inventare una nuova denominazione? Alcuni autori anglosassoni la pensano in questo modo e hanno coniato il termine «politicidio». Che cosa si sapeva dei crimini del comunismo? Che cosa si voleva saperne? Perché si è dovuta aspettare la fine del secolo affinché questo tema potesse diventare oggetto di un'indagine scientifica? E', infatti, evidente che lo studio del terrore stalinista e comunista in generale, paragonato allo studio dei crimini nazisti, ha un enorme ritardo da colmare, anche se nell'Est le ricerche si fanno sempre più numerose. A questo proposito non si può non rilevare con un certo stupore un forte contrasto. I vincitori del 1945 hanno legittimamente fatto del crimine, e in particolare del genocidio degli ebrei, il fulcro della loro condanna del nazismo. Numerosi studiosi di tutto il mondo lavorano da decenni su quest'argomento, a cui sono state dedicate decine di libri e decine di film, alcuni dei quali famosissimi: su registri alquanto diversi, "Notte e nebbia" e "Olocausto", "La scelta di Sophie" e "Schindler's List". Raul Hilberg, per fare un solo nome, ha incentrato la sua opera principale sulla minuziosa descrizione delle modalità di eliminazione degli ebrei nel Terzo Reich. Ma sul tema dei crimini comunisti non esistono studi di questo tipo. Mentre i nomi di Himmler o di Eichmann sono noti in tutto il mondo come simboli della barbarie contemporanea, quelli di Dzerzinskij, di Jagoda o di Ezov sono ignorati dai più. E per Lenin, Mao, Ho Chi Minh, e persino per Stalin, si continua ad avere un sorprendente rispetto. La lotteria di Stato francese ha addirittura commesso la leggerezza di sfruttare l'immagine di Stalin e di Mao per una delle sue campagne pubblicitarie! A chi sarebbe mai venuto in mente di usare Hitler o Goebbels per una simile operazione? L'eccezionale attenzione dedicata ai crimini hitleriani è perfettamente giustificata. Risponde alla volontà dei sopravvissuti di testimoniare, degli studiosi di comprendere e delle autorità morali e politiche di confermare i valori democratici. Ma perché le testimonianze sui crimini comunisti hanno un'eco così debole nell'opinione pubblica? Perché questo silenzio imbarazzato dei politici? E, soprattutto, perché questo silenzio accademico sulla catastrofe comunista che ha toccato, da ottant'anni a questa parte, circa un terzo dell'umanità, distribuito sui quattro continenti? Perché quest'incapacità di porre al centro dell'analisi del comunismo un fattore essenziale come il crimine, il crimine di massa, il crimine sistematico, il crimine contro l'umanità? Siamo di fronte all'impossibilità di comprendere o si tratta piuttosto del volontario rifiuto di sapere, della paura di capire? Le ragioni di questo occultamento sono molteplici e complesse. Innanzitutto, la classica e costante volontà dei carnefici di far scomparire le tracce dei loro crimini e di giustificare ciò che non potevano nascondere. Il «rapporto segreto» di Hruscov del 1956, che ha costituito la prima ammissione dei crimini da parte dei dirigenti comunisti stessi, rimane comunque la confessione di un carnefice che tenta allo stesso tempo di mascherare e di coprire i propri crimini - come capo del Partito comunista ucraino al culmine del terrore -, attribuendoli unicamente a Stalin e giustificandosi con la scusa dell'obbedienza agli ordini; di occultarne la maggior parte (parla soltanto delle vittime comuniste, molto meno numerose delle altre); di minimizzarli (li definisce «abusi commessi durante il regime di Stalin»); e infine di giustificare la continuità del sistema con gli stessi principi, le stesse strutture e gli stessi uomini.

HruscOv ne offre una cruda testimonianza, quando riferisce dell'opposizione che incontrò durante la preparazione del «rapporto segreto», in particolare da parte di uno degli uomini di fiducia di Stalin: "Kaganovic era talmente accondiscendente, che avrebbe tagliato la gola anche a suo padre se Stalin glielo avesse ordinato in nome della causa, cioè della causa stalinista. ... Intervenne allora Kaganovic opponendosi violentemente a me sulla stessa linea. La sua posizione non era determinata da un'analisi profonda delle conseguenze che questo problema avrebbe avuto nel partito, ma soltanto dalla paura che egli aveva di lasciarci la pelle. Era mosso soltanto dal desiderio di sfuggire a ogni responsabilità per quanto era avvenuto. Se erano stati commessi dei crimini, Kaganovic voleva essere certo che non venissero scoperte le sue colpe". L'assoluta chiusura degli archivi nei paesi comunisti, il totale controllo della stampa, dei mass media e di tutte le vie di comunicazione con l'estero, la propaganda sui «successi» del regime, tutto questo dispositivo di blocco dell'informazione mirava in primo luogo a impedire che si facesse chiarezza sui crimini. Non contenti di nascondere i loro misfatti, i carnefici hanno combattuto con tutti i mezzi gli uomini che tentavano di informare l'opinione pubblica. Diversi osservatori e analisti hanno infatti tentato di aprire gli occhi ai loro contemporanei. Dopo la seconda guerra mondiale, ciò fu particolarmente evidente in due occasioni in Francia. Dal gennaio all'aprile del 1949 si tenne a Parigi il processo che oppose Viktor Kravcenko - ex alto funzionario sovietico che aveva scritto "Ho scelto la libertà", in cui descriveva la dittatura stalinista - al giornale comunista diretto da Louis Aragon, «Les lettres francaises», che lo copriva di insulti. Dal novembre del 1950 al gennaio del 1951 si tenne, sempre a Parigi, un altro processo fra «Les lettres francaises» e David Rousset, un intellettuale ex trotzkista, che era stato deportato in Germania dai nazisti e che, nel 1946, aveva ricevuto il premio Renaudot per il libro "L'univers concentrationnaire". Il 12 novembre 1949 Rousset aveva rivolto un appello a tutti gli ex deportati dei campi nazisti perché formassero una commissione d'inchiesta sui campi sovietici ed era stato violentemente attaccato dalla stampa comunista, che ne negava l'esistenza. In seguito all'appello di Rousset, il 25 febbraio 1950, in un articolo sul «Figaro littéraire» intitolato "Pour l'enquˆte sur les camps soviétiques. Qui est pire, Satan ou Belzébuth?", Margaret Buber Neumann raccontava della sua duplice esperienza di deportata nei campi nazisti e sovietici. Contro tutte queste persone che lavoravano per illuminare le coscienze i carnefici hanno messo in campo, in un combattimento a tappeto, tutto l'arsenale dei grandi Stati moderni, in grado di intervenire nell'intero mondo. Hanno tentato di squalificarli, di screditarli, di intimidirli. Aleksandr Solzenicyn, Vladimir Bukovskij, Aleksandr Zinov'ev, Leonid Pljusc vennero espulsi dal paese; Andrej Saharov, esiliato a Gor'kij; il generale Petr Grigor'enko rinchiuso in un ospedale psichiatrico; Georgi Markov assassinato con un ombrello avvelenato. Di fronte a un tale potere di intimidazione e di occultamento le vittime stesse esitavano a mostrarsi ed erano incapaci di reinserirsi in una società in cui i loro delatori e carnefici godevano di tutti gli onori. Vasilij Grossman descrive questa disperazione. A differenza della tragedia degli ebrei - in cui la comunità ebraica internazionale si è fatta carico della commemorazione del genocidio -, alle vittime del comunismo e ai loro eredi è stato a lungo impossibile mantenere viva la memoria della tragedia, essendo proibita qualsiasi commemorazione o richiesta di risarcimento. Quando non riuscivano a nascondere certe verità - la pratica della fucilazione, i campi di concentramento, le carestie indotte -, i carnefici si ingegnavano a giustificare i fatti, falsandoli grossolanamente. Dopo avere rivendicato il Terrore, ne fecero l'allegoria della rivoluzione: «quando si taglia la foresta, i trucioli volano», o «non si può fare la frittata senza rompere le uova». Slogan, quest'ultimo, al quale Vladimir Bukovskij controbatteva di avere visto le uova rotte, ma di non avere mai assaggiato la frittata. Il massimo dell'aberrazione fu probabilmente raggiunto con lo stravolgimento del linguaggio. Grazie alla magia del vocabolario, il sistema dei campi di concentramento divenne un'opera di rieducazione e i carnefici educatori impegnati a trasformare gli uomini della vecchia società in «uomini nuovi». Gli "zek" - termine che indica i prigionieri dei campi di concentramento sovietici - erano «pregati» con la forza di credere in un sistema che li asserviva. In Cina il prigioniero del campo di concentramento è chiamato «studente»: deve studiare il pensiero giusto del Partito e correggere il proprio pensiero sbagliato. Come spesso accade, la menzogna non è il contrario, in senso stretto, della verità e ogni menzogna si fonda su elementi di verità. I termini stravolti dal loro significato si collocano in una visione falsata che deforma la prospettiva d'insieme: si tratta di una forma di astigmatismo sociale e politico. Ora, è facile correggere una visione distorta dalla propaganda comunista, ma è assai difficile ricondurre chi vede da una prospettiva sbagliata a una concezione intellettuale corretta. La prima impressione rimane e si trasforma in pregiudizio. Da veri judoisti, grazie alla loro incomparabile potenza propagandistica, largamente fondata sullo stravolgimento del linguaggio, i comunisti hanno utilizzato la forza delle critiche rivolte ai loro metodi terroristici per ritorcerla loro contro, rinsaldando ogni volta le file dei loro militanti e simpatizzanti con il rinnovo dell'atto di fede comunista. In tal modo hanno ritrovato il principio primo della fede ideologica, formulato a suo tempo da Tertulliano: «Credo perché è assurdo». Nell'ambito di queste operazioni di contropropaganda alcuni intellettuali si sono letteralmente prostituiti. Nel 1928 Gor'kij accettò di andare in «escursione» nelle isole Soloveckie, il campo di concentramento sperimentale dal quale nascerà per «metastasi» (Solzenicyn) il sistema del gulag. Dall'esperienza nacque un libro in lode di Soloveckie e del governo sovietico. Uno scrittore francese, Henri Barbusse, premio Goncourt 1916, non esitò, dietro pagamento, a incensare il regime stalinista pubblicando nel 1928 un libro sulla «meravigliosa Georgia» - dove, nel 1921, Stalin e il suo accolito Ordzonikidze si erano dati a una vera e propria carneficina e dove Berija, capo dell'N.K.V.D., si distingueva per il suo sadico machiavellismo - e nel 1935 la prima biografia ufficiosa di Stalin. Più tardi, Maria Antonietta Macciocchi ha tessuto le lodi di Mao e recentemente Danielle Mitterrand ha fatto lo stesso con Fidel Castro. Cupidigia, debolezza, vanità, attrazione per la forza e la violenza, passione rivoluzionaria: qualunque sia la motivazione, le dittature totalitarie hanno sempre trovato gli adulatori di cui avevano bisogno, e la dittatura comunista non ha fatto eccezione. Di fronte alla propaganda comunista l'Occidente ha dato prova a lungo di una straordinaria cecità, causata al tempo stesso dall'ingenuità nei confronti di un sistema particolarmente perverso, dal timore della potenza sovietica e dal cinismo dei politici e degli affaristi. La cecità ha regnato a Jalta, quando il presidente Roosevelt ha abbandonato l'Europa dell'Est nelle mani di Stalin in cambio della promessa, redatta con tutti i crismi, che quest'ultimo vi avrebbe organizzato al più presto libere elezioni. Il realismo e la rassegnazione hanno regnato a Mosca quando, nel dicembre 1944, il generale De Gaulle ha barattato l'abbandono della sventurata Polonia nelle grinfie del moloch con la garanzia della pace sociale e politica data da Maurice Thorez di ritorno a Parigi. Questa cecità è stata alimentata, e quasi legittimata, dalla convinzione dei comunisti occidentali e di molti uomini di sinistra che quei paesi stessero «costruendo il socialismo», che quell'utopia che nelle democrazie nutriva i conflitti sociali e politici «laggiù» stesse diventando una realtà, di cui Simone Weil ha sottolineato il prestigio: «Gli operai rivoluzionari sono felicissimi di avere dietro di loro uno Stato: uno Stato che dà alle loro azioni quel carattere ufficiale, quella legittimità, quella realtà, che solo lo Stato conferisce, e che al tempo stesso è situato troppo lontano (geograficamente parlando) per poterli disgustare». All'epoca il comunismo mostrava la sua faccia luminosa: si richiamava all'Illuminismo, a una tradizione di emancipazione sociale e umana, al sogno dell'«uguaglianza reale» e della «felicità per tutti» inaugurata da Gracchus Babeuf. E la faccia luminosa occultava quasi totalmente quella oscura. All'ignoranza, voluta o meno, della dimensione criminale del comunismo si è aggiunta, come sempre, l'indifferenza dei contemporanei per i loro fratelli. Non che l'uomo abbia il cuore arido. Anzi, in molte situazioni limite sfodera risorse insospettate di solidarietà, amicizia, affetto e persino amore. Ma, come sottolinea Tzvetan Todorov, «la memoria dei nostri lutti ci impedisce di cogliere la sofferenza altrui». E, alla fine delle due guerre mondiali, quale popolo europeo o asiatico non era occupato a curarsi le ferite di innumerevoli lutti? Le difficoltà stesse incontrate in Francia nell'affrontare la storia degli anni bui sono sufficientemente eloquenti. La storia, o piuttosto la non storia, dell'occupazione continua, infatti, a tormentare la coscienza francese. Lo stesso accade, anche se in misura minore, per la storia del periodo nazista in Germania, fascista in Italia, franchista in Spagna, per la guerra civile in Grecia eccetera. In questo secolo di ferro e fuoco sono stati tutti troppo presi dalle proprie disgrazie per compatire quelle altrui. L'occultamento della dimensione criminale del comunismo rimanda, tuttavia, a tre ragioni più specifiche. La prima riguarda l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione. Il superamento dell'idea di rivoluzione quale era stata concepita nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo è ancora lungi dall'essere concluso. I suoi simboli - bandiera rossa, Internazionale, pugno chiuso - risorgono ogni volta che compare un movimento sociale di una certa portata. Che Guevara ritorna di moda. Diversi gruppi apertamente rivoluzionari continuano a essere attivi e a operare nella piena legalità, trattando con disprezzo la minima riflessione critica sui crimini dei loro predecessori e non esitando a riesumare i vecchi discorsi giustificatori di Lenin, Trotsky o Mao. Tale passione rivoluzionaria non è stata solo degli altri. Diversi autori di questo libro hanno, infatti, creduto alla propaganda comunista, un tempo. La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo, che ha permesso ai comunisti di mascherare dietro un ardente patriottismo i loro fini ultimi, che miravano alla presa del potere. Dal giugno 1941 i comunisti di tutti i paesi occupati sono entrati in una resistenza attiva, e spesso armata, all'occupante nazista e italiano. Come i combattenti di altre fedi, hanno pagato il prezzo della repressione con migliaia di uomini fucilati, massacrati, deportati. E si sono serviti di questi martiri per rendere sacra la causa comunista e impedire qualsiasi critica nei suoi confronti. Inoltre, durante la Resistenza molti non comunisti hanno stretto legami di solidarietà, lotta, parentela con comunisti, il che ha impedito a molti occhi di aprirsi. In Francia l'atteggiamento dei gaullisti è stato spesso dettato da questa memoria comune e incoraggiato dalla politica del generale De Gaulle, che usava l'Unione Sovietica come contrappeso agli Stati Uniti. La partecipazione dei comunisti alla guerra e alla vittoria sul nazismo ha fatto definitivamente trionfare la nozione di antifascismo come riprova della verità a sinistra e, naturalmente, i comunisti si sono posti come i migliori rappresentanti e i migliori paladini dell'antifascismo. Quest'ultimo è diventato per il comunismo un'etichetta definitiva, in nome della quale è stato facile mettere a tacere i dissenzienti. Francois Furet ha scritto su questo punto cruciale pagine illuminanti. Dato che il nazismo sconfitto era stato bollato dagli Alleati come il Male assoluto, il comunismo è passato quasi automaticamente nel campo del Bene. Ciò risultò evidente durante il processo di Norimberga, in cui i sovietici figuravano fra i pubblici ministeri. Gli episodi imbarazzanti dal punto di vista dei valori democratici, come i patti germano-sovietici del 1939 o il massacro di Katyn', vennero quindi prontamente insabbiati. La vittoria sul nazismo fu considerata la prova della superiorità del sistema comunista. E soprattutto, nell'Europa liberata dagli angloamericani, ebbe l'effetto di suscitare un senso di gratitudine nei confronti dell'Armata rossa (di cui non si era dovuta subire l'occupazione) e un senso di colpa di fronte ai sacrifici sopportati dai popoli dell'Unione Sovietica, sentimenti che la propaganda comunista sfruttò debitamente a proprio favore. Parallelamente, le modalità della liberazione dell'Europa dell'Est da parte dell'Armata rossa rimasero largamente ignote all'Occidente, dove gli storici fecero propri due tipi di liberazione molto diversi fra loro: uno conduceva alla restaurazione delle democrazie, l'altro apriva la strada all'instaurazione delle dittature. Nell'Europa centrale e orientale il sistema sovietico aspirava a succedere al Reich millenario e Witold Gombrowicz espresse in poche parole il dramma di questi popoli: "La fine della guerra non ha apportato la libertà ai polacchi. In questa triste Europa centrale, ha significato soltanto lo scambio di una notte con un'altra, dei carnefici di Hitler con quelli di Stalin. Nel momento in cui nei caffè parigini le anime nobili salutavano con un canto radioso «l'emancipazione del popolo polacco dal giogo feudale», in Polonia la stessa sigaretta accesa passava semplicemente di mano e continuava a bruciare la pelle umana". Qui sta il punto di frattura fra due memorie europee. Eppure, fin dai primi tempi, alcune opere hanno rivelato il modo in cui l'URSS ha liberato dal nazismo polacchi, tedeschi, cechi e slovacchi. L'ultima ragione dell'occultamento è più sottile e più delicata da esprimere. Dopo il 1945 il genocidio degli ebrei è apparso come il paradigma della barbarie moderna, fino a monopolizzare lo spazio riservato alla percezione del terrore di massa nel ventesimo secolo. Dopo avere negato in un primo tempo la specificità della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, i comunisti hanno capito quanto un simile riconoscimento da parte loro potesse servire a riattivare l'antifascismo. Da allora, a qualsiasi proposito e spesso anche a sproposito, non si è mai più smesso di agitare lo spettro della «bestia immonda, il cui ventre è sempre fecondo», secondo il famoso slogan di Bertolt Brecht. Più recentemente, il fatto di aver messo in evidenza la singolarità del genocidio degli ebrei, sottolineandone l'eccezionale atrocità, ha impedito di percepire altre realtà dello stesso tipo nel mondo comunista. E poi, come si poteva immaginare che coloro che con la loro vittoria avevano contribuito a distruggere un sistema genocida potessero a loro volta adottare quei metodi? La risposta più comune fu il rifiuto di ammettere un simile paradosso. La prima grande svolta nel riconoscimento ufficiale dei crimini comunisti risale al 24 febbraio 1956. Quella sera Nikita Hruscov, primo segretario, sale sulla tribuna del ventesimo Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, il P.C.U.S. E' una seduta a porte chiuse, a cui assistono soltanto i delegati. In un silenzio assoluto, essi ascoltano attoniti il primo segretario del Partito distruggere sistematicamente l'immagine del «piccolo padre dei popoli», del «geniale Stalin», che per trent'anni era stato l'eroe del comunismo mondiale. Questo rapporto, noto in seguito come il «rapporto segreto», costituisce uno dei cambiamenti di rotta fondamentali del comunismo contemporaneo. Per la prima volta un dirigente comunista di altissimo rango ammetteva ufficialmente, benché a uso esclusivo dei comunisti, che il regime che era salito al potere nel 1917 aveva conosciuto una «deriva» criminale. Le ragioni che spinsero Hruscov a infrangere uno dei principali tabù del regime sovietico sono molteplici. Il suo obiettivo principale era di imputare i crimini del comunismo unicamente a Stalin e, in questo modo, circoscrivere e rimuovere il male per salvare il regime. Nella sua decisione rientrava anche la volontà di attaccare il clan degli stalinisti, che si opponevano al suo potere in nome dei metodi del loro antico padrone. Fin dall'estate del 1957, infatti, essi vennero tutti destituiti dalle loro cariche. Ma, per la prima volta dal 1934, all'eliminazione politica non seguì un'eliminazione reale, e da questo semplice particolare si può dedurre come le motivazioni di Hruscov fossero più profonde. Lui, che per anni era stato il padrone incontrastato dell'Ucraina e a questo titolo aveva guidato e coperto stragi immani, sembrava stanco di tutto quel sangue. Nelle sue memorie, in cui indubbiamente intende fare bella figura, Hruscov ricorda i suoi stati d'animo: «Il Congresso finirà e verranno votate delle risoluzioni pro forma, ma cosa si farà poi? Rimarranno sulla nostra coscienza le centinaia di migliaia di persone che sono morte fucilate». Tutt'a un tratto, apostrofa duramente i suoi compagni: "Quali posizioni assumeremo nei confronti di tutti coloro che sono stati arrestati o eliminati? ... Ora sappiamo che la gente che ha sofferto durante le repressioni era innocente. Abbiamo prove inconfutabili che essi, lontani dall'essere nemici del popolo, erano invece uomini e donne onesti, devoti al Partito, alla rivoluzione, alla causa leninista e all'edificazione del socialismo e del comunismo in Unione Sovietica.... Penso che sia impossibile tacere ancora. Prima o poi la gente uscirà dalle prigioni e dai campi, tornerà nelle città; e una volta a casa, racconterà ai parenti, agli amici e ai compagni cos'è avvenuto.... Perciò abbiamo l'obbligo di fare una completa confessione ai delegati sulla condotta tenuta dalla dirigenza del Partito durante gli anni in questione.... Come potremmo fingere d'ignorare quel che avvenne? ... Sappiamo che ci fu un regime di repressione e leggi arbitrarie nel Partito e noi abbiamo il dovere di dire al Congresso quel che sappiamo.... Per chiunque abbia commesso un crimine, giunge sempre il momento in cui una confessione gli può assicurare l'indulgenza anche se non l'assoluzione". In alcuni degli uomini che avevano preso parte attiva ai crimini perpetrati durante il regime di Stalin e che, perlopiù, dovevano la promozione all'eliminazione dei loro predecessori, si faceva strada un certo rimorso; un rimorso sicuramente indotto, interessato, un rimorso da politico, ma in ogni caso un rimorso. Bisognava pure che qualcuno fermasse il massacro; Hruscov ebbe questo coraggio, anche se, nel 1956, non esitò a mandare i carri armati sovietici a Budapest. Nel 1961, durante il Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S., Hruscov ricordò non soltanto le vittime comuniste, ma tutte le vittime di Stalin e propose persino di erigere un monumento in loro memoria. Probabilmente aveva superato il limite invisibile al di là del quale si rimetteva in discussione il principio stesso del regime: il monopolio del potere assoluto riservato al Partito comunista. Il monumento non vide mai la luce. Nel 1962 il primo segretario autorizzò la pubblicazione di "Una giornata di Ivan Denisovic", di Aleksandr Solzenicyn. Il 24 ottobre 1964 venne brutalmente destituito da tutte le sue funzioni ma nemmeno lui fu liquidato e morì nell'anonimato nel 1971. Tutti gli studiosi riconoscono l'importanza decisiva del «rapporto segreto», che impresse una svolta fondamentale alla traiettoria del comunismo del ventesimo secolo. Francois Furet, che era uscito dal Partito comunista francese nel 1954, scrive a questo proposito: "Appena reso noto, il «rapporto segreto» del febbraio 1956 sconvolge improvvisamente lo statuto dell'idea comunista nel mondo. La voce che denuncia i crimini di Stalin non viene più dall'Occidente, ma da Mosca e dal sancta sanctorum di Mosca, il Cremlino. Non è più quella di un comunista messo al bando, ma del primo dei comunisti nel mondo, il capo del partito dell'Unione Sovietica. Non è più lambita dal sospetto che colpisce il discorso degli ex comunisti, ma è rivestita dell'autorità suprema che il sistema ha assegnato al suo capo.... L'enorme impatto del «rapporto segreto» nasce dal fatto di non avere contraddittori". L'evento era tanto più paradossale in quanto, fin dall'origine, molti contemporanei avevano messo in guardia i bolscevichi contro i pericoli del loro modo di procedere. Fin dal 1917-1918, infatti, all'interno dello stesso movimento socialista si erano scontrati coloro che credevano nella «grande luce dell'Est» e coloro che criticavano implacabilmente i bolscevichi. La disputa verteva essenzialmente sul metodo di Lenin: violenza, crimini e terrore. Mentre dagli anni Venti agli anni Cinquanta il lato oscuro dell'esperienza bolscevica è stato denunciato da molti testimoni, vittime e osservatori qualificati, in numerosi libri e articoli, bisognerà aspettare che gli stessi comunisti al potere riconoscano, sia pur limitatamente, questa realtà perché una porzione sempre più estesa dell'opinione pubblica cominci a prendere coscienza del dramma. Un riconoscimento parziale, poiché il «rapporto segreto» affrontava soltanto la questione delle vittime comuniste; ma un riconoscimento comunque, che costituiva una prima conferma delle testimonianze e degli studi precedenti e rafforzava un sospetto diffuso da tempo: il comunismo aveva provocato in Russia un'immensa tragedia. I dirigenti di molti «partiti fratelli» non furono immediatamente convinti che bisognasse imboccare la via delle rivelazioni. Di fronte al precursore Hruscov passarono persino per retrogradi: si dovette attendere il 1979 perché il Partito comunista cinese distinguesse nella politica di Mao «grandi meriti», fino al 1957, e «grandi errori» successivamente. I vietnamiti affrontano la questione solo attraverso la condanna del genocidio perpetrato da Pol Pot. Fidel Castro, invece, nega le atrocità commesse sotto la sua egida. Fino a quel momento la denuncia dei crimini comunisti era venuta soltanto dai loro nemici o dai dissidenti trotzkisti o anarchici; e non era stata particolarmente efficace. I superstiti dei massacri comunisti ebbero la stessa fortissima volontà di testimonianza dei superstiti dei massacri nazisti, ma vennero ascoltati poco o niente, soprattutto in Francia, dove l'esperienza concreta del sistema dei campi di concentramento sovietici toccò direttamente soltanto piccoli gruppi, come i «Malgré-nous» dell'Alsazia-Lorena. Perlopiù, le testimonianze, i flash della memoria, i lavori delle commissioni indipendenti create per iniziativa di pochi individui - quali la Commissione internazionale sul regime dei campi di concentramento di David Rousset, o la Commissione per la verità sui crimini di Stalin - sono stati coperti dalla grancassa della propaganda comunista, accompagnata da un silenzio vile o indifferente. Questo silenzio, che succede generalmente a qualche momento di sensibilizzazione dovuto alla comparsa di un'opera - "Arcipelago Gulag" di Solzenicyn - o di una testimonianza più inconfutabile delle altre - "I racconti di Kolyma" di Varlam Scialamov o "L'utopie meurtrière" di Pin Yathay -, è la manifestazione della resistenza di porzioni più o meno estese delle società occidentali di fronte al fenomeno comunista. Esse si sono finora rifiutate di guardare in faccia la realtà, di ammettere, cioè, che il sistema comunista, pur in diversa misura, comporta una dimensione fondamentalmente criminale. E con tale rifiuto partecipano della menzogna, nel senso in cui la intende Nietzsche: «Rifiutare di vedere qualcosa che si vede, rifiutare di vedere qualcosa come lo si vede». Nonostante tutte queste difficoltà ad affrontare la questione, molti studiosi si sono cimentati nell'impresa. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta, in mancanza di dati più attendibili, accuratamente occultati dal regime sovietico, la ricerca si è basata essenzialmente sulle testimonianze dei transfughi. Suscettibili di essere nutrite dalla vendetta e dalla denigrazione sistematica, o di essere manipolate da un potere anticomunista, queste testimonianze - contestabili da parte degli storici, come qualsiasi testimonianza - venivano regolarmente screditate dagli incensatori del comunismo. Che cosa bisognava pensare, nel 1959, della descrizione del gulag da parte di un transfuga d'alto rango del K.G.B., così come veniva riportata in un libro di Paul Barton?. E che cosa pensare dello stesso Paul Barton, il cui vero nome era Jirì Veltrusky, anch'egli esiliato e organizzatore insieme ad altri dell'insurrezione antinazista di Praga nel 1945, costretto a fuggire dal suo paese nel 1948? Ora, il confronto con gli archivi ormai aperti dimostra che quell'informazione del 1959 era assolutamente attendibile. Negli anni Settanta e Ottanta la grande opera di Solzenicyn "Arcipelago Gulag" provocò un vero e proprio shock nell'opinione pubblica. Si trattò probabilmente di uno shock letterario, dovuto alla genialità del cronista, più che della presa di coscienza generale dell'orribile sistema che egli descriveva. Eppure Solzenicyn faticò ad abbattere il muro della menzogna, lui che nel 1975 era stato paragonato da un giornalista di un grande quotidiano francese a Pierre Laval, Doriot e Déat «che accoglievano i nazisti come liberatori». La sua testimonianza è stata, tuttavia, decisiva per una prima presa di coscienza, come lo furono quelle di Scialamov sulla Kolyma o quella di Pin Yathay sulla Cambogia. Più recentemente ancora, Vladimir Bukovskij, una delle principali figure della dissidenza sovietica all'epoca di Breznev, ha lanciato un nuovo grido di protesta richiedendo, nel libro "Jugement à Moscou", l'istituzione di un nuovo tribunale di Norimberga per giudicare le attività criminali del regime. Il saggio, in Occidente, è stato accolto con favore dalla critica, ma ha avuto uno scarso successo di pubblico. Contemporaneamente si assiste a una fioritura di opere che riabilitano Stalin. Quale motivazione, sul finire di questo ventesimo secolo, può spingere all'esplorazione di un campo così tragico, così cupo, così polemico? Oggi gli archivi non soltanto confermano queste testimonianze puntuali, ma permettono di andare molto più in là. Gli archivi interni del sistema di repressione dell'ex Unione Sovietica, delle ex democrazie popolari e della Cambogia mettono in luce una realtà terribile: il carattere massiccio e sistematico del terrore che, in molti casi, è sfociato nel crimine contro l'umanità. E' giunto il momento di affrontare in modo scientifico, documentato con fatti inconfutabili e libero da implicazioni politico-ideologiche, il problema ricorrente che tutti gli osservatori si sono posti: che ruolo ha il crimine nel sistema comunista? In questa prospettiva, quale può essere il nostro apporto scientifico? Il nostro intervento risponde in primo luogo a un dovere di storia. Per lo storico nessun tema è tabù e le implicazioni e pressioni di qualunque tipo - politiche, ideologiche, personali - non devono impedirgli di seguire la strada della conoscenza, dell'esumazione e dell'interpretazione dei fatti, soprattutto quando questi ultimi siano stati a lungo e volontariamente sepolti nel segreto degli archivi e delle coscienze. Ora, questa storia del terrore comunista costituisce una delle componenti principali di una storia europea che voglia esaurire completamente la grande questione del totalitarismo. Quest'ultimo ha conosciuto una versione hitleriana ma anche una versione leninista e stalinista, e non si può più accettare una storia incompleta, che ignori il versante comunista. Così come non si può più assumere la posizione di ripiegamento che consiste nel ridurre la storia del comunismo unicamente alla dimensione nazionale, sociale e culturale. Tanto più che questa partecipazione al fenomeno totalitario non si è limitata all'Europa e all'episodio sovietico, ma ha toccato anche la Cina maoista, la Corea del Nord e la Cambogia di Pol Pot. Ogni comunismo nazionale è stato tenuto legato con una sorta di cordone ombelicale alla matrice russa e sovietica, pur contribuendo a diffondere il movimento a livello mondiale. La storia che abbiamo di fronte è quella di un fenomeno che si è sviluppato in tutto il mondo e che riguarda tutta l'umanità. Il secondo dovere al quale risponde quest'opera è un dovere di memoria. E' un obbligo morale onorare la memoria dei morti, soprattutto quando sono le vittime innocenti e anonime di un moloch dal potere assoluto che ha cercato di cancellarne persino il ricordo. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del centro del potere comunista a Mosca, l'Europa, matrice delle esperienze tragiche del ventesimo secolo, sta ricomponendo una memoria comune; anche noi possiamo portare il nostro contributo. Gli autori di questo libro sono essi stessi latori di questa memoria: chi più vicino all'Europa centrale per vicende di vita personale, chi all'idea e alla pratica rivoluzionaria per via di un impegno politico contemporaneo al Sessantotto o più recente. Questo doppio dovere, di memoria e di storia, si iscrive in ambiti molto diversi. In alcuni casi tocca paesi in cui il comunismo non ha praticamente mai avuto peso, né sulla società né sul potere: Gran Bretagna, Austria, Belgio eccetera. In altri, si manifesta in paesi in cui il comunismo è stato una potenza temuta - gli Stati Uniti dopo il 1946 - o temibile, anche se non è mai salito al potere: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. In altri casi ancora, si impone con forza in paesi in cui il comunismo ha perso il potere che aveva detenuto per diversi decenni: Europa dell'Est, Russia. Infine, vacilla pericolosamente laddove il comunismo è ancora al potere: Cina, Corea del Nord, Cuba, Laos e Vietnam. L'atteggiamento dei contemporanei di fronte alla storia e alla memoria è diverso in ognuna di queste situazioni. Nei primi due casi essi si limitano a un processo relativamente semplice di conoscenza e di riflessione. Nel terzo caso si trovano di fronte alle necessità imposte dalla riconciliazione nazionale, con o senza punizione dei carnefici; a questo proposito, la Germania riunificata offre probabilmente l'esempio più sorprendente e «miracoloso»; si pensi al disastro iugoslavo. Ma anche la Cecoslovacchia, diventata Repubblica ceca e Slovacchia, la Polonia e la Cambogia conoscono bene le sofferenze della memoria e della storia del comunismo. Un certo grado di amnesia, spontanea o ufficiale, può sembrare indispensabile per curare le ferite morali, psichiche, affettive, personali e collettive provocate da più di mezzo secolo di comunismo. Laddove quest'ultimo è ancora oggi al potere, i carnefici o i loro eredi o organizzano una negazione sistematica, come a Cuba o in Cina, o addirittura continuano a rivendicare il terrore quale metodo di governo, come nella Corea del Nord. Questo dovere di storia e di memoria ha innegabilmente una portata morale. Qualcuno potrebbe, però, obiettarci: «Chi vi autorizza a definire il Bene e il Male?». Secondo i criteri che le sono propri, esattamente a questo mirava la Chiesa cattolica quando papa Pio Undicesimo condannò con due encicliche distinte, pubblicate a pochi giorni di distanza l'una dall'altra: il nazismo, "Mit brennender Sorge" del 14 marzo 1937, e il comunismo, "Divini Redemptoris" del 19 marzo 1937. Quest'ultima affermava che Dio aveva dotato l'uomo di prerogative: «Il diritto alla vita, all'integrità del corpo, ai mezzi necessari all'esistenza; il diritto di tendere al suo fine ultimo nella via tracciata da Dio; il diritto d'associazione, di proprietà e il diritto di valersi di questa proprietà». E anche se si può denunciare una certa ipocrisia della Chiesa, che avallava l'arricchimento eccessivo di alcuni in virtù dell'espropriazione di altri, il suo appello al rispetto della dignità umana rimane comunque essenziale. Già nel 1931, nell'enciclica "Quadragesimo anno", Pio Undicesimo aveva scritto: "E' insito nell'insegnamento e nell'azione del comunismo un doppio obiettivo, che esso persegue non in segreto e per vie traverse, ma apertamente, alla luce del sole e con tutti i mezzi, anche i più violenti: una lotta di classe implacabile e la totale scomparsa della proprietà privata. Nel perseguire questo scopo, non c'è nulla che non osi, nulla che rispetti; laddove ha preso il potere, si dimostra selvaggio e disumano a un livello che si stenta a credere e che ha del prodigioso, come testimoniano i terribili massacri e le rovine che ha accumulato in immensi paesi dell'Europa orientale e dell'Asia". L'ammonimento era particolarmente significativo, in quanto proveniva da un'istituzione che, per secoli e in nome della sua fede, aveva giustificato il massacro degli Infedeli, sviluppato l'Inquisizione, imbavagliato la libertà di pensiero e che avrebbe appoggiato regimi dittatoriali come quello di Franco o di Salazar. Tuttavia, se la Chiesa nel dire questo non faceva che tener fede al proprio ruolo di censore morale, quale deve, quale può essere il discorso dello storico di fronte al racconto eroico dei partigiani del comunismo o a quello patetico delle sue vittime? Nelle "Memorie d'oltretomba" Francois René de Chateaubriand scriveva: "Quando, nel silenzio dell'abiezione, si sente rimbombare soltanto la catena dello schiavo e la voce del delatore; quando tutto trema di fronte al tiranno, e incorrere nel suo favore è altrettanto pericoloso che meritarne la disgrazia, appare lo storico, incaricato della vendetta dei popoli. Invano Nerone prospera, nell'impero è già nato Tacito". Lungi da noi l'idea di farci sostenitori dell'enigmatica «vendetta dei popoli», alla quale nemmeno Chateaubriand credeva più alla fine della sua vita; ma, al suo modesto livello, lo storico diventa, quasi senza volerlo, il portavoce di coloro che, a causa del Terrore, si sono trovati nell'impossibilità di dire la verità sulla loro condizione. E' lì per fare opera di conoscenza: il suo primo dovere è stabilire fatti ed elementi di verità che diventeranno conoscenza. Inoltre, il suo rapporto con la storia del comunismo è particolare: è costretto a farsi storiografo della menzogna. E, anche se l'apertura degli archivi gli fornisce i materiali indispensabili, deve stare continuamente all'erta, dal momento che molte questioni complesse sono, per loro natura, oggetto di controversie spesso viziate da secondi fini. Tuttavia questa conoscenza storica non può prescindere da un giudizio che dipende da pochi valori fondamentali: il rispetto delle regole della democrazia rappresentativa e, soprattutto, il rispetto della vita e della dignità umana. E' questo il metro con cui lo storico giudica gli attori della storia. A queste ragioni generali, che stanno alla base di un lavoro di memoria e di storia, si è aggiunta per alcuni una motivazione personale. Alcuni autori di questo libro non sono stati estranei in passato al fascino del comunismo. Talvolta sono stati anche parte attiva, al loro modesto livello, del sistema comunista, sia nella versione ortodossa leninista-stalinista, sia in quelle annesse e dissidenti (trotzkista, maoista). E se rimangono legati alla sinistra - e proprio in virtù di questo fatto -, sono costretti a riflettere sulle ragioni della loro cecità. Questa riflessione ha preso anche le vie della conoscenza, tracciate dalla scelta dei loro argomenti di studio, dalle loro pubblicazioni scientifiche e dalla loro collaborazione con diverse riviste: «La nouvelle alternative», «Communisme». Questo libro è un ulteriore momento della loro riflessione. Una riflessione che continua a impegnarli in quanto hanno coscienza del fatto che non bisogna lasciare a un'estrema destra, sempre più presente, il privilegio di dire la verità; i crimini del comunismo vanno analizzati e condannati in nome dei valori democratici, non degli ideali nazionalfascisti. Questo approccio implica un lavoro comparativo, dalla Cina all'URSS, da Cuba al Vietnam. Per il momento non disponiamo di una documentazione omogenea. In alcuni casi, gli archivi sono aperti, o semiaperti, in altri no. Ma non ci è sembrata una ragione sufficiente per rimandare il lavoro; ne sappiamo abbastanza, e da fonte «sicura», per lanciarci in un'impresa che, pur non avendo alcuna pretesa di essere esauriente, si definisce pioniera e desidera inaugurare un grande cantiere di ricerca e di riflessione. Abbiamo dato avvio a una prima recensione di una quantità di fatti, a un primo approccio che, una volta concluso, meriterà di essere sviluppato in ben altre opere. Ma bisogna pur incominciare, puntando l'attenzione soltanto sui fatti più chiari, più inconfutabili, più gravi. Questo libro contiene molte parole e poche immagini. E' questo uno dei punti critici dell'occultamento dei crimini del comunismo: in una società mondiale ipermediatica, in cui per l'opinione pubblica fa testo soltanto l'immagine, fotografica o televisiva, disponiamo di pochissime fotografie d'archivio sul gulag o il laogai, mentre sulla dekulakizzazione o la carestia del Grande balzo in avanti non ne abbiamo neanche una. I vincitori di Norimberga hanno potuto fotografare e filmare a piacimento le migliaia di cadaveri del campo di Bergen-Belsen e le fotografie scattate dai carnefici stessi, come quella del tedesco che spara a freddo su una donna con il figlio in braccio, sono state ritrovate. Per il mondo comunista, in cui il terrore era organizzato nel più rigoroso segreto, non esiste niente di simile.

Il lettore non si accontenti dei pochi documenti iconografici qui riuniti. Dedichi il tempo necessario a prendere coscienza, pagina dopo pagina, del calvario subito da milioni di uomini. Compia l'indispensabile sforzo mentale per rappresentarsi ciò che fu quest'immensa tragedia che continuerà a segnare la storia mondiale per i decenni a venire. Gli si porrà, allora, il quesito fondamentale: perché? perché Lenin, Trotsky, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell'umanità: «Non uccidere»? Tenteremo di rispondere a questa domanda alla fine del libro".

La biografia "definitiva" del dittatore che fa a pezzi il mito del comunismo. Lo storico russo Oleg V. Chlevnjuk, basandosi su nuovi documenti, racconta l'ascesa del tiranno e la discesa nell'incubo dell'Unione Sovietica, sconvolta dalle "purghe" e dalla povertà, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 12/04/2016, su "Il Giornale". Il comunismo non è una nobile idea realizzata male. È sempre stata una tragica pazzia. L'economia pianificata non conduce a una società di eguali ma alla miseria generale, fatta eccezione per le élite di burocrati e funzionari di partito. La violenza non è una degenerazione del sistema ma il suo metodo essenziale. Dal Libro nero del comunismo agli studi di Robert Conquest, Victor Zaslavsky e molti altri, più o meno conosciuti, più o meno di successo, non mancano i saggi che smontano il mito del socialismo. A questi si aggiunge ora Stalin. Biografia di un dittatore (Mondadori, pagg. 480, euro 28) di Oleg V. Chlevnjuk, la biografia considerata «definitiva» del dittatore sovietico. In realtà lo storico russo mette in fila una sterminata mole di documenti, in gran parte inediti o poco conosciuti, che è la pietra tombale sulle riletture nostalgiche e sui derivati contemporanei del comunismo. La vita di Stalin diventa l'occasione per raccontare l'ascesa dell'intero movimento bolscevico. L'autore non perde mai di vista Ioseb Dzugasvili (questo il vero nome del dittatore) ma ne inserisce la vita all'interno di un quadro molto vasto. Stalin nasce a Gori, in Georgia, il 6 dicembre 1878, un anno prima rispetto a quanto indicato dalle biografie ufficiali. Secondo le leggende (autorizzate) era, di volta in volta, figlio di un ricco mercante, di un potente industriale, di un principe e perfino dell'imperatore Alessandro III. Più prosaicamente, Stalin era figlio di una donna giunta in città dopo l'abolizione della servitù della gleba e di un calzolaio incline ad alzare il gomito. Secondo le leggende (autorizzate) ebbe un'infanzia difficile, segnata dai maltrattamenti. Invece fu relativamente serena, nonostante l'abbandono del padre rovinato dall'alcolismo. Il seminarista Stalin, studente modello traviato dalle letture «proibite», si avvicina presto al socialismo rivoluzionario. Secondo le leggende (autorizzate) Stalin viene espulso da scuola. Più probabilmente, la abbandona in accordo con l'istituzione, in effetti scontenta dell'insubordinazione del ragazzo. Cresciuto all'ombra di Lenin, che non lo avrebbe voluto come erede, Stalin si dimostra un abile organizzatore del partito ma rimedia magre figure nel corso della guerra civile. La sua abilità è manipolare e chiudere all'angolo gli avversari politici, in particolare l'opposizione interna. Conservatore alla bisogna, estremista di natura, il compagno è dotato dell'innata capacità di tessere e disfare alleanze all'interno del gruppo dirigente. Presto assume una posizione di rilievo. Stalin bada al sodo: capisce che il potere di fare le nomine all'interno della burocrazia e il controllo della polizia segreta sono il suo lasciapassare per la dittatura. Presto aggiunge un terzo tassello: il terrore. La vittoria, per essere completa, implica la cancellazione del rivale sconfitto. Si spiegano così le terribili «purghe» alle quali, specie negli anni Trenta, sottopone anche i suoi collaboratori più stretti. I «prescelti» di Stalin convivevano con la paura di cadere in disgrazia senza preavviso, per motivi futili. Il dittatore poteva scegliere di umiliare chi aveva alzato la cresta senza neppure accorgersene. Tipico il caso di Molotov, al quale, nel corso di una riunione, fu imposto di divorziare dalla moglie perché ebrea e dunque «cosmopolita». Molotov fu costretto a votare contro se stesso. Tra il 1929 e il 1953, Stalin diventa progressivamente il padrone assoluto dell'Unione Sovietica. Chlevnjuk ricostruisce nel dettaglio le macchinazioni di Stalin nel Politburo, il suo opportunismo nell'allearsi con Hitler, i colossali errori come capo militare, la continua invenzione di nemici interni per giustificare la repressione di ogni potenziale oppositore, la creazione di un clima di guerra costante al fine di giustificare drastiche misure economiche, le pesanti responsabilità nelle carestie che hanno falcidiato a più riprese le infinite campagne sovietiche. Lo fa con numeri e carte alla mano (al piede di queste pagine pubblichiamo una parte minima ma significativa di questi dati). Una cosa è chiara: ogni crimine fu commesso in piena consapevolezza. Stalin non era affatto un folle, come talvolta è stato presentato, e neppure disinformato sulle conseguenze dei suoi ordini. Era un bolscevico di impeccabile coerenza. Era convinto che il socialismo fosse il futuro dell'umanità perché avrebbe portato la prosperità universale. Gli orpelli del capitalismo, come la moneta, presto si sarebbe rivelati inutili. Bisognava però marciare compatti, eliminando, in ogni senso, ogni residuo del passato. Per questo, Stalin fissò obiettivi economici assurdi e controproducenti. Nessuno guardava agli indicatori fondamentali. Anzi: furono soppressi. La collettivizzazione forzata dell'agricoltura portò al crollo della produzione (oltre a costare la vita a milioni di contadini). L'efficienza dell'industria di Stato fu inferiore alle pretese e alle invenzioni della propaganda. Le opere pubbliche si rivelarono un pozzo senza fondo tra debiti e ritardi. L'Urss resisteva grazie a quel poco che i braccianti producevano per se stessi, ottenendo comunque eccedenze da vendersi sul mercato, e al lavoro forzato dei prigionieri nei campi di concentramento (l'Arcipelago GULag di Solzenicyn). L'abbondanza di risorse naturali dava una grossa mano. Gli eredi del dittatore conoscevano la realtà ma non osarono mai opporsi. Di fatto, dopo la morte di Stalin, introdussero timide liberalizzazioni, che consentirono all'Urss di tirare avanti fino agli anni Ottanta. C'è spazio anche per qualche incursione nello Stalin privato. Collezionista di dischi, ne aveva 2700 nella sua dacia vicina a Mosca. La sua voracità come lettore («almeno 4-500 pagine al giorno», diceva) non sembra confermata dalle dimensioni della sua biblioteca modesta e centrata soprattutto su Lenin e sulla dottrina marxista. Ma c'è da aggiungere che Stalin annotava per ore le tonnellate di rapporti che accumulava sulla scrivania anche nei periodi di vacanza. La famiglia non era una priorità. Riuscì a «purgare» anche quella, facendo sparire i parenti più insistenti. Tra i figli, l'unico a godere di qualche protezione fu Vasilij ma il comportamento disonorevole nel corso della Seconda guerra mondiale convinse Stalin ad abbandonarlo a un destino di alcolista. Sempre soggetto ad attacchi d'ira imprevedibili, Stalin aveva servitori e vassalli ma non amici. Il 1° marzo 1953 ebbe un grave malore. Per ore nessuno osò intervenire nonostante il dittatore, contrariamente alle sue abitudini, non uscisse dalla stanza da letto. Quattro giorni dopo, Stalin morì. Ma la tragedia non era ancora finita. Anche l'uscita di scena, con i pubblici funerali, fu segnata dal sangue: nella ressa morirono 109 persone.

"Che fare?" si chiese Lenin. E fece una strage per costruire la dittatura. Nel testo-chiave c'erano già teorizzazione e premesse dei crimini del comunismo e delle sue "avanguardie", scrive Francesco Perfetti, Sabato 29/10/2016, su "Il Giornale".  Al centro della riflessione del "Che fare?" c'erano l'idea del primato della politica e quella del ruolo del partito come depositario della «coscienza rivoluzionaria» e come catalizzatore delle energie rivoluzionarie del proletariato. Da sola, argomentava Lenin, la classe operaia non sarebbe stata in grado di raggiungere una vera «coscienza rivoluzionaria» e si sarebbe esaurita in tante, e inutili, manifestazioni di spontaneismo destinate, di fatto, a rafforzare il regime borghese: «lo sviluppo spontaneo di un movimento operaio finisce con il subordinarlo alla ideologia borghese. Il trade-unionism altro non è se non l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia. Il nostro compito, quello della socialdemocrazia, è di combattere lo spontaneismo. Non può esistere coscienza rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria». Il partito, organizzato e gerarchizzato, articolato in una rete di comitati locali controllati dagli organi centrali ha le caratteristiche di un esercito permanente composto da professionisti della rivoluzione perché non è possibile fare il rivoluzionario a mezzo tempo. Il partito è, quasi, un «corpo scelto», rigidamente selezionato e addestrato, distinto dal complesso dei lavoratori: costituisce, in certo senso, l'avanguardia del proletariato e, composto di individui devoti e pronti al sacrificio, è in grado di giudicare ciò che è utile o conveniente per il bene di tutti i lavoratori e ha il dovere, altresì, in questa ottica, di educarli e guidarli secondo i principi del marxismo. Osserva acutamente Adam B. Ulam nella ricordata biografia di Lenin che, in questa visione, era già prefigurato l'esito dittatoriale del comunismo: «il partito deve essere simile a un esercito, ma non c'è esercito senza generale. Chi dovrà decidere quali ingranaggi sono adatti alle diverse funzioni dell'intero congegno? Senza rendersene pienamente conto, Lenin ha elaborato il progetto di una dittatura». E, si potrebbe aggiungere o precisare, di una dittatura totalitaria fondata sull'idea di una rivoluzione permanente che si sviluppa all'insegna di una epurazione continua in nome della purezza ideologica e che trova la propria sublimazione nel terrore istituzionalizzato e nella creazione dell'«universo concentrazionario», cioè dei gironi infernali del gulag, dove rinchiudere gli esseri contaminati dall'infezione borghese. Il progetto sarebbe stato precisato successivamente, secondo una linea di rigida continuità e coerenza, in altri saggi, a cominciare da Stato rivoluzione: la dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917) scritto alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre nel quale Lenin sosteneva che la liberazione della «classe oppressa» sarebbe stata impossibile «senza una rivoluzione violenta» e «senza la distruzione dell'apparato di potere statale creato dalla classe dominante». Il marxismo-leninismo, cioè a dire il marxismo nella versione di Lenin, è all'origine della Rivoluzione d'Ottobre e porta alla costruzione dello Stato comunista in Russia, ed anche altrove, accreditando l'utopia salvifica della liberazione dell'uomo dallo sfruttamento capitalistico e quella, altrettanto chimerica, della creazione di un «paradiso in terra» da costruirsi mettendo da parte le garanzie proprie dello Stato di diritto nel presupposto, come ha osservato François Furet nel suo libro Le due rivoluzioni. Dalla Francia del 1789 alla Russia del 1917 (1999), che «l'emancipazione comporti di per se stessa l'esercizio finalmente sovrano dei diritti politici da parte dell'intermediario della dittatura del proletariato» secondo uno schema che riprendeva la tradizione politico-intellettuale del giacobinismo francese per la quale lo Stato rivoluzionario era «il garante dell'uguaglianza e dunque della libertà». Le vicende storiche del comunismo, quale è andato sviluppandosi a partire dalla realizzazione delle idee di Lenin e dalla presa di potere dei bolscevichi in Russia, si risolvono nella storia di una utopia salvifica ispirata dall'«universale fascino di Ottobre», lastricata da milioni di cadaveri, punteggiata dalla costruzione di «universi concentrazionari» e costellata, nel suo realizzarsi, da azioni criminali. È una storia di illusioni e di sogni palingenetici infranti sull'altare di una impossibile discontinuità lo ha molto ben dimostrato François Furet in una delle più belle opere della storiografia contemporanea, Il passato di una illusione. L'idea comunista nel XX secolo (1995) fra le posizioni teoriche e i comportamenti di Lenin, da una parte, e quelli dei suoi successori. In questa ottica, per esempio, appare evidente come i cosiddetti «crimini di Stalin» denunciati dal XX congresso del Pcus non siano stati affatto una degenerazione o deviazione dovuta a una mente tarata ma siano stati, al contrario, l'esito naturale dell'intransigentismo rivoluzionario di Lenin pronto a spazzare via, con ogni mezzo e senza pietà o rimorsi, tutti gli ostacoli che si frapponevano ai «passi cadenzati dei battaglioni ferrei del proletariato»: al Moloch della rivoluzione e al «verbo» incarnato dal partito venivano dedicate le vittime sacrificali di un culto barbarico e sanguinoso. La conquista del potere in Russia da parte del marxismo in versione leninisista ha dato origine a una «religione secolare», per usare la pregnante espressione del sociologo francese Jules Monnerot contenuta nella Sociologie du communisme (1963), che ha finito per influenzare e, in gran parte, condizionare la storia mondiale. Dal 1917 la storia è, infatti, diventata così l'ha definita il maggiore filosofo cattolico del Novecento, Augusto Del Noce, in tanti suoi lavori tra i quali L'epoca della secolarizzazione (1970) una «storia filosofica» nel senso che da quel momento in poi tutti gli attori politici internazionali hanno dovuto confrontarsi, per accettarla o respingerla, con una filosofia della prassi, il marxismo-leninismo appunto, che si era «inverata» o incarnata in istituzioni politiche. Con quel che ne è conseguito soprattutto in termini di «ideologizzazione» della storia.

I-L'Urss di Lenin e Stalin 1914-1939; II-L'Urss dalla rovina alla rinascita 1939-1964; III-L'Urss dal trionfo al degrado 1964-1991. Questo volume traccia la parabola dell'Urss dalle origini fino al suo trionfo sul nazismo. Attingendo alla documentazione resasi disponibile dopo il collasso dell'Urss e alle ricerche condotte su di essa, l'autore ha potuto operare una ricostruzione nuova, e diversamente credibile, di una storia che ha affascinato e impaurito il XX secolo. Due dittature affini ma anche profondamente diverse, quella di Lenin e quella di Stalin, due guerre mondiali, una guerra civile e una guerra scatenata nel 1929 dal regime contro la popolazione, che causò nel 1931-33 due carestie sterminatrici, nonché la più grande operazione di terrore preventivo mai condotta in epoca di pace in un paese europeo formano lo sfondo in cui Graziosi inserisce la costruzione del grande "esperimento" sovietico. Al centro dell'attenzione vi sono l'ideologia, le mentalità e i comportamenti del gruppo dirigente, dei contadini, degli operai, delle donne e degli intellettuali; le capacità e i limiti di un sistema economico peculiare; le esperienze vissute dalle nazionalità; e l'influenza che l'Urss ha esercitato sia attraverso gli strumenti tradizionali, sia attraverso lo straordinario potere di attrazione di quella che è stata l'ultima grande utopia nata in Occidente.

Andrea Graziosi, L'URSS di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica, 1914-1945. Di Elena Dundovich, Martedì 13 Maggio 2008. Chiunque desideri oggi avvicinarsi alla complessa quanto affascinante storia del mondo sovietico non potrà prescindere dalla lettura del poderoso lavoro di Andrea Graziosi di cui la casa editrice Il Mulino ha pubblicato il primo volume, relativo al periodo 1914-45. Il libro è frutto di un amplissimo lavoro di lettura delle fonti pubblicate prima e dopo l’apertura degli archivi ex sovietici, avvenuta dopo il crollo dell’URSS nel dicembre del 1991, in lingua russa e non, e offre quindi il primo tentativo, molto ben riuscito, di offrire una sistematizzazione comparata di quanto pubblicato prima e dopo l’accesso diretto alla documentazione di epoca sovietica, tenendo ben presenti le talvolta forti novità interpretative che proprio quell’accesso ha consentito agli studiosi della storia politica, economica, sociale, internazionale dell’URSS. Chiunque desideri oggi avvicinarsi alla complessa quanto affascinante storia del mondo sovietico non potrà prescindere dalla lettura del poderoso lavoro di Andrea Graziosi di cui la casa editrice Il Mulino ha pubblicato il primo volume, relativo al periodo 1914-45. Il libro è frutto di un amplissimo lavoro di lettura delle fonti pubblicate prima e dopo l’apertura degli archivi ex sovietici, avvenuta dopo il crollo dell’URSS nel dicembre del 1991, in lingua russa e non, e offre quindi il primo tentativo, molto ben riuscito, di offrire una sistematizzazione comparata di quanto pubblicato prima e dopo l’accesso diretto alla documentazione di epoca sovietica, tenendo ben presenti le talvolta forti novità interpretative che proprio quell’accesso ha consentito agli studiosi della storia politica, economica, sociale, internazionale dell’URSS. Piani che Graziosi riesce a tenere uniti in una dialettica di analisi invidiabile e che gli permette di mantenere in tensione gli estremi di una storia complessa che si giocò, e fu giocata dai suoi protagonisti, su più livelli, spesso in contraddizione tra di loro: quello della ricerca di una soluzione al problema contadino russo, “il” grande problema della storia bolscevica sino alla dekulakizzazione dei primi anni Trenta; la ricerca di una soluzione al dilemma ideologico circa il rapporto esistente tra grande guerra, rivoluzione, ideologia, guerra civile, mobilitazione interna, repressione; la ricerca di una soluzione alla questione delle nazionalità; il difficile rapporto tra ideologia ed economia laddove il marxismo spesso «limitava gli orizzonti culturali e travisava la percezione di una situazione molto diversa» (p. 208). Due sono i concetti chiave che, come un filo di Arianna, fanno da guida durante la lettura del libro e consentono al lettore di concentrarsi contemporaneamente su questi diversi piani: in primo luogo quello di mnogoukladnost’ (un’espressione già usata da Lenin dopo il 1917 per indicare la natura del paese che i bolscevichi avevano appena conquistato), vale a dire l’interpenetrazione di più sistemi socioeconomici (uklad) e quindi di più «periodi storici» in un solo paese e in un medesimo tempo. Una convivenza già individuata all’inizio del Novecento da Parvus e Trockij, che gli avevano dato il nome di «legge dello sviluppo combinato», secondo la quale in paesi in velocissimo sviluppo settori appartenenti a più epoche storiche vivono fianco a fianco, provocando fratture e fragilità di cui i rivoluzionari potevano approfittare (p. 27). E in effetti, sia la storia dell’impero russo, che conobbe nella seconda metà dell’Ottocento una fase di rapido sviluppo, sia quella dell’Unione Sovietica almeno sino al 1939, si prestano abbastanza bene a un’interpretazione basata sui passaggi da un tipo di mnogoukladnost’ all’altro. Fondamentale per la trama del libro appare inoltre il concetto di «assalto e ritirata», un’espressione che l’autore usa soprattutto per definire il periodo 1929-30, ma che può essere esteso come chiave di lettura per tutto il periodo in cui, una volta preso il potere, i bolscevichi si trovarono impegnati nel primo e più grande esperimento di ingegneria sociale e politica che la storia abbia mai conosciuto. La storia sovietica ha quindi un andamento sinusoidale partendo dall’idea di costruire un sistema politico e socioeconomico nuovo che desse una soluzione originale ai problemi posti dal primo conflitto mondiale e dalla disgregazione degli imperi (p. 13). Tre sono inoltre le caratteristiche ricorrenti in tutti i periodi cronologici in cui l’opera è suddivisa e che l’autore tiene sempre a mente lungo il dipanarsi delle pagine. In primo luogo l’imprevedibilità e gli esiti sorprendenti che ebbero le vicende sovietiche, animate da una serie di paradossi, il principale dei quali fu il raggiungimento di risultati spesso diversi da quelli attesi; una singolarità, questa, che si riflette in maniera prepotente nella conseguente ovvia difficoltà di ricostruire e interpretare quelle vicende anche a causa della concorrenza di ulteriori elementi: l’assenza prima di fonti dirette, sino a quando il regime è esistito, poi l’abbondanza, dopo l’apertura degli archivi, di una documentazione quasi esclusivamente di provenienza ufficiale – e la cui lettura deve essere pertanto sempre cauta – e scritta in un linguaggio, quello sovietico, ormai morto e difficile da far rivivere, ma le cui sfumature ideologiche risultano invece di primaria importanza. In secondo luogo vi è lo sviluppo, soprattutto nel secondo dopoguerra, di una storiografia manichea, ideologicamente divisa tra sostenitori e detrattori di un’esperienza che spesso veniva ricostruita perdendo i tratti reali del suo concretizzarsi nella storia. E infine l’intreccio anomalo tra storia nazionale e storie nazionali tanto in epoca zarista che sovietica, laddove quindi si deve sempre tenere presente l’intreccio tra decine di culture, religioni e nazioni confluite poi in un’unica grande storia. Su tutte e tre queste caratteristiche sovrasta, regina assoluta, una quarta che emerge a tinte fosche ma sempre lucide e obiettive da tutte le pagine del volume: la tragicità che fece di quell’epoca, come dice l’autore stesso, «una storia di scosse ripetute: guerra, guerra civile e carestia del 1921-1922, rivoluzione dall’alto e grandi carestie del 1929-1933, ancora guerra e carestia del 1937-1949 (…). Una storia tragica – aggiunge Graziosi – inscritta tuttavia in una parabola straordinaria che, iniziando con una guerra civile quasi genocida, tocca il genocidio con le carestie del 1931-1933, passa attraverso la guerra (…). Per poi trasformarsi in un’ansiosa ricerca di tranquillità e terminare con un segretario del Partito comunista che annuncia in televisione, in una notte di Natale, il pacifico scioglimento di uno stato già così potente e violento (…). Questa paradossale evoluzione dà subito la misura dell’imprevedibilità che rende la storia sovietica così interessante e viva anche dal punto di vista intellettuale (…) a colpirci sono piuttosto il carattere e gli esiti sorprendenti delle vicende sovietiche, a cominciare da quella rivoluzione di febbraio che nessun rivoluzionario si aspettava, nemmeno Lenin» (pp. 9-10). Molti sono i temi centrali intorno ai quali si svolge la narrazione dell’autore, ricostruiti con dovizia di particolari e sui quali il lettore è indotto a riflettere: il ruolo delle classi sociali, soprattutto di quella operaia e delle burocrazie che il sistema cominciò presto a creare; quello dell’ideologia, che Graziosi identifica con una sorta di parareligione su cui si fondarono non solo lo Stato sovietico, ma anche le speranze e le delusioni di milioni di persone sia del Primo che del Terzo mondo; il rapporto tra Stato ed economia e quello tra Stato, contadini, modernizzazione, nazionalizzazione (o statizzazione) delle masse da un lato e, dall’altro, il fenomeno della massificazione dello Stato, ossia della conquista di quest’ultimo da parte delle masse. Costante appare inoltre, lungo tutto il percorso, la riflessione sul ruolo della personalità nella storia, attraverso l’esame del profilo estremamente soggettivo che la storia sovietica assunse nei suoi momenti più cruciali. L’opera è divisa secondo un criterio cronologico, più che tematico, una scelta felice che permette al lettore di seguire l’andamento degli eventi senza per questo perderne la complessità, che emerge in maniera chiara e coerente fase per fase. Alle origini vi è una riassuntiva descrizione degli anni che precedettero il 1914, letti privilegiando le affinità piuttosto che le differenze che avvicinarono l’esperienza dell’impero russo a quelle dell’Europa continentale dai tempi di Pietro il Grande. Una Russia zarista vista non come un impero immobile, autocratico e condannato perciò a una rivoluzione già annunciata nel 1905 (come invece altri autori sostengono) e quindi per fato destinata a passare dallo zarismo al bolscevismo, ma un paese sulla via di un rapido sviluppo bruscamente interrotto dal conflitto, nel cui contesto nacquero le premesse delle due rivoluzioni del 1917. La Rivoluzione d’ottobre, in particolar modo, affondò le sue radici nelle condizioni della guerra, e a questa cercò con successo di dare una risposta che mostrò però ben presto la sua ambivalenza di fondo: già alla fine del 1917 emerse infatti con chiarezza quanto si fronteggiassero i due bolscevismi che di quella rivoluzione erano stati l’anima fondante: quello, da un lato, dei contadini e dei soldati (e dei contadini-soldati) e degli operai (e degli operai-contadini) e, dall’altro, quello della piccola élite politica che guidava gli eventi. Una rivalità che nel 1918 sarebbe presto sfociata in un’aspra guerra civile. Quest’ultima non ebbe avvio, secondo l’interpretazione dell’autore, nel maggio del 1918, al momento del pronunciamento delle truppe ceche, come invece sostengono molti storici, compresi quelli sovietici, per dimostrare che quella guerra fu imposta ai bolscevichi, ma fu da questi ultimi scelta in prima persona quando nel dicembre del 1917 Lenin e Stalin, allora commissario alle Nazionalità, decisero di invadere la Repubblica ucraina amministrata dai partiti socialisti: «La guerra tra Russia e Ucraina rivoluzionarie segnò l’inizio formale della guerra civile che Lenin aveva dichiarato ad aprile e acceso a ottobre. Essa fu quindi una scelta bolscevica e si presentò subito come conflitto tra progetti di costruzione statale in competizione sui territori dell’ex impero e non solo come lotta tra le forze – i rossi e i bianchi – che tale impero, sia pure in modo diverso, si proponevano di ricostituire e che naturalmente ne furono i protagonisti principali» (p. 102). La complessità e la pericolosità della guerra civile indussero i bolscevichi ad adottare politiche repressive durissime contro chiunque ostacolasse il loro progetto. Essi vinsero ma a prezzo, appunto, di una dura repressione interna, e fu questa vittoria a sua volta a sgombrare il campo da ogni remora per il futuro e a convincerli di poter a quella repressione far ricorso ogni volta che ve ne fosse stato bisogno. Il 1919 segnò la definitiva sconfitta dei “bianchi”. Tre attori cominciarono allora a fronteggiarsi: il nuovo Stato, le campagne e le nazionalità, mentre gli operai restavano esclusi, impoveriti e ai margini del confronto. Trockij risolse il problema della smobilitazione creando le Armate del lavoro che, insieme al progetto di costruire un’economia non monetaria, caratterizzarono l’avvio del comunismo di guerra. Questo a sua volta richiedeva uno «strato privilegiato di organizzatori» che garantissero gerarchie e disciplina rigide nel partito. Le requisizioni contro i contadini si infittirono e la loro resistenza crebbe. Nel 1920 si assistette alla più grande rivolta contadina dopo quella del 1905 e quella del 1917. Era il primo atto della grande guerra contadina inscenato dal regime (il secondo avrebbe visto protagonista Stalin nove anni più tardi) che ebbe, tra le sue prime conseguenze, un impoverimento enorme delle città tanto che, si interroga l’autore, «c’è da chiedersi se, per esempio, tra gli sgradevoli lasciti del 1918-1922 non vi fosse, specie nelle zone non russe, la disponibilità di una parte della popolazione urbana ad appoggiare per desiderio di vendetta politiche ferocemente anticontadine come quelle staliniane» (p. 147). Furono questi anni che impressero un marchio indelebile sul gruppo dirigente: il partito si sentiva assediato dalle «oscure masse contadine» (p. 149) e cominciò a dimostrarsi devoto al culto del capo vittorioso capace di prendere decisioni radicali per sgominare anche con la violenza estrema complotti che sembravano fiorire ovunque e di cui la rivolta di Kronstadt del 1921 sembrò l’estrema conferma. Secondo l’autore non fu questa, come per anni invece si è pensato, a spingere Lenin sulla strada della NEP, ma la guerra contadina in sé, mentre la NEP fu presentata e accettata come una ritirata strategica imposta dalle circostanze. La Nuova politica economica subì una prima battuta d’arresto nella tarda primavera del 1921 a causa della carestia sopraggiunta in quei mesi e dovuta alla siccità oltre che alle requisizioni, motivo quest’ultimo per cui anch’essa deve essere considerata parte integrante della guerra tra Stato e contadini. Per arginarne le conseguenze (a differenza di quanto sarebbe poi avvenuto durante la carestia del 1932- 1933), il regime inviò aiuti alla popolazione, permettendo a quella parte di essa che risiedeva nelle zone più colpite di trasferirsi altrove in cerca di pane. Poiché ci si trovava in stato di guerra, anche in questo caso i bolscevichi adottarono misure estreme di repressione per cui «visti in questa prospettiva gli anni Trenta cessano di essere ‘straordinari’ e straordinario diventa semmai l’ammorbidimento dei quattro-cinque anni di vera NEP» (p. 161). Quest’ultima conobbe due sottofasi negli anni 1922-1925 e 1925-1929, la prima delle quali fu sicuramente più positiva dal punto di vista della ripresa dell’economia e della costituzione relativamente “liberale” del nuovo Stato sovietico (con la Costituzione del 1924, per esempio, fu data una soluzione abbastanza liberale al problema delle nazionalità). Ma proprio questi successi ebbero un effetto paradossale sul gruppo dirigente e i quadri del partito, che li guardarono con sospetto perché rafforzavano quell’«oceano piccolo-borghese» (p. 208) che essi tanto temevano. E mentre in questo contesto l’obiettivo primario sembrava quello di ricercare ogni forma di degenerazione capitalista, nessuno si accorse che il vero problema era la costituzione di uno Stato leviatano che avrebbe presto inghiottito tutti. In questo senso l’anno 1925 fu di fondamentale importanza: proprio grazie ai successi della NEP, per riprendersi dallo shock della mancata rivoluzione mondiale, ormai refluita in maniera definitiva, e superare quindi la cronica paura dell’accerchiamento capitalista, nacque il mito, assunto poi come dogma al XIV congresso del partito, che vi fossero nel paese ingenti riserve contadine che potessero essere usate per lanciare l’industrializzazione del paese. Fu dunque nel 1925, come già sostenevano gli storici sovietici, e non nel 1928, come invece datano molti di quelli occidentali, che ebbe inizio la corsa all’industrializzazione forzata che procedette negli otto anni seguenti a ritmi sempre più serrati e che, precipitando la crisi della NEP, segnò la ripresa della feroce guerra tra Stato e campagne. In questi stessi anni si giocava all’interno del partito la grande lotta per la successione a Lenin. Stalin ne uscì vincitore nel dicembre nel 1927 contro Opposizione unita, e già nel gennaio seguente l’Ufficio politico emanò una direttiva sugli ammassi che costituì il primo passo ufficiale della ripresa della guerra alle campagne. Questa decisione, che non fu mai sanzionata dal Comitato centrale del partito, segna l’inizio della «dittatura personale di Stalin» che fu, almeno sino alle purghe del 1937-1938, legata direttamente alla guerra alle campagne e l’avvio, dunque, di quella specifica fase della storia sovietica nota con il termine di stalinismo. La «grande svolta» del dicembre 1929, quella cioè della collettivizzazione e della conseguente dekulakizzazione, ebbe quindi uno specifico retroterra e «benché – come scrive l’autore – la svolta del 1929 non fosse inevitabile (…) dopo quello che era successo nel 1918-1922 tra Stato e contadini i giochi erano in gran parte fatti. Lenin e Bucharin potevano cambiare idea; salvo eventi eccezionali, possibili ma improbabili, Stalin aveva però già vinto. Certo anche Stalin poteva non essere Stalin (…) il fatto che si andasse allo scontro con le campagne predeterminò in altre parole le forme e i modi di questo scontro stesso, che negli anni successivi dipesero in larga parte dalle scelte di una persona, ricordando l’immenso ruolo che singoli individui possono esercitare nella storia (…). Ciò non vuol dire che ritirate non fossero possibili anche dopo la grande rottura del 1929. Proprio perché la crisi era il frutto di scelte politiche, finché vi furono i contadini, vale a dire fino a tutti gli anni Cinquanta, tornare indietro fu sempre possibile. Ma farlo divenne un’opzione sempre più costosa dal punto di vista ideologico e politico. Se nel 1928-1929 ci si poteva ritirare senza rotture politiche traumatiche, nel 1932-1933 sarebbe stato necessario disfarsi di buona parte dei vertici del partito e in seguito anche dell’atto fondante e legittimante del regime staliniano, la rivoluzione dall’alto, e del sistema socioeconomico da essa fondato, nonché del potere e dei privilegi della maggioranza dei suoi quadri» (p. 252). Stalin rispose alle rivolte contadine del 1929-1930 elaborando nel biennio seguente due diverse risposte secondo un modello che doveva caratterizzarne l’azione sino alla morte: da un lato attuò misure capaci di affrontare i problemi, dall’altro, seguendo un’interpretazione soggettivistica della crisi, divise il mondo in amici e nemici, perseguitando e uccidendo questi ultimi senza remore. Nel 1931, anno di una forte crisi degli ammassi, l’aumento della pressione sulla popolazione si accompagnò a quello della repressione politica. Le porte del sistema concentrazionario sovietico (il “GULag”), nato in realtà su richiesta nel 1928 del ministero della Giustizia, del ministero degli Interni e della OGPU per contenere i costi del sistema penitenziario, si spalancarono per accogliere migliaia di nuovi inattesi detenuti, mentre altrettante centinaia di migliaia di persone, attraverso le operazioni di deportazione, venivano trasferite al confino nelle regioni più remote del paese. Niente valse però a contenere la tragica crisi imminente, segnalata dalla comparsa, nel 1932, dei primi focolai di carestia e dal blocco delle esportazioni, mentre cresceva il malcontento operaio e le grandi città venivano invase da masse di ex contadini in cerca di cibo. «Ma – scrive Graziosi – come nel 1921 la carestia aveva salvato il regime così la carestia del 1932-1933 dopo averne minacciato la sopravvivenza, lo salvò. Grazie alla fredda crudeltà di Stalin, che tra il 1932 e il 1933 applicò il proprio modello di repressione preventiva, categoriale e perciò collettiva, che aveva già raggiunto il suo culmine con la dekulakizzazione, a numerosi gruppi nazionali e socialnazionali che a suo giudizio rappresentavano una minaccia per il regime» (p. 337). E fu in questo contesto che, benché non premeditata, la carestia in Ucraina fu abilmente sfruttata dal regime, che la trasformò in un vero e proprio genocidio (p. 361). Fu tra il 1929 e il 1933 che Stalin pose le basi del proprio potere creando più «uno stato violento e primitivo, guidato da un despota malvagio, che un totalitarismo modernizzante, teso in nome dell’ideologia a conquistare e rifondere le coscienze dei suoi soggetti» (p. 362). Un percorso più anomalo, dunque, di quanto si fosse pensato in passato, che ci costringe a ripensare in modo nuovo la storia dell’URSS e le categorie sinora usate. La «rivoluzione dall’alto», che vide il paese ovunque avvolto dalla sofferenza (e per la prima volta – anche questo un grande merito del libro – Graziosi ci propone cifre precise sulle vittime del sistema nelle sue varie fasi) vide anche svilupparsi un parallelo fenomeno di mobilità sociale verso l’alto e verso il basso, la costruzione di nuove burocrazie che, grazie ai privilegi direttamente elargiti dal partito, diventarono il principale sostegno di Stalin, da cui erano state create e da cui dipendeva la loro fortuna, nel contesto di una «guerra dello stato contro il suo popolo» (p. 364) che rese onnipotente la polizia politica, strumento per eccellenza per controllare la crescente impopolarità del regime e di Stalin stesso. Così, dopo il biennio 1934-1936, definito il «periodo buono» del decennio, caratterizzato da un desiderio di ordine e stabilità condiviso tanto dalla popolazione quanto da molti quadri del regime e anche da una leggera ripresa dell’economia, gli anni tra il 1936 e il 1939 tornarono a essere un periodo di uso pianificato e sistematico del terrore di Stato come pratica di governo, i cui obiettivi furono, sino al giugno 1937, l’eliminazione dei membri dell’élite sovietica, e poi, dopo quella data, di tutti i gruppi sociali e nazionali che Stalin riteneva inaffidabili. Il Grande terrore del 1937-1938 fu dunque un fenomeno di massa dettagliatamente pianificato dall’alto e destinato a «ripulire» il paese da chiunque fosse ancora ostile al socialismo o, nella crescente incertezza della situazione internazionale dopo il 1936, potesse operare come quinta colonna in caso di guerra. Alla vigilia del conflitto, scrive l’autore, «ci troviamo dunque di fronte al paradosso di una società che per certi versi si ammodernava tecnicamente ed economicamente e al tempo stesso si degradava socialmente, culturalmente e politicamente» (p. 437). Per un sistema politico e una società così atipici la guerra ebbe «un’importanza pari a quella da cui era[no] nat[i] e del conflitto con i contadini durante il quale erano state gettate le [loro] fondamenta» (p. 447). Quella degli anni 1939-1945, a parte gli aspetti militari ormai noti che vengono qui riproposti, è la fase ancora meno studiata e sulla quale gli archivi sono ancora in gran parte chiusi. La «grande guerra patriottica» viene quindi riassunta in questa parte del lavoro, prestando particolare attenzione a quella contraddittorietà, ancora non completamente svelata, che animò quegli anni e che con queste parole Graziosi riassume: «La guerra stava (…) producendo al tempo stesso riscatto e asservimento, speranze e depressione, orgoglio e miseria, crescita della fiducia nelle proprie forze e del senso di impotenza e stupore di fronte allo stato vittorioso e al suo despota. Sono fenomeni ai quali non è stata data l’attenzione che meritano e dei quali riusciamo a vedere solo le grandi linee anche perché si svolsero in condizioni di relativa “libertà”: l’occhio dello stato era puntato sul fronte e quindi, una volta ottenuto dalla popolazione ciò di cui aveva bisogno per esso, le permetteva di arrangiarsi come meglio poteva» (p. 519). Fu proprio questa relativa libertà, nonostante che il regime continuasse a far uso della repressione sia contro la popolazione stessa sia deportando le popolazioni considerate traditrici (prima quelle del Caucaso e della Crimea) o non fidate (quelle poi dei paesi occupati dall’Armata Rossa) a far nascere l’aspirazione a non agire più e a non considerarsi più dei vintiki (letteralmente vitarelle), ma individui capaci di gestire spazi automi di responsabilità e iniziativa. Quanto queste aspirazioni saranno soffocate negli anni che seguirono la guerra sarà uno dei probabili oggetti della seconda parte dell’opera di Graziosi. Questo primo volume, non corredato da note per condivisibili ragioni di praticità, si conclude dal canto suo con un lungo saggio bibliografico che rimanda ai lavori e alla fonti citate nel testo. Una versione più limitata di una ben più sterminata bibliografia alla quale l’autore ha lavorato per diversi anni e che è consultabile sui siti internet di H-Russia e dell’Harvard Project on Cold War Studies. Anche questa uno strumento prezioso e ormai indispensabile per chiunque voglia seriamente approfondire uno dei tanti affascinati snodi della storia sovietica nel XX secolo. È una storia che si studia con drammatico stupore; è un libro che si legge con ammirazione stupita nei confronti di un autore che tiene incollato il lettore per le 559 pagine di un meraviglioso e dettagliato affresco a tinte fosche felicemente ispirato dalle muse. Elena Dundovich

Fucilazioni, tasse e superlavoro. La via sovietica all'innovazione. La Russia era un Paese a due velocità e troppo diviso Lenin e Stalin livellarono le differenze. Spietatamente, scrive Matteo Sacchi, Sabato 05/11/2016, su "Il Giornale". L'Urss è stata un gigantesco paradosso. Marx aveva sempre pensato che il comunismo avrebbe preso piede a partire da nazioni a capitalismo avanzato, come la Gran Bretagna, non certo da un Paese essenzialmente rurale. Insomma, la svolta verso i soviet della Russia zarista resta un fenomeno di difficile spiegazione. Ecco perché per capire le rivoluzioni del 1917 (quella liberal-socialista e quella bolscevica) bisogna guardare agli anni precedenti. È quello che fa lo storico Andrea Graziosi nel saggio che da oggi è in allegato con il Giornale (al prezzo di 11,90 euro oltre al costo del quotidiano): L'Urss di Lenin e Stalin 1914-1939. Graziosi, uno dei massimi esperti italiani di vicende russe (è fellow all'Harvard Ukrainian Research Institute e del Davis Center for Russian Studies dell'Università di Harvard) esamina nel dettaglio la complessa stratificazione economica e sociale che ha favorito la presa del potere dei comunisti russi. La Russia degli Zar era una gigantesca nazione a più velocità. Esisteva un mondo contadino la cui evoluzione era lentissima. Nelle comunità agricole caratterizzate da aziende-famiglia fortemente patriarcali (dvor) viveva il 90 per cento dei sudditi dello Zar. La proprietà della terra era molto spesso collettiva e basata su una rotazione degli appezzamenti. Gli zar l'avevano favorita per motivi fiscali: l'intera comunità rispondeva in solido della tassazione. Ovviamente il contraltare di questo collettivismo è che le innovazioni agricole erano quasi impossibili. E che le comunità inchiodavano i propri membri alla terra per non perdere fondamentali braccia e contribuenti fiscali. Ovviamente le città, a partire da San Pietroburgo, andavano a tutt'altra velocità. Lì gli Zar avevano favorito l'innovazione sin dai tempi di Pietro il Grande e la nobiltà veniva spinta a partecipare attivamente all'amministrazione imperiale. Questo sistema a due velocità ovviamente non poteva funzionare, era come se la società dell'impero si stesse tendendo verso direzioni opposte, come un elastico. A questo va aggiunto che l'Impero era composto da un coacervo di popolazioni diverse. Non che gli zar fossero rimasti passivi di fronte a questa situazione. Ma le riforme tentate a più riprese non ottennero gli effetti sperati. Anzi. Quelle terre strappate al sistema collettivo per introdurle in una più dinamica economia di mercato finirono nelle mani di un numero ristretto di proprietari. Spesso tutt'altro che innovatori. In queste condizioni la Guerra russo-giapponese del 1905 fu una mazzata. La prima guerra mondiale, un colpo insostenibile. In questo clima Lenin ebbe l'abilità politica di saldare le istanze di un gruppo di rivoluzionari di professione a quelle di una popolazione contadina che guardava all'indietro, a una medievale ed irrealistica idea di egualitarismo agrario. Abbastanza per vincere la guerra civile contro i bianchi (nella pratica nel 1920, in maniera definitiva nel 1922), ma non abbastanza per gestire la crisi seguente. L'economia era crollata a picco. I problemi nazionali ancora tutti sul tappeto. Il divario tra città e campagna ancora lì, solo che ormai le città erano spopolate e devastate. La soluzione tentata da Lenin e compagni si articolò, per usare le parole di Graziosi, nella «combinazione tra entusiasmo-egualitarismo e coercizione-violenza, con il peso della seconda coppia in costante aumento». Il risultato? Un sistema tutto «tributi e fucilazioni». Sopra questa truce violenza un proliferare di teorie, più o meno utopiche, su come regolare l'economia senza la moneta. Vennero sfornati, per esempio, milioni di questionari per valutare il lavoro e spediti nelle fabbriche. Non li compilava nessuno, nonostante le minacce di punizioni severissime. Gli operai non sapevano leggere. Alla fine il risultato fu che i funzionari locali si trasformarono in tanti piccoli tirannici autocrati. Nel periodo 1922-1925 la situazione migliorò lievemente, ma solo perché Lenin venne a compromessi con quel po' di mercato che si era spontaneamente creato. Piccola proprietà contadina libera, grande industria statale. Ma la morte di Lenin (1924) e l'ascesa di Stalin cambiarono le cose. Stalin voleva far fare un balzo al Paese e una volta liquidata l'opposizione interna calò con la mano pesante. Si passò dall'assenteismo legalizzato nelle aziende di Stato ad un folle super lavoro: nel 1927-28 gli incidenti in fabbrica furono 220 ogni mille lavoratori. Se l'orario di lavoro giornaliero scendeva a sette ore per motivi di propaganda, la produzione doveva restare inalterata e doveva essere portata avanti per tre turni giornalieri. Ma fu solo l'inizio di una lunga barbarie travestita da virtù. Dal 1929 iniziarono le «purghe» e perdere un braccio in un tornio o morire di fame in un campo pieno di spighe divennero il minore dei mali.

Così Lenin trionfò a colpi di marchi d'oro forniti dai prussiani. La biografia del generale Ludendorff racconta nel dettaglio i finanziamenti ai bolscevichi, scrive Matteo Sacchi, Venerdì 28/10/2016, su "Il Giornale". Cent'anni fa Lenin (1870-1924) era esule in Svizzera. Probabilmente nessuno dei contemporanei avrebbe scommesso che, da lì a pochi mesi, avrebbe scatenato il terremoto politico che ha portato alla nascita dell'Urss. Vladimir Il'ic Ul'janov viveva in un modesto appartamento alla periferia di Zurigo e non veniva considerato un pericolo da nessuno. Alla Conferenza di Kienthal (1916) aveva tuonato spiegando che la guerra era l'occasione per scatenare una rivolta globale dei proletari e che non bisognava parteggiare per nessuna delle nazioni belligeranti. In particolare se l'era presa con la Germania: «La Germania si batte... per opprimere le nazioni. Non è compito dei socialisti aiutare il brigante più giovane e forte a depredare i briganti più vecchi». Queste idee non lo stavano portando lontano, ed era preoccupato su come sbarcare il lunario. Beh, il lunario trovarono il modo di farglielo sbarcare proprio i tedeschi. In Russia a partire dal febbraio 1917 si sviluppò una rivoluzione anti zarista che aveva tra i principali esponenti il liberal-socialista Aleksandr Kerenskij (figlio dell'ex preside di Lenin). Deposto entro marzo Nicola II, Kerenskij e compagni stavano creando una democrazia in stile occidentale. E al contempo erano intenzionati a proseguire la guerra contro gli Imperi centrali. Ovviamente una scelta che deludeva profondamente gli alti comandi dell'esercito del Kaiser. I tedeschi avevano il fiato corto e far ritirare la Russia dal conflitto avrebbe dato loro la possibilità di lanciare tutte le loro divisioni sul fronte occidentale. È in questo contesto che Lenin all'improvviso si trasformò in una pedina importante. Come spiega una recente biografia - The first nazi, tradotta in Italia come L'uomo che creò Adolf Hitler per i tipi di Newton Compton - scritta da Will Brownell e Denise Drace Brownell, della pratica si occupò soprattutto il generale tedesco Erich Ludendorff (a cui va anche la responsabilità di aver favorito l'ascesa del Führer). Il generale fece pressione su un suo amico, Arthur Zimmermann, perché contattasse un faccendiere russo-polacco, Alexander Parvus, che contattò Lenin. Era disposto a tornare a fare il rivoluzionario in Russia? Lenin disse che gli serviva un treno dotato di mandato extraterritoriale. Glielo fornirono. Lenin e 32 compagni si imbarcarono il 9 aprile 1917 su quello che poi sarebbe stato a lungo chiamato il «vagone piombato» (molte porte erano bloccate per motivi di sicurezza). Già alla stazione vi fu bagarre. C'erano esuli russi che accusavano Lenin di essere un traditore al soldo dei tedeschi e altri che cantavano la marsigliese. Iniziò così uno dei viaggi su rotaia più strani della storia, a cui lo storico Michael Pearson ha dedicato un intero volume: Il treno piombato. Il convoglio attraversò una Germania spettrale sino a giungere a Berlino. La leggenda vuole che i volenterosi comunisti, circondati dalle truppe tedesche in stazione, facessero un bel discorso ai militari di guardia per spingerli alla rivoluzione. Non ottennero risposta. Di sicuro vennero a far loro visita degli alti ufficiali, tra cui forse lo stesso Ludendorff. In questo caso si parlò solo di soldi. I tedeschi promisero a Lenin svariati milioni di marchi-oro. Gli storici non sono mai riusciti a ottenere la stima esatta, ma oscilla tra i 30 e 40 milioni: un'enormità. Lo scopo del finanziamento era chiaro, far uscire la Russia dal conflitto. Se fino a quel momento Lenin si era mostrato incerto sul da farsi, le sue esitazioni cessarono. Al suo arrivo alla stazione di San Pietroburgo venne accolto dal soviet locale, capeggiato dal molto moderato Nikoloz Chkheidze che gli rivolse un discorso tutto democrazia e serrare i ranghi attorno al governo provvisorio di L'vov e Kerenskij. Si vide rispondere: «La guerra predatoria dell'imperialismo è l'inizio di una guerra civile...». Chkheidze ebbe paura e non a torto. Tra i pochi a capire la pericolosità di Lenin anche l'ambasciatore britannico George Buchanan, che avvisò immediatamente Londra. Ma ormai era troppo tardi. Sino al giorno prima il governo provvisorio avrebbe potuto fermare il treno con un colpo di artiglieria. Ora il denaro tedesco consentì a Lenin di far decollare le pubblicazioni della Pravda, trecentomila copie gratuite al giorno. Questo al netto delle violenze dei bolscevichi, che si moltiplicarono esponenzialmente. E contemporaneamente i bolscevichi potenziarono i mezzi di propaganda tra i militari. Quando il primo luglio Kerenskij affidò ad Aleksej Brusilov l'ultima offensiva dell'esercito russo, il morale delle truppe era già profondamente minato. Dopo la rotta ci fu la presa del potere di Lenin. Questa volta i tedeschi erano arrivati a ottenere quello che non era riuscito nemmeno a Napoleone e che non riuscì ad Hitler: la chiusura del fronte russo. Non bastò però a vincere la guerra e regalò a Lenin un'intera nazione. Anzi, ironia della sorte, Lenin usò i loro soldi anche per diffondere materiale rivoluzionario comunista tra le truppe degli Imperi centrali. Per dirla con le parole del generale tedesco Max Hoffmann: «Il nostro vittorioso esercito sul fronte orientale si infettò di bolscevismo». Senza quel treno e quei milioni di marchi forse la Russia sarebbe diventata una nazione democratica con più di settant'anni di anticipo.

Quando Stalin scatenò l'inferno assieme a Hitler, scrive Matteo Sacchi, sabato 12/11/2016, su "Il Giornale". Il momento più buio della non luminosa storia dell'Unione Sovietica è facilmente identificabile nella dittatura staliniana. Con l'arrivo al vertice del potere di Iosif Vissarionovi Dugavili la dittatura del proletariato si trasformò con rapidità stupefacente in un sistema autocratico capace di condensare il peggio del potere zarista e del bolscevismo. Quest'esito, non guardandolo con il senno del poi, poteva apparire ai contemporanei quasi stupefacente. Soprattutto contando che a lungo Stalin detenne solo la carica di Segretario generale del Partito comunista che non era considerata determinante. Per capire come sia nata una delle feroci dittature della Storia, portata avanti a colpi di purghe, epurazioni, deportazioni di massa e guerre, risulta utile L'Urss dalla Rovina alla Rinascita di Andrea Graziosi, in edicola da oggi con Il Giornale (a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano) all'interno della collana Storia del comunismo. Il saggio fornisce un quadro precisissimo delle dinamiche dello stalinismo tra il 1939 e la morte del dittatore. Nel '39 Stalin raggiunse vette di cinismo politico impreviste anche dai suoi più acerrimi nemici, come Lev Trockij. La sua idea del comunismo in un solo Paese sfociò in quell'anno in una serie di azioni militari che ricalcavano le rotte dell'espansione zarista. Nell'agosto del 1939 le truppe russe attaccarono al confine della Mongolia le truppe giapponesi. Quel confine era già caldo da un po', ma Stalin si sentiva ormai industrialmente pronto alla guerra. I giapponesi vennero rapidamente messi a mal partito (e infatti si guardarono bene dall'aggredire i sovietici anche scoppiata la Guerra mondiale). Subito dopo Stalin aprì alla Germania con il patto Ribbentrop-Molotov. Molti comunisti rabbrividirono di fronte a quell'alleanza. Stalin la giustificò con il fatto che Hitler stava «scuotendo il sistema capitalistico». In realtà il piano staliniano era semplicemente quello di inglobare nella sfera sovietica i vicini più fragili, dalla Finlandia (che non glielo rese facile) sino alla Polonia. I risultati furono paradossali. Comunisti francesi che collaboravano con Petain, attivo scambio di informazioni tra la Gestapo e la polizia segreta russa (bersaglio comune gli ebrei). Nel frattempo all'interno del Paese, che stava iniziando una corsa agli armamenti la condizione operaia peggiorò drasticamente. Chi faceva ritardi al lavoro superiori ai 20 minuti poteva essere punito con sei mesi di lavoro coatto. Lasciare il lavoro senza permesso portava direttamente in galera (2-4 mesi di prigione). Nel solo secondo semestre del 1940 vennero condannati più di due milioni di operai. Poi il piano staliniano che non teneva conto dei progetti hitleriani (per altro chiaramente scritti nel Mein Kampf), si infranse nell'operazione Barbarossa. Ci pensarono milioni di russi immolandosi a salvare il regime e a trasformare Stalin nel Padre della Patria. Colui che Grazioli definisce «un vecchio di cui è impossibile disfarsi». E che Krusciov, non proprio uno schiavo del capitale, definì: «Un pazzo sul trono».

La dura vita sotto Stalin e Tito In scena le dittature comuniste. Due spettacoli a Milano, «Collaborators» e «Goli Otok», raccontano il volto terrificante dell'Urss e della Jugoslavia, scrive Francesco Mattana, Martedì 22/11/2016 su "Il Giornale". Il teatro che racconta la devastante realtà delle dittature comuniste. A partire da oggi, a Milano, sono di scena Collaborators e Goli Otok. Isola della libertà, due spettacoli interessanti che in comune hanno proprio questo: entrambi mostrano il volto agghiacciante del totalitarismo comunista, il livello di perversione ideologica a cui si era giunti nell'Unione Sovietica di Stalin e nella Jugoslavia di Tito. Ma lo fanno in modi diversi: il primo virando sul grottesco, il secondo privilegiando la piena aderenza alla realtà. Collaborators debutto nazionale al Teatro dei Filodrammatici di Milano, in cartellone fino al 4 dicembre prende spunto dalla vicenda dello scrittore russo Bulgakov, che negli anni del dominio staliniano fu costretto ad accettare il compromesso col regime, fino al punto di scrivere un copione celebrativo per glorificare il dittatore. Il fatto che uno spirito libero come Bulgakov si fosse piegato all'umiliazione di un testo apologetico è un particolare che ha colpito l'immaginazione di John Hodge, lo sceneggiatore di Trainspotting. Colpito talmente tanto che ne è nato Collaborators, suo primo copione teatrale. Lavorando di fantasia, ha pensato di far incontrare di persona, su un palcoscenico, il Piccolo Padre e l'autore di Il Maestro e Margherita. Incontro dai risvolti tragici per il romanziere: inizialmente all'insegna della complicità fraterna, quasi cameratesca, poi però si scopre che dietro quelle parvenze bonarie il despota celava ben altri intenti, dei quali si viene a conoscenza nel prosieguo della trama. Quattordici attori diretti da Bruno Fornasari per questa produzione nuova di zecca dei lanciatissimi Filodrammatici, che da un po' di anni si sono specializzati nelle drammaturgie contemporanee, inanellando un successo (meritato) dietro l'altro. Tutt'altra atmosfera si respira in Goli Otok, al Teatro della Cooperativa, sempre a Milano, fino al 27 novembre. È la storia vera di Aldo Juretich, sopravvissuto al più atroce dei campi di concentramento di Tito, dopo due anni di soggiorno forzato dal '49 al '51. Sul palco, la straziante confessione a ruota libera di un uomo virtuoso, la cui unica colpa fu di non essersi allineato alle posizioni politiche del Maresciallo, quando tra quest'ultimo e Stalin si consumò la storica rottura nel 1948. Gli spettatori assistono allo sfogo lucido e ragionato di un individuo esemplare che per molti decenni, temendo che una parola di troppo potesse risultare fatale per se stesso e per le persone a lui più care, aveva preferito tenere dentro di sé il segreto, dolorosissimo, delle torture subite dentro il gulag dell'Isola Calva (la Goli Otok del titolo), nel territorio dell'attuale Croazia. Renato Sarti ha scritto il testo - ispirandosi alle testimonianze raccolte nel saggio di Giacomo Scotti Ritorno all'Isola Calva, che negli anni '90 ebbe il merito di far scoprire ai lettori l'esistenza di un gulag in Europa, di cui mai prima d'allora si era sentito parlare ed Elio De Capitani si è calato anima e corpo in Juretich, nel flusso di coscienza dell'ormai anziano ex deportato il quale, dopo aver taciuto troppo a lungo, vuota il sacco affidando i pensieri più intimi al suo medico curante (interpretato da Sarti). Per come viene presentata in questa pièce, l'immagine reale di Tito è ovviamente ben lontana dalle fotografie che lo ritraevano sorridente e pacioso in compagnia di Sophia Loren e Elizabeth Taylor. E pure Stalin, rispetto ai tempi in cui Churchill definiva la Russia «un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», oggi come oggi è una figura storica dai contorni molto più nitidi. Il merito di ciò è anche del teatro. 

L'Urss dal trionfo al degrado. Storia dell'Unione Sovietica (1945-1991) di Andrea Graziosi. Basandosi sulla documentazione venuta alla luce dopo il 1991, sulla vasta memorialistica post-sovietica, sui censimenti, le opere letterarie e le testimonianze del dissenso, Graziosi ricostruisce una storia non meno sorprendente di quella dell'Urss di Lenin e Stalin, narrata nel volume precedente, ma anche molto diversa. Agli ultimi cupi anni di Stalin, segnati da carestie e repressioni, seguì un periodo di profonde e inattese riforme culminate nel 1956 nella denuncia di Chruscev al XX congresso. L'Urss conobbe allora i suoi anni migliori, che coincisero però con l'affermazione di un regime forse più "totalitario", seppure meno violento, di quello staliniano. L'apparente stabilità copriva però un degrado testimoniato dall'alcolismo, dal ritardo tecnologico e dall'emarginazione di parte della popolazione. Le vittorie internazionali, associate alla decolonizzazione, le risorse garantite dal petrolio, e le sconfitte occidentali permisero a questo sistema di illudersi, nel 1975, di aver vinto la guerra fredda. Pochi anni dopo, però, tutto si capovolse. Il libro si conclude con la ricostruzione dello straordinario processo che portò in pochi anni ai miracoli del 1989-91, quando un sistema dotato di un enorme esercito e di migliaia di testate nucleari abbandonò pacificamente i suoi domini e annunciò poi il suo scioglimento per televisione, appellandosi, per bocca del suo leader, ai valori della democrazia e dell'umanesimo.

La stagnazione di Breznev che fece crollare l'Orso sovietico. Stagnazione, zastoj in russo. Questo è il termine con cui è passato alla storia, scrive Matteo Sacchi, sabato 19/11/2016, su "Il Giornale". Stagnazione, zastoj in russo. Questo è il termine con cui è passato alla storia il governo di Leonid Breznev in Unione sovietica (1964-1982). Ed è su questo periodo che si concentra il quarto volume della collana che il Giornale dedica alla storia del comunismo: L'Urss dal trionfo al degrado 1964-1991 di Andrea Graziosi (a euro 11,90 più il prezzo del quotidiano). Anche dopo la morte di Stalin i retaggi del suo sistema dirigista e violento avevano continuato a lasciare il segno. Nikita Krusciov, a partire dal 1956 aveva cercato di intraprendere un nuovo corso. Di certo aveva iniziato il processo per mettere in chiaro i crimini staliniani (dei quali era stato per altro anche partecipe) ma dal punto di vista internazionale la sua restò una politica aggressiva caratterizzata dalla repressione in Ungheria, proprio nel 1956, e dalla crisi dei missili a Cuba. Il governo di Breznev, salito al potere proprio sgambettando Krusciov dopo la crisi dei missili, puntò ad una gestione prudente. Breznev, come spiega Graziosi era prevalentemente un burocrate, molto lontano dal culto della personalità dei suoi predecessori. Con lui cessarono del tutto le violenze più eclatanti. Gli esclusi dalla lotta per il potere smisero di essere spediti in un Gulag, al massimo vennero messi a fare gli ambasciatori. Vennero tentate anche timide aperture alla proprietà privata, soprattutto in agricoltura. Ma tutto questo venne fatto senza intaccare l'ipertrofico e disfunzionale apparato burocratico sovietico. Anzi. E fu proprio questo ripiegarsi sull'apparato che vanificò ogni speranza di riforma nonostante con Breznev iniziassero a farsi strada uomini come Gorbaciov e El'cin che avrebbero avuto un ruolo chiave nella perestrojka. Ma il paradosso fu che, proprio mentre il regime diventava meno disumano, i suoi disastri economici divennero devastanti.

Intervista con l'autore del 14/01/2009 di Massimiliano Di Pasquale. Professore di Storia contemporanea all'Università di Napoli "Federico II", già docente di Storia sovietica alle Università di Yale e Harvard, Andrea Graziosi (Roma, 1954) ha recentemente pubblicato per i tipi del Mulino “L' Urss dal trionfo al degrado. Storia dell'Unione Sovietica (1945-1991)”, un interessante saggio che avvalendosi della vasta documentazione venuta alla luce dopo il 1991 dagli archivi dell’URSS, ricostruisce mezzo secolo di storia sovietica. Il libro di Graziosi, corredato da una ricchissima bibliografia, ha tra gli indubbi meriti quello di affrontare in ottica storica, scevra da pregiudiziali ideologiche, questioni di grande momento.  È davvero singolare che un saggio di siffatta importanza sia stato pressoché ignorato dalle riviste di geopolitica italiana. Non so se questa svista sia da attribuirsi al provincialismo della cultura italiana o ad una deliberata presa di posizione politica. L’Italia è infatti da sempre riluttante a fare i conti con l’esperienza sovietica. Succede allora che anche media reputati autorevoli preferiscano agire da grancassa di interessi politico-economici piuttosto che ospitare riflessioni volte a risalire all’origine storica dei conflitti che ancora oggi interessano l’ex blocco socialista. In questa lunga intervista Andrea Graziosi chiarisce i contorni di molte questioni che determinano tuttora l’instabilità geopolitica nell’ex URSS e getta uno sguardo nuovo sulle controverse figure di Gorbaciov e Eltsin. (m.d.p.)

Professor Graziosi lei ha trascorso gran parte della sua vita a studiare l’Unione Sovietica: da dove nasce questa singolare passione intellettuale?

«Vengo da una famiglia comunista e queste questioni mi hanno sempre interessato. L’idea di studiarle mi è venuta di fronte al fallimento dell’ideologia marxista, che per me divenne evidente a metà anni ’70. Pensai che non era possibile trovare una risposta a questo fallimento senza studiare l’Unione sovietica. E così mi sono dato da fare per trovare chi me la insegnasse. In Italia era impossibile perché non c’era nessuno in grado di insegnare storia sovietica. La svolta da questo punto di vista arrivò all’inizio degli anni Ottanta con la disponibilità di Moshe Lewin, allora uno dei più famosi ‘sovietologi’ del mondo, che nonostante avessi già trent’anni e non sapessi allora il russo, decise di accettarmi come suo “apprendista”»

Cosa è cambiato negli ultimi anni in Italia rispetto allo studio della storia dei paesi ex-sovietici? 

«Da un certo punto di vista direi che la situazione è peggiorata. C’è stato un momento di grande interesse negli anni ’80 legato senza dubbio alla politica; ora i giovani che studiano la Russia sono di meno quantitativamente rispetto a quelli della mia età. C’è però uno spostamento di interesse verso le periferie, soprattutto Asia Centrale e Ucraina. Oggi in Italia ci sono almeno una decina di storici di ottimo livello ma manca la generazione per sostituirli».

Negli ultimi mesi avvenimenti quali la guerra in Georgia, le tensioni tra Russia e Ucraina e le questioni legate allo scudo antimissilistico hanno fatto parlare alcuni osservatori di Nuova Guerra Fredda. Esistono secondo lei i termini per poter parlare di Nuova Guerra Fredda? 

«È assolutamente improprio parlare di Guerra Fredda. Direi che è una fesseria senza fine».

Per quale motivo? 

«Innanzitutto perché non c’è più l’Unione Sovietica e la Russia è un paese munito sì di bombe atomiche, ma con una crisi demografica spaventosa e che si regge essenzialmente sul petrolio. E l’America non è l’America del ’45. Nel ’45 la Cina non contava molto. Adesso c’è la Cina, c’è l’India, c’è l’Unione Europea. Certo, assistiamo al riemergere della Russia che grazie al petrolio riafferma le sue scelte di potenza regionale. E gli americani, che però hanno tanti altri problemi, cercano di contenerli. La Guerra Fredda era una cosa vera, qui c’è qualche scontro verbale ogni tanto, con un’Europa in gran parte acquiescente rispetto a questo riaffermarsi di potenza regionale della Russia».

Dunque le questioni georgiane e ucraine vanno lette in ottica diversa?

«Penso proprio di sì, sono dopotutto di scala molto diversa. Il pericolo vero che io vedo – ma voglio essere ottimista – e quello di guerre locali come nella ex-Jugoslavia».

In quali luoghi? 

«Alcuni focolai potrebbero aprirsi in Caucaso ovviamente, ma anche in Crimea e forse persino nel Donbass. La materia del contendere c’è. Fortunatamente le spinte per la pace mi sembrano decisamente superiori a quelle per la guerra. Ma non c’è dubbio, la gente spesso se lo dimentica, che i confini esistenti creano molti problemi. Alla conferenza di Helsinki nel 1975 si era deciso che i confini sono sacri, ma nella realtà i confini non sono mai sacri. Da quando sono crollate l’Unione Sovietica e la Jugoslavia ci sono molti confini molto contestabili da tanti punti di vista. La tendenza penso non sia a fare la guerra, ma nel corso della storia il problema delle minoranze esterne è stato spesso risolto con la forza. Le faccio un esempio. Se a Mosca ci fosse un pazzo come Milosevic – Putin non mi piace ma sicuramente non è un folle - e volesse fare una politica aggressiva verso l’Ucraina c’è una minoranza russa di milioni di persone nel Donbass con cui poter giocare. In Crimea, data all’Ucraina da Khrushchev, la situazione è ancora più grave che nel Donbass. A livello storico io non conosco situazioni in Europa di minoranze di milioni di persone che prima o poi non hanno scatenato problemi. Quello che io vedo è un rischio di guerre regionali reso possibile dal fatto che i confini ereditati dall’Unione Sovietica e dalla Jugoslavia erano confini fragili e problematici e nessuno ha voluto affrontare il problema»

La controversa figura di Gorbaciov. Qual’ è il suo giudizio storico sull’ex leader sovietico e sugli anni della perestrojka?

«Lasciamo perdere il Gorbaciov odierno, oggi è una figura minore, a tratti patetica.  Parliamo di quello di allora che è stato un Gorbaciov grandioso. Io penso che Gorbaciov sia stata una persona molto coraggiosa che ha svolto un ruolo molto positivo nella storia, un ruolo gli verrà riconosciuto ex post dagli storici. Detto ciò era una persona ingenua, senza politica che non fosse tattica, con un corredo di idee miserabili da un punto di vista intellettuale ma non per colpa sua, visto che era un prodotto dell’Unione Sovietica. E’ stato un politico che ha fallito in tutto quello che ha cercato di fare. Non ha ottenuto nulla di quel che voleva. E però dobbiamo a lui e a Eltsin il fatto che l’Unione Sovietica non sia finita come la Jugoslavia. Tenendo conto che c’erano mi pare 11.000 testate nucleari non mi sembra poco. Il fatto che Gorbaciov abbia rifiutato fino all’ultimo l’uso della forza e abbia tenuto fede all’idea che le cose andavano risolte in maniera pacifica è la cosa che lo fa grande».

È quindi il suo umanesimo a riscattarlo? 

«Gorbaciov è un politico che nel ’91, dopo il golpe, parla ancora di socialismo senza accorgersi che il socialismo era un’ideologia vuota. Si può obiettare che non è così perché c’è ancora oggi gente nel mondo e in Italia che vi crede, ma dal punto di vista intellettuale lo era. Un conto è un ideale dell’uomo della strada, altra cosa è un uomo politico che deve governare. Gorbaciov era privo degli strumenti intellettuali necessari per affrontare la situazione».

Una cosa che lei sottolinea nel libro è l’impossibilità di un riformismo rispetto ad un regime che non era socialista, ma un regime totalitario ...

«Il problema è che Gorbaciov non sapeva che pesci pigliare. Era un uomo che non sapeva cos’era la moneta, cos’era il credito. Era di un’ignoranza economica abissale. Però non era solo lui, erano tutti così. Siccome ogni persona va giudicata nel suo ambiente e in un determinato contesto storico, Gorbaciov è stato un uomo coraggioso, onesto, una persona per bene che ha cercato di fare del bene, su questo non c’è dubbio. Che purtroppo non è riuscito a fare niente perché aveva questo corredo intellettuale miserrimo, ma che comunque ha giocato un ruolo molto positivo. Siccome la storia la fanno gli uomini, se Gorbaciov fosse stato simile a Milosevic o Tudjman non saremo qua a parlare noi o comunque vivremmo una situazione internazionale molto diversa»

La figura di Eltsin in rapporto a quella di Gorbaciov ... 

«Io sono stato un grande estimatore anche di Eltsin, di cui condanno però il tragico errore di fare la prima guerra cecena. Di Eltsin si può dire che da un punto di vista intellettuale era perfino inferiore a Gorbaciov, era un ingegnere, un tecnico. Ha condiviso le politiche di Gorbaciov completamente fino al 1988. E quando se ne è distaccato non lo ha fatto su una linea liberale, ma su una linea populista. Ma l’elemento che riscatta la figura di Eltsin, e che sottolinea la sua capacità di apprendere e il suo essere una persona di prim’ordine è da un lato la sua capacità di prendere decisioni e dall’altro la sua capacità di scegliere bene, perché lui scelse di mettersi con i democratici. Le idee dello Eltsin “buono” non sono idee di Eltsin, sono quelle di Sacharov. Eltsin ha avuto il coraggio di scegliere questo lato e io ho un’enorme ammirazione per ciò che ha fatto, però vanno visti anche i limiti di una persona che non coglie l’elemento politico alla fine del ’91. Eltsin fece allora delle grandi scelte in campo economico, ma in campo politico non toccò il Parlamento, che era un organo di fatto sovietico, e fu poi costretto a scioglierlo a cannonate due anni dopo, e promulgò con grande ritardo una costituzione fatta piuttosto male. Detto questo sia Eltsin sia Gorbaciov sono due giganti. È grazie a loro che non si è fatta la guerra. Lo Eltsin che va a salutare i lituani nel gennaio del ’91 è una figura grandiosa perché dà al nazionalismo russo uno sbocco democratico e liberale. Ma ciò gli venne dall’istinto più che dalla cultura. Il giudizio ripeto è positivo su entrambi. Io metterei molto in risalto le affinità.  Fino al 1988 Eltsin aveva fatto a Mosca da segretario politiche che portavano all’estremo le idee di Gorbaciov. È quando lui rompe, anche per motivi personali, perché è insofferente della situazione, Gorbaciov in fondo lo capisce. La cosa fantastica è l’incontro tra il populista Eltsin e i democratici, la sua capacità di scegliere il blocco democratico. Ma il fatto che la sua esperienza sia durata così poco dimostra che la cultura politica di Eltsin aveva dei limiti molto simili a quella di Gorbaciov».

Il conflitto tra i due fu uno scontro di potere o di personalità?

«La politica è sempre un conflitto di potere. Direi che in questo caso è il conflitto tra due progetti statuali diversi. Gorbaciov credeva ancora in una federazione di stati, mentre Eltsin voleva costruire la Russia. Non c’era posto per entrambi i progetti. Ci sarebbe stato forse, nel senso che fino alla fine Eltsin era disposto ad accettare una federazione debole, o meglio una confederazione. L’insistenza di Gorbaciov nell’avere una federazione forte troppo simile all’URSS ha portato al divorzio. Ma io vorrei sottolineare l’importanza e la bontà di questo divorzio consensuale che ha impedito alla gente di ammazzarsi. Per esempio hanno risolto il problema delle bombe atomiche, cosa di cui la gente si dimentica»

Si potrebbe affermare che Gorbaciov fino all’ultimo è rimasto leninista mentre Eltsin aveva già abbracciato la causa democratica?

«Leninista non credo, nel senso che anche Gorbaciov alla fine era piuttosto un socialdemocratico. Gorbaciov è stato leninista, a parole, fino al ’90. Poi dal giugno ’91 ha lasciato il marxismo leninismo anche lui. Ma non sapeva con cosa sostituirlo. Per certi versi, fatte le dovute differenze, è un po’ quello che accade al Partito Democratico in Italia. Anche in Italia per 100 anni la sinistra è stata il marxismo. Quando si è scoperto che non funzionava molti sono restati di sinistra in nome dei buoni sentimenti. Ma è possibile definire una politica socialista e il socialismo in base ai buoni sentimenti? Non si può fare politica con i buoni sentimenti, occorre avere un progetto. Il socialismo con Marx non era buoni sentimenti: c’era la convinzione che la nazionalizzazione avrebbe portato a una società migliore. Questo è un po’ il Gorbaciov del ’90-’91, un uomo con dei buoni sentimenti e nessun apparato concettuale per costruire una società più giusta. Direi che Gorbaciov, che aveva destato tanta ammirazione anche in Italia, è stato posto nel dimenticatoio negli ultimi anni proprio perché nessuno vuole affrontare questo problema. Dietro c’è la fine di un apparato strumentale e concettuale sofisticato ma errato, che non è possibile sostituire semplicemente con delle buone intenzioni. Tornando a Gorbaciov e Eltsin io li vedo come due figure affini e complementari che a un certo punto hanno rappresentato due interessi diversi: quelli di una Russia che si identificava forse per la prima volta nella sua storia con il liberalismo e la democrazia e quelli di uno stato a base russa ma non russo. Certo è vero che Gorbaciov odiava Eltsin. Noi abbiamo i verbali dell’ufficio politico che parlano chiaramente. Per lui era diventata un’ossessione».

Quale è stato il ruolo dei Baltici con le rivolte del 1988, nell'esportare le "rivoluzioni nazionali" in Caucaso e in Ucraina?

«Il ruolo dei Baltici fu enorme, ma più in generale il ruolo della questione nazionale nell’accelerare la crisi dell’Unione Sovietica fu all’inizio secondario. Contrariamente a quello che dicevano alcuni sovietologi l’Unione Sovietica non è andata in crisi per questioni nazionali. L’Unione Sovietica è andata in crisi perché il sistema socio-economico non funzionava più. Perché gli uomini morivano a 63 anni, perché si viveva malissimo, perché non c’erano soldi, perché mancavano i beni da comprare. Era talmente in crisi che tutto il gruppo dirigente, compreso forse l’ultimo Brezhnev, era rassegnato a riforme radicali. La crisi non era negata da nessuno. Gli stessi golpisti del ’91 erano tutti “riformisti” nell’85. Tutti sapevano che il sistema così com’era non poteva andare avanti, se lo dicevano tutti i giorni come testimoniato dai verbali delle riunioni. Quindi il problema nazionale con la crisi dell’Unione Sovietica c’entra poco. Tornando alla domanda originaria direi che il ruolo dei Baltici è stato davvero grande. Dal momento che lettoni, estoni e lituani erano stati gli ultimi ad essere conquistati erano quelli che avevano più attriti con Mosca. Esiste questa teoria generazionale del consenso per cui quelli repressi più di recente sono quelli che più odiano l’Unione Sovietica. Quando sono stati repressi gli ucraini e i russi? Negli anni ’20 e ’30, quindi la generazione che aveva 20-30 anni in quegli anni era molto anti-regime, mentre quella che aveva 20-30 negli anni dopo la seconda guerra mondiale, no. Nel Baltico la repressione è degli anni ’40 e ’50 per cui i repressi negli anni ’80 erano ancora attivi. Diciamo quindi pure che l’onda baltica ha messo in moto tutte le onde nazionali. Però ci sono stati problemi seri in Asia Centrale. In fondo la prima rottura delle nazionalità è quella di Alma-Ati del dicembre 1986 in Kazakhstan».

Qual è stato il ruolo di Cernobyl' nell’accelerare il crollo dell’URSS e nel favorire il coagularsi di una coscienza identitaria ucraina?

«Più che nello sviluppo della coscienza identitaria ucraina, che è stato un processo più lento, Cernobyl’ è stata molto importante perché di fatto ha aperto realmente la strada alla glasnost.  Prima si parlava di trasparenza ma in termini molto vaghi. Fu lo scandalo rappresentato dal silenzio sulla catastrofe, di cui parlava tutto il mondo, a permettere a Yakovlev di introdurre la glasnost vera sui giornali. In altre parole, Cernobyl’ convinse i dirigenti sovietici riformisti della necessità di liberare la stampa o quanto meno rese possibile a quelli di loro che lo volevano di farlo, giocando sulla vergogna. Anche sul coagularsi di una coscienza identitaria ucraina Cernobyl’ ha un impatto, non so però quanto grande. Sicuramente gioca un ruolo per gli intellettuali ucraini. Ma l’effetto più grande è sicuramente rispetto alla glasnost. Quando un regime che si è sempre detto buono scopre e afferma di essere stato molto cattivo, chi lo vuole più? E poi il paese che ha sofferto di più l’impatto di Cernobyl’ è stata la Bielorussia, dove lo sviluppo democratico e nazionale non è stato così grande come in Ucraina».

Bielorussia e Azerbaigian, a differenza di Ucraina e Georgia sembrano piuttosto impermeabili alla nascita di un percorso democratico. Quali sono a suo avviso le ragioni storiche di modelli di sviluppo democratico così diversi?

«Sono questioni molto complesse, ma qualche comparazione la si può fare. In Bielorussia, che è anche molto più piccola dell’Ucraina l’opera di russificazione è stata molto più penetrante. La Bielorussia è molto più debole, il movimento nazionale bielorusso c’è stato durante la guerra civile, in tutti i momenti di crisi, ma non ha giocato un ruolo simile, neanche lontanamente a quello ucraino. Da questo punto di vista esisteva una differenza molto forte tra i due paesi. Io penso che ad un certo punto l’Unione Sovietica ha scelto la russificazione lenta delle repubbliche slave perché quella aggressiva non le riusciva e che in Bielorussia questa russificazione lenta ha avuto più successo che in Ucraina perché il paese era più piccolo, la tradizione culturale nazionale più debole. Il fatto che poi in Ucraina si sia sviluppato un forte movimento democratico è sicuramente dovuto ad una forte componente nazionale e culturale. Ossia la presenza di una forte cultura diversa da quella russa. L’Ucraina è un’entità molto più ricca, più grande e complessa rispetto alle altre repubbliche. La Georgia è stato il paese più anti-russo dell’Unione Sovietica, più dell’Ucraina probabilmente. Essa ha avuto una repubblica indipendente socialdemocratica per 4 anni, dal ’17 fino alla conquista sovietica del ’21, l’Ucraina solo per qualche mese nel ’18- ‘19. La più grande rivolta nazionale nella storia dell’Unione Sovietica è quella del ’24 in Georgia fatta dai resti dello stato georgiano menscevico. La prima rivolta nazionale vera, che paradossalmente usa la figura di Stalin, è quella georgiana del ’56 dopo il 20esimo congresso. Il nazionalismo georgiano è una cosa vera, grande, tradizionalmente anti-russo. Finché comandava Stalin, siccome il gruppo dirigente sovietico era caucasico, queste tendenze sono state tenute a freno. L’Azerbaigian è una repubblica con una tradizione mussulmana fortissima. Georgiani e armeni hanno avuto grandi conflitti ma nulla di paragonabile a quelli ancora esistenti tra azeri e armeni. Da un certo punto di vista la strage di Sumgajt, cittadina a nord di Baku nel febbraio 1988 – un pogrom antiarmeno da parte degli azeri – è quella che mise in moto i movimenti nazionali in Unione Sovietica. L’incapacità di usare la forza da parte di Gorbaciov convinse un po’ tutti che c’era spazio per queste rivendicazioni. Ad Alma Ata la forza era stata usata seppure in maniera limitata. Il pogrom antiarmeno in cui l’esercito non intervenne dimostrò l’impotenza di Mosca e fece capire che ci si poteva muovere. Baku in quegli anni fu occupata da folle che inneggiavano a Khomeini. L’Azerbaigian, ancorché più avanzato, è più simile alle repubbliche centro-asiatiche. L’Azerbaigian io lo vedrei come la punta più avanzata del blocco centro-asiatico».

Dopo il conflitto di quest’estate in Caucaso si è parlato delle enclavi russe di Crimea, Abkhazia, Ossezia e Transnistria come di nel possibili teste di ponte per future annessioni alla Federazione all’interno del complesso mosaico geopolitico dell'ex impero sovietico. Sono realtà assimilabili a suo avviso?

«Sono realtà molto diverse. In Abkhazia e Ossezia del Sud il conflitto con i georgiani percorre tutto il ventesimo secolo. I georgiani repressi, quelli della famosa manifestazione dell’89, chiedevano l’indipendenza a Mosca ma non volevano concedere l’indipendenza agli abkhazi. Dopodiché gli abkhazi dopo il ’91 hanno fatto una specie di piccolo genocidio nei confronti dei georgiani. C’è una grande differenza anche tra Abkhazia e Ossezia. In Ossezia Meridionale c’è stata violenza anche molto brutta, ma niente di paragonabile a quella brutale contro i georgiani in Abkhazia nel ’91. Lì ci sono stati massacri molto simili a quelli successi nell’ex Jugoslavia. Il bilancio fu, pare, di 30.000 georgiani uccisi e di 300.000 costretti a lasciare la regione. Venendo alla Crimea, quella non è un’enclave e qualcosa di più grande. Storicamente la Crimea è la terra dei tatari, poi cacciati dai russi. La Crimea alla fin fine è di chi la abita e i oggi russi sono la maggioranza. Il problema è che questi confini stabiliti nel 1991 sono confini minati e sarebbe molto opportuno che ci fosse una conferenza internazionale per discuterne. Nessuno, anche comprensibilmente da un certo punto di vista, vuole toccare i confini, per paura di scatenare una guerra, però se nessuno ne parla la guerra scoppia lo stesso. Nel caso della Transnistria si può parlare di vera e propria enclave russa. Quella di Crimea è troppo grande per definirla tale. Quando muore, seppure pacificamente un impero, si creano queste situazioni. Le grandi repubbliche non si sono fatte la guerra, si sono riconosciute, hanno fatto un divorzio consensuale.  Anche tutto il Kazakhstan settentrionale è abitato da russi. Lì ci sono regioni intere che potrebbero chiedere l’annessione alla Russia. Per questo il presidente kazako Nazarbayev ha sempre fatto politiche accomodanti verso il Cremlino. Lo ha fatto per non mettere a rischio l’integrità territoriale del suo paese».

E la questione della Transnistria in che misura può minare la sicurezza e l’integrità della Moldova?

«La questione è complicata ma diversa da quella di Abkhazia e Ossezia Meridionale visto che la Transnistria non ha confini diretti con la Russia. Sicuramente i moldavi non possono intervenire per riannettersi Tiraspol perché l’enclave è protetta dalla Russia. Allo stesso tempo dal momento che la Transnistria non confina direttamente con la Federazione è difficile pensare ad una sua annessione alla Federazione, anche nell’eventualità di un ritorno della Crimea sotto l’egida di Mosca. Il discorso più generale è che i materiali per i conflitti ci sono, sono molto grandi e non conviene a nessuno fare scoppiare guerre. Ma l’atteggiamento europeo di ignorare questi problemi è deleterio. Se a Bucarest lo scorso aprile si fosse deciso l’ingresso di Georgia e Ucraina nella NATO sicuramente il conflitto in Ossezia non sarebbe scoppiato. Io personalmente sarei addirittura a favore dell’ingresso nella NATO anche della Russia, anche se orami sarebbe difficile anche per un suo rifiuto. Io non capisco perché la Russia debba essere trattata come una potenza ostile. La Russia è un paese europeo. Reagan e Bush senior fecero una politica filorussa che è stata di grande beneficio agli ucraini e a tutti gli europei orientali. Bisogna fare capire ai russi che l’espansione della NATO conviene anche a loro in ottica geopolitica visto l’emergere della potenza cinese. Detto questo non mi piace assolutamente il regime che c’è oggi a Mosca».

Qual è l’eredità sovietica nella Russia di Putin?

«Direi che è pesantissima. Più che l’eredità diretta – ovviamente c’è anche quella – conta l’eredità indiretta.  Il regime sovietico ha staccato la cultura russa dall’Europa per 70 anni. Anche i quadri dirigenti si sono formati in ambienti iperprovinciali che non hanno conosciuto le correnti intellettuali europee dal ’17 ad oggi. Hanno una forma di nazionalismo primitivo paragonabile a quello dell’Italia nel 1918. Spiace dirlo, ma è gente con poca cultura. Questo è il lascito sovietico. L’idea che il nazionalismo è funesto è passata bene o male in Europa. La Germania non farebbe mai una politica verso la Boemia come la Russia pretende di fare verso l’Ucraina».

Andrea Graziosi (Roma, 1954), storico e sovietologo italiano. Docente ordinario di Storia contemporanea, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Napoli “Federico II”, già visiting Professor alle Università di Yale e Harvard. Massimiliano Di Pasquale.

Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss, 1937-38 di Nicolas Werth. Il Mulino. Anno edizione: 2011. Dietro la facciata dei processi-farsa che liquidarono gli oppositori politici di Stalin nel 1936-38, la "grande purga" sterminò, in sei mesi fra il 1937 e il 1938, qualcosa come 1500 persone al giorno: persone comuni accusate ed eliminate senza colpa alcuna. Tutto muove da una direttiva generale di Stalin che mira a ripulire l'Urss dai "nemici del popolo" e fissa, regione per regione, le quote di arresti, di condanne, di esecuzioni da effettuare. La spietatezza staliniana si sposa alle logiche disumane della burocrazia, allo spirito di emulazione delle amministrazioni, agli eccessi di zelo dei gregari, producendo un gigantesco assassinio di massa. Il saggio di Werth si addentra nei corridoi e nei sotterranei dell'amministrazione sovietica, segue l'andirivieni delle direttive e delle relazioni fra il centro e le periferie, per raccontare la messa in opera dell'impressionante macchina politico-burocratica del Terrore che stritolò nei suoi ingranaggi non meno di 750 mila persone. DAL TESTO – “L'offensiva staliniana che doveva aprire la strada alle grandi purghe politiche del 1937-1938 fu lanciata dapprima contro gli «specialisti», poi, qualche mese più tardi, contro le «cerchie familiari» dei dirigenti regionali del partito. Nel settembre-ottobre del 1936, dopo aver nominato Ežov a capo dell'Nkvd, Stalin intraprese una vasta campagna antiburocratica, populista e poliziesca, contro i quadri industriali sospettati di dissimulare le capacità reali della produzione, in una congiuntura di notevoli difficoltà economiche, dovute in particolare alla disorganizzazione introdotta nelle imprese dal movimento stachanovista. Contro la nuova delegittimazione delle competenze professionali, ennesima ondata di specfagia, secondo la terminologia in vigore in quegli anni, si levarono perfino degli stalinisti incalliti, come Sergo Ordžonikidze, divenuti nel frattempo difensori di una stabilità dei quadri e tutori delle competenze professionali, ancora troppo rare nel paese, rispetto a un percorso politico puramente staliniano. Tra la fine del 1936 e l'inizio del 1937 si sviluppò tra Stalin e Ordžonikidze, commissario del popolo all'Industria pesante, un conflitto esemplare riguardo all'interpretazione delle difficoltà economiche e, in particolare, dei numerosi incidenti industriali che si erano prodotti durante il 1936, proclamato l'«anno stachanovista». Mentre Stalin privilegiava la pista poliziesca di un preteso sabotaggio su vasta scala, che avrebbe implicato numerosi quadri industriali, compresi i quadri comunisti insufficientemente «vigilanti», Ordžonikidze respingeva tale visione, che apriva la strada a una vasta purga delle amministrazioni industriali di cui era responsabile. Da diversi anni Ordžonikidze era diventato un ardente difensore degli interessi del suo commissariato, simbolo del potere dello Stato industriale e del «sistema amministrativo di comando» edificato, nel bene e nel male, dall'inizio degli anni Trenta. Per Stalin, invece, lasciare che delle amministrazioni tentacolari si attaccassero troppo alle loro poltrone e alle loro abitudini, lasciare che si sviluppassero reti di solidarietà, costituiva una reale limitazione del suo potere personale e dispotico”. L’AUTORE – Nicolas Werth, ricercatore al CNRS, è specialista di storia sovietica. Ha pubblicato fra l'altro Etre communiste en URSS sous Staline (1981), Les procès de Moscou(1987). In italiano: Storia della Russia nel Novecento (Il Mulino, II ed. 2000), La Russia insorge (Electa-Gallimard, 1998), L'isola dei cannibali (Corbaccio, 2003). È inoltre autore del capitolo sull'Unione Sovietica nel Libro nero del comunismo (Mondadori, 1998).

Quando la rivoluzione divorò se stessa. Fra il 1937 e il 1938 vennero uccisi circa 750.000 cittadini sovietici, di Gaetano Vallini. Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 28/5/2011 un articolo scritto da Gaetano Vallini. Sono trascorsi due decenni dalla rivoluzione socialista d'ottobre e il regime sovietico, sotto l'implacabile dittatura di Stalin, pianifica e attua il più grande massacro di Stato mai compiuto in Europa in tempo di pace. Dall'agosto del 1937 al novembre del 1938, appena sedici mesi, circa 750.000 cittadini sovietici vengono giustiziati dopo essere stati condannati a morte da un tribunale speciale al termine di processi farsa. Durante quello che viene ricordato come il Grande Terrore un sovietico adulto su cento è messo a morte con una pallottola alla nuca, ovvero 50.000 esecuzioni al mese, 1.600 al giorno. Nello stesso periodo oltre 800.000 cittadini sono condannati a dieci anni di lavori forzati e spediti in uno dei campi del famigerato Gulag. A questo capitolo nerissimo della storia sovietica Nicolas Werth dedica il suo ultimo libro Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss, 1937-1938 (Bologna, Il Mulino, 2011, pagine 295, euro 26), ponendo al centro della sua ricerca le vicende della gente comune intrappolata nel meccanismo delle "operazioni di massa". L'intento dello studioso - ricercatore del Centre national de la recherche scientifique presso l'Institut d'histoire du temps présent a Parigi - è quello di spiegare come fu possibile attuare quest'"orgia di terrore" nel più grande segreto, chi furono le vittime e chi i carnefici. Ma anche di capire se è legittimo collocare, come avvenuto a lungo, questo crimine tra le cosiddette "grandi purghe". E la prima chiarificazione riguarda proprio tale aspetto, visto che, settant'anni dopo i tre grandi processi di Mosca del 1936, 1937 e 1938 e cinquant'anni dopo il rapporto segreto di Nikita Chrusvcëv al XX congresso del Pcus - "che sono stati, ciascuno alla sua maniera, formidabili avvenimenti schermo" - è finalmente possibile avere l'esatta misura di ciò che fu davvero il Grande Terrore: "Da principio e prima di tutto - afferma Werth - una vasta impresa d'ingegneria e di "purificazione" sociale, volta a sradicare, con operazioni segrete decise e pianificate al più alto livello da Stalin e Nikolaj Ezov (commissario del popolo agli Interni), tutti gli elementi "socialmente pericolosi" ed "etnicamente sospetti" che, agli occhi dei dirigenti stalinisti, apparivano non soltanto come "estranei" alla nuova società socialista in corso di edificazione, ma anche, nell'eventualità ormai probabile di un nuovo conflitto mondiale, come altrettante potenziali reclute di una mitica "quinta colonna di spie e terroristi al soldo delle potenze straniere ostili all'Urss". Naturalmente, nel corso di queste operazioni, un numero estremamente elevato di persone che non appartenevano ad alcuna delle categorie colpite dalle direttive segrete fu travolto dalle repressioni di massa". Prima dell'apertura degli archivi dell'ex Unione Sovietica, pur giungendo a conclusioni differenti, i più autorevoli studiosi di quel periodo - Robert Conquest alla fine degli anni Settanta e John Arch Getty a metà degli Ottanta - focalizzarono l'attenzione, sottolinea Werth, sull'aspetto politico del Grande Terrore, "visto come punto culminante di una purga diretta in primo luogo contro le élite politiche, economiche, militari e culturali; come processo di autodistruzione dei bolscevichi; come sfogo dei conflitti personali o interburocratici fra centro e periferia". Fu necessario attendere l'inizio degli anni Novanta, con l'accesso agli archivi, per un cambiamento di prospettiva fondamentale. Cambiamento che in questo volume trova un'esposizione chiara. Nelle purghe, si legge, era in gioco la sostituzione di una élite con un'altra, più giovane, politicamente meglio formata e ideologicamente più obbediente. Di fatto si dovevano distruggere tutti i legami, politici, amministrativi, professionali e personali, generatori di solidarietà, "per promuovere un nuovo strato di giovani dirigenti, debitori della loro vertiginosa carriera alla Guida, a cui sarebbero stati totalmente devoti". Ma per quanto spettacolari e politicamente significative, tali operazioni rappresentarono solo una piccola frazione, appena il sette per cento, degli arresti e delle esecuzioni del Grande Terrore. Le operazioni segrete, messe a punto al più alto livello, erano raggruppate in due grandi categorie, due "linee" nel codice dei funzionari della polizia politica, l'Nkvd: la "linea kulak" e la "linea nazionale". La prima, contenuta nell'"ordine operativo" n.00447 del 30 luglio 1937, mirava a "eliminare una volta per tutte" un largo ventaglio di nemici per così dire tradizionali del regime bolscevico, ovvero, specifica Werth, "ex kulaki, persone del passato, élite dell'antico regime, membri del clero, vecchi esponenti di partiti politici non bolscevichi, nonché una vasta corte di marginali sociali, raggruppati sotto l'espressione generica di "elementi socialmente pericolosi"". La linea "nazionale", pianificata con una decina di operazioni segrete, riguardava invece gli emigrati politici, ma non solo, rifugiatisi in Urss, nonché cittadini sovietici che erano originari o avevano qualche legame con un certo numero di Paesi considerati ostili: Polonia, Germania, Paesi baltici, Finlandia, Giappone. "In un contesto di crescenti tensioni internazionali, la "linea nazionale" traduceva la comparsa di nuove categorie di nemici, un orientamento che si sarebbe confermato nel corso degli anni seguenti", precisa lo storico, secondo il quale "la scoperta di queste grandi operazioni segrete di massa ha imposto di ripensare il Grande Terrore come un fenomeno molto più complesso, multiplo, combinazione di processi repressivi differenti che, in un dato momento, sono venuti a convergere in un "nodo di radicalizzazione cumulativa", in un parossismo repressivo e sterminazionistico unico nella storia sovietica. I sedici mesi del Grande Terrore, dal luglio del 1937 al novembre del 1938, concentrano in effetti, da soli, quasi i tre quarti delle condanne a morte pronunciate tra la fine della guerra civile (1921) e la morte di Stalin (marzo 1953) da una giurisdizione speciale dipendente dalla polizia politica o dai tribunali militari". Così, mentre i rituali di annientamento dei nemici del popolo invadevano la sfera pubblica, i gruppi operativi dell'Nkvd lanciavano le "operazioni segrete di massa", note solo a un numero estremamente ristretto di alti dirigenti. È proprio questo l'aspetto del Grande Terrore che Werth focalizza, dando spazio alla presentazione dei documenti d'archivio che permettono di comprendere il meccanismo di tali operazioni, la loro preparazione e il successivo svolgimento. E tra i documenti più rilevanti figurano, in particolare, le risoluzioni segrete del Politbjuro e gli "ordini operativi" dell'Nkvd relativi alle azioni "repressive di massa". "Questi documenti - scrive lo storico - chiariscono l'altra faccia, fino ad allora totalmente nascosta, del Grande Terrore: i meccanismi di repressione contro i "cittadini ordinari", vittime anonime scomparse senza traccia e di cui le famiglie non conoscevano, il più delle volte, né la condanna inflitta né la data di morte". In quegli anni, in una miscela devastante, si fusero tragicamente la spietatezza di Stalin, la disumanità della burocrazia sovietica, lo spirito di emulazione dei dirigenti e l'eccesso di zelo degli esecutori. Di fatto ci fu un ampliamento incontrollato degli arresti, alimentati da una paranoia collettiva che, complice la propaganda dei più assurdi complotti antisovietici, portò a un aumento delle delazioni - tanto che uno degli aspetti più rilevanti resta il grado di partecipazione sociale al Terrore - così come del ricorso alla tortura negli interrogatori per sveltire le pratiche.

Ciò ebbe come conseguenza una crescita esponenziale e quasi incontrollabile del potere della polizia politica rispetto al partito, ma anche il peggioramento dei raccolti agricoli e della produzione industriale. Il tutto in un contesto internazionale affatto tranquillizzante. Rischi sul lungo periodo, questi, che Stalin capì di non poter correre. Cosicché, raggiunto, e di fatto ampiamente superato, l'obiettivo di epurazione, decise che il Grande Terrore fosse fermato. Ma non fu una operazione semplice. Il meccanismo burocratico messo in moto richiese quasi per inerzia, e in modo perfidamente perverso, altra violenza, trasformando i volenterosi e solerti carnefici di prima in vittime. La conseguenza fu un'altra epurazione, che culminò nella fucilazione di Ezov, nel 1940. (©L'Osservatore Romano 28 maggio 2011)

Passione e tragedia. La storia degli ebrei russi di Riccardo Calimani. Editore: Mondadori. Anno edizione: 2008. La storia degli ebrei russi è stata, rispetto a quella delle altre comunità ebraiche presenti in Europa, la più ricca di sfumature, suggestioni e contraddizioni, in quanto caratterizzata da intense fiammate di partecipazione rivoluzionaria alla vita politica e culturale dalla quale abitualmente erano esclusi. Confinati nei villaggi della cosiddetta "zona di residenza", una sorta di enorme ghetto a cielo aperto che si estendeva dall'Ucraina alla Lituania, gli ebrei vissero per secoli in condizione di isolamento, con una propria lingua e una propria fede, fino a raggiungere, all'inizio del XX secolo, la considerevole cifra di 5 milioni di individui. Di fronte al diffondersi dell'antisemitismo, fomentato dal regime zarista, e la tolleranza nei confronti di pogrom sempre più cruenti, gli ebrei non solo andarono a ingrossare le file dei maggiori gruppi politici d'opposizione, ma fondarono un proprio partito, il Bund, che per primo in Russia difese energicamente gli interessi e i diritti di larghe masse di diseredati. Poi si avverò la previsione di un cinico ministro zarista: un terzo degli ebrei russi emigrò in America, un terzo morì sui campi di battaglia della Grande Guerra e un terzo finì per assimilarsi, gettandosi nelle fauci del leone sovietico. Il libro ripercorre le tappe fondamentali dell'ancora poco noto itinerario degli ebrei in Russia e nell'Unione Sovietica, e rivisita il dibattito sulla "questione ebraica" in seno al marxismo, da Marx ed Engels a Kautsky e Lenin.

Passione e tragedia. La storia degli ebrei russi. Il nuovo libro di Riccardo Calimani, arrivato in libreria, prosegue la ricerca dell’autore sul mondo ebraico europeo dell’Ottocento e del Novecento. Infatti può essere considerato, per certi versi, un seguito ed un approfondimento del precedente I destini e le avventure dell’intellettuale ebreo. Solo in parte, ovviamente, poiché qui si delinea la storia di tutta la minoranza ebraica nell’impero russo prima, nell’URSS poi. È la storia degli ebrei nella zona di residenza in cui erano obbligati a vivere sotto l’assolutismo zarista, delle discriminazioni, delle persecuzioni e dei pogrom che subirono, spesso in nome del cristianesimo. È la storia dello sviluppo di una autocoscienza linguistica, politica e infine nazionale, che porterà allo sviluppo della grande letteratura jiddish e ad un apporto incredibile a quella russa, alla nascita del Bund e alla adesione di moltissimi ebrei alle altre organizzazioni di opposizione e rivoluzionarie. È infine la storia delle speranze di uguaglianza e del superamento di ogni discriminazione suscitate dalla Rivoluzione d’Ottobre, alla quale gli ebrei russi diedero un contributo decisivo e del loro spegnersi tragico nel lungo e buio periodo staliniano. Alla vigilia dell’insurrezione bolscevica nel 1917, sette uomini erano considerati al vertice del partito: di essi quattro erano ebrei. La conclusione beffarda e paradossale fu la progressiva eliminazione degli ebrei dai posti di più elevata responsabilità fino ad arrivare alla lotta contro il cosmopolitismo ebraico, che negli ultimi anni dello stalinismo vide la celebrazione di alcuni spettacolari processi, con la conseguente deportazione e la fucilazione per molti ebrei russi. Una storia travagliata, dunque, tragica per molti versi, luminosa per altri, su cui si abbatté la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e l’arrivo delle truppe naziste e delle Einsatzgruppen in zone con una forte presenza di popolazione ebraica. Come racconta Calimani, le testimonianze su questi avvenimenti furono raccolte da Vasilij Grossman e Ilja Erenburg in una pubblicazione famosa come Libro Nero. Ebbene, pur avendo accettato e subito censure su vari punti, che alle autorità sembravano troppo filo-ebraici o sembravano presentare in cattiva luce le popolazioni russe e ucraine, gli autori non riuscirono mai a far stampare il libro in URSS: era vietato scrivere e far sapere che cera stato un tentativo di genocidio nei confronti degli ebrei: le vittime del nazismo dovevano essere solo russe, o ucraine o bielorusse… Solo molti anni dopo, nel 1994, e all’estero, il libro riuscirà ad essere stampato integralmente, in tedesco, grazie ad una unica copia, già pronta per la stampa, tenuta nascosta per anni. Una sorte molto simile, a dimostrazione (se ce ne fosse ancora bisogno) che là dove si perseguitano gli esseri umani si perseguitano anche i libri e viceversa, ebbe anche il capolavoro di Vasilij Grossman, Vita e destino. Il KGB sequestrò tutte le copie manoscritte, dattiloscritte, i brogliacci, le note, i frammenti e persino i nastri della macchina da scrivere. Era il febbraio dell’anno 1961. Uno scrittore, poi esponente della cosiddetta dissidenza sovietica, riuscì a microfilmare una copia, che un amico di Grossman aveva nascosto e conservato. Il libro uscirà a Losanna, in russo, nel 1980, ben oltre la morte dell’autore. La scelta di Calimani per raccontare le vicende della storia degli ebrei russi è di presentare alcuni capitoli di taglio generale (uno che copre il periodo dal 700 alla Rivoluzione d’Ottobre, uno sui famigerati Protocolli dei Savi di Sion, uno su Stalin e gli ebrei) che presentano il quadro complessivo degli avvenimenti dalle origini della presenza ebraica in Russia fino al 1953. Il cuore, se così si può dire, del libro sono i ritratti di alcuni letterati ebrei che sono tra i più grandi scrittori russi del Novecento. Quindi hanno in comune di esprimere la loro arte in lingua russa, di essere profondamente assimilati e di cercare di sopravvivere alle persecuzioni staliniane. Il libro è concluso da una ampia sezione dedicata a marxismo e questione ebraica, che si articola in quattro capitoli: il primo dedicato alle origini del dibattito, (Marx, Bauer, Hess, Engels), il secondo a Bund, menscevichi e bolscevichi, il successivo dedicato in particolare alla figura di Lev Trockij e l’ultimo ad una originale figura di pensatore, tra l’altro scomparso giovanissimo, vale a dire Abram Leon. La questione centrale nei capitoli dedicati agli scrittori ebrei russi è il loro rapporto con il terrore e l’antisemitismo staliniani. Alcuni di essi non riuscirono a sopravvivere e scomparvero nel gorgo della persecuzione, tra Lubianka Butyrka e Gulag. Sono Osip Mandelstam e Isaak Babel. Sono in un certo senso il simbolo di molti altri cui Calimani accenna talora. Colpisce il numero di ebrei tra i più vivaci esponenti della letteratura e dellarte sovietica del periodo, spesso il loro entusiasmo per la nuova realtà che sembrava si stesse costruendo. E colpisce ancora di più il destino che li accomunò tragicamente. Un capitolo a parte è dedicato alla figura di Trockij, che viene definito il sognatore appassionato. E viene messo in luce come negli ultimi anni della sua vita si sia reso conto sia del nuovo livello omicida dell’antisemitismo nazista, sia del carattere antisemita del regime staliniano. Ma viene messa anche in luce la sua incapacità di svincolarsi dalla posizione bolscevica classica sul problema delle nazionalità, che vedeva nella assimilazione nella società socialista lunica soluzione possibile alla questione ebraica. Altri riuscirono a sopravvivere: Grossman, Pasternak, Erenburg. Ma a quale prezzo? I compromessi furono pesanti, le ambiguità enormi, le paure gigantesche E si trattava di persone che già avevano rotto completamente con le loro origini ebraiche, a cui, come scrisse Primo Levi, furono gli altri a far ricordare di essere ebrei. Vivere per anni con la valigia pronta in attesa del suono del campanello nella notte che avrebbe significato l’arrivo degli agenti della Polizia Politica, essere richiesti di firmare appelli che incitano alla persecuzione, anche alla fucilazione, di propri colleghi ed amici, di cui si sa benissimo che non si sono macchiati di alcun crimine; bisogna leggere il libro di Calimani per riuscire a farsi una idea della drammaticità della situazione. Gli scrittori di cui si parla nel libro sono emblematici della storia di molti altri intellettuali ebrei, che nel libro vengono spesso citati e ricordati, delineando in questo modo un vasto affresco che racconta tutta la vicenda degli intellettuali ebrei russi. Lo stile, come sempre nei libri di Calimani è piacevole e il libro invita davvero ad essere letto.

Mao. La storia sconosciuta di Jung Chang, Jon Halliday. Editore: Longanesi. Anno edizione: 2006. Questo saggio è ricco di rivelazioni che tra l'altro smontano il mito della Lunga Marcia, e mostra un Mao sconosciuto: completamente privo di idealismo, ottenne il potere grazie ai suoi complessi rapporti con Stalin, che datavano dagli anni '20, e a una serie di complotti, avvelenamenti e ricatti. Ma dopo aver conquistato la Cina nel 1949, il suo scopo segreto era diventato la conquista del mondo, e per inseguire questo sogno Mao arrivò a causare la morte di 38 milioni di persone nella più grande carestia registrata nella storia. In tutto, più di 70 milioni di persone persero la vita sotto il governo di Mao, e questo in tempo di pace. Quella scritta da Jung Chang e Jon Halliday dopo dieci anni di ricerche è una biografia di Mao Tse-tung assolutamente inedita, la più completa mai pubblicata, basata, oltre che su documenti d'archivio, su numerosissime interviste a testimoni diretti, tra cui persone assai vicine al leader cinese che non avevano mai rilasciato dichiarazioni. Questo saggio esaustivo e straordinariamente documentato è ricco di rivelazioni sorprendenti, che tra l'altro smontano il mito della Lunga marcia, e mostra un Mao finora sconosciuto: del tutto privo di idealismo, egli ottenne il potere grazie ai suoi complessi rapporti con Stalin, che datavano dagli anni '20, e a una serie di complotti e ricatti. Ma dopo aver conquistato la Cina nel 1949, il suo scopo segreto era diventato la conquista del mondo, e per inseguire questo sogno Mao arrivò a causare la morte di 38 milioni di persone nella più grande carestia registrata nella storia. In tutto, più di 70 milioni di persone persero la vita sotto il governo di Mao, e questo in tempo di pace. Affiancando alla meticolosa ricerca storica lo stile narrativo già noto ai lettori di Cigni selvatici, il libro permette di assistere ai retroscena più segreti delle vicende della Cina comunista e di entrare nel vivo della storia di uno dei protagonisti del Novecento. La stessa personalità di Mao, e la crudeltà del suo comportamento verso le mogli, le amanti e i figli, vengono qui svelati per la prima volta; dramma storico e dramma privato s'intrecciano, in un appassionante percorso oltre il mito, alla ricerca della verità. Jung Chang è nata a Yibin, nella provincia cinese del Sichuan, nel 1952. Ha lavorato come contadina, «medico scalzo», operaia ed elettricista prima di studiare l'inglese e diventare lettrice all'Università del Sichuan. Nel 1978 ha lasciato il suo Paese e si è trasferita in Gran Bretagna, dove è stata la prima persona della Cina comunista a conseguire un dottorato. II suo libroCigni selvatici apparso nel 1991, la storia delle donne della sua famiglia, un bestseller tradotto in 30 lingue e vincitore di numerosi premi, è pubblicato in Italia da Longanesi. Jon Halliday è stato Senior Visiting Research Fellow al King’s College dell'Università di Londra. E autore o curatore di altri otto libri.

La Cina di Mao secondo Jung Chang. Dopo il grande successo del romanzo “Cigni Selvatici”, la scrittrice cinese Jung Chang ha ripreso il tema della Cina maoista con un saggio storico, scritto insieme al marito Jon Halliday, dal titolo “Mao. La storia sconosciuta”. In “Cigni selvatici” Jung Chang aveva raccontato la dolorosa storia della sua famiglia e dell’intero popolo cinese sotto la dominazione maoista. Aveva scritto questo libro spinta da una coscienza ridestata dall’imprevisto incontro con l’Occidente e dall’esperienza – ancora oggi pressoché sconosciuta ai cinesi – della libertà individuale. Se poi l’autrice si è fatta carico anche dell’arduo compito di addentrarsi in una ricerca storica che avrebbe scoraggiato chiunque per l’imponenza del lavoro, è perché evidentemente si è resa conto di quanto poco in Occidente si conoscesse del contesto all’interno del quale le vicende descritte nel romanzo si svolgevano, quanto poco cioè si sapesse di Mao Tse-tung e della natura diabolica del suo potere. Secondo Jung Chang e Jon Halliday, Mao per quasi trent’anni «esercitò il potere assoluto sulla vita di un quarto della popolazione mondiale e si rese responsabile della morte di oltre settanta milioni di persone, più di qualsiasi altro leader del XX secolo». Il paragone è evidentemente con Hitler e Stalin. Il principio marxista dell’abolizione della proprietà privata, nel comunismo cinese diventa la pura espropriazione di ogni bene personale per riportarlo nella esclusiva disponibilità dello Stato, anzi di Mao stesso. L’uomo era privato di ogni cosa, a cominciare dal suo lavoro. Sotto il potere di Mao, la popolazione cinese – circa un miliardo di persone – ha vissuto in condizioni di totale schiavitù, costretta a lavorare dal sorgere del sole al tramonto e spesso anche di più, senza che potesse disporre dei frutti del suo lavoro né del necessario per vivere. Secondo Jung Chang e Jon Halliday, soltanto nel 1960 «ventidue milioni di persone morirono di fame, il numero più alto mai registrato in un solo anno nello stesso Stato in tutta la storia mondiale». Con la forza del terrore imposto da un capillare e spietato controllo poliziesco, l’intera produzione agricola era regolarmente requisita ai contadini per essere venduta all’estero e particolarmente all’Unione Sovietica. Non fa testo la produzione industriale, di qualità così scarsa da essere invendibile. Ma cosa spingeva Mao Tse-tung a mettere in atto un sistema repressivo senza precedenti nella storia dell’umanità? Si potrebbe pensare che l’obiettivo era quello della conquista e del dominio della Cina. Ma non è così. Per rispondere a questa domanda bisogna conoscere qualcosa dell’ideologia comunista che ha come vero obiettivo il superamento della realtà degli stati nazionali. È l’idea dell’internazionalismo marxista. Conquistare il potere, per un comunista, non significa prendere il controllo di un paese, ma assumere il controllo dell’intero movimento rivoluzionario comunista. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, questo potere fu saldamente nelle mani di Stalin. Finché si trattò di prendere il potere in Cina, a Mao Tse-tung l’egemonia sovietica stava bene e se ne servì ampiamente; mai avrebbe conquistato ciò che era stato il Celeste Impero senza il sostegno dell’Armata Rossa. Ma una volta soggiogata l’intera Cina, volle far valere i suoi “diritti” di comunista. In questo Mao ebbe una certa fortuna, come ne aveva avuta del resto per tutta la vita – mai un uomo politico è stato favorito dalle circostanze storiche più di lui. In sostanza, i “diritti” gli sarebbero derivati, secondo lui, dal fatto di avere un miliardo di proletari sotto i suoi piedi. L’internazionale comunista, perciò, avrebbe dovuto riconoscere in lui la guida suprema. Finché fu vivo Stalin a Mao non fu concesso nemmeno di entrare a far parte dell’Internazionale comunista. Il despota sovietico gli fece capire che la sua area di influenza non poteva andare oltre il continente asiatico e che questo gli poteva bastare. Ma Mao Tse-tung era un furbo; sapeva bene come piegare le cose a suo vantaggio – questo era principalmente il suo genio – e sapeva fare di necessità virtù. Fece presente a Stalin la necessità di ottenere il supporto sovietico per tenere a bada il popoloso continente asiatico che gli aveva affidato. Mao aveva in mente un piano diabolico. Cominciò a istigare Kim Il-sung perché la Corea del Nord invadesse la Corea del Sud. L’obiettivo era quello di provocare gli Stati Uniti perché intervenissero militarmente. Cosa che puntualmente avvenne dopo che nel giugno del 1950 Kim Il-sung varcò il 38° parallelo. La sproporzione delle forze in campo mise Stalin con le spalle al muro: bisognava necessariamente intervenire. E fu a questo punto che Mao si fece avanti proponendo all’Unione Sovietica di impegnare l’esercito cinese se l’URSS lo avesse adeguatamente rifornito di armi. A Stalin non sembrò vero di sostenere un conflitto di quella portata senza impegnare truppe sovietiche, anche perché Mao – la sua astuzia non aveva limiti – gli fece capire che i cinesi avrebbero pagato regolarmente le forniture militari e gli impianti per la produzione di armi che l’URSS avrebbe insediato in territorio cinese. Il pagamento sarebbe avvenuto in forma di “armi in cambio di cibo”, proprio ciò di cui in quel momento aveva maggiormente bisogno l’affamata Unione Sovietica. Per Mao non c’era alcun problema a procurarsi le eccedenze alimentari da inviare un URSS. Sarebbe stato sufficiente ridurre le razioni di cibo dei cinesi. Disse Mao: «Educate i contadini a mangiare di meno e a cuocere zuppe meno dense». Si può immaginare cosa si intendesse con l’espressione “educate i contadini”. Scrivono Jung Chang e Jon Halliday: «Mao era intenzionato a sfruttare ancor più i contadini. A loro “servono solo centoquaranta chilogrammi di cereali e a certi ne bastano centodieci”, dichiarava. La seconda cifra corrispondeva sì e no alla metà del quantitativo indispensabile alla mera sopravvivenza». Questo obiettivo appariva dunque facilmente raggiungibile, altrettanto semplice era poi l’altro: ottenere dall’URSS armi, fabbriche di armi e consiglieri militari. Ma c’era un altro tassello da aggiungere al misterioso mosaico che Mao voleva comporre. Soltanto due giorni dopo l’inizio delle ostilità, il presidente USA Truman dichiarò che avrebbe inviato truppe americane a difesa della Corea del Sud. Per Jung Chang e Jon Halliday «Mao era persuaso che gli USA non lo avrebbero sconfitto, dal momento che disponeva di una risorsa fondamentale: milioni di cinesi da sacrificare, di alcuni dei quali non vedeva l’ora di liberarsi. La guerra rappresentava un’occasione unica per consegnare alla morte i soldati che avevano fatto parte dell’esercito nazionalista, uomini che si erano arresi in massa nelle ultime fasi della guerra civile e che, per volontà di Mao, furono inviati in Corea dove avrebbero rappresentato il grosso delle sue forze». Disporre di carne da cannone è la migliore arma di cui un esercito possa disporre. Nonostante le perdite umane subite, le truppe cinesi fecero arretrare gli americani di duecento chilometri in poche settimane. Truman dichiarò lo stato di emergenza nazionale, richiamando il popolo americano al grave pericolo che incombeva sulla Nazione e sulle “nostre case”. La tensione rimase alta per tutta la durata del conflitto finché nel febbraio del 1953, Eisenhower, nuovo presidente americano, nel corso del discorso sullo stato dell’Unione, affermò che per porre fine al conflitto, era determinato a sganciare la bomba atomica sulla Cina. In una successiva conferenza stampa il presidente degli Stati Uniti, in maniera del tutto irresponsabile, si lasciò andare a espressioni ancor più incredibili, con le quali dichiarava di non capire per quale motivo non si dovessero usare le bombe atomiche «alla stregua di una pallottola o di qualsiasi altra arma». Scrivono Jung Chang e Jon Halliday: «La minaccia era musica per le orecchie di Mao, il quale aveva la scusa per chiedere a Stalin ciò che più desiderava: le armi nucleari. […] A seguito delle considerazioni di Eisenhower sulla possibilità di ricorrere alla bomba, Mao inviò a Mosca il più illustre dei suoi scienziati nucleari, Qian San-qiang. Il suo messaggio si poteva sintetizzare così: dammi la bomba e non sarai trascinato in una guerra nucleare con gli USA». Stalin non voleva che Mao entrasse in possesso della bomba atomica. Ma Stalin, il mese successivo, morì. E a questo proposito i suddetti autori arrivano a insinuare che «Mao può aver contribuito in qualche misura all’infarto di Stalin». Alla guida del Partito comunista sovietico succederà Nikita Chruščёv, al quale nella sua semplicità contadina sembrò un affare offrire a Mao la bomba atomica, in cambio dei prodotti agricoli con cui la Cina si impegnava a rifornire il famelico impero sovietico. Jung Chang e Jon Halliday scrivono che nel dicembre del 1955 giunse la notizia che i sovietici «si impegnavano a prestare il loro aiuto per installare in Cina tutto il processo dell’industria nucleare». Mao aveva composto così il suo misterioso mosaico. Chruščёv non aveva idea di quanto fosse pericoloso il fatto che Mao disponesse di armi nucleari. Perché lo scopo del leader cinese non era quello di disporre della bomba come deterrente, come è stato per americani e sovietici. Il suo obiettivo era quello di usare davvero la bomba atomica. Nel libro “Mao, la storia sconosciuta”, gli autori raccolgono la confidenza di Piero Ingrao presente nel 1957 a Mosca ai festeggiamenti per i quarant’anni della rivoluzione bolscevica. Invitato a pronunciare pubblicamente un proprio testo scritto, come avevano fatto tutti gli altri relatori, Mao protestò: «Non ho un testo. Voglio poter essere libero di parlare a mio piacimento». Secondo Igrao, le parole del leader cinese lasciarono il pubblico scioccato e sconvolto. Disse Mao: «Pensiamo semplicemente a quante persone morirebbero se scoppiasse la guerra. Al mondo ci sono due miliardi e settecentomila persone. Se ne potrebbe perdere un terzo o un po’ di più, magari la metà. […] Prendiamo il caso estremo, ne muore la metà e l’altra metà sopravvive; l’imperialismo, però, sarebbe raso al suolo e tutto il mondo diventerebbe socialista». Commentano Jung Chang e Jon Halliday: «Mao dava l’impressione non solo di non essere preoccupato per lo scoppio della guerra nucleare, ma di giudicarla favorevolmente». Come se non bastasse, il soggiorno moscovita mise in testa a Mao Tse-tung un altro diabolico piano: ottenere dall’URSS dei sottomarini nucleari. Mao dislocherà alcuni di questi nell’isola albanese di Saseno, nel punto più vicino alle coste italiane, accarezzando l’idea apocalittica che un giorno, a partire da quel punto vicino alla Puglia, tutto il mondo che chiamava “l’imperialismo” sarebbe stato raso al suolo. Scritto da: Paolo Tritto

INTERVISTA A JUNG CHANG e a JON HALLIDAY, autori di “Mao”.   Il sottotitolo della biografia di Mao scritta da Jung Chang (nata in Cina nel 1952 e trasferitasi nel 1978 in Gran Bretagna con una borsa di studio) e dal marito, lo storico inglese Jon Halliday, è “La storia sconosciuta”, perché l’immagine che balza fuori da queste pagine non concorda affatto con quella del mitizzato Presidente la cui gigantografia campeggia ancora nella Piazza Tienanmen a Pechino. Ne abbiamo parlato con i due autori.

Nel settembre di quest’anno ricorrerà il trentesimo anniversario della morte di Mao: qual è stata la sua prima reazione, signora Chang, quando ha sentito la notizia della sua morte?

«Ricordo che ero all’università e ci hanno chiamato fuori per sentire l’annuncio. Quando ho sentito la notizia la mia reazione è stata di sollievo e poi di euforia. Ecco, mi sono smarrita in questa sensazione di enorme euforia. Poi mi sono accorta che tutti piangevano intorno a me- eravamo tutti allineati nel cortile- e ho pensato che non fosse saggio restare ad occhi asciutti. Allora ho appoggiato la testa sulla schiena della persona che era davanti a me e ho fatto finta di piangere. Non era gioia, quello che ho provato, ma un tremendo senso di sollievo».

Leggendo entrambi i suoi libri, “Cigni selvatici” e la biografia di Mao, avvertiamo un cambiamento di tono: abbiamo l’impressione che in “Cigni selvatici” prevalesse un sentimento di sofferenza e di dolore, mentre nella biografia si percepisce la rabbia e l’odio per Mao.

«Non userei la parola “odio” perché ha un forte connotato negativo. Piuttosto “sdegno”. Ed è vero che c’è stato questo cambiamento nei miei sentimenti, ho provato rabbia e sdegno e sono stata scioccata: è un cambiamento che è sopravvenuto in me nei dieci anni di ricerca, perché mio marito ed io abbiamo scoperto tante cose che non sapevo quando ho scritto “Cigni selvatici”. Allora sapevo che Mao era cattivo ma non che fosse così cattivo. Per quello che riguarda la carestia, ad esempio: siamo venuti a conoscenza delle frasi orrende che diceva sapendo della gente che moriva- che i morti fertilizzano il terreno…Questo libro riflette il trauma che ho provato quando sono venuta a conoscenza di tutti questi particolari».

Mentre scriveva “Cigni selvatici” pensava già di scrivere, dopo, la biografia del presidente?

«No, ma è stata una scelta ovvia, quella di scrivere la biografia di Mao, quando ho iniziato a pensare di scrivere un altro libro dopo “Cigni selvatici”. Dopotutto, in “Cigni selvatici” Mao era la figura dominante, come lo era stato nella mia vita, era l’uomo più importante della Cina e il mondo non sapeva molto di lui. Entrambi, mio marito ed io, volevamo scrivere di Mao».

Questa biografia è stata possibile dopo l’apertura degli archivi e, per quello che riguarda le testimonianze- qual è stato l’atteggiamento delle persone che avete intervistato? Erano tutte disposte a parlare?

«L’apertura degli archivi russi è stata fondamentale e, oltre agli archivi di Stato e a quelli del Ministero degli Affari Esteri, abbiamo avuto a disposizione anche dei documenti di grande importanza: una serie di studi fatti dalla leadership sovietica e dall’Intelligence che avevano accesso agli archivi quando erano ancora chiusi. Inoltre abbiamo intervistato circa 150 persone nella cerchia vicino a Mao: la gente desiderava parlare. Non è che dovessero parlare, lo volevano. Alcuni erano stati messi in guardia dal governo, diffidati dal cooperare. Alcuni si rifiutarono ma molti parlarono proprio perché erano stati diffidati dal farlo. Sapevano che il nostro libro non avrebbe seguito la “linea ufficiale” e volevano che si sapesse la verità. Molti aspettavano da anni di poter parlare: il loro desiderio ci ha toccato. Naturalmente si sono aperti solo in parte, e noi non facevamo domande generiche su che cosa pensassero di Mao. Facevamo domande specifiche di informazione. Era come avere delle tessere di un puzzle che, prese singolarmente, non avevano senso. Il nostro lavoro era mettere assieme le tessere del puzzle per formare il disegno».

C’è un periodo della vita di Mao per cui è stato più difficile fare le ricerche o ottenere informazioni?

«La parte più difficile è stata fare ricerche sulla prima parte della sua vita perché c’erano meno documenti di quel periodo, meno persone ancora vive. Ma era anche la parte meno importante della vita di Mao che ha raggiunto la maturità politica nel 1927. Per quello che riguarda la Lunga Marcia, le fonti principali si trovano nei molti volumi che raccolgono lo scambio di telegrammi dei nazionalisti. E’ da questi che abbiamo scoperto che Chiang Kai Chek ha lasciato passare Mao. C’è poi il diario di Chiang e la cronologia fatta dagli storici di Mao, un resoconto giornaliero dei suoi spostamenti. Così abbiamo saputo che i suoi compagni volevano espellerlo nel 1932, prima della Lunga Marcia, perché era impossibile trattare con lui, perché non cooperava in una leadership collegiale. Mao rimase grazie solo all’intervento di Stalin. Mao non ebbe alcuna parte nel pianificare la Lunga Marcia. Erano cose che sapevamo solo in parte, ora avevamo trovato i documenti».

Come è stato possibile che Edgar Snow, che con “Autobiografia di Mao” e “Stella rossa sulla Cina” contribuì a diffondere in Occidente un’immagine interamente positiva del Presidente, sia stato così acritico? Era in buona fede?

«Negli anni ‘30 si sapeva già qualcosa delle purghe, ma si trattava di purghe in una Cina che non era certo un paradiso, si sapeva che in Cina succedevano cose terribili. Snow era di sinistra, era ben disposto nei confronti di Mao, voleva credere e ha creduto alla versione che gli è stata data. E’ anche vero che le cose peggiori della dittatura di Mao avvennero dopo che Snow scrisse le sue opere. Non biasimerei Snow per l’immagine che ha diffuso di Mao in Occidente. Mao sembrava offrire delle alternative alla situazione. E poi a favore di Mao giocavano le apparenze: non amava il lusso, non aveva un modo di fare burocratico. Era un bravo attore, un newspaper-man, l’uomo giusto per i giornali, sapeva essere simpatico. Snow è stato ingannato. D’altra parte pure i miei genitori sono diventati comunisti dopo Snow: volevano tutti credere in qualcosa. Di recente sono state pubblicate le interviste che Mao ha concesso a Snow: Snow chiese a Mao se era vera la voce che avesse ucciso tante persone. Mao diede una risposta evasiva, dicendo che era propaganda nazionalista e che i suoi uomini si sfogavano facendo sport. I comunisti hanno preparato con estrema cura la visita di Snow e lui entrava in una situazione che non conosceva. Dopotutto Mao è stato l’unico leader comunista che abbia concesso un’intervista ad un giornalista occidentale. E’ stato furbo, ha funzionato. Mao si è accorto che poteva farlo una sola volta e poi non lo ha più fatto. Il libro di Snow era proibito in Cina, anche se era a favore, perché qualunque informazione può essere pericolosa. Io stessa ho visto il libro quando era ancora underground e Mao era già morto».

Lei era nelle Guardie Rosse, signora Chang, e può dire qualcosa “dall’interno”: che cosa risvegliava Mao nei giovani per farli eseguire ciecamente i suoi ordini? Lei stessa sottolinea spesso che Mao non aveva carisma…

«Mao si inseriva nella tradizione degli imperatori che non si facevano vedere, operavano dietro porte chiuse. Parte del potere di Mao derivava dunque da quella tradizione: era una figura divina. All’epoca delle Guardie Rosse avevo 14 anni, ero nata nella Cina di Mao: Mao era dappertutto, come Dio. Non si poteva pensare di sfidare Mao, si dava per scontato che fosse dio. Per assicurare che si stava dicendo la verità, si diceva “Giuro su Mao”. Mao ha diretto questo culto della personalità, ha instillato nel nostro sangue l’obbedienza. Al punto che chi non era stato ammesso a far parte delle Guardie Rosse ha formato dei propri gruppi di sua iniziativa».

Signor Halliday, si può veramente paragonare il complotto contro Mao di Tigre, il figlio di Lin Biao, a quello di von Stauffenberg contro Hitler?

«Non interamente, prima di tutto perché ci fu, dopo l’attentato a Hitler, una versione ufficiale accurata e aperta a tutti di quanto era successo, mentre in Cina le notizie erano estremamente confuse, pochi sapevano. Inoltre in Germania la valutazione del complotto di von Stauffenberg contro Hitler è positiva, mentre in Cina è tuttora considerato terribile che Tigre abbia cercato di uccidere Mao. Si ha ancora paura di Mao, tutto quello che riguarda Mao è ancora fonte di sentimenti complessi e imbrogliati. La gente condanna ancora Tigre. Eppure mi ha colpito che sia stato l’unico a vedere attraverso Mao. E poi dietro l’azione di von Stauffenberg c’era anche un programma per un nuovo governo, mentre Tigre non aveva nulla in mente. Ma non era colpa sua: sarebbe stato impossibile pianificare altro durante il regime di Mao. A differenza di von Stauffenberg, Tigre non si è neppure avvicinato a Mao. E dopo l’incidente di Lin Biao, nessuno fu perseguito: questo la dice lunga sull’insicurezza di Mao».

Come mai tante persone ogni giorno visitano il mausoleo di Mao in piazza Tienanmen?

«Anche io mi sono messa in coda per visitare il mausoleo, ma questo non significa che amo Mao. Molte delle persone sono turisti che vengono da tutte le parti della Cina, proprio come a Mosca fanno la coda fuori del mausoleo di Lenin e non vuole dire che amino tutti Lenin. Io so che chiunque abbia vissuto sotto la dittatura di Mao non vorrebbe vivere di nuovo sotto un governo simile. Mao, però, è morto 30 anni fa e la generazione dei giovani non sa neppure come fosse vivere allora e molti lo ritengono un eroe. Il lavaggio del cervello continua ancora. Mao è nella costituzione della Cina come una forza trainante: il ritratto di Mao è tuttora in piazza Tienanmen, il suo viso è sulle banconote e i libri come il nostro o come “Cigni selvatici” non sono in circolazione in Cina. La gente non conosce queste cose, non sente la voce critica sulla storia. E’ molto difficile uscire dal condizionamento, io stessa l’ho sperimentato- vedevo Mao come un dio e, pur essendo testimone delle cose terribili che accadevano durante la Rivoluzione Culturale, non riuscivo ad attribuirne la responsabilità a Mao. Accusavo la moglie, gli altri, ma non lui».

Signor Halliday, perché non si può rivelare la verità su Mao in Cina? Perché in Cina non si può correre il rischio di rivedere la figura di Mao, di esporne i vizi e la crudeltà?

«In Cina, nonostante tutto, si vive ancora sotto una dittatura e la popolazione cinese non è stata consultata sulla necessità di rivedere la figura di Mao. La decisione fu presa dai leader cinesi alla fine degli anni ‘70, prima del crollo dell’Unione Sovietica, prima che ci si rendesse conto delle conseguenze di aver messo in discussione la figura di Stalin. All’epoca era diffusa la volontà di denunciare la Rivoluzione Culturale, ma Deng Xiaoping, che pure aveva sofferto durante la Rivoluzione Culturale, decise di non fare nulla per evitare problemi al Partito Comunista. Mao equivaleva al Partito Comunista, se respingevi Mao respingevi il Partito. Volendo mantenere il monopolio del potere per il Partito Comunista, Deng Xiaoping non poteva denunciare Mao. Adesso la realtà è che non si vuole smitizzare Mao perché, nonostante ci siano stati tanti cambiamenti, le chiavi del potere istituito da Mao- il controllo delle informazioni, ad esempio, e altre rigide forme di controllo della società- rimangono le stesse». L'intervista è stata pubblicata sulla rivista Stilos.

Il libro nero di Cuba. Curatore: Reporters sans frontières. Editore: Guerini e Associati. Anno edizione: 2005. Prefazione di Robert Ménard, presentazione di Michele Farina. Un sogno in frantumi. Da troppi anni i diritti civili e politici del popolo cubano sono fatti a pezzi, sotto gli occhi del mondo intero, a opera di un regime repressivo che, come testimonia Rivero, vorrebbe «controllare persino le idee della gente». Nel marzo 2003 Fidel Castro lancia un'ondata di repressione senza precedenti: 75 tra giornalisti, militanti dei diritti umani, sindacalisti, sono arrestati e condannati a pene molto pesanti, sotto l'accusa di attività sovversive. In tutto il mondo le proteste si moltiplicano e incrinano l'immagine della rivoluzione castrista. Il volume racconta, attraverso le testimonianze documentarie delle organizzazioni non governative, l'ampiezza della repressione: rapporti, testi di leggi cubane, testimonianze dirette dei dissidenti. Uno sguardo sulla realtà cubana scevro di cliché e passioni ingiustificate.

Libro nero di Cuba. Scritto da Edoardo Castagna giovedì 12 maggio 2005. Cuba è una repubblica fondata sulla repressione. L'articolo 35 della Costituzione recita: "Nessuna delle libertà riconosciute ai cittadini potrà essere esercitata contro l'esistenza e gli obiettivi dello Stato socialista". Quello di Fidel Castro è un regime illiberale e non c'è "aggressione" americana che tenga. Al più, l'aperta ostilità degli Stati Uniti aiuta Castro a trovare alibi, prontamente accolti da certe sinistre europee, per la sua macchina repressiva. Ma sull'isola la pressione sugli oppositori, sui dissenzienti o anche semplicemente su chi non si allinea integralmente è costante, tra illusorie distensioni e repentini irrigidimenti. L'ultimo giro di vite, nel marzo 2003, è al centro dell'analisi del "Libro nero di Cuba", curato da Reporter senza frontiere e ora tradotto da Guerini. Nessuno dei settantacinque condannati del 2003 si era macchiato di reati violenti. Erano sindacalisti e intellettuali, soprattutto giornalisti. Molte le condanne a diciotto, venti anni di reclusione; è stata la più grande retata per reati d'opinione - denuncia Reporter senza frontiere - dell'intera storia del continente americano. Tutti accusati di complotto con gli Stati Uniti, al termine di processi sommari i condannati sono stati rinchiusi in condizioni tali da violare perfino le norme cubane: celle infestate di topi e insetti, acqua inquinata, cibo scarso, cure mediche insufficienti. Frequente il ricorso a vere e proprie torture, come tenere i prigionieri sempre al buio, privarli del letto, sigillare le celle torride e infestate, impedire indefinitamente le visite dei famigliari. La stretta repressiva si è abbattuta sugli ideatori, sui sostenitori e sui collaboratori di due riviste, De Cuba e Luz cubana, che per la prima volta dall'ascesa di Castro avevano osato sfidare il monopolio da parte del regime della cultura e dell'informazione. Sempre in ossequio alla Costituzione, secondo la quale (art. 39c bis) "la creazione artistica è libera, a condizione che il contenuto non sia contrario alla Rivoluzione". Cioè non libera. Gran parte degli artisti cubani è già esule all'estero, soprattutto negli Stati Uniti dove lavorano, per esempio, i pittori Carlos Alfonzo e Casimiro Gonzales. Gli intellettuali promotori delle due riviste non se ne sono dati per inteso e il loro primo delitto è stato di lesa maestà, anche perché non hanno affatto sferrato attacchi diretti al regime. "Niente nel contenuto di De Cuba e nessuno degli obiettivi dichiarati e rispettati dagli editori della rivista erano tali da impensierire un regime - osserva il Libro nero - nessuna polemica, nessun insulto, ma, al contrario, la pratica della tolleranza, le inchieste sul terreno, il semplice resoconto di una realtà sociale contraddittoria e di una vita culturale forzatamente "underground" a Cuba". Luz cubana sopravvisse un solo numero, De Cuba, miracolosamente, riuscì a stamparne due prima che gli arresti colpissero i suoi collaboratori a partire dal direttore, Ricardo Gonzalez Alfonso, e delle più importanti figure della cultura dissidente cubana fino ad allora rimasta in patria. Come Manuel Vazquez Portal, filologo, poeta e scrittore, un tempo giornalista della rivista culturale ufficiale Caiman barbuto e poi fondatore dell'agenzia stampa clandestina Cuba Press. Come gli economisti Oscar Espinosa Chepe e Marta Roque Cabello, i giornalisti Jorge Olivera Castello e Ricardo Gonzalez Alfonso, il pedagogista Juan De Miranda Hdez. E come il più grande poeta cubano di oggi, Raúl Rivero Castañeda. Tra le accuse imputate a Rivero c'era anche la collaborazione con Reporter senza frontiere, definita una "organizzazione terrorista francese manipolata dal governo degli Stati Uniti". Aveva dichiarato: "Io non cospiro, scrivo". Nel 2002 gli era stato negato il visto per il Messico, dove avrebbe dovuto presentare la sua ultima raccolta di poesie; l'unico visto che poteva ottenere, osservava, sarebbe stato quello per l'esilio definitivo. Ma Rivero non voleva spezzare il legame con la sua terra. "Sono solo un uomo che scrive nel Paese dov'è nato", ribadiva il poeta che non temeva la tirannia in quanto, recitano i suoi versi, "è passeggera / perché castiga il corpo / ma non ha agenti né risorse / per toccare il mio spirito". Grazie a una delle frequenti oscillazioni del pendolo repressivo di Castro, Rivero è tornato in libertà alla fine dell'anno scorso, insieme agli altri arrestati del 2003. La sua permanenza sull'isola è però diventata impossibile e un mese fa, insieme alla sua famiglia, si è trasferito a Madrid. Da "Avvenire" del 10/5/2005 

Pulizia di classe. Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky. Editore: Il Mulino. Anno edizione: 2006. A seguito dell'alleanza tedesco-sovietica siglata in agosto, nel settembre 1939 i tedeschi invadevano la Polonia, scatenando la seconda guerra mondiale. In pari tempo l'Urss entrava in Polonia da est; durante quel periodo di occupazione, i sovietici catturarono migliaia di soldati dell'esercito polacco, e nell'aprile 1940 a Katyn fucilarono circa quindicimila tra ufficiali e "nemici di classe". Il massacro venne poi scoperto dai nazisti allorché a loro volta occuparono quelle aree dopo l'attacco all'Urss. Quella scoperta fu l'inizio di una guerra di propaganda e disinformazione destinata a durare decenni.

Pulizia di classe: il massacro di Katyn narrato da Zaslavsky di Giulia Ciarapica. «La fucilazione di piú di 25.000 prigionieri di guerra e altri detenuti polacchi da parte di reparti speciali dell’NKVD (il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) nell’aprile–maggio del 1940, nota come “massacro di Katyń”, è soltanto uno, neanche tra i piú sanguinari, dei crimini del regime staliniano.» Cosí s’apre l’avvincente saggio di Viktor Zaslavskij Pulizia di classe. Il massacro di Katyń (il Mulino, 2006), interamente dedicato a quell’oscuro e misterioso pezzo di Storia oggi conosciuto come massacro di Katyń, appunto. Ci sono notizie che rimangono volutamente nell’ombra per molto tempo, in certi casi addirittura per decenni, proprio come nel caso di Katyń: Zaslavskij, insegnante di Sociologia politica alla LUISS di Roma, ha contribuito, col suo breve saggio, a far conoscere al grande pubblico il crudele ed efferato omicidio di piú di 20.000 ufficiali polacchi da parte dell’esercito sovietico. L’indagine su questo massacro non poteva essere condotta se non partendo dall’analisi delle modalità di spartizione dell’Europa tra i due regimi totalitari, quello nazista e quello sovietico, secondo le clausole segrete del patto Molotov–Ribbentrop (23 agosto 1939): se il 1º settembre i tedeschi invadevano la Polonia, scatenando la seconda guerra mondiale, due settimane dopo l’URSS invase e occupò la metà della Polonia che le era stata assegnata dal patto. Stalin presentò l’attacco del governo sovietico come un’azione atta a difendere gli ucraini e i bielorussi della Polonia orientale dall’avanzata tedesca, dichiarando che la guerra era per l’URSS un’occasione favorevole: «Non è male se per mano della Germania venisse scossa la posizione dei Paesi capitalistici più ricchi. […] Hitler, senza capirlo e senza volerlo lui stesso, scuote e mina alle basi il sistema capitalistico». In realtà, chiaramente, le mire erano ben altre, e riguardavano la Polonia, che Stalin definì «uno Stato fascista» e dunque uno Stato «borghese», che come tale andava eliminato. Iniziò così la collaborazione tra le truppe tedesche e quelle sovietiche, soprattutto quando si trattava di distruggere consistenti reparti polacchi, ed è così che il Politburo introdusse una rigida classificazione tra i prigionieri polacchi sulla base della loro origine etnica, territoriale, ma soprattutto sociale. «Il lavoro d’individuazione e arresto degli ufficiali polacchi continuò fino alla fine del 1939 su tutto il territorio occupato dai sovietici»: i professori, i medici, i giornalisti, gli artisti, insomma tutti coloro che costituivano la classe dirigente, che facevano parte dell’intellighenzia polacca, e che avevano prestato servizio nell’esercito polacco come ufficiali, furono arrestati, e poi fucilati, poiché rappresentavano i «nemici inveterati e incorreggibili del potere sovietico» e avrebbero potuto rivestire il ruolo di potenziali capi della resistenza. Gente istruita e assolutamente scomoda. Da eliminare. E cosí fu deciso, tantoché nel marzo del 1940 il Politburo ordinò la fucilazione di più di 20.000 ufficiali, la quale avvenne tra l’aprile e il maggio dello stesso anno nella foresta di Katyń. Tale massacro — ricorda Zaslavskij — rappresenta «uno dei piú eloquenti esempi del politicidio perpetrato dal regime sovietico»; quello che, in sostanza, viene definito dall’autore come una «pulizia di classe», ossia l’eliminazione pianificata d’un’intera classe sociale da parte dei totalitarismi che adottavano il marxismo-leninismo come ideologia fondante. Il contenuto del saggio è già considerevolmente raccapricciante, ma forse ancor di piú lo è il fatto che di questo episodio, avvenuto nel lontano 1940, è stata fatta chiarezza — forse — solo dopo il 1989, anno che segnò la fine di molti regimi comunisti e il collasso dell’Unione Sovietica. In verità, già il 13 aprile 1943 i media tedeschi informarono il mondo che, in un bosco vicino alla località di Katyń, erano stati rivenuti i corpi d’alcune migliaia d’ufficiali polacchi, fucilati, secondo la versione tedesca, dagli agenti dell’NKVD. I sovietici, con le spalle al muro, tentarono in ogni modo di ribaltare la situazione, incolpando i soldati tedeschi e adducendo a prova inconfutabile il fatto che i proiettili con cui erano stati fucilati gli ufficiali polacchi fossero di produzione tedesca. Ciò non bastò a scagionare i veri colpevoli, anche se la falsa notizia fece una grande impressione sull’opinione pubblica sovietica. Benché tutti, i polacchi in primis, sapessero di chi fosse realmente la colpa (e la data della morte degli ufficiali smentiva i tentativi di deviazione da parte dei sovietici di far ricadere su di loro la colpa del massacro), una certa complicità da parte del mondo occidentale — specialmente dell’Inghilterra, che negò alla comunità polacca in esilio a Londra il permesso d’erigere un monumento dedicato alle vittime di Katyń — contribuì a far sì che la notizia del «politicidio» rimanesse insabbiata per lungo tempo. «La decisione dei governi angloamericani durante la guerra di non rendere pubblica la verità su Katyń fu determinata dalla necessità di mantenere l’alleanza con Stalin e d’assicurarsi la collaborazione sovietica nel dopoguerra.» Mentre nei Paesi occidentali i criminali nazisti sono ancora ricercati e puniti, come ha dimostrato il caso Priebke, in Russia neanche uno degli assassini è stato messo sotto processo o sottoposto ad alcuna indagine. Qualche anno prima che Zaslavskij scrivesse questo breve saggio-capolavoro, il regista polacco Andrzej Wajda, figlio d’una delle vittime, ha girato, nel 2007, il film Katyń. «Le persone possono esser messe a tacere — ma ci sono prove», si dice nel film. Questo film-denuncia non ebbe mai la diffusione che avrebbe meritato, perché, come sostiene Wajda stesso in un’intervista rilasciata nel 2012 a Tempi, «in Polonia ho avuto oltre 3 milioni di spettatori. Posso dire d’essere soddisfatto. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla TV di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa. Lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo». Questa è la verità, a tutt’oggi. Per chi volesse avere un quadro completo ed esaustivo di come andarono realmente le cose, basta addentrarsi nell’appassionante lettura del saggio di Zaslavskij, scritto con penna elegante ma vòlto a un solo obiettivo: fare chiarezza. Centotrenta pagine di lucida e coinvolgente analisi storica.

PULIZIA DI CLASSE. IL MASSACRO DI KATYN. Scrive Sabato 26/05/2012 Luca Menichetti. Non credo sia stato facile ricostruire la complicata vicenda del massacro di Katyn in appena centoventi pagine, mantenendo rigore accademico e dando conto di un’incredibile manipolazione storica e politica protrattasi dal 1940 fino ai giorni nostri. Victor Zaslavsky, col suo “Pulizia di classe”, a fronte di una bibliografia su Katin ormai molto ricca, è riuscito a raccontarci l’essenziale: ovvero il bagno di sangue, del tutto autentico, e poi la tutta le serie infinita di bugie imbastite per nascondere uno dei tanti crimini dello stalinismo da parte dei comunisti e degli occidentali garanti degli accordi di Yalta. Ricordiamo cosa fu Katyn: nell'aprile 1940 i sovietici, nella Polonia da loro occupata, fucilarono circa quindicimila tra ufficiali e “nemici di classe” polacchi. Il massacro venne poi scoperto dai nazisti quando occuparono quelle aree dopo l'attacco all’Urss. Seguì una complicata vicenda di accuse e contro accuse, propaganda e disinformazione nella quale i sovietici, ben supportati dai loro scherani occidentali, orchestrarono una campagna di falsificazione tale da attribuire ai nazisti la mattanza. Anche nel dopoguerra gli Usa e i paesi della Nato per ragioni di opportunità (o cinismo politico?) non vollero mai svelare la mistificazione. Soltanto ai tempi di Eltsin, dopo i temporeggiamenti e i tentativi di insabbiamento da parte di Gorbaciov, sono stati resi pubblici i documenti che provano la responsabilità sovietica. Stalin fu responsabile di massacri ancor più cruenti, nell’ordine delle centinaia di migliaia di omicidi, milioni di vittime colpevoli soltanto di appartenere ad una classe sociale indegna di vivere, ma Katyn ha rappresentato qualcosa di paradigmatico sia riguardo la logica totalitaria stalinista, sia riguardo i rapporti e le analogie con l’altro totalitarismo del XX secolo: il nazismo. Quell’aprile del 1940 cadeva pochi mesi dopo il Patto Molotov-Ribbentrop (trattato di non aggressione fra la Germania Nazista e l'Unione Sovietica che volle dire divisione del territorio polacco tra sovietici e tedeschi e l'occupazione delle repubbliche baltiche, da parte dell'Armata Rossa) e, con buona pace degli antifascisti, nel febbraio 1940 Stalin consegnò alla Gestapo i comunisti tedeschi rifugiati politici, detenuti dopo le purghe degli anni 1936-1938, che passarono direttamente dai campi di concentramento sovietici a quelli nazisti. Insomma prove di buon vicinato che avrebbero potuto pure dare luogo ad un’alleanza duratura tra nazismo e comunismo sovietico contro le odiate demoplutocrazie occidentali. In questo contesto di alleanza tra i due più spietati totalitarismi del secolo scorso avvenne il massacro di Katyn: migliaia di ufficiali polacchi giustiziati, molti con un colpo alla nuca, e poi deportazione per dieci anni in Kazakistan delle loro famiglie (causa di altre morti). Si è parlato di genocidio ma, come fa rilevare Zaslavsky, forse è termine improprio: “se la politica dello sterminio ebraico realizzato dai nazisti rappresenta il caso paradigmatico del genocidio del XX secolo, l’applicazione della categoria di genocidio a molti altri casi provoca accese controversie […] Il massacro di Katyn rappresenta uno dei più eloquenti esempi del politicidio perpetrato dal regime sovietico. La categoria del politicidio non sembra tuttavia sufficiente per interpretare il fenomeno delle repressioni di massa […] Nel mio lavoro ho sempre preferito l’espressione “pulizia di classe”, coniata per sottolineare analogie e differenze con il più diffuso e familiare concetto di “pulizia etnica”. La pulizia di classe è una politica di eliminazione pianificata e sistematica di un’intera classe sociale condotta da quei regimi totalitari che adottavano i marxismo-leninismo come loro ideologia fondante” (pag. 51). Zaslavsky riporta una nota (1918) di uno dei primi dirigenti della Ceka, che fa capire bene dove si sarebbe andati a parare negli anni a seguire: “Non stiamo lottando contro persone singole. Stiamo sterminando la borghesia come classe”. Una logica criminale che, nella sua somiglianza con il nazismo, in questi ultimi anni è stata oggetto degli studi di Luciano Pellicani, proprio richiamato in nota da Zaslavsky.Katyn, con le sue migliaia di fucilazioni pianificate, fu quindi una sanguinosa conseguenza del leninismo, applicato alla sua maniera da Stalin. La mattanza dei polacchi nel libro di Zaslavsky – ricordiamolo ancora - assume una particolare importanza per le mistificazioni che ne seguirono e per le campagne internazionali di discredito che furono portate avanti nei confronti di tutti coloro che avevano capito come realmente erano andate le cose e in particolare nei confronti di quei membri della Commissione medica che studiò i cadaveri e che, vivendo in occidente, non potevano essere messi a tacere (almeno non tutti) dagli scherani di Berija. Quindi a massacrarli di infamie ci pensarono i solerti comunisti locali. Pensiamo alle intimidazioni, durate anni ed anni, nei confronti del professor Vincenzo Mario Palmieri. La vicenda, come ci racconta Zaslavsky, ha visto un parziale epilogo (ma ancora ci sono interrogativi senza risposta) con la fine dell’Urss e l’apertura della segretissima “busta 34”: la conferma dell’esistenza di protocolli segreti che svelano l’ordine del massacro da parte degli alti papaveri sovietici. Victor Zaslavsky (1937-2009) storico e professore russo naturalizzato canadese, specializzato nello studio dei rapporti tra Italia e Unione Sovietica. Laureato in storia presso l’Università Statale di San Pietroburgo, è stato professore ordinario di sociologia politica presso la facoltà di scienze politiche dell'Università LUISS Guido Carli di Roma. Per il Mulino ha pubblicato "Il consenso organizzato" (1981), "Dopo l'Unione Sovietica" (1991), "Togliatti e Stalin" (con la moglie E. Aga Rossi, 1997; premio Acqui storia 1998), "La Russia da Gorbacev a Putin" (con L. Gudkov, 2010). Luca Menichetti. Lankelot, maggio 2012 

I DIMENTICATI. Storia degli americani che credettero in Stalin di Tim Tzouliadis. Nei primi anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street del 1929 e la grave crisi economica che ne seguì, centinaia di americani, spinti più da necessità materiali che da motivazioni ideologiche, partirono per l’Unione Sovietica attratti dalle lusinghe di un regime che prometteva lavoro e felicità per tutti. Portavano con sé il baseball e il jazz. Dopo un inizio che lasciava presagire un buon inserimento nella realtà, umana e industriale, della nuova patria, poco alla volta si resero conto che quello non era il decantato paradiso dei lavoratori. Dapprima fu loro confiscato il passaporto e dovettero assumere la cittadinanza sovietica, cosa che rendeva assai difficile il loro ritorno a casa. Poi, quando il Terrore staliniano strinse nella sua morsa milioni di persone, furono i primi a cadere, privi di qualsiasi aiuto da parte dell’ambasciata americana appena aperta e restia a proteggere chi aveva lasciato gli Stati Uniti. Seguendo le alterne vicissitudini di due giocatori di baseball (e di molti altri americani) deportati nei gulag della Kolyma e di Burepolom, il libro racconta una storia di illusioni perdute che dalle purghe staliniane giunge fino ai nostri giorni. I due protagonisti, insieme a qualche altro sopravvissuto, dopo quasi mezzo secolo riuscirono a tornare. Ai più la loro straordinaria vicenda umana parve quasi una bizzarra curiosità riemersa come per incanto dal passato: come un’anomalia della Storia. UN BRANO: "Chi avrebbe potuto biasimare quegli americani che, spinti sia dalle necessità economiche sia dall’ideale, accettarono con gratitudine l’invito sempre valido di Iosif Stalin a lavorare in Unione Sovietica? Gli operai qualificati avevano persino diritto al viaggio pagato verso la terra in cui la disoccupazione era stata dichiarata ufficialmente scomparsa; si consideravano i pionieri di una nuova frontiera, in lento spostamento da ovest a est, attratti non solo dall’idea della sicurezza in tempi difficili, ma anche dalla pura e semplice tentazione di una vita degna: tre pasti abbondanti al giorno, un impiego decoroso, un tetto sopra la testa, un dottore per i bambini e la consapevolezza che tutto ciò non potesse venir tolto da uno schiocco di dita o dal ticchettio della teleborsa."

I dimenticati di Tim Tzouliadis: la storia degli americani che credettero in Stalin. Longanesi pubblica un denso saggio sulle vicende degli americani che partirono alla volta dell’Unione Sovietica, finendo presto vittime della repressione stalinista. Sembrerà strano, ma negli anni in cui si radicava nell’Occidente l’american dream, nella stessa America si diffondeva un altro sogno, quello russo. Non era pregno di libertà e di merito, ma di uguaglianza ed equità, e si fondava anch’esso sul lavoro. A quel sogno, decine di migliaia di americani credettero, specie nel torno di anni che fecero sprofondare l’America nella Grande Depressione. Incoraggiati da cronisti e scrittori (tra tutti, George Bernard Shaw) all’inizio degli anni Trenta, e per ogni settimana, sbarcarono così nell’universo sovietico almeno un migliaio di cittadini statunitensi. Portarono il baseball e iniziarono a integrarsi con entusiasmo, ma presto con quell’entusiasmo evaporò. L’Unione sovietica era la terra in cui neri e bianchi venivano tratti allo stesso modo, ma in cui gli americani presto vennero trattati da nemici, o meglio da prigionieri. Il racconto di uno spaccato quasi mai solcato dalla pubblicistica è ora al centro di un bel saggio, firmato da Tim Tzouliadis e pubblicato da Longanesi. Si intitola I dimenticati e racconta appunto la storia degli americani che credettero in Stalin. È un libro denso, molto documentato (oltre cento le pagine di bibliografia) e ha per protagonisti due giocatori di baseball sbarcati in Russia con provenienza Oltreoceano. Ma ha soprattutto il pregio di rievocare un sogno, pieno di ingenuità e di idealismo, che si trasformò presto nelle sabbie mobili di ingiustizie trascorse all’ombra di campi concentrazionari.

Recensione: I Dimenticati – Storia degli Americani che credettero in Stalin. “I Dimenticati – Storia degli Americani che credettero in Stalin”, titolo originale: “The Forsaken”, di Tim Tzouliadis, editrice Longanesi, traduzione di Corrado Piazzetta. Non siamo abituati a pensare che l’ex Unione Sovietica fosse, nei suoi primi decenni di vita, meta di un significativo flusso migratorio dall’estero. Furono quindi accolti, non solo i molti intellettuali simpatizzanti dell’ideale comunista, ma anche un non trascurabile numero di lavoratori, accompagnati dalle loro famiglie che credevano realmente nella capacità del nuovo sistema di offrire migliori possibilità di progresso economico e sociale rispetto a quanto fosse possibile nei rispettivi luoghi di origine. Anche dagli USA, durante la fase più acuta della Grande Depressione partirono molte migliaia di cittadini americani in cerca di fortuna; in parte lo fecero per motivi ideologici, ma i più lo fecero perché delusi dal fallimento del “sogno americano”, nella genuina speranza di sfuggire alla miseria e alla disoccupazione e attratti dalle lusinghe di un regime che prometteva lavoro, progresso sociale e prosperità. I destini di questi uomini e delle loro famiglie finirono per accomunarsi con quello degli altri cittadini sovietici che, a milioni, finirono stritolati dal “Terrore” staliniano. L’Autore ricorda la storia e le incredibili e tragiche traversie di alcuni di loro in un libro che, personalmente, ho trovato bellissimo, spaventoso, coinvolgente e sconvolgente e che riesce a ricostruire efficacemente le immagini, le violenze fisiche e psicologiche, il contesto storico, i personaggi coinvolti, le enormi responsabilità e le complicità che permisero di portare a termine, avallare ed anche a passare sotto silenzio le purghe staliniane, uno dei peggiori eventi criminosi del ventesimo secolo, fino alla morte del dittatore Joseph Vissarionovich Dzhugashvili Stalin. Non si parla evidentemente dei soli protagonisti sovietici, ma anche di tutti quegli americani (e non solo) più o meno potenti che sapevano o sospettavano ma che si rifiutarono di intervenire persino in quei casi in cui le purghe coinvolsero i propri connazionali. La galleria del cinismo, dell’ignoranza ed anche solo della stupidità e della superficialità è lunghissima nonché davvero inquietante perché coinvolge non solo centinaia di figure più o meno di spicco fra i politici, gli addetti ai servizi di sicurezza, gli intellettuali, i giornalisti, i sindacalisti e gli artisti, ma arriva fino ai vertici del potere a partire dal presidente Franklin D. Roosevelt, dal suo successore Harry Truman, dal vice-presidente Henry Wallace, dal segretario del Tesoro in carica durante il New Deal Henry Morgenthau, includendo l’allora ambasciatore a Mosca Joseph Davies, insieme ad industriali del calibro di Henry Ford e icone del giornalismo come Walter Duranty. Fra i personaggi famosi pochissimi dei nomi citati ne escono con la testa alta o almeno con ampie attenuanti, fra questi, ho avuto il piacere di vedere citato lo scrittore John Steinbeck che, seppur inizialmente simpatizzante dell’esperimento comunista, ebbe il coraggio di ricredersi di fronte ai crimini dello stalinismo; anche Winston Churchill, in fondo riesce a non sfigurare, il vecchio, cinico, pragmatico, caustico politico inglese, di fronte a Stalin, e contrariamente a Roosevelt, mai si illuderà di aver di fronte di più che un miserabile, rozzo assassino.

La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo di Dario Fertilio. Editore: Marsilio. Anno edizione: 2004. Qual è la verità sui genocidi comunisti nella storia del Novecento? Quale prezzo hanno pagato gli italiani? Venti racconti in cui criminali e persone perbene, figli della buona società e disperati, sadici e idealisti, avventurieri e vittime incolpevoli, uomini cinici e donne innamorate, sono tutti travolti dalla carovana assurda del Terrore Rosso. Ogni storia è ambientata in un luogo differente, per ognuna bisogna aspettarsi un colpo di scena, una rivelazione drammatica, una soluzione aperta. Di tanto in tanto, si fa sentire la voce dell'autore: a ricordare che i tempi sono spietati e la resa dei conti arriva per tutti. Che posto occupa, nell’album della memoria, la Morte rossa? Qual è la verità sui genocidi comunisti nella storia del Novecento? Quale prezzo hanno pagato gli italiani? A questi interrogativi rispondono venti racconti. Vi si incontrano criminali e persone per bene, figli della buona società e disperati, sadici e idealisti, avventurieri e vittime incolpevoli, uomini cinici e donne innamorate, tutti quanti travolti dalla carovana assurda del Terrore Rosso. L’autore, Dario Fertilio, insegue i suoi personaggi in svariate parti del mondo, dalle pianure ghiacciate siberiane alle praterie kazake, dalle nebbie padane alle notti moscovite, per giungere fino alle coste dalmate e albanesi, alle città del Centro Europa, prolungando infine la corsa ancora più lontano, in America e Australia, dove alcuni perseguitati hanno cercato scampo. Il nucleo storico di ogni racconto è autentico, ma l’autore sa bene che interpretare i fatti significa ricrearli, far sì che ognuno vi si possa identificare. Avviene così che, a differenza delle classiche narrazioni sui lager nazisti o sovietici, nella Morte rossa i punti di vista dei personaggi siano apparentemente marginali ed eccentrici, i tempi dei racconti si spostino in avanti o indietro, e le chiavi di lettura siano molteplici. Ogni storia è ambientata in un luogo differente, per ognuna bisogna aspettarsi un colpo di scena, una rivelazione drammatica, una soluzione aperta. Di tanto in tanto, si fa sentire la voce dell’autore: a ricordare che i tempi sono spietati e la resa dei conti arriva per tutti. Dario Fertilio, giornalista al "Corriere della Sera", è autore di saggi e romanzi. I temi conduttori dei suoi libri sono la ribellione contro il potere ingiusto e l’autoritarismo, la libertà di comunicare, il coraggio di amare. Alcuni dei suoi libri sono dedicati al mondo degli intellettuali e alla comunicazione (Il Grande Cervello, Le notizie del diavolo), altri ai valori e agli ideali (Il fantasma della libertà), altri ancora al dibattito delle idee (Arrembaggi e pensieri, conversazione con Enzo Bettiza). Nel romanzo surreale Teste a pera e teste a mela l’accento cade sugli aspetti assurdi e inumani insiti in ogni pretesa ideologica. I racconti della Morte rossa riprendono il tema della minaccia totalitaria come intimidazione fisica, corruzione morale e costruzione menzognera. Dario Fertilio, insieme con l’intellettuale russo Vladimir Bukovskij, ha lanciato l’idea del "Memento Gulag", la giornata per ricordare le vittime dei genocidi comunisti, che si celebra il 7 novembre. 23/9/2016 – Lo scrittore Dario Fertilio, autore fra l’altro di Musica per Lupi (storia di un esperimento di annientamento umano nella Romania dei primi anni 50) e dell’Ultima Note dei fratelli Cervi, torna a Reggio Emilia per un incontro dedicato a uno dei suoi libri più conosciuti e che resiste da anni negli scaffali delle librerie, per il suo contenuto sempre attuale. E’ “La morte rossa. Storia di italiani vittime del comunismo”, edito da Marsilio.

“La morte rossa” consiste in venti racconti su altrettante vite spezzate, in gran parte giovani anarchici italiani che negli anni ’30 e ’40 cercarono o sognarono l’Unione Sovietica come il paradiso in terra. Pagarono con la vitauna mezza frase contro Stalin, o semplicemente il fatto di essere italiani. In alcuni caso non seppero neppure perché venivano ammazzati. Nella galleria allestita da Dario Fertilio ci sono comunisti italiani sparivano nel nulla dei gulag siberiani perché accusati dai sovietici di essere anti-stalinisti; ma anche comunisti italiani che si spegnevano dei gulag di Tito perché accusati dagli Jugoslavi di essere filo-stalinisti. Poi ci sono i preti spariti nel nulla dell’Albania di Enver Hoxha perché preti, e le storie degli assassinati in Italia, nel triangolo della morte emiliano, che qui si contano a centinaia: una strage degli innocenti per la quale comunisti ed ex comunisti di Reggio Emilia, con poche eccezioni, non hanno chiesto nemmeno scusa.

LA MORTE ROSSA. STORIE DI ITALIANI VITTIME DEL COMUNISMO (Il Corriere del Sud) Scritto il 30 Novembre 2004 da Cavallo Roberto. “La morte rossa” (Dario Fertilio, Marsilio Editori S.p.A., Venezia, 2004, pagg.375) nasce da un’intuizione straordinaria. Finchè si parlerà delle vittime del comunismo in termini puramente generali, non si potrà comprendere a sufficienza l’abisso di orrore che esso ha rappresentato per milioni di uomini e di donne. Come le memorie di Anna Frank hanno aperto non solo le coscienze ma anche i cuori e la sensibilità di intere generazioni sui crimini del nazismo, così le singole storie di vita, spezzate e distrutte dal comunismo, aiuteranno a gettare un po’ di luce sulla più grande utopia istituzionalizzata che la storia dell’umanità abbia mai sperimentato. L’assurdità dei nostri tempi, infatti, consiste nel fatto che mentre sessanta anni di educazione civica e storica hanno portato alla generale esecrazione del nazismo, non altrettanto è avvenuto o sta avvenendo per il comunismo. Anche se, come noto, a voler fare un bilancio puramente quantitativo le vittime del socialcomunismo ammontano a 100 milioni contro i 6 milioni del nazismo. Non solo. In Cina, nella Corea del Nord, a Cuba, le prigioni conoscono ancora detenuti per reati di opinione o di professione religiosa. In Cina e in Corea del Nord i campi di “rieducazione al marxismo” funzionano a pieno ritmo. Nonostante tutto ciò, l’Autore nota come possa accadere di frequente che in un mercatino di Praga o di qualche altra capitale dell’Est la gente con naturalezza si fermi ad acquistare gadget riproducenti simboli del vecchio potere sovietico, per non parlare di magliettine con il volto austero del Che. Evidentemente la gente comune avverte in modo completamente differente le due ideologie mai infatti si sognerebbe di fare simili compere con l’armamentario del nazional-socialismo! Diverso dunque è l’approccio culturale con cui la scuola, i mass media e l’intellighenzia in generale affrontano il comunismo – con un’intentio absolvendi – e il nazismo – con un’intentio damnandi -. La postfazione del libro, a cura di Frediano Sessi, va al cuore del problema: perchè questo diverso atteggiamento? Il comunismo sembra fondarsi su un’ideologia universalistica e umanitaria, anelante alla felicità dell’umanità, e questo per molti è bastato, e basta, a salvare il “buon proposito” dalle sue realizzazioni pratiche, considerate semplicisticamente come deviazioni. In realtà proprio queste “deviazioni”, rispetto ad una presunta utopia “buona”, costituiscono l’essenza di ogni socialismo di stampo marxista. Il comunismo, infatti, dovunque e in qualunque tempo per affermarsi ha avuto bisogno di un nemico da abbattere. La vittoria dell’utopia è passata innanzitutto per la disfatta e l’eliminazione fisica di una parte del popolo (cento milioni?), definito di volta in volta come “borghese”, “traditore”, “reazionario”. Questo falso umanitarismo ha ingannato molte persone in buona fede, non solo indebolendo la reazione di chi comunista non lo è mai stato ma anche trascinando nel vortice ideologico le vite di tanti giovani sognatori. “La morte rossa” è una galleria di venti vite spezzate, quasi tutti giovani anarchici italiani, che negli anni ’30 e ’40 cercarono o sognarono l’Unione Sovietica come il paradiso in terra. A volte non seppero neanche il perchè della loro condanna: una mezza frase contro Stalin o semplicemente il fatto di essere Italiani. Comunisti italiani sparivano nel nulla dei gulag siberiani perchè accusati dai sovietici di essere anti-stalinisti; comunisti italiani finivano nel nulla dei gulag adriatici perchè accusati dagli Jugoslavi di essere filo-stalinisti. Preti spariti nel nulla dell’Albania di Enver Hoxha perchè preti, e per di più italiani. E poi ci sono le storie di quelli assassinati in Italia, dai partigiani nel triangolo rosso dell’Emilia. Nel viaggio verso il buio questi uomini spesso furono accompagnati dalle loro donne, colpevoli solo di aver amato l’uomo sbagliato. E’ un libro terribile ma importante quello di Dario Fertilio, perchè consente al lettore non soltanto di comprendere, ma di “sentire” l’odore, macabro, della morte rossa. Che, in fondo, non è tanto diversa da quella “bruna” dei nazionalsocialisti, perchè se il male estremo esiste” allora potrebbe essersi servito del comunismo o del nazismo allo scopo di realizzare i suoi progetti distruttivi. Questo spiegherebbe perchè, dentro ai gulag e ai lager, la ferocia alla fine sia degenerata, scalando picchi estremi di crudeltà assoluta, in realtà senza scopo. Forse non c’era altro obiettivo, nei piani di sterminio, se non l’annientamento del bene”.

Roberto Cavallo.

Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca. Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky. Editore: Il Mulino. Anno edizione: 2007. Questo studio affronta uno dei temi più spinosi e discussi nella storia dell'Italia repubblicana: il rapporto tra il PCI e l'URSS durante la guerra e il primo dopoguerra. Il libro si avvale di un'importante documentazione di parte sovietica; da questa, e soprattutto dai resoconti degli incontri di Togliatti e degli altri dirigenti del PCI con l'ambasciatore sovietico a Roma, emerge un quadro stupefacente dell'allineamento del partito italiano agli obiettivi della politica estera sovietica. Pubblicato con grande successo nel 1997, premio Acqui Storia nel 1998, il libro viene ripresentato oggi in un'edizione profondamente rivista e ampliata.

Togliatti e Stalin. Comunisti traditi da Stalin e da Togliatti. Nell’indifferenza del segretario Pci, “sparirono” in Urss centinaia di italiani, scrive il 17 Settembre2013 "Tempi". Quando era a Mosca, Togliatti non fece nulla per i suoi compagni perseguitati. Ritornato in Italia disse che bisognava «dimenticare». La storia delle vittime comuniste di Stalin raccontata da Arrigo Petacco. «Non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. E io che sognavo una morte gloriosa all’ombra di quella bandiera per cui ho dato e sono pronto a dare la vita! Mi trovo nella regione più infame che ci sia: 40 gradi di freddo e manca tutto. Guai se mi mettessi a raccontare quello che mi capita… ti pare giusto arrestare altri dieci italiani solo perché erano miei amici, e tre operai russi che della mia questione non sanno nulla?». Lo scrive da un gulag sovietico alla moglie Angelina, Luigi Calligaris, un confinato di Ponza, un’antifascista e poi vittima del comunismo. Nel libro A Mosca, solo andata, recensito oggi sul Corriere della Sera da Aldo Cazzullo, lo storico Arrigo Petacco racconta le vite di alcuni italiani come Calligaris, rimaste vittime dell’ideologia comunista che avevano abbracciato. «Angelina mia – supplica Calligaris – anche se non dovessi più scrivere, fin quando hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. Scrivi alla Croce Rossa, a Parigi, va a Roma dall’ambasciatore russo e insisti per sapere cosa hanno fatto di me. È il grido disperato di un comunista che, dopo avere visto la morte sui campi di battaglia della guerra imperialista e della lotta politica, non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli». Angoscia «non immotivata», ricorda Cazzullo. «Non era solo la prospettiva della persecuzione, dell’arresto, della tortura, della morte a terrorizzare i comunisti italiani» “riparati” in «Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura del fascismo», ma «la prospettiva di non lasciare traccia, di sparire nel nulla». «Di Calligaris, infatti non si è saputo più nulla. Come lui, prosegue Cazzullo, finirono agli arresti altre centinaia di comunisti italiani, di cui non si è saputo nulla. Furono perseguitati nell’indifferenza di Palmiro Togliatti. Il segretario del Partito comunista italiano, allora a Mosca, benché avesse l’autorità per farlo, non mosse un dito per salvare la vita di Calligaris e degli altri compagni. Morto Stalin, chiesero a Togliatti di riabilitare la memoria di un centinaio di compagni. La sua risposta fu netta: «Queste sono cose da dimenticare». Cazzullo ricorda anche Ezio Biondini, un ragazzo che nel 1924 aveva issato una bandiera rossa sul castello di Udine. La sua sorte «fu terribile». «Condannato ai lavori forzati in Siberia, ricondannato a fine pena, condannato per una terza volta, liberato nel 1946, tornato a Mosca nel 1950, arrestato per aver chiesto il rimpatrio all’ambasciata italiana, si vide infliggere altri 25 anni di lavori forzati». Morì poco dopo nel gulag. La paranoia del partito colpì anche il gorgonzola. «Andrea Bertazzoni, alias Mukas, specialista caseario di Mantova messo a capo di un kolchoz agricolo di Rostov che produceva formaggi». Bertazzoni ebbe la malaugurata idea di voler far conoscere ai comunisti russi il gorgonzola. Un giorno, «sorpreso mentre iniettava la muffa nella pasta, fu creduto un sabotatore, torturato, condannato a morte». Riuscì a salvarsi dal plotone d’esecuzione solo grazie all’intervento del commissario agli Esteri Maksim Litvinov che in un viaggio in Italia aveva apprezzato il formaggio “sabotato”.

Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata di Mauro Canali. Editore: Marsilio. Anno edizione: 2013. Malgrado i tre quarti di secolo trascorsi ormai dalla sua morte, su Antonio Gramsci si continua a scrivere molto. Fu sempre Togliatti, finché fu in vita, a decidere cosa rendere pubblico dell'opera e della storia del leader sardo. Solo grazie a dirigenti comunisti "eretici" o espulsi qualcosa riuscì a trapelare. Scomparso Togliatti, non fu comunque ancora possibile affermare esplicitamente che nell'ottobre del 1926 la rottura tra Gramsci e Togliatti ci fu e fu radicale. Si è dovuto attendere oltre settant’anni dalla morte di Gramsci, e molto tempo dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del PCI, per giungere alla verità. Mauro Canali la ricostruisce e fa chiarezza sulle ragioni, le complicità, i tentativi della cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, per portare a galla i fatti, i mezzi con cui Togliatti riuscì a legittimarsi come assertore del pensiero gramsciano, e perciò suo naturale erede politico, e a dissimulare, nel contempo, la persistente fedeltà allo stato Sovietico dietro la parola d'ordine, mutuata dalle riflessioni gramsciane, della "via nazionale al socialismo". Questo libro scopre le carte e permette di passare dall'immagine del Gramsci "togliattiano" alla realtà che emerge dalla documentazione, in buona parte inedita, proveniente dal fondo Gramsci conservato negli archivi russi. La personalità di Togliatti che affiora dalla vicenda Gramsci è quella di un uomo politico intelligente quanto scaltro.

Gramsci tradito due volte: da Ignazio Silone e Palmiro Togliatti. Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista, tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto essergli amico. Di Dino Messina da La Nostra Storia del 18 novembre 2013. È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo saggio dello storico Mauro Canali, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata”, appena edito da Marsilio (pagine 257, euro 19,50). Canali, studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per esempio nelle opere “Il delitto Matteotti” e “Le spie del regime” (edite entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del comunismo italiano. Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali. Innanzitutto lo studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo, interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro politico. Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista. Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la «democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni, fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da un anno e mezzo. Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative (anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva interesse a tenerlo dentro. Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias «Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò fondamentalmente sulle accuse di Bellone. Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926, omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto del partito. Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937, la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti. Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive. La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia furono la salvezza per Togliatti. Nel dopoguerra cominciò la gestione dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione, con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci». Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista, tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto essergli amico. È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo saggio dello storico Mauro Canali, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata”, appena edito da Marsilio (pagine 257, euro 19,50). Canali, studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per esempio nelle opere “Il delitto Matteotti” e “Le spie del regime” (edite entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del comunismo italiano. Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali. Innanzitutto lo studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo, interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro politico. Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista. Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la «democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni, fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da un anno e mezzo. Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative (anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva interesse a tenerlo dentro. Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias «Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò fondamentalmente sulle accuse di Bellone. Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926, omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto del partito. Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937, la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti. Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive. La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia furono la salvezza per Togliatti. Nel dopoguerra cominciò la gestione dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione, con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci».

Gramsci tradito da Togliatti, una tesi che fa male. Mauro Canali risponde ad Antonio Di Meo, scrive Dino Messina il 24 dicembre 2014 su “Il Corriere della Sera”. Palmiro Togliatti (1893-1964) - Antonio Gramsci (1891-1937). Ospito oggi un articolo dello storico Mauro Canali che ha pubblicato di recente un saggio bello e scomodo, “Il tradimento – Gramsci, Togliatti e la verità negata” (Marsilio). Qui risponde alle critiche di Antonio Di Meo, pubblicate come commento alla mia recensione del volume. Facendo ricorso a un linguaggio che sfiora talvolta l’insolenza, Antonio Di Meo ha inondato della sua prosa bellicosa quei siti e fogli in cui sono apparse recensioni al mio lavoro, con l’evidente intenzione d’intrecciare con me una focosa polemica, dalla quale tuttavia mi terrò, dopo questa doverosa risposta, ben alla larga, poiché colgo, nelle modalità dialettiche a cui egli si appiglia un misto di furbo ‘togliattismo’ omissivo e ipocrita, e di sicumera da funzionario burocrate di una vecchia sezione comunista. Dunque Di Meo sostiene che se Togliatti fosse stato un vero ‘occultatore’ di Gramsci avrebbe fatto sparire i Quaderni e gli scritti del leader sardo, e conclude quindi che senza Togliatti non ci sarebbe stato Gramsci. Evidentemente egli ignora, o finge di ignorare, il contesto in cui si rendeva necessario l’uso del lavoro di Gramsci. In poche parole ignora, o finge di ignorare, la stringente necessità politica che indusse Togliatti a dare ampia notorietà e diffusione al pensiero gramsciano ‘censurato’ e ‘manipolato’. Potrebbe capirlo se capovolgesse il suo ragionamento, poiché gli sarebbe allora più evidente una verità incontestabile, cioè che senza Gramsci e il suo grande lavoro teorico difficilmente Togliatti e il gruppo dirigente del Pci di ritorno da Mosca avrebbero potuto godere del prestigio di cui godettero. Cosa sarebbe stata la proposta politica del Pci del dopoguerra senza il monumentale apporto teorico di Gramsci, l’unico marxista che proponeva una via al socialismo nei paesi occidentali? Irrilevante. La notoria doppiezza di Togliatti avrebbe potuto al massimo formulare una furba variante ‘italica’ del socialismo sovietico. Per giustificare la evidente manipolazione da parte di Togliatti delle opere di Gramsci, Di Meo avanza una curiosa e inedita spiegazione, e cioè che il problema di Togliatti sarebbe stato quello di far digerire gradualmente il pensiero gramsciano a un partito refrattario e largamente stalinista. Una spiegazione che urta fatalmente nella oggettività della vicenda intellettuale e politica di Gramsci. Ad esempio, come far rientrare in questa strategia il tentativo di nascondere la rottura avvenuta tra Gramsci e Togliatti nel 1926, che si conobbe non per iniziativa di Togliatti o dei “chierici” del Pci, ma solo grazie alla pubblicazione da parte di Tasca, espulso da Togliatti per essersi schierato contro alcune tesi staliniane? Ancora: come spiegare le Lettere dal carcere pubblicate nel 1947, massacrate dai feroci interventi censori togliattiani, (gli omissis di Felice Platone, imbeccato da Togliatti, hanno rappresentate una vera tragedia per la cultura politica italiana e per tutta la sinistra), che Di Meo definisce pudicamente “rimozioni”? Le omissioni riguardavano passaggi importanti del pensiero gramsciano, riferimenti a dirigenti della sinistra allora messi alla gogna dallo stalinismo, ma, soprattutto, lettere imbarazzanti come quelle tra il dicembre 1932 e il febbraio 1933, in cui Gramsci indica in Togliatti l’architetto delle macchinazioni a suo danno. La gravità delle omissioni è testimoniata dalla reazione di Leonardo Paggi, raffinato studioso di Gramsci, il quale, quando, nel 1965, con Togliatti ormai defunto, poté leggere la versione integrale delle lettere, accertando le mutilazioni che avevano alterato in profondità le riflessioni gramsciane, concluse senza indugio che, senza alcun dubbio, v’era stata da parte di Gramsci “una vera e propria rottura con il centro del partito”. Ancora: come giudicare la manovra, ispirata da Togliatti, come rivela il documento pubblicato nel volume Togliatti editore di Gramsci (p.123), e condotta da Ambrogio Donini, il primo presidente dell’Istituto Gramsci, stalinista di ferro, il quale decideva di nascondere, – ripeto, consenziente Togliatti – la presenza tra le letture del detenuto Gramsci delle opere di Trockij, di Bucharin e di Tasca, ai quali, scrive Donini a Togliatti, con una punta di grossolana ironia staliniana, “avremmo dato attraverso questa menzione un’inutile pubblicità”? Importante era nascondere che l’eretico Gramsci leggesse in carcere anche le opere dei ‘rinnegati’ Trockij, Bucharin e Tasca. Ancora: il memoriale Lisa, il documento che testimoniava inequivocabilmente la rottura di Gramsci con un Comintern ormai dominato dalla linea imposta da Stalin e di cui Togliatti era divenuto uno zelante sostenitore, e, con lui tutto il gruppo dirigente comunista italiano esule. Il documento venne pubblicato solo dopo la morte di Togliatti, così che si poté venire a conoscenza della rottura Gramsci-Comintern solo trent’anni dopo la morte del grande pensatore sardo. E’ evidente che tutto ciò può trovare una spiegazione adeguata solo nella manovra togliattiana d’imporre e difendere la strategia della continuità Gramsci-Togliatti, e che, se tali eventi conflittuali fossero stati resi noti avrebbero fatto saltare tutta l’operazione. Di Meo fa inoltre intendere che Togliatti sarebbe stato in grado di elaborare la “via nazionale al socialismo” anche senza l’apporto teorico di Gramsci. Ma via, caro Di Meo! Lei sa bene che in tutta la produzione politica di Togliatti negli anni Trenta, (cfr. l’Opera omnia curata da Ernesto Ragionieri), non vi è un barlume di pensiero che richiami gli approdi teorici gramsciani, e che si distacchi dalla assoluta e costante fedeltà al modello staliniano, difeso da Togliatti fino addirittura al XX congresso del Pcus (quello delle denunzie da parte di Kruscev dei crimini staliniani). Del resto vi è un documento importante che consente di leggere tra le righe, sin dall’origine, i motivi che avrebbero ispirato in seguito l’azione censoria di Togliatti, in questa occasione sorpreso con le mani nel sacco. Si tratta di una lettera di Togliatti a Dimitrov di epoca non sospetta (aprile 1941); il ‘Migliore’ scrive, dopo avere esaminato i quaderni gramsciani, che essi “contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato ed anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito (corsivo nell’originale). Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato” (Togliatti editore di Gramsci, p. 25). Cosa poteva già da allora preoccupare Togliatti, se non che venisse reso pubblico un pensiero di Gramsci ormai del tutto divergente dal suo e dall’indirizzo da lui impresso alla linea politica del partito? Del resto lo stesso Gramsci, a testimonianza della diffidenza che nutriva verso Togliatti, aveva paventato il pericolo di manomissioni ai suoi scritti, quando, ormai morente, aveva pregato sua cognata d’impedire che essi finissero nelle mani di Togliatti. Per spiegare dinamiche così gravi, Di Meo si rifugia in termini anodini, che dal punto di vista storiografico non vogliono dire nulla, come “riservatezza”, “prudenze, reticenze, rimozioni”. Infine, mi stupisce che Di Meo mi accusi di aver manifestato nei riguardi del povero Togliatti diffidenza e sospettosità preconcetta. Credo che abbia sbagliato indirizzo, e che quei rimproveri avrebbe dovuto muoverli a Gramsci, perché è Gramsci in persona, come è ormai arcinoto e documentato, che accusa Togliatti, manifestando nei suoi confronti tutta la sua diffidenza e sospettosità. Ma Di Meo si guarda bene dallo sfiorare questo argomento, perché le accuse di Gramsci indirizzate a Togliatti continuano a rappresentare per i sopravvissuti ‘togliattiani’ una questione assai imbarazzante.

Togliatti ha tradito Gramsci: ecco le carte che lo provano. Un importante libro di Mauro Canali, basato su ricerche d'archivio, testimonia che il leader sardo fu abbandonato e osteggiato da Palmiro, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 15/11/2013, su "Il Giornale". Antonio Gramsci fu arrestato la notte dell'8 novembre 1926 a Roma dove viveva, in affitto, nella casa di due anziani coniugi, Giorgio e Clara Passarge, legati da rapporti di amicizia con Carmine Senise, già allora alto funzionario del ministero dell'Interno. Iniziò, così, il lungo calvario dell'esponente comunista tra confino e carcere. A quell'epoca i suoi rapporti con Palmiro Togliatti si erano già deteriorati. Sullo sfondo c'era lo scontro di potere all'interno del gruppo dirigente bolscevico dopo la morte di Lenin: Stalin e Bucharin, da una parte, Trockij, Zinoviev e Kamenev, dall'altra. Gramsci aveva inviato a Togliatti, rappresentante del Pcd'I nella III internazionale, un documento per i dirigenti sovietici nel quale lasciava trapelare il suo dissenso per il comportamento della maggioranza staliniana del Comitato Centrale del Pcus nei confronti dell'opposizione e auspicava un riavvicinamento ideologico con personalità che godevano di prestigio mondiale e andavano annoverate fra i «nostri maestri». Togliatti, già folgorato dalla stella di Stalin, non consegnò il documento ritenendolo inopportuno ed ebbe con Gramsci un duro scambio di lettere. Fu il primo tradimento nei confronti di Gramsci. Non fu, però, il solo, come documenta un importante lavoro di Mauro Canali intitolato Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata (Marsilio, pagg. 256, Euro 19,50) e frutto di una capillare e puntigliosa ricerca archivistica. Subentrato a Gramsci nella guida del Pcd'I, Togliatti fece imboccare al partito la strada della subordinazione allo stalinismo e di un sostanziale disinteresse per la sorte del leader comunista, il quale cominciò a nutrire dubbi e sospetti su di lui. Nel febbraio del 1928, a istruttoria ancora aperta, Gramsci, detenuto a San Vittore in attesa di giudizio, ricevette da Ruggero Grieco una lettera che lasciava intendere com'egli fosse il capo del partito e avvalorava di fatto le accuse. Il giudice istruttore la commentò così: «onorevole, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Quella lettera non fu un gesto di leggerezza o di stupidità, ma, per usare le parole di Gramsci, un «atto scellerato», dietro il quale si poteva supporre una subdola mano ispiratrice. Che fosse quella di Togliatti, Gramsci lo sospettò subito e lo fece notare alla cognata Tatiana sostenendo che la lettera non era «tutta farina del sacco di Grieco». Anni dopo, egli avrebbe ribadito all'economista Piero Sraffa i suoi sospetti sulla responsabilità di Togliatti sia nella vicenda della lettera che aveva aggravato la sua situazione processuale sia nel boicottaggio alle trattative per la sua liberazione avviate dal governo sovietico con l'intermediazione di padre Tacchi Venturi. Poi giunsero la «svolta» del 1930 decisa da Togliatti, Longo e Secchia in ossequio alle direttive della III Internazionale, l'espulsione di Bordiga, Tresso, Leonetti e Ravazzoli dal partito e la campagna contro il «socialfascismo». Dal carcere Gramsci lanciò la proposta di una Costituente antifascista per una mobilitazione congiunta di comunisti e socialisti. Le strade di Togliatti e di Gramsci erano ormai divaricate. Del resto poco aveva fatto il partito per il detenuto se non mandargli qualche finanziamento che la cognata Tatiana otteneva tramite un misterioso personaggio, «linge», che Canali ha identificato in Riccardo Lombardi, il futuro esponente del Partito d'Azione e, poi, nell'Italia repubblicana, del Psi. Il dissenso di Gramsci nei confronti del partito trovò riscontro nel suo isolamento. I compagni incarcerati lo evitavano e lo guardavano con ostilità. Su questo punto c'è una testimonianza di Sandro Pertini che ricordò un episodio avvenuto in una fredda giornata invernale quando, dopo una nevicata, i carcerati si misero a tirare palle di neve. Racconta Pertini: «una palla s'infranse sul muro al quale Gramsci si appoggiava, e ne uscì fuori un sasso. Io gli ero accanto e lo udii dire: Avevano messo un sasso nella palla di neve per colpire me». È un episodio più che eloquente sull'isolamento di Gramsci. Eppure, gli studiosi comunisti continuarono a ribadire, nel dopoguerra, l'esistenza di un rapporto organico fra Gramsci e il partito, fino al punto da sostenere che egli inoltrò la domanda di libertà condizionale seguendo le direttive dei vertici del partito. Canali dimostra, carte alla mano, che le cose andarono diversamente: non fu Gramsci a «rispettare le norme indicate dal partito», ma, fu, viceversa, «il partito a rincorrere l'iniziativa di Gramsci, per non farsi trovare spiazzato» da una decisione «presa in assoluta autonomia». C'era una logica nella negazione della verità. Era necessario occultare e rimuovere l'eterodossia di Gramsci per poter affermare, nell'Italia postfascista, l'esistenza di una linea di continuità Gramsci-Togliatti che consolidasse la rappresentazione mitica e unitaria della storia del Pci. Il regista di questa operazione fu lo stesso Togliatti che fece un uso strumentale, certo funzionale ai suoi disegni politici, degli scritti gramsciani, i Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, gestendone la pubblicazione destrutturata e mutilata. Fu, in sostanza, come dimostra il libro di Canali, proprio Palmiro Togliatti, scaltro e intelligente, a operare il «tradimento» di Antonio Gramsci e del suo pensiero.

Gramsci contro Mussolini e Stalin, scrive Riccardo Bruno il 20/06/2007.

“Veggiam, come quel c'ha mala luce,

le cose”, disse, “che ne son lontano;

cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s'apprestano o son, tutto è vano

nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,

nulla sapem di vostro stato umano”.

Antonio Gramsci che dal carcere cita Dante, il decimo canto dell’Inferno, quello di Cavalcante e Farinata.  Rimiscenze letterarie? Mica tanto. Piuttosto la descrizione del suo stato di carcerato ai compagni del partito, un’ombra distante a se stesso e agli altri, preoccupato dei suoi affetti, più ancora che delle vicende politiche. È tragica la condizione umana di Gramsci nelle galere fasciste e lo sapevamo, ma è tragica anche la sua condizione politica nei confronti del suo stesso partito, che più che come Cavalcante, a cui Gramsci invece si sente vicino, lo vorrebbe rappresentare come Farinata, il fiero eroe ghibellino che non rinuncia alla sua maschera nemmeno da morto. È un libro molto importante quello, edito dalla Fazi Editori, di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, “Gramsci tra Mussolini e Stalin”, perché fa piena luce sui rapporti fra Gramsci e Togliatti dopo più di sessant’anni di equivoci e polemiche. È vero che già la biografia di Giuseppe Fiori, “la vita di Gramsci” e più recentemente “Antigone ed il prigioniero” di Aldo Natoli, avevano dato una luce diversa della figura politica di Gramsci. Ma la prima fu contestata dallo stesso Luigi Longo, la seconda sembrava una provocazione, mentre lo studio di Vacca, che oltretutto presiede la prestigiosa Fondazione Gramsci, pone ufficialmente una pietra a favore della verità storica sul fondatore del Pci e dei suoi rapporti con il partito e Togliatti. Senza troppo girarci intorno, possiamo dire ora e con una certa tranquillità che Gramsci fu il primo e il più autorevole dissidente del partito da lui stesso voluto e creato. Il merito va dato a Silvio Pons che nel 2004, sulla base dei nuovi documenti ritrovati a Mosca fra le carte della segreteria Dimitrov, mise a fuoco “i termini della rottura di Gramsci con Togliatti”, di cui si può ancora discutere il momento in cui sia intervenuta, ma non certo più l’entità politica della stessa. È Giuseppe Vacca a riconoscerlo e non crediamo vi sia personalità più autorevole in materia. Anche all’Unità, senza troppo clamore se ne sono dovuti accorgere. Il nodo della questione politica è molto semplice: Gramsci non condivide le scelte politiche del Comintern. Anche qui Gramsci indugia sulle metafore, linguistiche, ancor prima che letterarie: “In questo momento mi interessa la questione se la lingua dei Niam Niam, che chiamano se stessi popolo dei Sandeh, mentre il nome Niam Niam è attribuito loro dai vicini Dinka, appartenga o no alla branca sudanese occidentale, anche se il territorio dove è parlata è posto nel Sudan orientale. Quindi se la classificazione delle lingue sia da fare meglio secondo la distribuzione geografica o secondo il processo storico di filiazione”. Così commenta Vacca le riflessioni gramsciane sul manuale filologico del Finck: “(è chiaro che) con la rivoluzione dall’alto l’Urss abbia scelto il paradigma geografico, imboccando la via di politica di potenza e imponendo ai partiti comunisti l’uniformità di uno schema che non consentiva loro di avere un ruolo politico nazionale”. Ma la critica era già stata aperta nel ’26, quando Gramsci contestando la dottrina del socialismo in un paese solo, fu sospettato di simpatie trotskiste, tanto da gettare sul partito comunista italiano presso la sede del Comintern un sospetto, “mai più venuto meno”, scrive Vacca, di “inaffidabilità”. Ora sarebbe da capire se con l’arresto di Gramsci e il suo isolamento il Pci si sia riscattato agli occhi dell’Urss staliniana. E ci sarebbe anche da chiedersi perché proprio Gramsci viene arrestato dalla polizia fascista prima di una riunione clandestina del vertice del partito, piuttosto che altri dirigenti. Ma per il momento possiamo attenerci alla realtà comprovata che il partito non si preoccupò più di tanto del ritorno in libertà di Gramsci che pure sarebbe stato possibile, o addirittura si frappose ad ogni utile tentativo. “Quello che da me non era stato preventivato – scrive Gramsci alla cognata Giulia il 19 maggio del ’27 – era l’altro carcere, che si è aggiunto al primo”. E ancora: “Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, non potevo preventivare che i colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti”. Il sospetto è che non ci sia solo l’isolamento politico, ma anche le pressioni del partito sulla moglie Tania, l’occhiuta vigilanza dell’amico Sraffa, per indebolire la tempra stessa del fondatore dell’Unità. Se si considera che il mito voleva Mussolini preoccupato di fermare il pensiero di Gramsci, l’attuale ricostruzione storica farebbe pensare che lo stesso Pci fosse molto più preoccupato. Tanto che il dittatore gli consente la lettura dell’opera di Trotsky e sembrerebbe propenso a un atto di Grazia se gentilmente richiesta, consapevole che Gramsci “rappresenta più un problema per Stalin che per Mussolini”. Mentre il partito di Togliatti, si adopererebbe per migliorare le condizioni di vita del prigioniero, ma non certo per farlo tornare in libertà. Il dissenso era ormai profondo, non solo sul ruolo sovietico, ma anche sull’analisi politica italiana, dove Gramsci tendeva a vedere nel fascismo un fenomeno di lunga durata, non certo capovolgibile con un vagheggiato moto rivoluzionario, come pure il Pci voleva far credere possibile. E del resto che ci fosse un problema di lettura della vita politica si capiva già dai Quaderni per quello che si conoscevano: quando Gramsci accusa la struttura partitica di burocratizzazione, “la cerniera” che invece di mediare, si contrappone, usa un linguaggio tipicamente trotskiano diretto contro gli apparati comunisti che hanno perso capacità di interpretare i fenomeni sociali e politici in corso e sono divenuti opachi. Vacca e Rossi non lasciano molti dubbi a riguardo: “Il cambiamento fondamentale intervenuto a condizionare il suo (di Gramsci) destino dopo l’arresto non può riguardare altro che il nuovo indirizzo politico dell’Urss staliniana: l’isolazionismo, la strategia ‘classe contro classe’, la ‘svolta’ del ’29-30. Sono tutti elementi che fanno di lui un ‘eretico’ alla cui liberazione il regime sovietico evidentemente non ha interesse; e ciò condiziona sia il comportamento di Giulia, sia l’azione del partito italiano”. In conclusione, potremmo anche limitarci a  dire che il grande partito comunista, di “Gramsci, Togliatti Longo, Berlinguer”, come si declinava negli slogan delle piazze degli anni ’70, era una bubbola enorme, se non altro per ciò che concerneva  la figura del suo fondatore. Ma non è questo il dato più importante della ricerca compiuta da Vacca e Rossi. Il PCI non esiste più da un bel bezzo. Ancora prima si era voluto mettere in soffitta Togliatti e il socialismo reale. Non c’era nemmeno bisogno di sottolineare come Gramsci fosse stato in crisi con il suo partito e l’Unione sovietica, perché appunto vi erano già elementi sufficienti in quegli anni per comprenderlo e senza aspettare l’apertura degli archivi sovietici. Semmai sarebbe interessante appurare o confutare storiograficamente, il dubbio, che il testo di Vacca e Rossi lascia, di una possibilità di denuncia da parte dello stesso partito comunista nei confronti di Gramsci verso la polizia fascista che lo trasse in arresto a Milano. Perché allora tanta dedizione alla ricostruzione puntata sulla rottura fra Gramsci e Togliatti a ridosso del 2008? È amore per la ricostruzione storica e per la verità, o vi è una qualche ragione politica? Abbiamo visto come la sinistra italiana, costretta a rinunciare alle sue ideologie voglia portarsi dietro almeno qualche testimone storico. In una recente reprimenda contro i Ds, ad esempio, Ezio Mauro scriveva che non si può tenere insieme Gramsci e Ricucci. Dunque chi ha frequentazioni con la sinistra tradizionale, sa che si può rinunciare a tutto, anche alle banche, ma non a Gramsci. Ed effettivamente l’antistalinismo, la rottura con Togliatti, l’odio del vertice del Pci nei suoi confronti, lo nobilita anche ai nostri occhi. Gramsci più che “tra Mussolini e Stalin”, era contro Mussolini e contro Stalin, come De Gasperi e Sforza. Perché non iscriverlo di diritto nel gotha del partito democratico, allora? È forse questo che si vuole dire? Il libro di Vacca e Rossi offre una figura nobilissima e tragica all’attenzione dei posteri. Strabiliamo, perché con tutto il rispetto per la qualità di pensiero, per la figura morale, per la lucidità e la sincerità ed anche il coraggio politico, Gramsci resta un marxista leninista della prima ora, per l’esattezza un trotzkista. E che vogliono fare nel partito democratico? Riservare un posto anche a Trotzky? Da Fazi Editore.

Furono Stalin e Togliatti a perseguitare i gay. Non il fascismo, scrive Giancarlo Lehner venerdì 8 aprile 2016. Poco tempo fa partecipai ad un convegno sulle unioni civili, non tanto perché l’argomento mi interessasse, bensì per solidarietà con gli organizzatori insultati e minacciati, risultando essi non in linea col pensiero unico del momento. Ebbene, così facendo, mi sono guadagnato parecchi paroloni in libertà da parte di quanti sostano pigramente nel giardinetto del politicamente corretto. Mi hanno dato, di passaggio, anche del fascista, la qualcosa se da un lato non mi sfiora, dall’altro, però, mi fornisce il grado della scala Mercalli dell’ignoranza di un certo antifascismo. Nell’Italia fascista, infatti, non c’è traccia di forsennate repressioni degli omosessuali – a parte la città di Catania – tant’è che nel codice Rocco nulla si dice a proposito di questo che, invece, in Stati liberaldemocratici costituiva grave fattispecie di reato. Per i pochi omosessuali oggetto di repressione – in 20 anni, 80 in tutto, di cui 42 a Catania – ma non puniti col carcere, bensì destinati al confino, scatta l’articolo sugli atti contrari alla pubblica decenza. Certo, il fascismo tende a nascondere l’omosessualità e, per non dover ammetterne l’esistenza anche fra i suoi ranghi, evitò di considerarla fenomeno sociale degno di specifica menzione nel codice. Del fascismo, insomma, tutto si può dire salvo che si distinse in maniera particolare nella discriminazione dell’altra sponda. L’equazione di Togliatti: pederasta uguale antisovietico. I miei detrattori avrebbero, invece, denotato maggiore cultura, se mi avessero tacciato di comunismo o, meglio, di stalinismo-togliattismo. La distinzione è d’obbligo, giacché il bolscevismo, non ancora del tutto stalinizzato, non contempla il reato di omosessualità. E’ solo all’inizio degli anni Trenta che al Cremlino si comincia ad indicare l’omosessualità come pericolo sociale. Il presidente del Presidium, Mikhail I Ivanovič Kalinin inaugura il nuovo corso denunciando tra i peggiori criminali, insieme ai kulaki ed ai controrivoluzionari, i corruttori della sessualità secondo natura. In attesa di un apposito articolo del codice si arrestano e si deportano i pederasti, allineati ai “corruttori ideologici”, tant’è che nei lager la cura è a base di pillole di Marx ed Engels. In sincronia col decreto Kalinin (1934) che commina fino ad 8 anni di carcere, serve, però, l’utile idiota, che giustifichi la durezza repressiva, equiparando fascismo e pederastia. Chi meglio di Gorkij per dare un tono alto alla guerra al pederasta come imperativo antifascista? «Nei paesi fascisti – scrive il già grande libertario, ormai piegatosi a Stalin -, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. C’è un aforisma in Germania: Eliminate gli omosessuali ed il fascismo scomparirà». Togliatti, stalinista creativo, importò in Italia, sfottendo Gide, l’altra equazione: pederasta uguale antisovietico.

Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI. Dalla Resistenza al terrorismo. Di Ugo Finetti. Editore: Ares. Anno edizione: 2008. Il libro traccia la storia del Partito comunista italiano - dagli anni dello stalinismo alla stagione del "compromesso storico" con la Democrazia cristiana - in una prospettiva del tutto inedita, tale da ravvisare negli avvenimenti che hanno connotato l'esistenza di quella formazione politica un determinante fattore di ritardo (se non di ostacolo) ai processi di modernizzazione della società italiana all'indomani del secondo conflitto mondiale. Il mito rivoluzionario di continuo emergente nel Pci di Togliatti, Longo e Berlinguer bloccò all'interno ogni ipotesi di riformismo democratico, considerato dai vertici comunisti subalterno al disegno del grande capitale di integrare la classe operaia nel sistema dei valori borghesi. Fa eccezione tra i dirigenti storici del Pci la posizione di Giorgio Amendola (1907-1980), avverso a una linea politica giudicata sostanzialmente sterile e aperto alla collaborazione con i socialisti e le forze di "democrazia laica", fino a proporre la costituzione di un unico partito della sinistra italiana nel segno delle socialdemocrazie occidentali. l libro traccia la storia del Partito comunista italiano – dagli anni dello stalinismo alla stagione del «compromesso storico» con la Democrazia cristiana – in una prospettiva del tutto inedita, tale da ravvisare negli avvenimenti che hanno connotato l’esistenza di quella formazione politica un determinante fattore di ritardo (se non di ostacolo) ai processi di modernizzazione della società italiana all’indomani del secondo conflitto mondiale. Il mito rivoluzionario di continuo emergente nel Pci di Togliatti, Longo e Berlinguer bloccò all’interno ogni ipotesi di riformismo democratico, considerato dai vertici comunisti subalterno al disegno del grande capitale di integrare la classe operaia nel sistema dei valori borghesi. Fa eccezione tra i dirigenti storici del Pci la posizione di Giorgio Amendola (1907-1980), avverso a una linea politica giudicata sostanzialmente sterile e aperto alla collaborazione con i socialisti e le forze di «democrazia laica», fino a proporre la costituzione di un unico partito della sinistra italiana nel segno delle socialdemocrazie occidentali. Delle lotte di Amendola nel Pci, dei contrasti con Togliatti e i suoi epigoni alla segreteria, Ugo Finetti fornisce in queste pagine un'analitica documentazione sulla scorta delle più recenti acquisizioni storiografiche. In vita le tesi «miglioriste» di Amendola vennero guardate con sospetto e sconfitte: a qualche decennio dalla morte, e dopo la dissoluzione del Pci dove fu profeta inascoltato, le idee amendoliane conoscono sorprendente attualità nella generale discussione intorno alle riforme necessarie per far uscire il Paese dalle gravi difficoltà in cui si dibatte. Chi, ignorandone l’autore, leggesse oggi gli scritti dell’ultimo Amendola su come, per esempio, ridurre il disavanzo finanziario dello Stato o innovare la pubblica amministrazione, avrebbe l’immediata percezione di trovarsi di fronte a un politico di nitido orientamento riformista.

La lezione di Amendola, inascoltata Cassandra del PCI di Dino Cofrancesco del 07 Marzo 2009 su “L’Occidentale”. Il denso e documentato saggio storico di Ugo Finetti, Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI. Dalla Resistenza al terrorismo (Edizioni Ares 2008), produce nel lettore la stessa sensazione che doveva ingenerare nell’animo di un francese del Secondo Impero il racconto del Comitato di Salute Pubblica, del Terrore, del bonapartismo, della Restaurazione, delle due rivoluzioni del 1830 e del 1848. Molti dei protagonisti delle vicende rievocate da Finetti non ci sono più—i nati negli anni in cui gli attori principali, Togliatti e Amendola, hanno lasciato questa valle di lacrime, 1964 e 1980, sono persone adulte e qualcuna potrebbe essere già nonna—mentre molti altri sono talmente cambiati nel frattempo da far pensare quasi a delle omonimie. Tanto per fare un solo esempio, l’Achille Occhetto della FGCI, fiero oppositore di Amendola, è lo stesso che, divenuto segretario del PCI, prima cambiò nome al partito e, in seguito, dopo averlo abbandonato, si ritrovò, con Leoluca Orlando, nel movimento populistico di Antonio Di Pietro? Si ha un bel polemizzare contro l’<histoire événementielle>, in nome della ‘lunga durata’, ma ci sono fatti, come Waterloo o Sedan, che fanno precipitare i tempi anche quando le primavere passate non sono poi così tante. Il crollo del muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, il recupero della sovranità nazionale da parte dei paesi satelliti rappresentano lacerazioni del continuum storico che non hanno nulla da invidiare alle ‘rivoluzioni’ propriamente dette, ove si eccettui l’erogazione di violenza ridotta al minimo nel secondo ‘89. Specialmente per le giovani generazioni, parlare di Togliatti, di Longo, di Pajetta è come parlare di Crispi o di Depretis o del Generale La Marmora, con la differenza non sottovalutabile che i primi, a differenza dei secondi, non sono associati a mitologie ufficiali, non avendo costruito la patria ma, nel migliore dei casi, contribuito a non farla precipitare nell’inevitabile anarchia seguita alla fine ingloriosa del fascismo. La caduta di un regime politico, diceva Carlo Cattaneo, significa il macero per intere raccolte di leggi e di sentenze. Il tramonto di una grande potenza, come la Russia sovietica, fa apparire del tutto irreali le lotte interne al PCUS e ai ‘partiti fratelli’, le congiure di palazzo del Cremlino o, più modestamente delle Botteghe Oscure, le montagne di carta delle mozioni congressuali in cui le correnti e i loro leader dimostravano la loro ortodossia a suon di citazioni di Marx o di Lenin e si bollavano a vicenda come eretici. Con queste premesse, non si vuole affatto minimizzare il non facile lavoro di ricerca archivistica e documentaria svolto da un pubblicista di valore come Ugo Finetti. Vicina o lontana nel tempo, la storia dello scomparso PCI è, come dicono gli anglosassoni, non poco intriguinge per diversi ordini di ragioni. La prima sta in un certo fascino, sia pur negativo, che emana da una formazione politica <diversa> dalle altre, una sorta di ‘chiesa’ secolarizzata ma pur sempre contraddistinta da gerarchie cardinalizie ed episcopali, da un pontefice (il segretario del partito), da sacre scritture, e da sinodi (convegni e conferenze nazionali) obbedienti a rituali inaccessibili allo spirito critico. Seguire il vario atteggiarsi di uomini e di gruppi dinanzi alle sfide interne e internazionali della storia, assistere all’abilità con la quale il Migliore riuscì, per vent’anni, a riportare la palla al centro—alla ‘linea’—mettendo la sordina alle dissonanze di destra e di sinistra (es. Pietro Secchia), riascoltare idealmente le masse operaie e contadine eccitate e generose di applausi ai discorsi di mobilitazione, può essere non meno istruttivo della lettura dei contrasti tra Robespierre e Danton—scontato, ovviamente, il diverso rilievo dei due ‘professionisti della rivoluzione’ e la imparagonabile incidenza delle loro gesta sui destini del mondo. C’è, però, una ragione ben più seria che consiglia vivamente il testo di Finetti e qui, forse, una lancia a favore della <longue durée> potrebbe venir spezzata. Gli uomini, lo si è detto, non ci sono più o se ci sono ancora sono talmente <mutati ab illis> da essere diventati irriconoscibili. Eppure i copioni, ai quali si attenevano, a ben vedere, non sono cambiati molto, anche se i ruoli sono stati ridistribuiti con altri criteri e le maschere hanno spesso cambiato nome. Arrivati all’ultima pagina di <Togliatti & Amendola> si scopre che la ‘passeggiata storica’ non è stata né inutile né rasserenante, giacché, indipendentemente dai bizantinismi che scandivano regolarmente la lotta per il potere specie dopo la morte di Togliatti, il PCI, anche nei suoi esponenti di alto profilo morale e intellettuale portava allo scoperto, come pochi altri partiti, antichi nodi irrisolti della political culture italiana. Finetti non sorvola affatto sulle molte ombre che accompagnavano la prassi politica e le elaborazioni teoriche di Giorgio Amendola: la costante, immutata, fedeltà all’Unione Sovietica, l’accettazione indiscussa della leadership di Togliatti, pur nel dissenso talora grave (come la diversa valutazione di Kruscev e del processo di ‘destalinizzazione’) il plauso alla repressione della rivolta ungherese del 1956 e all’invasione dell’Afganistan, per non parlare, nel periodo in cui , capo partigiano, non indietreggiò dinanzi a discutibili atti di sabotaggio come l’attentato di Via Rasella. A ciò si aggiunga <una lettura dell’economia italiana> rimasta <vincolata a uno schematismo classista>. Amendola, scrive Finetti, <non crederà mai a un ‘grande capitalismo italiano che sarebbe democratico e progressivo’; è in lui radicata la convinzione della ‘natura reazionaria del capitalismo italiano codino e ignorante’. In generale, nella sua impostazione di analisi economica è sempre presente, come lascito della tradizionale lettura catastrofista del capitalismo, la costante polemica sull’arretratezza del sistema economico italiano> identificato <con la grande impresa monopolistica gestita in modo ‘borbonico’ e incapace di innovazione e sviluppo: sempre un ‘capitalismo straccione’, che aggrava e moltiplica contraddizioni e arretratezze>.

Sennonché, a parte questi e altri pesanti limiti della sua formazione ideologica, nel robusto realismo di Amendola, che non lo renderà affatto cieco dinanzi al fallimento oggettivo del ‘socialismo reale’, c’è un tratto che ne rende il ritratto umano e politico meritevole di collocazione nella galleria dei ‘grandi italiani’. Mi riferisco a quella etica della responsabilità che in lui si traduceva naturaliter in un forte e sicuro ‘senso delle istituzioni’ o, per dirla con i nostri padri ottocenteschi, in un profondo ‘sentimento dello Stato’. In un periodo come l’attuale in cui, nel momento del suo apparente trionfo, il liberalismo—o meglio quanti ad esso si richiamano—rischia di smarrire l’importanza cruciale delle cornici di potere e di autorità che nel mercato sociale, inteso in senso lato, mantengono l’ordine e garantiscono il rispetto dei patti, l’insegnamento di Amendola è forse l’unico lascito prezioso del PCI alla Repubblica italiana. Non penso certo al pur qualificante impegno profuso dal leader napoletano per cancellare definitivamente, nella prassi e nella dottrina del movimento operaio, non solo ogni tentazione di ritorno alla teoria del socialfascismo, d’infausta memoria staliniana, ma altresì ogni demonizzazione della stessa socialdemocrazia, superficialmente riguardata dai sinistri come strumento dell’integrazione neocapitalistica. L’importanza di Amendola va ben oltre la ricorrente proposta di collaborazione tra il PCI e i partiti laici—PSI, PRI, PSDI—al fine di spezzare il monopolio democristiano e i suoi tentacoli nella società civile--una proposta alternativa al disegno di Pietro Ingrao che <guardava alle ‘schegge’ rappresentate dalle minoranze e dissidenze cattoliche e socialiste per costruire uno schieramento di ‘alternativa globale’ su un programma di radicale anticapitalismo a guida comunista>. Ciò che rende Giorgio degno figlio di Giovanni Amendola, è il suo oggettivo ‘liberalismo istituzionale’ che si manifesta soprattutto in quella lucida percezione dei guasti del giacobinismo di Ingrao e del dirigismo di Lombardi che in lui maturò pienamente all’epoca del X Congresso. <Il progressivo allargamento dell’area pubblica in campo economico> gli fece intravedere l’intorbidamento dei <rapporti tra partiti, potere economico e istituzioni>, il rischio di uno <Stato centralizzato e accentratore> suscettibile di esautorare il Parlamento, un processo decisionale al buio e incontrollabile. Diffidava della formula nenniana della ‘stanza dei bottoni’ che, ancora negli anni sessanta, univa gli autonomisti del PSI e la sinistra ingraiana e vedeva chiaramente i pericoli dello statalismo e la sua inadeguatezza a fronteggiare la crisi. A differenza di altri leader della sinistra democratica, che avrebbero dato in seguito un buon contributo, al buco nero delle finanze statali, Amendola, negli anni settanta aveva l’incubo del deficit pubblico e dell’inflazione. Come puntualizza Finetti, per lui <le ricette e le vie d’uscita non sono quelle indicate dalle idee prevalenti a sinistra, a cominciare dagli Enti locali e dai sindacati |…| corresponsabili degli errori del passato e dei rinvii del presente. ‘A parole, scrive nel saggio ‘Coerenza e severità’ (‘Politica ed economia’ luglio-agosto 1976), tutti sono d’accordo nel richiedere un contenimento dei consumi pubblici e della spesa pubblica per trasferimenti. Ma in concreto, quando si parla di ridurre certe spese pubbliche, le categoria interessate avanzano il loro no>. E in modo ancora più esplicito e tagliente: <Ogni volta che si annuncia la chiusura di una fabbrica, i lavoratori cominciano ad occuparla per richiedere l’intervento dello Stato, cioè per accrescere la zona economica assistita dallo Stato, senza che si realizzi alcun sostanziale progresso della produttività, bruciando cioè nel mantenimento di situazioni economicamente arretrate capitali pubblici che dovrebbero essere investiti in operazioni di riconversione>. Allergico a ogni demagogia, Amendola, critico ante litteram del welfarismo irresponsabile, non riteneva che lo Stato potesse aiutare ogni cittadino dalla culla alla tomba, con l’aumento della pressione fiscale a base di slogan <colpire i grandi evasori>: certamente questi ultimi andavano snidati e incarcerati ma non era questa la soluzione. <Paghino i ricchi><E dove cominciano i ricchi?> e <dove cominciano i ceti medi?>. Non meraviglia che considerasse errori fatali <la difesa a oltranza della scala mobile> (la cui abolizione sarebbe stata uno dei fiori all’occhiello del governo Craxi) e la stessa proposta della riduzione dell’orario di lavoro. Era la rottura non solo con la sinistra del suo tempo ma altresì con quella degli anni avvenire che sul recupero dell’evasione fiscale avrebbe appoggiato la richiesta un assegno mensile a tutti i disoccupati (è il tema di questi giorni). Una rottura destinata persino ad approfondirsi con l’impavida denuncia delle radici ribellistiche e autoctone della contestazione e del terrorismo—l’<album di famiglia> di cui parlava la radical chic Rossana Rossanda. <Per Amendola, osserva Finetti, è innegabile che vi sia ‘un rapporto diretto tra violenza in fabbrica e il terrore’ ma ‘si è giunti, anche da parte di dirigenti sindacali, alla giustificazione della violenza, di ogni forma di violenza, in fabbrica come espressione della rabbia provocata da un lavoro idiota>. Un vecchio marxista che stigmatizzava le viltà di intellettuali borghesi di provenienza azionista come Norberto Bobbio o Guido Quazza che, <neutrali tra BR e Stato>, solidarizzavano nel 1977 con i giudici popolari torinesi disertori al processo contro i gruppi eversivi armati, è un’immagine emblematica su cui la storiografia e la cultura politica italiana non hanno ancora riflettuto abbastanza. Non meraviglia pertanto che il commento a Bobbio--<il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana>-- sia stato rimosso dalla cultura di sinistra, che ricongiunge buonisticamente i duellanti di ieri nel registro retorico dei <maestri e compagni>, alla stregua di quei moti di stizza su cui stendere il velo pietoso dell’oblio. Finetti ci ha fatto riscoprire un vero ‘inattuale’ in un paese che, portato, anche nei suoi ambienti conservatori, a simpatizzare più con i ‘movimenti’ che con le ‘istituzioni’, rimane ogni volta dolorosamente colpito dall’incapacità dei primi di ‘sedimentare’, fecondando il terreno della società civile (v. i lamenti sul ‘Risorgimento incompiuto’, sulla ‘Resistenza tradita’ etc.). La lectio magistralis di Amendola è nel richiamo implicito alla <dottrina dello Stato> che ha aperto e segna indelebilmente l’età moderna, alla consapevolezza che senza gli argini istituzionali—di cui tutti i partiti dovrebbero curare la manutenzione –il torrente impetuoso della vita e dell’innovazione si riversa sulle campagne trasformandole in acquitrini.

“Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer & Napolitano” Il Pci di Berlinguer e Napolitano. Due protagonisti della politica italiana attraverso la lettura di Finetti: un partito comunista compatto e coeso?. "Per molti anni - spiega Finetti - è stata accreditata l’idea di un Partito Comunista Italiano compatto e coeso, un monolite, insomma, in grado di assumere le decisioni coerenti con i suoi ideali. Le correnti erano vietate e il gruppo dirigente doveva sempre apparire unito, mentre il dibattito interno e le divisioni in seno alla Direzione rimanevano segreti. Non era così. Botteghe oscure. Il Pci di Berlinguer & Napolitano, l’ultimo lavoro di Ugo Finetti, ci mostra la vita interna della Direzione del PCI, seguendo le “vite parallele” di Enrico Berlinguer e di Giorgio Napolitano, che sin da giovanissimi aderirono al PCI di Palmiro Togliatti ricevendo presto incarichi rilevanti. Napolitano, cresciuto all’ombra del leader della “destra” comunista, Giorgio Amendola, appare ora il principale collaboratore ora il principale antagonista di Berlinguer, erede del “centro” togliattiano. Finetti ci mostra come l’accordo e il dissenso tra i due leader comunisti animano le principali scelte del PCI, dal “compromesso storico” all’“eurocomunismo”, dal periodo in cui il PCI è stato nella maggioranza di governo (culminato con l’assassinio di Aldo Moro) al ritorno all’opposizione in contrasto soprattutto con il PSI di Bettino Craxi. Emerge, da questa ricerca, la coralità del vertice comunista (con aspetti e interventi finora sconosciuti dei suoi protagonisti, da Nilde Iotti a Pietro Ingrao, da Luciano Lama ad Achille Occhetto) e il modo nuovo in cui la sinistra italiana cominciò ad affrontare temi oggi attuali come le riforme istituzionali, il sistema elettorale maggioritario e il finanziamento dei partiti. Sono molte le vicende degli anni Settanta e Ottanta prese in esame da Finetti. Non si può non ricordare il lancio della questione morale nella famosa intervista rilasciata da Berlinguer a Eugenio Scalfari e pubblicata da Repubblica nel luglio del 1981. Napolitano criticò le posizioni del segretario con un articolo dell’Unità, utilizzando a questo fine innanzi tutto le riflessioni togliattiane sulla centralità della politica. Napolitano si trovò così ad essere al centro di una sorta di processo intentatogli da Berlinguer. Processo che si concluse con lo spostamento del futuro capo dello Stato da un ruolo centrale in Segreteria a quello meno rilevante di capogruppo alla Camera. Connessa alla questione morale c’è il tema dei finanziamenti al partito che Finetti affronta in appendice con l’esame di fatti e di dichiarazioni rilevanti come quelle di Berlinguer: “Siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei compagni è stato assoluto” (1975). E ancora: “Dire la verità al Partito? Non possiamo mettere tutte le cifre in piazza” (1979)".

Ugo Finetti, giornalista e saggista, è stato vicepresidente della Regione Lombardia dal 1985 al 1992. In Rai dal 1978 al 2008, è stato caporedattore e responsabile di programmi televisivi e radiofonici in particolare sui paesi dell’Unione Europea; direttore di Critica Sociale, vicepresidente del Centro Studi Grande Milano e presidente dell’Istituto di scienza della pubblica amministrazione dal 2011 al 2014. Tra i suoi libri: La Resistenza cancellata (Ares, 2003), Togliatti-Amendola (Ares, 2008), Storia di Craxi (Boroli, 2009), e Il caso Tobagi (Critica Sociale, 2010).

Napolitano non fa rima con Berlinguer di Paolo Pillitteri del 23 febbraio 2016. Grillo e i giardinetti. Napolitano e Berlinguer. E le Botteghe Oscure diventate un po’ più chiare grazie ad una preziosissima opera di scavo di Ugo Finetti - come vedremo - mentre l’inesausto patron pentastellato, che adombra quotidianamente il tema prediletto a Berlinguer, la questione morale, e dall’eloquio decisamente soft e signorile, riserva spesso a Napolitano, Re Giorgio per simpatizzanti e antipatizzanti, già Presidente della Repubblica e ora senatore a vita, le carezze di una piuma, come quella dei piccioni ai quali l’ha invitato a dare il becchime nei giardinetti dei pensionati. C’era di mezzo la politica? Nient’affatto. C’era la leggendaria tessera del Senato dimenticata e ritrovata, manco si trattasse del Codice da Vinci, per quanto sia nota la mania grillina per scontrini, ricevute, tessere, ecc.. Naturalmente Giorgio Napolitano, che prima di essere (stato) un migliorista è un signore, ha opposto un gelido fin de non-recevoir parlando di politica, volando, come si dice, alto, altissimo, sull’Europa di oggi ostile a Matteo Renzi, da conservare sì, ma rinnovandola. Ricordiamo un suo bel saggio sull’amico Altiero Spinelli, un padre nobile dell’Europa. Negli stessi giorni, a Napolitano giungevano le tirate d’orecchio di qualcuno dell’ex Polo a proposito del suo “complotto” per eliminare il Cavaliere nell’annus horribilis dei sorrisi di Sarkozy e Merkel, delle scissioni finiane, della lite con Giulio Tremonti e di quant’altro, Ruby compresa, con gli effetti collaterali, in primis Grillo & Casaleggio. Non pervenuta la risposta dell’ex capo dello Stato. Il contesto attuale, col suo rissoso rumore di fondo cui il grillismo antipolitico ha messo l’amplificatore, impedisce spesso di risalire alle fonti, alle radici delle questioni centrali, dei suoi protagonisti, e il perché sta proprio nella sciatteria e faciloneria di comodo con cui si archivia il passato, ignorandolo, dimenticandolo e liquidandolo, lasciando un vuoto pneumatico di idee, figuriamoci di ideali, se non di politica. In questo senso, “Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer & Napolitano” di Ugo Finetti (Edizioni Ares) va davvero a riempire un vuoto, compiendo quell’opera di scavo che consente agli storici autentici come lui di ricomporre il puzzle del passato di cui, quello del Partito comunista italiano e dei suoi personaggi di spicco, sembrava irrecuperabile alla ricomposizione. Il minuzioso e attento lavoro di scavo è stato sommamente agevolato dalla desecretazione (si dice così?) delle riunioni della direzione del Pci, facilitando di certo l’opera del ricostruttore ma, al tempo stesso, costringendo Finetti, e noi, a partecipare alle vere e proprie puntate di un appassionante show totus politicus durato decenni, nei quali unità e diversità, correnti e sensibilità, divisioni e continuismo, si spiegano e si alternano, si confondono e si intrecciano. Ma, alla fine, rendono chiari i termini delle questioni, pur calate dentro la sacralità del totem comunista al quale i sacerdoti supremi, da Togliatti a Berlinguer, da Amendola a Napolitano (da leggere e rileggere il finettiano “Togliatti & Amendola. La lotta politica nel Pci - Dalla Resistenza al terrorismo”) attribuivano una durata millenaria. La miniera nella quale l’autore ci conduce era rimasta per anni trascurata, ma adesso grazie alla lampada di Finetti-Aladino i profili individuali escono dalla indistinzione della penombra, recuperando il senso vero sia dell’appartenenza - altro che autonomia! – all’Ecclesia sovietica intesa come il comunismo che si è compiuto e che “aiuta” i partiti fratelli, sia del continuismo, ovvero la fedeltà al magistero togliattiano, sia del conflitto fra il Berlinguer della questione morale e il Napolitano che la respinge in nome della questione vera, quella politica, fra cui il rapporto col socialismo liberale di Bettino Craxi, diverso perché eretico, contro il quale Berlinguer scatenerà una guerra micidiale che continuerà anche dopo la morte sua e del Comunismo. La conflittualità interna alla Chiesa di Botteghe Oscure c’era, eccome. E gli interventi al tavolo della direzione del Pci confermano l’esistenza di una destra e di una sinistra, laddove la destra di Napolitano e dei suoi non numerosi miglioristi, costretta all’esterno a diplomatizzare, a mimetizzarsi da “homines togliattiani molto continuisti”, fronteggia la maggioranza berlingueriana “in dibattiti netti, espliciti, drammatici”. Sicché la discesa nella miniera del Pci diventa, grazie a Finetti, un’incalzante cavalcata su dissensi interni e unità di facciata. Napolitiano sarà pure Re Giorgio, ma un re in minoranza e mai assurto al trono di Botteghe Oscure. Quando mai! Forse la storia della sinistra (del socialismo italiano) non sarebbe andata così. La presunta diversità morale berlingueriana spacca il partito, ma solo in superficie, così come la voglia di socialdemocrazia europea della destra, prima di Amendola e poi di Napolitano, resta sommersa, minoritaria, nel mentre che si infiamma all’estrema sinistra il “Manifesto” scissionista sulla scia della contestazione sessantottina e i carri armati entrano, a Praga ed a Varsavia, e il pugno di ferro picchia forte su “Solidarność”. Ferma e costante fin dall’invasione dell’Ungheria del 1956 (recuperando meritevolmente, da Ugo Finetti, il ricordo di un indimenticabile Guelfo Zaccaria) resta l’adesione al soviettismo, non più, forse, “perinde ac cadaver”, ma trepidamente in attesa (almeno fino al 1980 e oltre) dell’aiuto fraterno del Pcus alle casse di Botteghe Oscure. Aiuti fraterni dall’entità miliardaria, si capisce, e nota a tutti, e discussa nelle riunioni di direzione. E vabbè.

Ugo Finetti, già vicepresidente della Lombardia, giornalista e scrittore, direttore della gloriosamente riformista “Critica sociale”, tanto corretto e brillante quanto implacabile e impietoso esploratore dei sotterranei comunisti, aveva già affrontato questo e altri temi in “La Resistenza cancellata” (2003). E lo ha fatto sine ira ac studio come si evince in altri contesti storici frequentati, sia ne “Il caso Tobagi” che “La storia di Craxi” (2009), che rimane fra le più lucide, complete e importanti biografie politiche di un leader socialista cui aveva sempre guardato con attenzione e rispetto Re Giorgio. No, decisamente Berlinguer non fa rima con Napolitano.

“Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer & Napolitano”, Finetti racconta: la presunta diversità morale berlingueriana spacca il partito, ma solo in superficie, scrive Francesco Saba il 29 febbraio 2016 su "Stato Quotidiano". Ugo Finetti, giornalista, ha realizzato per la Rai inchieste e reportages in vari paesi europei. Il suo ultimo libro “Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer & Napolitano” (Edizioni Ares) aiuta il lettore a risalire alle fonti, alle radici delle questioni centrali, dei suoi protagonisti, evitando una certa sciatteria e faciloneria di comodo con cui si archivia il passato, ignorandolo, dimenticandolo e liquidandolo, lasciando un assordante vuoto di idee, di ideali, se non di politica ed analisi storica. Nel Partito Comunista Italiano, in cui erano vietate le correnti e il gruppo dirigente doveva sempre apparire unito, il dibattito interno e le divisioni in seno alla Direzione di Botteghe Oscure rimanevano ipocritamente segreti. Sulla base dei verbali finora inediti il libro ricostruisce i mutamenti della politica del Pci e nel gruppo dirigente seguendo le “vite parallele” di Enrico Berlinguer e di Giorgio Napolitano che sin da giovanissimi aderirono al Pci di Togliatti. Napolitano, cresciuto all’ombra del leader della “destra” comunista, Giorgio Amendola, appare ora il principale collaboratore ora il principale antagonista di Berlinguer, erede del “centro” togliattiano. Vediamo così come l’accordo e il dissenso tra i due leader comunisti animano le principali scelte del Partito dal “compromesso storico” all'”eurocomunismo”, dal periodo in cui il Pci è stato nella maggioranza di governo (culminato con l’assassinio di Moro) al ritorno all’opposizione in contrasto soprattutto con il Psi di Craxi. Il minuzioso e attento lavoro di scavo è stato sommamente agevolato dalla “desecretazione” delle riunioni della direzione del Pci. La miniera nella quale l’autore ci conduce era rimasta per anni colpevolmente occultata, ma adesso grazie all’autore i profili individuali escono dalla penombra, recuperando il senso vero sia dell’appartenenza (e non certo dell’autonomia tanto ipocritamente sbandierata!) alla Chiesa sovietica intesa come il comunismo che si è compiuto e che “aiuta” i partiti fratelli, sia del continuismo, ovvero la fedeltà al pensiero togliattiano, sia del conflitto fra il Berlinguer della questione morale e il Napolitano che la respinge in nome della questione vera, quella politica, fra cui il rapporto col socialismo liberale di Bettino Craxi, diverso perché eretico e soprattutto moderno, contro il quale Berlinguer scatenerà una guerra micidiale che continuerà anche dopo la morte sua e del Comunismo, protratta ancora oggi, ipocritamente, per inerzia morale ed intellettuale da coloro che rivendicano la presunta, ma smentita dai dati storici, superiorità morale del PCI. In questo senso, “Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer & Napolitano” di Ugo Finetti va a riempire un vuoto, compiendo opera di scavo che consente agli storici di ricomporre il puzzle del passato di cui, quello del Partito comunista italiano e dei suoi protagonisti, sembrava irrecuperabile. La conflittualità interna alla Chiesa di Botteghe Oscure c’era, eccome. E gli interventi al tavolo della direzione del Pci confermano l’esistenza di una destra e di una sinistra, laddove la destra di Napolitano e dei suoi non numerosi miglioristi, costretta all’esterno a diplomatizzare, a mimetizzarsi da “homines togliattiani molto continuisti”, fronteggia la maggioranza berlingueriana “in dibattiti netti, espliciti, drammatici”. Sicché la discesa nella miniera del Pci diventa, grazie a Finetti, un’incalzante cavalcata su dissensi interni e unità ipocrita di facciata. La presunta diversità morale berlingueriana spacca il partito, ma solo in superficie, così come la voglia di socialdemocrazia europea della destra, prima di Amendola e poi di Napolitano, resta sommersa, minoritaria, nel mentre che si infiamma all’estrema sinistra il “Manifesto” scissionista sulla scia della contestazione sessantottina e i carri armati entrano, a Praga ed a Varsavia, e il pugno di ferro picchia forte su “Solidarność”. Ferma e costante fin dall’invasione dell’Ungheria del 1956 resta l’adesione al soviettismo, non più passivamente, ma trepidamente in attesa (almeno fino al 1980 ed oltre) dell’aiuto fraterno del Pcus alle casse di Botteghe Oscure. Aiuti fraterni dall’entità miliardaria. Tanto è che nel 1969 Armando Cossutta doveva subire duri rimproveri da Michail Suslov e dal grande elemosiniere Boris Ponomarev, a proposito di aiuti economici. Ponomarev, con poca sensibilità verso le istanze di Cossutta e del Pci, minacciava: “Le tasche non sono inesauribili e in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai Paesi arabi”. I sovietici tagliano il finanziamento ai compagni italiani: dai 5 milioni e 700 mila dollari del 1967-1968, si scende ai 3 milioni e 700 mila del 1969. Finalmente un’altra luce si accende sulle Botteghe Oscure. Tra i suoi libri si segnalano Il dissenso nel Pci (1978), La partitocrazia invisibile (1985), La resistenza cancellata (2003), Togliatti-Amendola. La lotta politica nel Pci. Dalla Resistenza al terrorismo (Ares 2008). È condirettore di “Critica Sociale”. Francesco Saba.

Berlinguer e Napolitano in lotta per il Pci. Ugo Finetti racconta, con documenti inediti, gli scontri di potere interni al comunismo, scrive Lodovico Festa, Sabato 05/03/2016, su "Il Giornale". Ugo Finetti con Botteghe oscure. Il Pci di Berlinguer & Napolitano, edizioni Ares, prosegue il preziosissimo lavoro di ricostruzione della discussione all'interno del Pci, con scrupoloso esame delle fonti dirette (specie i verbali della direzione comunista messi oggi a disposizione dall'Istituto Gramsci), che ha una pietra miliare nel suo Togliatti & Amendola. La lotta politica nel Pci. Dalla Resistenza al terrorismo (sempre edizioni Ares, 2008). Scherzosamente l'autore dice di ispirarsi nelle indagini storiografiche al metodo Agatha Christie: fate parlare il colpevole e sarà lui stesso a portarvi le prove per incastrarlo. Questo metodo è usato nel suo ultimo saggio con Enrico Berlinguer e il suo lancio della questione morale nella famosa intervista di Scalfari del luglio del 1981. All'argomentazione berlingueriana Finetti contrappone gli interventi di altri dirigenti del Pci, a iniziare da Giorgio Napolitano che criticò le posizioni del segretario con un articolo dell'Unità, utilizzando a questo fine innanzi tutto le riflessioni togliattiane sulla centralità della politica, e anche la ricostruzione, illustrata in una superba appendice di Botteghe oscure, dei problemi di finanziamento del partito.Il lavoro di riflessione finettiana passa dalle ultime scelte togliattiane sul centrosinistra nascente (inizi anni '60) a un esame di Luigi Longo, vicesegretario e segretario dopo il 1964, fondamentale nel gestire il post togliattismo e nello scegliere chi dovrà guidare i comunisti italiani nel futuro: puntando prima su Napolitano nel 1966 e poi su Berlinguer nel 1969. Secondo malevoli osservatori di cose picciste il ridimensionamento provocò al futuro presidente della Repubblica un trauma psicologico che ne minò il carattere. Si tratta poi anche di compromesso storico, governi di solidarietà nazionale, caso Moro. L' ouverture del libro è centrata su quanto il Pci fosse forza autonoma e quanto invece pesasse l'influenza moscovita. Non pochi i fatti e le dichiarazioni raccolte da Finetti su un legame assai solido con l'Unione sovietica. Ma il pezzo forte sono le critiche a Berlinguer per avere lanciato, e senza una discussione preventiva, la questione morale. Finetti non è un osservatore neutro, è stato uno dei più rilevanti dirigenti del Psi di Bettino Craxi, impegnati a contrastare l'antisocialismo diffuso nel Pci. In questa occasione, però, nell'accumulare materiale sull'improvvisazione e la fragilità culturale della svolta berlingueriana, oltre a citare comunisti aperti nei rapporti con il Psi, da Bufalini a Cervetti, ricorda anche personalità come Luciano Barca e Alfredo Reichlin critiche verso Craxi. Questo episodio centrale nel libro si conclude con la cronaca, con diversi particolari inediti, di una sorta di processo che Berlinguer fece a Napolitano. Processo che si concluse con lo spostamento del futuro capo dello Stato da un ruolo centrale in segreteria a quello meno rilevante di capogruppo alla Camera. Il futuro capogruppo, al contrario del suo maestro Giorgio Amendola che sfidò Berlinguer (lo si ricorda nel citato libro Togliatti & Amendola), collaborò nel non rendere troppo esplicito lo scontro. Connessa alla questione morale c'è il tema dei finanziamenti al partito che Finetti affronta in appendice con l'esame di fatti e di dichiarazioni rilevanti come quelle di Berlinguer: «Siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei compagni è stato assoluto». E ancora: «Dire la verità al Partito? Non possiamo mettere tutte le cifre in piazza». Impressionanti anche quelle di Alessandro Natta: «Hanno permesso che persone integerrime finissero in prigione. Li hanno accusati di colpe che se erano state commesse non era comunque certo per colpa loro... Forse tra quella gente che è finita in prigione potrebbe esserci qualcuno che avrebbe potuto prendere ordini da me»..

Le (tante) segrete notti dei lunghi coltelli a Botteghe Oscure. Un libro di Ugo Finetti indaga il dibattito interno al Pci seguendo come traccia le “vite parallele” di Berlinguer e Napolitano, scrive Sergio Soave il 20 Marzo 2016 su "Il Giornale".  La vicenda del Pci, la sua prevalenza tra le forze di sinistra, è stata la principale “anomalia” italiana nel quadro europeo. Ugo Finetti esplora i caratteri del dibattito interno al Partito che si sviluppava durante le riunioni della direzione, seguendo come traccia le “vite parallele” di Enrico Berlinguer e di Giorgio Napolitano, i due “cavalli di razza” che si sono alleati e combattuti nel corso di almeno tre decenni. Centrale nell’analisi di Finetti sono il rifiuto della socialdemocrazia – considerata inaccettabile perché rinunciataria – e i tentativi di aggirare attraverso accordi con la Dc e il Pri il problema di un’intesa con il socialismo italiano, una volta tramontata dopo il 1956 la tattica del frontismo. L’interesse particolare dell’esame relativo all’andamento delle riunioni della direzione comunista nasce dalla conoscenza delle reali divergenze interne al gruppo dirigente, tenute celate allora ai militanti e all’opinione pubblica, e che proprio per la libertà assicurata dalla segretezza si sono espresse in contrapposizioni talora radicali. Il fatto che poi, nei rapporti con l’esterno e con la base, queste differenze risultassero attenuate e mimetizzate fino a quasi scomparire, fa sorgere domande che si riverberano anche sulla politica attuale, talmente esposta alle curiosità da nascondere proprio nell’eccesso delle esternazioni la sostanza dei contrasti e degli accordi. Sia Palmiro Togliatti sia Enrico Berlinguer nella fase iniziale della loro segreteria seppero usare le tendenze divergenti come strumenti per sondare e consolidare rapporti con altri settori politici, mantenendo una forte egemonia del “centro” identificato quasi misticamente con la figura del segretario. Nella fase finale della loro segreteria, terminata solo con la morte, ambedue persero questa capacità e ripiegarono su una gestione affidata più a un apparato di segreteria che all’equilibrio tra i temperamenti diversi. E’ una parabola che si può riscontrare in quasi tutti i partiti anche oggi, anche se termini giornalistici irrispettosi come “cerchio magico” si attagliano con difficoltà alla seriosità dei tempi e dei caratteri dei dirigenti del Pci. La questione che ha appassionato di più gli storici, il rapporto del Pci con il Pcus, viene esaminato nella sua evoluzione con l’apporto di documenti finora non pubblici e questo consente di chiarirsi le idee su una fedeltà ideale accompagnata dalla tendenza, già forte in Togliatti, di esercitare una funzione originale e non solo di subire un’egemonia indiscutibile. L’altro punto interessante è la questione della sintonia del Pci con i cambiamenti delle realtà sociali del paese. Se si verifica una maggiore capacità del Pci di dare uno sbocco politico alle inquietudini del ’68 studentesco e del ’69 operaio, rispetto a un Partito socialista unificato che proprio in quel versante finì col disperdere nuovamente le sue forze, si vede al contrario come di fronte alle novità del decennio successivo fu Bettino Craxi a interpretare meglio le esigenze di rinnovamento, mentre Berlinguer finiva – dopo il fallimento della solidarietà nazionale – per rifugiarsi in una predicazione moralistica che finì col creare la rottura con Napolitano e con l’area di destra del Pci. Pur nella constatazione critica della gabbia in cui restava chiuso, il dibattito interno al Pci di quegli anni esprime un livello di serietà e di impegno che merita rispetto e considerazione, il che non sfugge all’analisi attenta e critica – ma non faziosa – di Finetti.

IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.

NOSTRADAMUS: INVASIONE ISLAMICA DELL’EUROPA? Scrive Giuseppe Merlino. Riportiamo alcune quartine della Profezia di Nostradamus che si riferiscono ad una futura invasione islamica dell’Europa.

Centuria V – quartina 55: De la felice Arabe contrade naistra puissant de loy Mahométique, vexer l’Espaigne, conquister la Grenade, et plus par mer à la gent Lygustique.

Dalla felice nazione Araba nascerà potente la Legge Maomettana opprimerà la Spagna, conquisterà Grenada e più per mare alla gente Lygustique. (Lyguistique viene interpretato come “della Lingadoca”, regione francese sul Mar Mediterraneo, o come “della Liguria”)

Centuria I – quartina 18: Par la discorde negligence Gauloise, Sera passage à Mahommet ouuert: De sang trempé la terre e mer Senoyse Le port Phocen de voiles e nefs couvert.

Per la discorde negligenza Francese sarà aperto passaggio a Maometto: di sangue intriso la terra ed il mar Senoyse il porto di Marsiglia di vele e navi coperto.

Centuria I – quartina 9: De l’Orient viendrà le couer Punique Fascer Hadrie et les hoirs Romulides Accompagnè de la classe Lybique Temple Melites et proches Isles vuides.

Dall’Oriente verrà il Cuore Punico. Che ingannerà l’Adria e gli eredi di Romolo. Accompagnata dalla Flotta Libica. Tremare Malta e isole vicine vuotate.

Centuria II – quartina 29: L’Oriental sortira de son siege Passer les monts Apennin voir la Gaule Traspercer le ciel, les eaux et neige Et un chacun frappara de sa gaule

L’Orientale uscirà dalla sua sede, Passerà i monti Appennini e vedrà la Gallia: Attraverserà il cielo, le acque e le nevi, Ed ognuno colpirà con la sua verga.

Centuria III – 27: Prince Lybique puissant en Occident Francois d’Arabe viendra tant enflammer Scavant aux letters sera condescendent La langue Arabe en Francois translater

II Principe Libico iniquo potente in Occidente. II Franco d’Arabia verrà tanto infiammare. Sapiente in Lettere sarà condiscendente. La Lingua Araba in Francese tradurre.

Centuria V – quartina 25: Le Price Arabe, Mars, Sol, Venus, Lyon, Regne d’Eglise par mer succubera: Devers la Perse bien pred d’un million Bisance, Egypte, ver. sepr. invadera.

Il principe Arabo Marte Sole, Venere, Leone. Regno d’Inglese per mare soccomberà: Verso la Persia ben presso d’un milione, Bisanzio, Egitto ver. serp. invaderà.

Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando, scrive anonimo su “Noi toscani il 06/01/2011 Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando. Dal libro “Nostradamus - Le profezie”, di Carlo Patrian, ristampa del 1993 (1a edizione 1978), che ho ripreso in mano ieri sera dopo tanto tempo, ho raccolto tutte le interpretazioni dei diversi esegeti sulle profezie relative alla Terza Guerra Mondiale. Rileggere quelle che avevo sottolineato più di un anno fa e che non avevo più considerato, oggi mi ha molto impressionato. Provenienti da diverse quartine le profezie sono state raggruppate per tema, e numerate di conseguenza. Ho evitato di mettere a fianco di ognuna il nome dell'esegeta, in quanto ho ritenuto più importanti le coincidenze; quando con termini diversi viene espresso lo stesso concetto, significa che sono interpretazioni concordi, presenti in centurie diverse, di esegeti diversi. Da queste interpretazioni emergono sicuramente visioni che riflettono quella che è la situazione di oggi, e potenzialmente quella futura. Il piano di riscontro che dovremmo usare nella lettura di queste profezie, oltre a quello generale della crisi internazionale, è quello della volontà dell'estremismo islamico di islamizzare l'Occidente, la corsa all'atomica dell'Iran, la volontà di conquistare Roma, la volontà di distruggere Israele, la volontà di creare una superpotenza islamica, la guerra agli infedeli, l'incapacità dell'Europa di capire chi è e cosa fare, la crisi della religione Cristiana, la tendenza a favorire a tutti i costi l'Islam rinunciando alle nostre tradizioni, l'impossibilità continua di riuscire ad ottenere la pace perché uno dei due contendenti non la vuole, le due incognite Cina e Russia che continuano a porre veto alle risoluzioni dell'ONU contro l'Iran, l'incognita Turchia, che sono tutte realtà di cui oggi nessuno sembra accorgersi e preoccuparsi.

Oggi la Francia toglie i crocefissi dalle scuole, l'Italia inizia ad abolire S. Lucia dalle scuole e i canti di Natale, 'Islam' è sulla bocca di tutti e dappertutto. Secondo gli analisti, l'utilizzo delle armi di distruzione di massa, nucleari batteriologiche o chimiche, contro qualche città importante occidentale non è in dubbio, è solo in dubbio quando. Circa due mesi fa i servizi segreti russi sostenevano che l'Iran avrebbe avuto l'atomica entro 2 anni (io penso entro pochi mesi). A mio avviso quindi, superando la banalità del preconcetto del credere o non credere a priori, le coincidenze sono troppe, e c'è troppo oggi in ballo per non tenerle in considerazione, o almeno a monito. Ricordo, sono interpretazioni di profezie (di 500 anni fa), prese da una ristampa del 1993 (1a edizione 1978). Sono state raggruppate per tema, ma rimane un tema che è impossibile scindere dagli altri perché coinvolge tutto ed è sempre presente: invasione/attacco dell'Occidente da parte dell'Islam, causa della Terza Guerra Mondiale. Concausa, la sottovalutazione dell'Islam da parte dell'Europa, cioè quello che stiamo facendo oggi. Nota importante: parlando di invasione islamica, non è detto che si debba intendere per forza, da subito, come invasione armata. Perché l'invasione non-armata, oggi è già in corso, come l'affiancamento ideologico all'Islam.

TERZA GUERRA MONDIALE SECONDO NOSTRADAMUS: Iran determinante il conflitto. Nostradamus aveva previsto che l'Iran sarebbe stato la causa scatenante il conflitto mondiale terzo.

1) L'Iran quale eventuale nazione scatenante il Terzo Conflitto Mondiale andrebbe visto collegato a due quartine importanti: Nell'arabico golfo la grande flotta affonderà;

2) Fuoco ardente nel cielo... presso il Rodano (... carestia, spada...) La Persia (Iran) ad occupar la Macedonia tornerà. Sembra predire un conflitto nucleare, mentre l'Iran, divenuto presumibilmente satellite della Russia invasa dall'Afghanistan, invaderà i Balcani. (il futuro dei Balcani, è in Europa, dice oggi Prodi). Ricordando la grande difficoltà di datazione delle profezie, uno degli esegeti ha localizzato (il terzo conflitto mondiale) oltre l'anno 2000. Bin Laden, Ahmadinejad, oppure deve ancora arrivare qualcuno? 

3) Un personaggio islamico apparirà per conquistare la Terra e sterminare gli infedeli. (...) un futuro personaggio ermetico che, dopo aver conseguito l'Autorealizzazione (...) si recherà in Asia conquistando popoli e nazioni.

4) Futura venuta di un messia (del male) (...) che apparirà in Asia secondo i princìpi del grande maestro Ermete Trismegisto; i suoi poteri, la sua azione, la sua ideologia conquisteranno tutti i governi dell'Oriente. 11 Settembre? 

5) Dopo l'era del vapore e dell'elettricità ve ne sarà un'altra con un'energia rivoluzionaria, prima però dei proiettili aerei colpiranno l'umanità.

6) Un Re del terrore verrà con mezzi aerei dallo spazio esterno, da Marte (dio della guerra), che può anche essere simbolo di un conflitto. (...) La venuta dal cielo autorizza a pensare all'uso di aerei o di missili terrestri.

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà. Scartato, solstizio invernale è a Dicembre. Comunisti al potere in Italia, invasione dell'Europa e dell'Italia da parte dei musulmani, pericolo di morte per il Papa.  Russia, Cina, errore della Francia, Italia, Inghilterra, Germania, USA, Israele, il pericolo della Turchia, il Grande Impero Arabo, Italia. 

8) Caos e anarchia negli stati mediterranei.

9) In Italia vi saranno comunisti o filo-arabi al potere. E' la realtà di oggi. 

10) Futuro conflitto: acclamazione per le vittorie dell'impero islamico che invade l'Europa, resistenze al Ticino, a Milano e Genova, verrà chiesto aiuto al gran Monarca.

11) Il comunismo al potere controllerà il sud, incontrando opposizione al nord, soccorsi verranno chiesti al gran Re.

12) Il comunismo al Governo a Roma, il nord in opposizione chiederà l'intervento di una grande potenza o di un gran Re.

13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.

14) In Italia ci sarà un dittatore che il veggente cita come l'uomo da capelli neri e ricciuti. (Prodi, o D'Alema?)

15) A Roma governerà un capo seguace delle vecchie filosofie inglesi.

16) In Italia lotte di comunisti.

17) Guerra civile scoppierà in Italia.

18) Si avrà la creazione di un grande Impero Europeo. In questo caso sarà necessaria conseguenza di quello che è l'opposto oggi, un'Europa frammentata e indecisa sul da farsi.

19) Guerre coloniali in Africa. E anche qui, ci sono tutti i presupposti.

20) Prime invasioni islamiche nell'Adriatico e in Europa. 

21) L'attacco all'Occidente non avverrà solo attraverso la Siberia, ma anche dall'Oriente e dal Mediterraneo.

22) In due quartine diverse Nostradamus parla di invasioni russo-musulmane durante il conflitto, sulle quali concordano molti esegeti.

23) Gravi pericoli di morte per il Pontefice mentre sarà in mare in un periodo di lotte e persecuzioni religiose.

24) Il Pontefice morirà per un attentato.

25) Anche il Papa sarà in grave pericolo per l'aggressione araba. Il Signore del Cristianesimo andrà in esilio, quando gli eserciti arabi si avvicineranno a Roma.

26) Nostradamus parla anche di guerra batterica.

27) Guerra fratricida atlantica. 

28) Secondo Nostradamus, ci sarà una pericolosa tensione tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Tale tensione sfocerà in una guerra fratricida atlantica e costituirà un disastro nazionale per la Francia che non prenderà sul serio l'aggressione araba.

13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.

29) La Turchia cadrà in mano agli arabi.

30) La Turchia attaccata.

31) Gravi conflitti nella zona russo-turca.

32) Al governo di Parigi ci sarà un partito filocomunista.

33) La Francia andrà incontro ad un suicidio nazionale aprendo le porte all'Islam. E' quello che sta facendo, sta anche abolendo i crocifissi. Stesso errore che sta facendo l'Italia.

34) La Francia non solo non farà una piega per l'aggressione araba nel Mediterraneo, ma anzi amerà alla follia tutto ciò che avrà a che fare con la cosa araba.

35) Un condottiero arabo di Libia indurrà i francesi a studiare l'arabo.

36) La Francia sarà attaccata dagli arabi in due punti.

37) Parigi sarà distrutta da un attacco atomico.

38) L'Inghilterra subirà gravi sconfitte ai confini dell'Unione Araba (Mediterraneo).

39) Il Grande Impero Arabo riunito si estenderà dall'Oceano Atlantico fino al Golfo Persico.

40) Nostradamus vede nello stato di Israele un punto nevralgico pericoloso nel vicino Oriente.

41) Lo stato di Israele percorrerà un lungo calvario.

42) Cento milioni di arabi costituiranno un pericolo non solo per Israele ma anche per l'Europa meridionale. I grandi dell'Asia e dell'Africa stringeranno un'alleanza contro l'Europa.

43) Gli arabi con l'aiuto dei cinesi conquisteranno l'Europa meridionale. Se non si riferisse a conquista armata, potrebbe essere economica e culturale, che è quella che si prospetta oggi.

44) I cinesi faranno tornare a loro vantaggio il nazionalismo e il fanatismo arabo, ad annienteranno la cultura cristiana europea (...) Quello che si prospetta oggi.

45) La Cina, inimicatasi con la Russia e con gli USA, userà la bomba atomica in una guerra contro gli USA.

46) Il cielo sarà percorso dai luminosi tracciati dei missili.

47) Esplosioni atomiche negli USA.

48) New York distrutta da missili termonucleari.

49) Un prodigioso fuoco celeste distruggerà la Città Nuova. (New York)

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.

50) Un cataclisma di fuoco distruggerà la più grande e moderna città del mondo.

51) La città distrutta è individuata a 45° di latitudine. Tra queste c'è anche New York.

52) Gli attaccanti, sconfitti, lanceranno testate atomiche su città portuali americane ed inglesi.

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.

53) Gli USA scacceranno i cinesi dal grande oceano con armi atomiche ancora più potenti. 

54) Nemico distrutto da bombe atomiche e carestia.

55) Le forze asiatiche saranno vinte dopo 7 presidenti USA.

56) Il Re di Francia porterà la pace nel mondo.

57) Il re di Europa intraprenderà un'ultima crociata contro gli arabi per risolvere con l'aiuto di truppe le divergenze israeliano-arabe. Tali truppe saranno formate con soldati della Germania unita. La Germania che avrà questo ruolo importante nella risoluzione del conflitto, a questo punto si rifarà dell'Olocausto perché aiuterà Israele? 

58) Dopodiché ci sarà la pace per 1000 anni.  Diverse profezie concordano su comunisti al potere in Italia. Asia e Africa, assolutamente prevedibile, stringono un'alleanza contro l'Europa. La Francia fa l'errore madornale di fare entrare l'Islam nella sua società. Lo sta facendo. 20 profezie, tra tutti gli esegeti, parlano di invasione araba dell'Europa (Italia compresa), dell'Occidente. Si parla anche di invasione cinese. I cinesi (oppure nordcoreani?) approfitteranno di questa invasione per attaccare gli USA. Etc.

«Nel 2043 Roma capitale del Califfato Isis», la profezia della veggente dei Balcani, scrive Ida Artiaco il Martedì 8 Dicembre 2015 su "Il Messaggero". «Nel 2016 si inasprirà la guerra dell’Occidente contro il mondo islamico cominciata con la primavera araba. La fine si avrà soltanto nel 2043, quando verrà istituito un nuovo califfato che avrà Roma come suo epicentro». A parlare non è Nostradamus, ma una anziana donna non vedente di origine bulgara, dal nome Baba Vanga, venuta a mancare nel 1996 a 85 anni dopo oltre 50 dedicati alla chiaroveggenza. Le sue parole non farebbero così paura se non si considerasse che nella sua vita abbia predetto una serie di eventi, tragicamente verificatisi qualche anno dopo la sua morte. Primi tra tutti, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che sconvolsero l’America e tutti i suoi alleati, e lo tsunami del 2004. Ripercorrendo tutte le profezie della donna, da molti conosciuta come la “Nostradamus dei Balcani”, ci si accorge che il suo margine di errore è piuttosto ridotto, circa il 15%. Baba Vanga, nata a Strumica, attuale Macedonia, nel 1911 da una famiglia di origini poverissime, perse la vista, secondo quanto riportato dai tabloid locali, dopo essere stata colpita da un tornado a soli 12 anni. Ben presto ebbe le prime apparizioni: si diffuse la credenza che la donna riuscisse a leggere nel pensiero e a prevedere il futuro. Addirittura i leader comunisti del Paese chiesero il suo aiuto paranormale per organizzare la loro agenda politica. Tra gli altri eventi da lei predetti ci sarebbero anche la tragedia del sottomarino Kursk, avvenuto nel 2000, l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, sottolineando che sarebbe stato afroamericano e l’ultimo della storia, e la Primavera araba. Proprio da questi ultimi eventi, Baba Vanga avrebbe avvertito l’Europa di correre ai ripari contro la furia islamica, che stravolgerà il Vecchio Continente così come lo abbiamo conosciuto finora e ne sterminerà le popolazioni. Fino a che, come riportato dal sito News.co.au, nel 2043 l’economia europea sarà soggetta alla legge di un nuovo califfato che sorgerà a Roma. Addirittura, nel 2066 la Capitale italiana, sotto il nemico musulmano, sarà bombardata dagli Usa con un’arma climatica.

LA VEGGENTE: "IL 2016 VEDRÀ LA FINE DELL'EUROPA. NEL 2043 ROMA CAPITALE DEL CALIFFATO".  La notizia riportata da News.co.au, scrive Martedì 8 Dicembre 2015 Enrico Chillè su "Leggo". Il 2016 potrebbe essere l'anno della fine dell'Europa come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi. Gli euroscettici, però, non si affrettino ad esultare. Secondo le profezie di Baba Vanga, che a 19 anni dalla morte è ancora considerata la 'Nostradamus dei Balcani', il prossimo anno dovrebbe segnare l'inizio dell'occupazione del nostro continente da parte delle milizie jihadiste. Ripercorrendo tutte le profezie della sensitiva bulgara, ci si accorge che il margine d'errore è piuttosto ridotto (circa il 15%), e che rispetto ai 'colleghi' più illustri c'è anche un'esatta identificazione temporale degli avvenimenti. Baba Vanga, al secolo Vangelia Pandeva Dimitrova, nacque a Strumica (odierna Macedonia) nel 1911 da una famiglia poverissima, e a 12 anni avrebbe perso la vista dopo essere stata colpita da un tornado. Non potendo permettersi le cure necessarie, la donna rimase cieca per tutta la vita e avrebbe iniziato ad avere le prima visioni nei giorni seguenti. Secondo i suoi seguaci, Baba Vanga era in grado di leggere nel pensiero e di prevedere il futuro e la sua fama fu tale che anche i leader comunisti in Bulgari si servirono di lei per organizzare la loro agenda politica. In molti casi, le profezie di Baba Vanga si sono parzialmente avverate. Ecco cosa aveva previsto la sensitiva bulgara, anno per anno:

- Il riscaldamento globale e lo tsunami del 2004 (predetto negli anni '50): "Le regioni fredde diventeranno calde e i vulcani si sveglieranno. Un'onda gigantesca colpirà una grande costa e le città, gli edifici e le persone, saranno completamente sommersi dalle acque. Tutto si scioglierà come il ghiaccio";

- L'11 settembre (predetto nel 1989): "Orrore, orrore! La fratellanza americana cadrà dopo essere attaccata da uccelli d'acciaio. I lupi ululeranno nel cespuglio e scorrerà sangue innocente";

- La tragedia del sottomarino Kursk nel 2000 (predetta nel 1980): "Alla fine del secolo, nell'agosto 1999 o 2000, Kursk sarà sommersa dalle acque e tutto il mondo piangerà per lei".

- L'elezione di Obama: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia".

- La Primavera Araba: "Ci sarà una grande guerra islamica, che inizierà nel 2010 e diventerà mondiale. In Siria gli arabi utilizzeranno armi chimiche contro gli europei". Quasi tutto è ovviamente relativo. Dobbiamo ancora attendere per sapere se davvero Barack Obama sarà l'ultimo uomo alla Casa Bianca, ma il resto della profezia è incredibilmente preciso. Quando invece Baba Vanga parlò di Kursk, tutti pensarono alla città russa che diede il nome al sottomarino, affondato poi nell'agosto del 2000, come previsto dalla sensitiva. Sull'11 settembre, poi, le interpretazioni appaiono più o meno forzate, da fratellanza ad indicare le Torri Gemelle agli uccelli d'acciaio per gli aerei, passando per quel cespuglio che tradotto in inglese diventa Bush. Per non parlare, poi, delle profezie che non si sono mai avverate, come quella, piuttosto nota, dell'uccisione dei quattro maggiori leader mondiali nel 2009. Veniamo ora alle profezie future. Partendo dalla Primavera Araba, la veggente prevedeva che da lì sarebbe iniziata una nuova guerra mondiale: "Nel 2016 l'Europa sarà occupata dai musulmani e cesserà di esistere come la conosciamo. L'invasione durerà lunghi anni, sterminando le popolazioni e lasciando il continente vuoto".

Se credete a Baba Vanga e vi sentite già parecchio allarmati, evitate di proseguire con la lettura delle altre profezie, tutte perfettamente datate (e alcune, come lo scioglimento dei ghiacciai, già in corso):

- 2023: l'orbita della terra cambierà.

- 2025: la popolazione dell'Europa toccherà lo zero.

- 2028: l'uomo arriverà su Venere, alla ricerca di possibili nuove risorse.

- 2033: i poli si scioglieranno e aumenterà notevolmente il livello delle acque.

- 2043: l'Europa diventerà un Califfato e la nuova capitale sarà Roma. L'economia mondiale sarà soggetta alla legge islamica.

- 2066: l'America utilizzerà un'arma capace di cambiare il clima per riprendere il controllo dell'Europa e della cristianità.

- 2076: il comunismo dominerà in tutto il mondo.

- 2084: la natura rinasce (ci sono molti dubbi e vaghe interpretazioni su questa affermazione, nda).

- 2100: la Terra sarà illuminata 24 ore al giorno grazie al sole artificiale progettato dall'uomo (sono in corso studi per realizzarlo grazie alla fusione nucleare).

- 2130: grazie all'aiuto degli alieni, le civiltà potranno vivere anche sott'acqua.

- 2170: siccità globale.

- 2187: due eruzioni vulcaniche distruttive bloccate in tempo.

- 2201: le temperature globali si abbassano in seguito al rallentamento dei processi termonucleari nel sole.

- 2262: tutti i pianeti cambieranno leggermente orbita e Marte sarà a rischio collisione con una cometa.

- 2354: grave siccità dovuta a un incidente nel sole artificiale.

- 2480: collisione tra due soli artificiali, torna la notte sulla Terra.

- 3005: una guerra su Marte provocherà il cambio di orbita.

- 3010: una cometa colpirà la Luna e la Terra sarà circondata da ceneri e frammenti rocciosi.

- 3797: fine della vita sulla Terra, ma l'uomo avrà già raggiunto nuovi sistemi solari per sopravvivere. Finisce così la lista completa delle profezie di Baba Vanga, riportata da News.co.au. Le profezie passate si sono in parte avverate, e gli avvenimenti degli ultimi due anni potrebbero in minima parte gettare i presupposti su quelle del futuro prossimo. Ma non allarmiamoci, perché tutto appare fantasioso e improbabile. Soprattutto il ritorno del comunismo: noi italiani, si sa, moriremo democristiani...

Falce, sesso libero e martello: così l'Urss distrusse la famiglia. Comuni, divorzio facile e mercificazione del corpo della donna. Così i rivoluzionari stravolsero la società russa, scrive Rino Cammilleri, Martedì 25/10/2016, su "Il Giornale". L'anno prossimo cadrà il centenario delle apparizioni di Fatima, nelle quali la Madonna aveva profetizzato l'avvento e le conseguenze - del comunismo in Russia (il golpe leninista avvenne di lì a poche settimane). Per l'occasione si è svolto in settembre a Fatima un congresso mariologico internazionale in cui, tra l'altro, è stato presentato il libro Fatima misteries. Mary's message to the modern age (I misteri di Fatima. Il messaggio di Maria per l'epoca moderna), di due polacchi, Grzegorz Gorny e Janusz Rosikon, uscito negli Stati Uniti per Ignatius Press, la prestigiosa editrice dei gesuiti. Il primo è un produttore cinematografico e televisivo, il secondo è un famoso fotogiornalista. Il libro è curioso perché è strutturato come una specie di anti-Decalogo, nel quale si dimostra, punto per punto, come il comunismo ha contraddetto, scientemente e in pieno, tutti i Dieci Comandamenti della religione ebraico-cristiana, costruendo una vera e propria religione atea, un dio artificiale anch'esso onnipotente e onniveggente, il cui unico attributo (volutamente) mancante è la misericordia. Particolarmente (e tristemente) significativo, per l'attuale contesto di guerra alla famiglia, è il punto riguardante il Sesto Comandamento («Non fornicare», col suo omologo «Non desiderare la donna altrui»). La cosa parte da lontano, perché fin dal Manifesto di Marx-Engels si sapeva che cosa pensavano i comunisti della famiglia, istituzione «borghese» quant'altre mai. Il documento uscì a Londra semiclandestino nel 1848 e fece il suo outing alla Comune di Parigi nel 1871. E nel 1904 Lenin proclamò senza mezzi termini che condizione per la vittoria del socialismo era la liberazione della sessualità dalle catene della famiglia. L'anno dopo, il proclama fu messo per iscritto al III Congresso del Partito socialdemocratico russo. Ci pensò la minoranza bolscevica, che affidò a Trotszkij il compito di sviluppare una nuova teoria dei rapporti sessuali, giacché il matrimonio era uno strumento di «sfruttamento» delle donne e la famiglia un istituto «capitalista». Nel 1917, preso il potere, i bolscevichi introdussero, dopo neanche tre mesi, due decreti, uno «Sullo scioglimento del matrimonio» e l'altro «Sulla registrazione del matrimonio civile e i figli». Con essi cadeva ogni differenza tra convivenze e nozze. Per divorziare bastava un avviso per posta all'autorità - non al coniuge! - previo pagamento di tre rubli. Aleksandra Kollontaj, primo commissario per le questioni sociali, lanciò nel contempo la campagna «L'amore è come un bicchier d'acqua», intendendo che copulare equivaleva a dissetarsi: se hai sete, che fai? bevi, e senza tante storie e fronzoli. Quasi subito nelle principali città vennero istituiti i Commissariati del Libero Amore. Questi non solo incoraggiavano a darci dentro, ma punivano a frustate (con la famosa nagajka) le donne che rifiutavano di concedersi agli uomini indicati dal Commissariato. A Saratov si arrivò al punto di obbligare tutte le cittadine dai diciassette ai trent'anni, anche sposate, a darsi ai cittadini su semplice richiesta. Ogni lavoratore era tenuto a versare il due per cento del suo guadagno a un fondo apposito per vedersi garantito il sesso trisettimanale con chi voleva (donne, però). Il nudismo venne incentivato e i parchi si riempirono di gente d'ogni età e sesso intenta a prendere il sole, quando c'era, coperta dal solo cappello. Le carceri, naturalmente, furono il luogo privilegiato per gli esperimenti. Nel 1924 il famigerato Dzerzinskij, capo della Ceka, fece ammassare nelle prigioni di Bolszewo un migliaio di condannati minorenni tra i dodici e i diciotto anni per avviarli al sesso di gruppo. Per ovviare al diffuso analfabetismo venne ideato un «alfabeto erotico» (ovviamente porno) ideato dal pittore Sergeij Mierkurow e insegnato anche tramite i cinegiornali. La sostituzione della «famiglia tradizionale» con la «comune komsomolsk» (una dozzina di componenti) fu proposta (e imposta) da Grigorij Batkis, direttore del moscovita Istituto Sociale e autore del libro La rivoluzione sessuale. Tale rivoluzione, però, già nel 1922 aveva creato ben sette milioni di meninhos de rua, figli di nessuno che vagavano per le strade bolsceviche. Non solo. Nel 1926 la regressione demografica era divenuta così allarmante che Stalin si vide costretto a revocare ogni sprone alla promiscuità sessuale. Figli alla Patria. Possibilmente con padre e madre certi e certificati. Anche l'Uomo Nuovo, ahimè, doveva fare i conti col Vecchio.

Ecco perché i comunisti vogliono l’islamizzazione del mondo.

Bigami d'Italia Sono 20mila, fuorilegge e mai puniti. Ecco come è possibile vivere con due mogli aggirando le regole. La sfida degli imam: "Il problema è solo vostro", scrive Nino Materi, Lunedì 16/11/2015, su "Il Giornale". «La storia d'amore» di Fatima, 32 anni, egiziana, inizia con un matrimonio in una moschea italiana piena di fiori. E finisce a Monza in un garage pieno di immondizia. È qui che suo marito Hammed, 50 anni, egiziano, l'aveva scaricata come un sacco di spazzatura. È qui che i carabinieri l'hanno trovata con i suoi tre figli piccoli, anche loro ammassati nel box. La denuncia contro di lui non è scattata per le condizioni in cui faceva vivere donna e figli, ma perché la sua prima moglie (sposata civilmente ma da cui era separato) l'ha accusato di stalking. Fatima era diventata la seconda famiglia di Hammed, poligamo praticante. Fedele al Corano e alla Sharia che gli consente di avere fino a 4 donne. Mogli di riserva, mogli di scorta. Come Fatima. Non riconosciuta dalla legge italiana. Quindi senza nessun diritto. La vicenda riflette un fenomeno - il concubinaggio - che in Italia sta crescendo in maniera esponenziale sull'onda dell'arrivo massiccio della popolazione musulmana. Un impatto cui lo Stato italiano mostra di non essere adeguato sotto il profilo legislativo. La nostra giurisprudenza, in tema di normativa del concubinaggio, ne è una prova clamorosa. Come conferma il giudice Dembele Diarra, un'autorità in materia di poligamia, ex vicepresidente della Corte penale internazionale: «In Italia è possibile essere poligami di fatto senza violare formalmente la legge, anche se essa sanziona il reato di bigamia». L'alto magistrato ha recentemente presieduto un summit fra esperti di diritto di famiglia di sette Paesi (Turchia, Italia, Francia, Mali, Bulgaria, Israele, Senegal). Le parole più sferzanti l'alto magistrato le ha riservate proprio al nostro Paese, dove «le donne sono vittime di questa gravissima forma di violenza che si chiama poligamia». Il motivo? «La vostra legge non è chiara e finisce col legittimare i matrimoni religiosi all'interno delle moschee: riti celebrati da imam privi di scrupoli che non richiedono nessun tipo di certificazione civile». Una procedura contra legem che Ali Abu Shwaima, ex imam della moschea di Segrate, «poligamo praticante» (con due mogli e sette figli), non ha difficoltà a confermare: «Personalmente ho celebrato decine di matrimoni religiosi. Non mi sento assolutamente in colpa. Il problema è solo di voi italiani. La legge è infatti dalla nostra parte. Non solo la Corte Costituzionale ha abrogato l'articolo 560, quello che puniva il concubinato. Ma non si configura nemmeno il reato previsto dall'articolo (...)(...) 556, quello sulla bigamia, considerato che il secondo matrimonio è un semplice matrimonio religioso, senza alcun effetto civile». Dacia Valent, da ex deputato del Pd al Parlamento italiano, presentò un esposto alla Procura di Milano, accusando Ali Abu Shwaima di bigamia. L'esposto fu archiviato. Ancora più tagliente il giudizio di Mohamed Baha' el-Din Ghrewati, ex presidente della Casa della cultura islamica di Milano: «La società che non permette la poligamia è incivile e noi musulmani proponiamo la poligamia come rimedio al fallimento della società italiana». Secondo una ricerca condotta dall'Associazione donne marocchine in Italia, presieduta dall'ex parlamentare del Pdl, Suad Sbai, in Italia i bigami sono circa 20mila (non esistono statistiche ufficiali ma solo stime di riferimento), di cui la metà tra Lombardia e Veneto. Ma come si è arrivati a questo dato? Le moschee che in Italia celebrano matrimoni religiosi hanno un «albo» dove l'imam annota lo status dello sposo, il quale nel 90% dei casi risulta già coniugato civilmente con una donna musulmana (o italiana di fede cristiana oppure italiana convertita all'Islam). A queste celebrazioni bisogna aggiungere i cosiddetti «orfi», vale a dire i matrimoni a tempo, spesso stipulati in consolati o ambasciate compiacenti. Si tratta di un istituto previsto dalla legge islamica: un'unione suggellata da un patto tra marito e moglie, alla presenza del notaio e di due testimoni. I mariti arabi sposati in Italia tornano al loro Paese di origine per contrarre matrimoni a tempo con donne locali che spesso non sanno che il marito è già sposato. Non drammatizza il problema il professor Stefano Allievi, uno dei massimi esperti dell'islam italiano: «Fare un calcolo è impossibile, ma credo che la poligamia nel nostro Paese rappresenti un fenomeno irrilevante: riguarda poche famiglie, all'interno delle quali spesso la presenza di più mogli non crea alcun problema, perché è normale nella cultura di provenienza o perché è accettata anche da donne italiane convertite». Di tenore ben diverso però la denuncia di Suad Sbai: «In nome di un distorto concetto di integrazione e accoglienza l'Italia finisce col far finta di non vedere la piaga della poligamia che rende schiave migliaia di donne, sottoponendole a ogni tipo di vessazione. Una realtà tanto più paradossale considerato che la poligamia è contrastata da decenni in Tunisia, Turchia, Egitto; annullata dal nuovo codice della famiglia marocchino e severamente regolamentata in molti altri Paesi del mondo arabo». Negli ultimi 4 anni sono state un centinaio le sentenze di condanna emesse da tribunali italiani nei confronti di uomini (per lo più originari da Paesi arabi) «rei» (ma solo formalmente) di concubinaggio: le pene inflitte sono state infatti comminate non per il reato di poligamia ma per violenze. In altre parole in Italia, per finire in galera «bisogna» almeno picchiare (o uccidere) una delle mogli dell'harem.Il nostro codice penale, sul tema, è contraddittorio: «Considera la poligamia reato, ma non la persegue come fuorilegge - spiega l'avvocato Michelle Gruosso, esperto di diritto di famiglia -. Motivo? Se solo il primo dei suoi matrimoni è registrato civilmente nel nostro Paese e gli altri sono solo effetto di cerimonie religiose all'interno delle moschee italiane, tutto diventa regolare». Ma anche se entrambi i matrimoni fossero stati registrati civilmente non ci sarebbe troppa differenza: nel 2003 il tribunale di Bologna riconobbe a due figli dello stesso padre il diritto di far arrivare in Italia le rispettive madri, prima e seconda moglie dell'uomo in questione. In questo caso, argomentò il giudice, «il reato non sussiste, essendo entrambe le nozze state contratte in un Paese che le consente». Una sentenza che ha fatto giurisprudenza, finendo col legittimare una pratica che comincia a essere proibita perfino in molti Stati dell'islam moderato. «Indubbiamente ci troviamo di fronte a un problema che finora il diritto europeo non è riuscito a risolvere - sostiene Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all'università di Torino -; la poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo Paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui». Il Corano stabilisce che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma la condizione imprescindibile è che riservi a tutte lo stesso trattamento, in termini di tempo, attenzioni e denaro. «Formalmente - sottolinea l'avvocato Aluffi - già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell'uguaglianza».

CHI "GESTISCE "I POPOLI DEL MONDO? LE RELIGIONI? L'ISLAM O IL CRISTIANESIMO? ALLAH O JAHVE', CHIAMATO GEOVA? MAOMETTO O GESU'? O FORSE SATANA? Scritto da Nicola Scipione 29 Marzo 2016. Belle domande. Alle quali nessuno, almeno finora, ha saputo, o voluto, dare risposte concrete dimostrabili e credibili. La conferma, in merito, ci sembra la stiano dando tutte le proposte con cui si dice di fermare la "falsa migrazione" in Europa con azioni di guerra, e ciò senza neanche ipotizzare, ad esempio, la possibilità di bloccare il mercato mondiale degli strumenti bellici venduti a chi organizza e controlla gli "invasori". Noi proveremo a rispondere, cercando di suscitare possibili riflessioni, con opportune ricerche sugli interrogativi del titolo. Ma ciò, ovviamente, senza voler nulla togliere all' idea o alla convinzione di chi ritiene che sia attiva nel pianeta Terra l'azione di un creatore unico universale non conoscibile. Col prossimo intervento, però, proporremo altre domande. A nostro avviso, comunque, il mondo non ha bisogno di chi crede di poter "comandare", o "reagire", con violenza reciproca, ma solo di chi sa proporre e coordinare la conoscenza e la riflessione sul senso della vita nel pianeta Terra, da parte delle diverse popolazioni mondiali, e del conseguente rispetto reciproco fra gli umani. Si tratta, insomma, di un problema "culturale" che, però, non pare susciti molti consensi per motivazioni tutte soggettive. Il problema, inoltre, non può riguardare solo il nostro mondo perché nello sconfinato universo ci saranno sicuramente migliaia di altri pianeti abitati con gli stessi problemi.

COMINCIAMO DALLE RELIGIONI.

Premessa. Per evitare ogni possibile interpretazione personalistica su quanto diremo in seguito ci appare doveroso precisare ulteriormente che questo 1° intervento non è finalizzato ad esprimere la nostra personale scelta di una possibile o ipotetica soluzione della problematica che sta quasi sconvolgendo la vita di tutti gli abitanti terrestri. Lo scopo è solo quello di promuovere conoscenza e riflessione proprio sul senso della vita che, almeno per quanto ci appare, non suscita molta attenzione. Non è compito facile; non solo dal punto di vista concettuale, ma anche per la difficoltà di utilizzare le possibili "fonti" culturali, mistificate e mistificanti, della conoscenza necessaria. La nostra indagine ha incontrato interpretazioni spesso in contrasto fra loro ed incoerenti. Speriamo di essere riusciti a compilare una sintesi sufficiente a far riflettere. Chi volesse collaborare a tal fine sarà ben accetto.

Le religioni utili.

Nel mondo i 7 miliardi di abitanti si dividono in 30.547 religioni, dottrine, scuole filosofiche, credenze, sette, culti tribali, che si distinguono in due settori:

a) quelle Rivelate dai Profeti e organizzate   con Leggi e Dogmi: il Cristianesimo, l'Islamismo, e l'Ebraismo;

b) quelle Naturali che adottano comportamenti etico-sociali di senso comune, cioè senza Leggi, Dogmi e norme scritte da rispettare comunque.

Nel nostro caso quelle che interessano sono il Cristianesimo e l'Islamismo, le quali, rispettivamente, sono state considerate rivelate da Cristo e da Maometto, come profeti, cioè incaricati da Dio a rappresentarlo sulla Terra.

Non parliamo, per questa occasione, dell'Ebraismo, che ha per Profeta Mosè, ma che si distingue dalle prime due per il rispetto dei principi fissati con un 'altra Bibbia chiamata Torah. Tutte e tre, comunque, hanno, due elementi in comune:

-- 1) l'impossibilità dell'uomo, o la sua insufficienza o incapacità a risolvere tutti i problemi della sua vita materiale e/o di pensiero; In tali casi non gli resta che la speranza di affidarsi ad un'entità superiore, cioè, Dio o altre entità sconosciute, a cui poter chiedere aiuto. La conferma l'ha data anche Papa Ratzinger nell' Enciclica "Spe salvi", sostenendo, con apparente paradosso, che la Fede è proprio l'effetto di tale speranza.

-- 2) il monoteismo, cioè l'adorazione di un solo Dio, a cui tutti si affidano. C'è, però, anche chi, come il filosofo Feuerbach, ha sostenuto, con una battuta, che "non è Dio che ha creato l'uomo, ma l'uomo che ha creato Dio" affidandogli compito e potere di risolvere i suoi problemi. Con ciò scaricandosi delle sue responsabilità naturali.

Lo scienziato A. Einstein non è da meno: " Per me, la parola Dio non è niente di più che un’espressione e un prodotto dell’umana debolezza, e la Bibbia è una collezione di onorevoli ma primitive leggende, che a dire il vero sono piuttosto infantili. " Al contrario, però, non si può negare che molti contenuti e suggerimenti del "testo sacro"   sono tuttora validi e utilizzabili per l vita sociale dell'umanità, basta leggere i proverbi della Bibbia. Dopo questa estrema sintesi , finalizzata a suscitare attenzione e riflessione, torniamo al titolo per dire che Cristianesimo e Islamismo , pur se in apparenza , potrebbero avere finalità culturale , ma non concreta, di pensare a "dominare" anche buona parte del pianeta, non hanno, però, a nostro avviso, i connotati pratici di "divinità" per aspirare a tale dominio ordinato da un qualunque Allah al quale potrebbe bastare uno schioccar di dita per regolamentare non solo la Terra , ma tutto l' universo. Ha ragione, dunque, chi dice che ciò che sta accadendo in medio oriente e in Europa non sia una guerra di religione. Il motivo deve essere un altro. Anche perché, come vedremo, le due religioni sono divise da un'enorme contraddizione: il Dio islamico è lo stesso del Dio cristiano, il quale avrebbe rinnegato Cristo per affidarsi a Maometto. Però mentre Allah ordina violenze ed uccisioni di chi non lo rispetta, il Dio Geova cristiano chiede tutto l'opposto. Allora chi dei due comanda di più? Nessuno lo sa. Neanche un ignoto pensatore ne dà la spiegazione dicendo che i due Creatori sono: - Due cose una sola origine. Differisce in nome, la sua identità è mistero. Mistero di tutti i misteri, la porta di tutti gli arcani. - Diventa chiaro come   da questa condizione potrebbe venire il dubbio che nessuna   delle azioni dell'uomo sulla Terra sia controllata, e/o gestita, da un ipotetico potere divino; tutte cioè, sarebbero, solo frutto della sua personale capacità di pensiero e di intelligenza insita nella natura umana, di cui, però, non si conosce l'origine concreta di provenienza. Ma la cronaca non condivide. Magdi Cristiano Allam, (giornalista di origine islamica italianizzato) sintetizza così, su il Giornale, il suo commento agli attentati di Bruxelles. "Guerra prescritta da Allah e Maometto"" " È una guerra scatenata da un terrorismo islamico che attua letteralmente e integralmente ciò che Allah prescrive nel Corano e ciò che ha detto e ha fatto Maometto"…... "È ora di riscattarci. Cominciamo ad acquisire e a diffondere informazione corretta. Cominciamo a contrastare una cultura e una classe politica che favoriscono l'islamizzazione… demografica e l'infiltrazione del terrorismo islamico in Europa". E poi conclude che la maggioranza dei clandestini che arrivano dalla Libia e dalla Turchia sono islamici che applicano il Corano. C'è, dunque, il timore che il Dio cristiano abbia "adottato" Maometto 7 secoli dopo Cristo? Insomma, anche Magdi sembra credere all' esistenza concreta di Allah e Maometto di cui la storia non ufficiale dice che prima di essere nominato profeta da Allah pare sia stato un poco di buono con numerosi delitti, oltre a "gestire" insieme mogli e concubine. In merito, però, non abbiamo trovato documenti attendibili. Perciò, come si dice a battuta: ""qui lo dico e qui lo nego". Purtroppo alla reazione bellica contro chi sta emigrando verso occidente, sembra che non manchi il sostegno "politico" dell'Onu, dell'Unione Europea e della Chiesa, nonché sul fatto che si dovrebbero spalancare le nostre frontiere. Condividono l'accoglienza Il Presidente Juncker, Papa Francesco, il Presidente Mattarella, e pure Emma Bonino. Ma, ancora purtroppo, non sono soli. Il Presidente Renzi, invece, pare sia indeciso a pronunciarsi. Questa "accoglienza" , però, alla fine, potrebbe confermare, appunto, che non si tratta di una guerra di religione. A tal punto, dunque, ci sembra opportuno e necessario sintetizzare la differenza fra i comandamenti delle due religioni.

LA CRISTIANITA' E L' ISLAM.

Partiamo dalla volgarizzazione semplificatrice dei 10 comandamenti della religione cristiana. Io sono il Signore Dio tuo: 

1. Non avrai altro Dio fuori di me.

2. Non nominare il nome di Dio invano.

3. Ricordati di santificare le feste *.

4. Onora il padre e la madre.

5. Non uccidere.

6. Non commettere atti impuri.

7. Non rubare.

8. Non dire falsa testimonianza.

9. Non desiderare la donna d'altri.

10. Non desiderare la roba d'altri.

* Nota sul terzo comandamento: [- La Bibbia non dice "le feste", ma "il giorno del riposo", "il settimo", ossia la nostra domenica -]

Dall' Esodo 20:2-17: Leggiamo ora i dieci comandamenti (con spiegazioni) secondo la sacra bibbia, Parola di Dio.

- 1) "Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me.

- 2) Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

- 3) Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.

- 4) Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo.

- 5) Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà.

- 6) Non uccidere.

- 7) Non commettere adulterio.

- 8) Non rubare.

- 9) Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

- 10) Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.

I "pilastri" degli islamici e i comandamenti dell'isis.

I musulmani fondano la propria vita su cinque pilastri: 

1. - la testimonianza della propria fede: vi è un solo Dio, Allah, e Muhammad (Maometto) è il suo messaggero e profeta.

2. - la preghiera: ogni giorno ve ne sono cinque.

3. - le offerte: bisogna donare ai poveri, in quanto tutto ci è stato dato da Allah.

4. - il digiuno: tutti i musulmani devono digiunare durante il Ramadan, il nono mese del calendario islamico.

5. - Hajj : il pellegrinaggio alla Mecca, da fare almeno una volta nella vita, durante il dodicesimo mese del calendario islamico.

Questi, invece, i comandamenti della jihad (guerra santa). L’Isis ha diffuso via Twitter i dieci comandamenti delterrore, che devono essere seguiti dai suoi seguaci per combattere la jihad e imporre la parola di Allah sul mondo. Ma l’elenco è stato già rimosso, così come il profilo che l’ha diffuso. Il decimo comandamento dell’Isis spiega il compito finale dei sostenitori dell’organizzazione: la diffusione della religione islamica come interpretata da al-Baghdadi.(scuola coranica): Tutto il mondo andrà istruito in questo modo, e per evidenziare questa missione il decimo comandamento è diffuso con un’immagine che ritrae i miliziani in mezzo ai bambi (film per ragazzi con cartoni animati di Disnej).

- 1. Dare aiuto perché la parola di Allah domini il mondo.   -   Questo primo comandamento è stato diffuso con la bandiera nera dell’Isis, per affermare come il califfato sia il vero interprete del messaggio del Profeta Maometto.

- 2. Respingere l’attacco di tutti coloro che aggrediscono i musulmani.

- 3. Fare paura agli infedeli, umiliandoli.

- 4. Allontanare gli idolatri e i deviazionisti dalla comunità dei musulmani.

- 5. Smascherare gli ipocriti.

- 6. Liberarci tutti dai peccati.

- 7. Diventare martiri per amore di Allah.

- 8. Unire la comunità dei musulmani nell’unicità di Allah     -   Nell’ottavo comandamento l’Isis proclama di essere l’unica rappresentante della volontà di Allah, per guidare incontrastata il mondo islamico.

- 9. Offrire prodotti e servizi di cui i musulmani hanno.

- 10. Diffondere con saggezza e ragione la via di Allah.

A noi non sembra difficile definire impossibile la finalità del decimo comandamento. Comunque, chi vivrà vedrà.  Comparazione Corano / Bibbia.

- Jihad per il Regno di Allah: La Jihad è la "guerra santa" contro gli infedeli. L'Islam ha come scopo la conquista territoriale per instaurare un governo islamico con la sharia (legge coranica).

- Gli infedeli: Il Corano esorta a diffidare degli infedeli (compresi ebrei e cristiani) e a ucciderli. Sure 5:54; 47:4; 9:29,123,216.

Gli infedeli e i nemici (secondo la Bibbia). Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano. Esodo 23:3-4; Matteo 5:44. Luca 6:27,35; Romani 12:14; 1 Pietro 3:9.

Il concetto di Dio.

Nell' islam: Per un musulmano, Allah è l’Onnipotente, il Creatore e il Sostenitore dell'universo, niente è simile a Lui e nessuno è paragonabile a Lui. Il Profeta Maometto interrogato in merito ha risposto: In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso “Egli Allah è Unico, Allah è l'Assoluto. Non ha generato, non è stato generato, e nessuno è eguale a Lui”. [Corano 112:1-4].

Nel Cristianesimo. Il racconto della rivelazione a Mosè del Nome proprio di Dio si trova in Esodo 3, 13-15: “Allora Mosè disse a Dio: "Ecco, io vado dai figli di Israele e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi! Ma se essi mi domandano qual è il suo nome, che cosa risponderò?". Dio disse a Mosè: "Sono Colui che sono". E aggiunse: "Ai figli di Israele dirai: "Io-Sono", mi ha mandato a voi". Dio disse ancora a Mosè: "Ai figli di Israele parlerai così: "Jahvè", Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome in eterno, questo è il mio ricordo per sempre"”.

La funzione tentatrice di Satana. Sia il Cristianesimo che l' Islam concordano che si tratta di un angelo ribelle a Dio spedito dalla "sede celeste" sulla Terra dove, come entità maligna, in collaborazione con altre entità demoniache, starebbe combattendo Dio e la sua funzione creando nel mondo disagi, disgrazie , malattie , sconvolgimenti tellurici, e quant 'altro di brutto si sta verificando da parecchi anni comprese le migrazioni attuali che appaiono prive di motivazioni credibili , ma ricche di ignoranza e irrazionalità umana. In merito intervengono anche i "testimoni di Geova" i quali sulla base di quanto si legge nella Bibbia (rivelazione 12.12) Satana, nel tempo che stiamo vivendo, starebbe sfogando la sua rabbia perché sa che dopo l'ultima profezia sarà eliminato da Dio Geova per sempre. In tal senso sono d’accordo anche due autorevoli giornalisti di problematiche religiose Paolo Brosio e Antonio Socci secondo i quali nel 2017 scadrebbe il secolo concesso all' azione terrestre di Satana, dopo di che scatterebbe l'Apocalisse con la distruzione quasi totale degli abitanti in Terra, come sarebbe stato annunciato nella seconda parte del terzo segreto di Fatima. Mentre Padre Dolindo Ruotolo, "Servo di Dio" candidato alla santità, ha scritto che Satana ha per fine di screditare Dio e di far apparire come una fresca e deliziosa spensieratezza la vita del mondo, e come un'oppressione la vita dello spirito. 

Segreti di Fatima. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I Segreti di Fatima sono, secondo la Chiesa cattolica, tre messaggi rivelati dalla Madonna a tre pastorelli nel corso di alcune apparizioni iniziate il 13 maggio 1917a Fátima in Portogallo. I pastorelli erano i bambini Lucia dos Santos di 10 anni, Francisco Marto di 9 anni e Giacinta Marto di 7 anni. Bisogna precisare che, nonostante si parli sempre di tre segreti, il Segreto di Fatima è considerato dai credenti un'unica rivelazione, divisa in tre parti. Secondo la dottrina cattolica questo fenomeno appartiene alla categoria delle rivelazioni private. La storia dei Segreti di Fatima inizia il 13 luglio 1917, quando i tre bambini riferirono di aver incontrato per la terza volta la Madonna. Nel 1919 morì Francisco, seguito da sua sorella Giacinta, nel 1920, a causa della spagnola, cosicché Lucia divenne l'unica testimone vivente. Nel 1941, a 24 anni dalle apparizioni, suor Lucia, su invito del vescovo monsignor Josè Alves Correia de Silva, scrisse che l'unico segreto che le era stato rivelato il 13 luglio di 24 anni prima, era in realtà diviso in tre parti, di cui la terza non poteva essere ancora svelata. Di conseguenza Lucia comunicò al vescovo solo le prime due parti del segreto, che furono rese pubbliche da Pio XII nel 1942, in occasione della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria. La terza parte del segreto venne poi scritta da suor Lucia il 3 gennaio 1944, per essere poi affidata in busta chiusa al vescovo di Leiria, che la consegnò a Pio XII. Il terzo segreto avrebbe dovuto essere letto e rivelato solo dopo il 1960, ma Giovanni XXIII, che lo lesse nell'agosto del 1959, ritenne opportuno non rivelarlo; la stessa decisione fu presa da Paolo VI, che lesse il testo nel 1965. Giovanni Paolo II, il 13 maggio 2000, in occasione della beatificazione di Giacinta e Francisco, annunciò di volerne divulgare il contenuto. I tre segreti sarebbero un unico messaggio, diviso in tre parti. Riguardo al primo, suor Lucia scrive che la Madonna mostrò ai tre pastorelli: «...un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell'incendio[...]. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore.» In pratica, la prima parte del segreto parla della visione dell'inferno. Suor Lucia, scrive di "un grande mare di fuoco, con demoni e anime", citando le parole della Madonna: «Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.» Suor Lucia disse di riconoscere il "grande segno" nella straordinaria aurora boreale che illuminò il cielo nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1938 (dalle 20:45 all'1:15, con brevi intervalli), inoltre identificò il secondo conflitto mondiale con quello annunciato nella visione, descrivendolo come «Una guerra atea, contro la fede, contro Dio, contro il popolo di Dio. Una guerra che voleva sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio e il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio: "la salvezza viene dai giudei"» In effetti la Seconda Guerra Mondiale scoppiò (1º settembre 1939) durante il pontificato di papa Pio XII, essendo il suo predecessore Pio XI, nominato nella profezia, morto il 10 febbraio 1939. Inoltre la profezia fu rivelata da suor Lucia nel 1941, dopo l'inizio del conflitto stesso. Ma suor Lucia affermò che la Seconda Guerra Mondiale era iniziata, in realtà, durante il regno di Pio XI, con l'annessione dell'Austria. Il terzo segreto venne scritto separatamente da suor Lucia, nella lettera consegnata nel 1944 al vescovo di Leiria: « Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa, che è Dio, ("qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti") un vescovo vestito di bianco, ("abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre") insieme a vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo, con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce, venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio. » Il terzo segreto, rivelato solo nel 2000, secondo l'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, si riferirebbe alla Penitenza e al sacrificio dei martiri della Chiesa. Suor Lucia avrebbe ricevuto, dopo il 1917, altre rivelazioni. Nel suo scritto "Memorie di Suor Lucia", lei stessa rivela i dettagli, ricevuti il 13 giugno 1929: "Poi la Madonna mi disse: «È arrivato il momento in cui Dio chiede che il Santo Padre faccia, in unione con tutti i Vescovi del Mondo, la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato, promettendo di salvarla con questo mezzo. Sono tante le anime che la giustizia di Dio condanna per i peccati commessi contro di Me, che vengo a chiedere riparazione: sacrificati per questa intenzione e prega». Informai di tutto il confessore, che mi ordinò di scrivere ciò che la Madonna voleva che si facesse." Suor Lucia rivela anche che successivamente, ma la data non è specificata e non sappiamo se ciò sarebbe avvenuto giorni o anni dopo, la Madonna le avrebbe detto lamentandosi: «Non hanno voluto soddisfare la Mia richiesta! Come il re di Francia, si pentiranno e la faranno, ma sarà tardi. La Russia avrà già sparso i suoi errori per il mondo, provocando guerre e persecuzioni alla Chiesa: il Santo Padre avrà molto da soffrire». Nel 1963 la rivista tedesca Neues Europa pubblicò una versione del testo in cui erano presenti riferimenti ad una guerra nucleare su vasta scala e ad una grave crisi della Chiesa cattolica. L'editore della rivista, Louis Emrich, disse di avere avuto il testo da un esponente della diplomazia; secondo la fonte, papa Giovanni XXIII avrebbe incaricato il cardinale Alfredo Ottaviani di preparare un estratto del testo originale per inviarlo ai vertici delle grandi potenze mondiali allo scopo di scongiurare lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Il testo dell'articolo, ripreso da altri giornali, ebbe una grande diffusione e in riferimento alla presunta fonte fu definito "versione diplomatica". Diversi studiosi hanno messo in rilievo numerose incongruenze riguardanti la struttura e il contenuto del testo, arrivando alla conclusione che si trattava di un falso. Nessun commento ufficiale sul testo divulgato da Neues Europa venne effettuato dalla Santa Sede, tuttavia una smentita indiretta giunse dal cardinale Ottaviani, che nel 1967 affermò che non aveva senso discutere dei contenuti del Terzo segreto di Fatima poiché nessuna parte di questo era stata rivelata. Alcuni studiosi delle apparizioni di Fatima, fra cui il sacerdote Padre Nicholas Gruner, il giornalista italiano Antonio Socci e l'avvocato americano Christopher A. Ferrara, sostengono la tesi che non tutto del Terzo segreto di Fatima sia stato ancora rivelato. In particolare ritengono che dopo la frase di suor Lucia, contenuta nella sua quarta memoria: "In Portogallo, si conserverà sempre il dogma della fede", ci debba essere dell'altro. Il terzo segreto è infatti una visione, e così come la Madonna spiega nella seconda parte del segreto la visione contenuta nella prima parte, analogamente ritengono che debba esistere una quarta parte che spiega la visione contenuta nel terzo segreto. Inoltre il movimento fatimita, guidato da Padre N. Gruner, sostiene fermamente che la consacrazione della Russia richiesta dalla Madonna a suor Lucia non sia stata compiuta nei termini e nei modi richiesti, e quindi sarebbe ancora da fare. Papa Paolo VI, chiudendo la III Sessione del Concilio Vaticano II, il 21 novembre 1964, “affidò il genere umano” al Cuore Immacolato di Maria, nella stessa cerimonia in cui, applaudito in piedi dai Padri Conciliari, proclamò la Madonna “Mater Ecclesiae” (cfr. Insegnamenti di Paolo VI, vol. II, 1964, p. 678). Giovanni Paolo II fece due consacrazioni del mondo al Cuore Immacolato di Maria, una a Fatima, il 13 maggio 1982, e l'altra a Roma, il 25 marzo 1984. Nel villaggio di Hrushiw (Grushew, o Gruscevo), in Ucraina, il 12 maggio 1914 (il 13 maggio ricorre l'apparizione di Fatima) la Vergine sarebbe apparsa a 22 contadini per un giorno, profetizzando che l'Ucraina avrebbe perso la sovranità e che per otto decenni ci sarebbero state sofferenze e persecuzioni, al termine delle quali la cristianità avrebbe trionfato e l'Ucraina sarebbe tornata libera; predicendo inoltre che lo scoppio della guerra mondiale era imminente e che la Russia sarebbe diventata un paese senza Dio. Il 26 aprile 1987 sarebbe avvenuta, in una cappella sconsacrata dal 1957, l'apparizione della Madonna a Maria Kyzyn, visibile per un mese ai pellegrini che giungevano al villaggio al ritmo di 80.000 al giorno. Nella apparizioni alla Kyzin, la Madonna invita la Russia a convertirsi al cristianesimo, senza accennare a una mancata consacrazione papale della Russia al Cuore di Maria. "È per tramite vostro e del sangue dei martiri che avverrà la conversione della Russia. Pentitevi e amatevi gli uni e gli altri. Stanno per arrivare i tempi che sono stati preannunciati come quelli della fine del tempo; guardate la desolazione che circonda il mondo: i peccati, l'accidia, il genocidio...Se per la Russia non c'è ritorno al cristianesimo, ci sarà una terza guerra mondiale e il mondo intero si troverà davanti alla rovina".

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE. IL MESSAGGIO DI FATIMA. PRESENTAZIONE. Pubblicato su “Vatican.va”. Nel passaggio dal secondo al terzo millennio il Papa Giovanni Paolo II ha deciso di rendere pubblico il testo della terza parte del «segreto di Fatima». Dopo gli eventi drammatici e crudeli del secolo XX°, uno dei più cruciali della storia dell'uomo, culminato con l'attentato cruento al «dolce Cristo in terra», si apre dunque un velo su di una realtà che fa storia e che la interpreta in profondità, secondo una dimensione spirituale a cui la mentalità odierna, spesso venata di razionalismo, è refrattaria. Apparizioni e segni soprannaturali punteggiano la storia, entrano nel vivo delle vicende umane e accompagnano il cammino del mondo, sorprendendo credenti e non credenti. Queste manifestazioni, che non possono contraddire il contenuto della fede, devono convergere verso l'oggetto centrale dell'annuncio di Cristo: l'amore del Padre che suscita negli uomini la conversione e dona la grazia per abbandonarsi a Lui con devozione filiale. Tale è anche il messaggio di Fatima che, con l'accorato appello alla conversione e alla penitenza, sospinge in realtà al cuore del Vangelo. Fatima è senza dubbio la più profetica delle apparizioni moderne. La prima e la seconda parte del «segreto» — che vengono pubblicate nell'ordine per completezza di documentazione — riguardano anzitutto la spaventosa visione dell'inferno, la devozione al Cuore Immacolato di Maria, la seconda guerra mondiale, e poi la previsione dei danni immani che la Russia, nella sua defezione dalla fede cristiana e nell'adesione al totalitarismo comunista, avrebbe recato all'umanità. Nessuno nel 1917 avrebbe potuto immaginare tutto questo: i tre pastorinhos di Fatima vedono, ascoltano, memorizzano, e Lucia, la testimone sopravvissuta, nel momento in cui riceve il comando del Vescovo di Leiria e il permesso di Nostra Signora, mette per iscritto. Per quanto riguarda la descrizione delle prime due parti del «segreto», peraltro già pubblicato e perciò conosciuto, è stato scelto il testo scritto da Suor Lucia nella terza memoria del 31 agosto 1941; nella quarta memoria dell'8 dicembre 1941 vi aggiunge poi qualche annotazione. La terza parte del «segreto» fu scritta «per ordine di Sua Eccellenza il Vescovo di Leiria e della Santissima Madre...» il 3 gennaio 1944. Esiste un solo manoscritto, che viene qui riprodotto fotostaticamente. La busta sigillata fu custodita dapprima dal Vescovo di Leiria. Per meglio tutelare il «segreto», la busta fu consegnata il 4 aprile 1957 all'Archivio Segreto del Sant'Uffizio. Suor Lucia fu avvertita di ciò dal Vescovo di Leiria. Secondo appunti d'Archivio, d'accordo con l'Em.mo Card. Alfredo Ottaviani, il 17 agosto 1959 il Commissario del Sant'Uffizio, Padre Pierre Paul Philippe, O.P., portò a Giovanni XXIII la busta contenente la terza parte del «segreto di Fatima». Sua Santità «dopo talune esitazioni» disse: «Aspettiamo. Pregherò. Le farò sapere ciò che ho deciso». In realtà Papa Giovanni XXIII decise di rinviare la busta sigillata al Sant'Uffizio e di non rivelare la terza parte del «segreto». Paolo VI lesse il contenuto con il Sostituto Sua Ecc.za Mons. Angelo Dell'Acqua, il 27 marzo 1965, e rinviò la busta all'Archivio del Sant'Uffizio, con la decisione di non pubblicare il testo.  Giovanni Paolo II, da parte sua, ha richiesto la busta contenente la terza parte del «segreto» dopo l'attentato del 13 maggio 1981. Sua Eminenza il Card. Franjo Seper, Prefetto della Congregazione, consegnò a Sua Ecc.za Mons. Eduardo Martinez Somalo, Sostituto della Segreteria di Stato, il 18 luglio 1981, due buste: – una bianca, con il testo originale di Suor Lucia in lingua portoghese; – un'altra color arancione, con la traduzione del «segreto» in lingua italiana. L'11 agosto seguente Mons. Martinez ha restituito le due buste all'Archivio del Sant'Uffizio. Come è noto Papa Giovanni Paolo II pensò subito alla consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria e compose egli stesso una preghiera per quello che definì «Atto di affidamento» da celebrarsi nella Basilica di Santa Maria Maggiore il 7 giugno 1981, solennità di Pentecoste, giorno scelto per ricordare il 1600° anniversario del primo Concilio Costantinopolitano, e il 1550° anniversario del Concilio di Efeso. Essendo il Papa forzatamente assente venne trasmessa la sua allocuzione registrata. Riportiamo il testo che si riferisce esattamente all'atto di affidamento: « O Madre degli uomini e dei popoli, Tu conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze, Tu senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre che scuotono il mondo, accogli il nostro grido rivolto nello Spirito Santo direttamente al Tuo cuore ed abbraccia con l'amore della Madre e della Serva del Signore coloro che questo abbraccio più aspettano, e insieme coloro il cui affidamento Tu pure attendi in modo particolare. Prendi sotto la Tua protezione materna l'intera famiglia umana che, con affettuoso trasporto, a Te, o Madre, noi affidiamo. S'avvicini per tutti il tempo della pace e della libertà, il tempo della verità, della giustizia e della speranza». Ma il Santo Padre, per rispondere più pienamente alle domande di «Nostra Signora» volle esplicitare durante l'Anno Santo della Redenzione l'atto di affidamento del 7 giugno 1981, ripetuto a Fatima il 13 maggio 1982. Nel ricordo del Fiat pronunciato da Maria al momento dell'Annunciazione, il 25 marzo 1984 in piazza San Pietro, in unione spirituale con tutti i Vescovi del mondo, precedentemente « convocati », il Papa affida al Cuore Immacolato di Maria gli uomini e i popoli, con accenti che rievocano le accorate parole pronunciate nel 1981: « E perciò, o Madre degli uomini e dei popoli, Tu che conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze, Tu che senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, che scuotono il mondo contemporaneo, accogli il nostro grido che, mossi dallo Spirito Santo, rivolgiamo direttamente al Tuo Cuore: abbraccia con amore di Madre e di Serva del Signore, questo nostro mondo umano, che Ti affidiamo e consacriamo, pieni di inquietudine per la sorte terrena ed eterna degli uomini e dei popoli. In modo speciale Ti affidiamo e consacriamo quegli uomini e quelle nazioni, che di questo affidamento e di questa consacrazione hanno particolarmente bisogno. “Sotto la Tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio”! Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova!» Poi il Papa continua con maggiore forza e concretezza di riferimenti, quasi commentando il Messaggio di Fatima nei suoi tristi avveramenti: «Ecco, trovandoci davanti a Te, Madre di Cristo, dinanzi al Tuo Cuore Immacolato, desideriamo, insieme con tutta la Chiesa, unirci alla consacrazione che, per amore nostro, il Figlio Tuo ha fatto di se stesso al Padre: “Per loro — egli ha detto — io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità” (Gv 17, 19). Vogliamo unirci al nostro Redentore in questa consacrazione per il mondo e per gli uomini, la quale, nel suo Cuore divino, ha la potenza di ottenere il perdono e di procurare la riparazione. La potenza di questa consacrazione dura per tutti i tempi ed abbraccia tutti gli uomini, i popoli e le nazioni, e supera ogni male, che lo spirito delle tenebre è capace di ridestare nel cuore dell'uomo e nella sua storia e che, di fatto, ha ridestato nei nostri tempi. Oh, quanto profondamente sentiamo il bisogno di consacrazione per l'umanità e per il mondo: per il nostro mondo contemporaneo, in unione con Cristo stesso! L'opera redentrice di Cristo, infatti, deve essere partecipata dal mondo per mezzo della Chiesa. Lo manifesta il presente Anno della Redenzione: il Giubileo straordinario di tutta la Chiesa. 

Sii benedetta, in questo Anno Santo, sopra ogni creatura Tu, Serva del Signore, che nel modo più pieno obbedisti alla Divina chiamata! 

Sii salutata Tu, che sei interamente unita alla consacrazione redentrice del Tuo Figlio! 

Madre della Chiesa! Illumina il Popolo di Dio sulle vie della fede, della speranza e della carità! Illumina specialmente i popoli di cui Tu aspetti la nostra consacrazione e il nostro affidamento. Aiutaci a vivere nella verità della consacrazione di Cristo per l'intera famiglia umana del mondo contemporaneo. 

AffidandoTi, o Madre, il mondo, tutti gli uomini e tutti i popoli, Ti affidiamo anche la stessa consacrazione del mondo, mettendola nel Tuo Cuore materno. 

Oh, Cuore Immacolato! Aiutaci a vincere la minaccia del male, che così facilmente si radica nei cuori degli uomini d'oggi e che nei suoi effetti incommensurabili già grava sulla vita presente e sembra chiudere le vie verso il futuro! 

Dalla fame e dalla guerra, liberaci! 

Dalla guerra nucleare, da un'autodistruzione incalcolabile, da ogni genere di guerra, liberaci! 

Dai peccati contro la vita dell'uomo sin dai suoi albori, liberaci! 

Dall'odio e dall'avvilimento della dignità dei figli di Dio, liberaci! 

Da ogni genere di ingiustizia nella vita sociale, nazionale e internazionale, liberaci! 

Dalla facilità di calpestare i comandamenti di Dio, liberaci! 

Dal tentativo di offuscare nei cuori umani la verità stessa di Dio, liberaci!  

Dallo smarrimento della coscienza del bene e del male, liberaci! 

Dai peccati contro lo Spirito Santo, liberaci! liberaci! 

Accogli, o Madre di Cristo, questo grido carico della sofferenza di tutti gli uomini! Carico della sofferenza di intere società! 

Aiutaci con la potenza dello Spirito Santo a vincere ogni peccato: il peccato dell'uomo e il “peccato del mondo”, il peccato in ogni sua manifestazione. 

Si riveli, ancora una volta, nella storia del mondo l'infinita potenza salvifica della Redenzione: potenza dell'Amore misericordioso! Che esso arresti il male! Trasformi le coscienze! Nel Tuo Cuore Immacolato si sveli per tutti la luce della Speranza! ».

Suor Lucia confermò personalmente che tale atto solenne e universale di consacrazione corrispondeva a quanto voleva Nostra Signora (« Sim, està feita, tal como Nossa Senhora a pediu, desde o dia 25 de Março de 1984 »: « Sì, è stata fatta, così come Nostra Signora l'aveva chiesto, il 25 marzo 1984 »: lettera dell'8 novembre 1989). Ogni discussione perciò ed ogni ulteriore petizione sono senza fondamento. Nella documentazione che viene offerta si aggiungono ai manoscritti di Suor Lucia quattro altri testi:

1) la lettera del Santo Padre a Suor Lucia in data 19 aprile 2000;

2) una descrizione del colloquio avuto con Suor Lucia in data 27 aprile 2000;

3) la comunicazione letta per incarico del Santo Padre, a Fatima il 13 maggio c.a. da Sua Eminenza il Card. Angelo Sodano, Segretario di Stato;

4) il commento teologico di Sua Eminenza il Card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un'indicazione per l'interpretazione della terza parte del «segreto» era già stata offerta da Suor Lucia in una lettera al Santo Padre del 12 maggio 1982. In essa dice: «La terza parte del segreto si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se no [la Russia] spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte” (13-VII-1917). La terza parte del segreto è una rivelazione simbolica, che si riferisce a questa parte del Messaggio, condizionato dal fatto se accettiamo o no ciò che il Messaggio stesso ci chiede: “Se accetteranno le mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, ecc.”. Dal momento che non abbiamo tenuto conto di questo appello del Messaggio, verifichiamo che esso si è compiuto, la Russia ha invaso il mondo con i suoi errori. E se non constatiamo ancora la consumazione completa del finale di questa profezia, vediamo che vi siamo incamminati a poco a poco a larghi passi. Se non rinunciamo al cammino di peccato, di odio, di vendetta, di ingiustizia violando i diritti della persona umana, di immoralità e di violenza, ecc. E non diciamo che è Dio che così ci castiga; al contrario sono gli uomini che da se stessi si preparano il castigo. Dio premurosamente ci avverte e chiama al buon cammino, rispettando la libertà che ci ha dato; perciò gli uomini sono responsabili». La decisione del Santo Padre Giovanni Paolo II di rendere pubblica la terza parte del «segreto» di Fatima chiude un tratto di storia, segnata da tragiche volontà umane di potenza e di iniquità, ma permeata dall'amore misericordioso di Dio e dalla premurosa vigilanza della Madre di Gesù e della Chiesa.  Azione di Dio, Signore della storia, e corresponsabilità dell'uomo, nella sua drammatica e feconda libertà, sono i due perni sui quali si costruisce la storia dell'umanità. La Madonna apparsa a Fatima ci richiama a questi valori dimenticati, a questo avvenire dell'uomo in Dio, di cui siamo parte attiva e responsabile. Tarcisio Bertone, SDB Arcivescovo emerito di Vercelli Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede 

IL «SEGRETO» DI FATIMA PRIMA E SECONDA PARTE DEL « SEGRETO »   NELLA REDAZIONE FATTANE DA SUOR LUCIA NELLA « TERZA MEMORIA » DEL 31 AGOSTO 1941, DESTINATA AL VESCOVO DI LEIRIA-FATIMA (testo originale) (traduzione). Dovrò, perciò parlare un po' del segreto e rispondere al primo punto interrogativo. Cos'è il segreto. Mi pare di poterlo dire, perché dal Cielo ne ho già il permesso. I rappresentanti di Dio in terra mi hanno pure autorizzata, varie volte in varie lettere, una delle quali credo sia conservata dall'Ecc. V. Rev.ma, quella del P. Giuseppe Bernardo Gonçalves, nella quale mi ordina di scrivere al Santo Padre. Uno dei punti che mi indica, è la rivelazione del segreto. Qualcosa ho detto, ma per non allungare troppo quello scritto, che doveva essere breve, mi limitai all'indispensabile lasciando a Dio l'opportunità d'un momento più favorevole. Ho già esposto nel secondo scritto, il dubbio che mi tormentò dal 13 giugno al 13 luglio, e che in quest'apparizione svanì. Bene. Il segreto consta di tre cose distinte, due delle quali sto per rivelare. La prima dunque, fu la visione dell'inferno. La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell'incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore. In seguito alzammo gli occhi alla Madonna che ci disse con bontà e tristezza: — Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.

TERZA PARTE DEL «SEGRETO» (testo originale) (traduzione). «J.M.J. La terza parte del segreto rivelato il 13 luglio 1917 nella Cova di Iria-Fatima. Scrivo in atto di obbedienza a Voi mio Dio, che me lo comandate per mezzo di sua Ecc.za Rev.ma il Signor Vescovo di Leiria e della Vostra e mia Santissima Madre. Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio. Tuy-3-1-1944».  

INTERPRETAZIONE DEL «SEGRETO» LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II A SUOR LUCIA (testo originale). (Traduzione). Reverenda Suor Maria Lucia. Convento di Coimbra. Nel tripudio delle feste pasquali Le porgo l'augurio di Gesù Risorto ai discepoli: «La pace sia con te!». Sarò lieto di poterLa incontrare nell'atteso giorno della beatificazione di Francesco e Giacinta che, a Dio piacendo proclamerò il 13 maggio p.v. Siccome però in quel giorno non ci sarà il tempo per un colloquio, ma solo per un breve saluto, ho incaricato appositamente di venire a parlare con Lei Sua Eccellenza Monsignor Tarcisio Bertone, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. È la Congregazione che collabora più strettamente col Papa per la difesa della vera fede cattolica, e che ha conservato, come Lei sa, dal 1957, la Sua lettera manoscritta contenente la terza parte del segreto rivelato il 13 luglio 1917 nella Cova di Iria, Fatima. Monsignor Bertone, accompagnato dal Vescovo di Leiria, Sua Eccellenza Monsignor Serafim de Sousa Ferreira e Silva, viene a mio nome per fare qualche domanda sull'interpretazione della «terza parte del segreto». Reverenda Suor Maria Lucia, parli pure apertamente e sinceramente a Monsignor Bertone, che riferirà direttamente a me le Sue risposte. Prego ardentemente la Madre del Risorto per Lei, per la Comunità di Coimbra e per tutta la Chiesa. Maria, Madre dell'Umanità pellegrina, ci tenga sempre stretti a Gesù, Suo Figlio diletto e nostro Fratello, Signore della vita e della gloria. Con una speciale benedizione apostolica. GIOVANNI PAOLO II.  Vaticano, 19 aprile 2000.  

COLLOQUIO AVUTO CON SUOR MARIA LUCIA DE JESUS E DO CORAÇÃO IMACULADO. L'appuntamento di Suor Lucia con Sua Ecc.za Mons. Tarcisio Bertone, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, incaricato dal Santo Padre, e Sua Ecc.za Mons. Serafim de Sousa Ferreira e Silva, Vescovo di Leiria-Fatima, è avvenuto giovedì 27 aprile u.s., nel Carmelo di Santa Teresa di Coimbra. Suor Lucia era lucida e serena; era molto contenta dell'andata a Fatima del Santo Padre per la Beatificazione di Francesco e Giacinta, da lei tanto attesa. Il Vescovo di Leiria-Fatima lesse la lettera autografa del Santo Padre che spiegava i motivi della visita. Suor Lucia se ne sentì onorata e la rilesse personalmente contemplandola nelle proprie mani. Si disse disposta a rispondere francamente a tutte le domande. A questo punto Sua Ecc.za Mons. Tarcisio Bertone le presenta le due buste: quella esterna e quella con dentro la lettera contenente la terza parte del «segreto» di Fatima ed essa dice subito, toccandola con le dita: «è la mia carta», e poi leggendola: «è la mia scrittura». Con l'aiuto del Vescovo di Leiria-Fatima, viene letto e interpretato il testo originale, che è in lingua portoghese. Suor Lucia condivide l'interpretazione secondo cui la terza parte del «segreto» consiste in una visione profetica, paragonabile a quelle della storia sacra. Essa ribadisce la sua convinzione che la visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta del comunismo ateo contro la Chiesa e i cristiani, e descrive l'immane sofferenza delle vittime della fede nel XX° secolo. Alla domanda: «Il personaggio principale della visione è il Papa?», Suor Lucia risponde subito di sì e ricorda che i tre pastorelli erano molto addolorati della sofferenza del Papa e Giacinta ripeteva: «Coitadinho do Santo Padre, tenho muita pena dos pecadores!» («Poverino il Santo Padre, ho molta pena per i peccatori!»). Suor Lucia continua: «Noi non sapevamo il nome del Papa, la Signora non ci ha detto il nome del Papa, non sapevamo se era Benedetto XV o Pio XII o Paolo VI o Giovanni Paolo II, però era il Papa che soffriva e faceva soffrire anche noi». Quanto al passo concernente il Vescovo vestito di bianco, cioè il Santo Padre — come subito percepirono i pastorelli durante la «visione» — che è colpito a morte e cade per terra, Suor Lucia condivide pienamente l'affermazione del Papa: «fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte» (Giovanni Paolo II, Meditazione dal Policlinico Gemelli ai Vescovi Italiani, 13 maggio 1994). Poiché Suor Lucia, prima di consegnare all'allora Vescovo di Leiria-Fatima la busta sigillata contenente la terza parte del «segreto», aveva scritto sulla busta esterna che poteva essere aperta solo dopo il 1960, o dal Patriarca di Lisbona o dal Vescovo di Leiria, Sua Ecc.za Mons. Bertone le domanda: «perché la scadenza del 1960? È stata la Madonna ad indicare quella data?». Suor Lucia risponde: «Non è stata la Signora, ma sono stata io a mettere la data del 1960 perché secondo la mia intuizione, prima del 1960 non si sarebbe capito, si sarebbe capito solo dopo. Ora si può capire meglio. Io ho scritto ciò che ho visto, non spetta a me l'interpretazione, ma al Papa». Infine viene menzionato il manoscritto non pubblicato che Suor Lucia ha preparato come risposta a tante lettere di devoti della Madonna e di pellegrini. L'opera reca il titolo «Os apelos da Mensagen de Fatima» e raccoglie pensieri e riflessioni che esprimono i suoi sentimenti e la sua limpida e semplice spiritualità, in chiave catechistica e parenetica. Le è stato chiesto se era contenta che fosse pubblicato, ed ha risposto: «Se il Santo Padre è d'accordo, io sono contenta, altrimenti obbedisco a ciò che decide il Santo Padre». Suor Lucia desidera sottoporre il testo all'approvazione dell'Autorità ecclesiastica, e nutre la speranza di contribuire con il suo scritto a guidare gli uomini e le donne di buona volontà nel cammino che conduce a Dio, termine ultimo di ogni umana attesa. Il colloquio si conclude con uno scambio di rosari: a Suor Lucia viene consegnato quello donato dal Santo Padre, ed ella, a sua volta, consegna alcuni rosari da lei personalmente confezionati.  La benedizione impartita a nome del Santo Padre chiude l'incontro.  

COMUNICAZIONE DI SUA EMINENZA IL CARD. ANGELO SODANO SEGRETARIO DI STATO DI SUA SANTITÀ. Al termine della solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta da Giovanni Paolo II a Fatima, il Cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato, ha pronunciato in portoghese le parole che qui riportiamo nella traduzione italiana. Fratelli e sorelle nel Signore!  Al termine di questa solenne celebrazione, sento il dovere di porgere al nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II gli auguri più cordiali di tutti i presenti per il Suo prossimo 80° compleanno, ringraziandolo per il Suo prezioso ministero pastorale per il bene di tutta la Santa Chiesa di Dio, formuliamo i voti più cordiali di tutta la Chiesa. Nella solenne circostanza della Sua venuta a Fatima, il Sommo Pontefice mi ha incaricato di darvi un annuncio. Come è noto, scopo della Sua venuta a Fatima è stata la beatificazione dei due pastorinhos. Egli tuttavia vuole attribuire a questo Suo pellegrinaggio anche il valore di un rinnovato gesto di gratitudine verso la Madonna per la protezione a Lui accordata durante questi anni di pontificato. È una protezione che sembra toccare anche la cosiddetta terza parte del «segreto » di Fatima. Tale testo costituisce una visione profetica paragonabile a quelle della Sacra Scrittura, che non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate. Di conseguenza la chiave di lettura del testo non può che essere di carattere simbolico. La visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta dei sistemi atei contro la Chiesa e i cristiani e descrive l'immane sofferenza dei testimoni della fede dell'ultimo secolo del secondo millennio. È una interminabile Via Crucis guidata dai Papi del ventesimo secolo. Secondo l'interpretazione dei pastorinhos, interpretazione confermata anche recentemente da Suor Lucia, il «Vescovo vestito di bianco» che prega per tutti i fedeli è il Papa. Anch'Egli, camminando faticosamente verso la Croce tra i cadaveri dei martirizzati (vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e numerosi laici) cade a terra come morto, sotto i colpi di arma da fuoco. Dopo l'attentato del 13 maggio 1981, a Sua Santità apparve chiaro che era stata «una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola», permettendo al «Papa agonizzante» di fermarsi «sulla soglia della morte» (Giovanni Paolo II, Meditazione con i Vescovi italiani dal Policlinico Gemelli, in: Insegnamenti, vol. XVII1, 1994, p. 1061). In occasione di un passaggio da Roma dell'allora Vescovo di Leiria-Fatima, il Papa decise di consegnargli la pallottola, che era rimasta nella jeep dopo l'attentato, perché fosse custodita nel Santuario. Per iniziativa del Vescovo essa fu poi incastonata nella corona della statua della Madonna di Fatima. I successivi avvenimenti del 1989 hanno portato, sia in Unione Sovietica che in numerosi Paesi dell'Est, alla caduta del regime comunista che propugnava l'ateismo. Anche per questo il Sommo Pontefice ringrazia dal profondo del cuore la Vergine Santissima. Tuttavia, in altre parti del mondo gli attacchi contro la Chiesa e i cristiani, con il peso di sofferenza che portano con sé, non sono purtroppo cessati. Anche se le vicende a cui fa riferimento la terza parte del «segreto» di Fatima sembrano ormai appartenere al passato, la chiamata della Madonna alla conversione e alla penitenza, pronunciata all'inizio del ventesimo secolo, conserva ancora oggi una sua stimolante attualità. «La Signora del messaggio sembra leggere con una singolare perspicacia i segni dei tempi, i segni del nostro tempo... L'insistente invito di Maria Santissima alla penitenza non è che la manifestazione della sua sollecitudine materna per le sorti della famiglia umana, bisognosa di conversione e di perdono» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato 1997, n. 1, in: Insegnamenti, vol. XIX2, 1996, p. 561). Per consentire ai fedeli di meglio recepire il messaggio della Vergine di Fatima, il Papa ha affidato alla Congregazione per la Dottrina della Fede il compito di rendere pubblica la terza parte del «segreto», dopo averne preparato un opportuno commento. Fratelli e sorelle, ringraziamo la Madonna di Fatima della sua protezione. Alla sua materna intercessione affidiamo la Chiesa del Terzo Millennio. Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genetrix! Intercede pro Ecclesia. Intercede pro Papa nostro Ioanne Paulo II. Amen.   Fatima, 13 maggio 2000.

COMMENTO TEOLOGICO. Chi legge con attenzione il testo del cosiddetto terzo «segreto» di Fatima, che dopo lungo tempo per disposizione del Santo Padre viene qui pubblicato nella sua interezza, resterà presumibilmente deluso o meravigliato dopo tutte le speculazioni che sono state fatte. Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato. Vediamo la Chiesa dei martiri del secolo ora trascorso rappresentata mediante una scena descritta con un linguaggio simbolico di difficile decifrazione. È questo ciò che la Madre del Signore voleva comunicare alla cristianità, all'umanità in un tempo di grandi problemi e angustie? Ci è di aiuto all'inizio del nuovo millennio? Ovvero sono forse solamente proiezioni del mondo interiore di bambini, cresciuti in un ambiente di profonda pietà, ma allo stesso tempo sconvolti dalle bufere che minacciavano il loro tempo? Come dobbiamo intendere la visione, che cosa pensarne?  Rivelazione pubblica e rivelazioni private – il loro luogo teologico. Prima di intraprendere un tentativo di interpretazione, le cui linee essenziali si possono trovare nella comunicazione che il Cardinale Sodano ha pronunciato il 13 maggio di quest'anno alla fine della celebrazione eucaristica presieduta dal Santo Padre a Fatima, sono necessarie alcune chiarificazioni di fondo circa il modo in cui, secondo la dottrina della Chiesa, devono essere compresi all'interno della vita di fede fenomeni come quello di Fatima. L'insegnamento della Chiesa distingue fra la «rivelazione pubblica» e le «rivelazioni private». Fra le due realtà vi è una differenza non solo di grado ma di essenza. Il termine «rivelazione pubblica» designa l'azione rivelativa di Dio destinata a tutta quanta l'umanità, che ha trovato la sua espressione letteraria nelle due parti della Bibbia: l'Antico ed il Nuovo Testamento. Si chiama «rivelazione», perché in essa Dio si è dato a conoscere progressivamente agli uomini, fino al punto di divenire egli stesso uomo, per attirare a sé e a sé riunire tutto quanto il mondo per mezzo del Figlio incarnato Gesù Cristo. Non si tratta quindi di comunicazioni intellettuali, ma di un processo vitale, nel quale Dio si avvicina all'uomo; in questo processo poi naturalmente si manifestano anche contenuti che interessano l'intelletto e la comprensione del mistero di Dio. Il processo riguarda l'uomo tutto intero e così anche la ragione, ma non solo essa. Poiché Dio è uno solo, anche la storia, che egli vive con l'umanità, è unica, vale per tutti i tempi ed ha trovato il suo compimento con la vita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. In Cristo Dio ha detto tutto, cioè se stesso, e pertanto la rivelazione si è conclusa con la realizzazione del mistero di Cristo, che ha trovato espressione nel Nuovo Testamento. Il Catechismo della Chiesa Cattolica cita, per spiegare questa definitività e completezza della rivelazione, un testo di San Giovanni della Croce: «Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola... Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto nel suo Figlio... Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità» (CCC 65, S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 22). Il fatto che l'unica rivelazione di Dio rivolta a tutti i popoli è conclusa con Cristo e con la testimonianza a lui resa nei libri del Nuovo Testamento vincola la Chiesa all'evento unico della storia sacra e alla parola della Bibbia, che garantisce e interpreta questo evento, ma non significa che la Chiesa ora potrebbe guardare solo al passato e sarebbe così condannata ad una sterile ripetizione. Il CCC dice al riguardo: « ...anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli » (n. 66). I due aspetti del vincolo con l'unicità dell'evento e del progresso nella sua comprensione sono molto bene illustrati nei discorsi d'addio del Signore, quando egli congedandosi dice ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé... Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà» (Gv 16, 12-14). Da una parte, lo Spirito fa da guida e così dischiude una conoscenza, per portare il peso della quale prima mancava il presupposto — è questa l'ampiezza e la profondità mai conclusa della fede cristiana. Dall'altra parte, questo guidare è un «prendere» dal tesoro di Gesù Cristo stesso, la cui profondità inesauribile si manifesta in questa conduzione ad opera dello Spirito. Il Catechismo cita al riguardo una profonda parola di Papa Gregorio Magno: «Le parole divine crescono insieme con chi le legge» (CCC 94, S. Gregorio, in Ez 1, 7, 8). Il Concilio Vaticano II indica tre vie essenziali, in cui si realizza la guida dello Spirito Santo nella Chiesa e quindi la «crescita della Parola»: essa si compie per mezzo della meditazione e dello studio dei fedeli, per mezzo della profonda intelligenza, che deriva dall'esperienza spirituale e per mezzo della predicazione di coloro «i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità» (Dei Verbum, 8). In questo contesto diviene ora possibile intendere correttamente il concetto di «rivelazione privata», che si riferisce a tutte le visioni e rivelazioni che si verificano dopo la conclusione del Nuovo Testamento; quindi è la categoria, all'interno della quale dobbiamo collocare il messaggio di Fatima. Ascoltiamo ancora al riguardo innanzitutto il CCC: «Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall'autorità della Chiesa... Il loro ruolo non è quello... di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica» (n. 67). Vengono chiarite due cose: 

1. L'autorità delle rivelazioni private è essenzialmente diversa dall'unica rivelazione pubblica: questa esige la nostra fede; in essa infatti per mezzo di parole umane e della mediazione della comunità vivente della Chiesa Dio stesso parla a noi. La fede in Dio e nella sua Parola si distingue da ogni altra fede, fiducia, opinione umana. La certezza che Dio parla mi dà la sicurezza che incontro la verità stessa e così una certezza, che non può verificarsi in nessuna forma umana di conoscenza. È la certezza, sulla quale edifico la mia vita e alla quale mi affido morendo. 

2. La rivelazione privata è un aiuto per questa fede, e si manifesta come credibile proprio perché mi rimanda all'unica rivelazione pubblica. Il Cardinale Prospero Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, dice al riguardo nel suo trattato classico, divenuto poi normativo sulle beatificazioni e canonizzazioni: «Un assentimento di fede cattolica non è dovuto a rivelazioni approvate in tal modo; non è neppure possibile. Queste rivelazioni domandano piuttosto un assentimento di fede umana conforme alle regole della prudenza, che ce le presenta come probabili e piamente credibili». Il teologo fiammingo E. Dhanis, eminente conoscitore di questa materia, afferma sinteticamente che l'approvazione ecclesiale di una rivelazione privata contiene tre elementi: il messaggio relativo non contiene nulla che contrasta la fede ed i buoni costumi; è lecito renderlo pubblico, ed i fedeli sono autorizzati a dare ad esso in forma prudente la loro adesione (E. Dhanis, Sguardo su Fatima e bilancio di una discussione, in: La Civiltà Cattolica 104, 1953 II. 392-406, in particolare 397). Un tale messaggio può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell'ora attuale; perciò non lo si deve trascurare. È un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso. 

Il criterio per la verità ed il valore di una rivelazione privata è pertanto il suo orientamento a Cristo stesso. Quando essa ci allontana da lui, quando essa si rende autonoma o addirittura si fa passare come un altro e migliore disegno di salvezza, più importante del Vangelo, allora essa non viene certamente dallo Spirito Santo, che ci guida all'interno del Vangelo e non fuori di esso. Ciò non esclude che una rivelazione privata ponga nuovi accenti, faccia emergere nuove forme di pietà o ne approfondisca e ne estenda di antiche. Ma in tutto questo deve comunque trattarsi di un nutrimento della fede, della speranza e della carità, che sono per tutti la via permanente della salvezza. Possiamo aggiungere che le rivelazioni private sovente provengono innanzitutto dalla pietà popolare e su di essa si riflettono, le danno nuovi impulsi e dischiudono per essa nuove forme. Ciò non esclude che esse abbiano effetti anche nella stessa liturgia, come ad esempio mostrano le feste del Corpus Domini e del Sacro Cuore di Gesù. Da un certo punto di vista nella relazione fra liturgia e pietà popolare si delinea la relazione fra Rivelazione e rivelazioni private: la liturgia è il criterio, essa è la forma vitale della Chiesa nel suo insieme nutrita direttamente dal Vangelo. La religiosità popolare significa che la fede mette radici nel cuore dei singoli popoli, così che essa viene introdotta nel mondo della quotidianità. La religiosità popolare è la prima e fondamentale forma di «inculturazione» della fede, che si deve continuamente lasciare orientare e guidare dalle indicazioni della liturgia, ma che a sua volta feconda la fede a partire dal cuore. Siamo così già passati dalle precisazioni piuttosto negative, che erano innanzitutto necessarie, alla determinazione positiva delle rivelazioni private: come si possono classificare in modo corretto a partire dalla Scrittura? Qual è la loro categoria teologica? La più antica lettera di San Paolo che ci è stata conservata, forse il più antico scritto in assoluto del Nuovo Testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, mi sembra offrire un'indicazione. L'apostolo qui dice: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (5, 19-21). In ogni tempo è dato alla Chiesa il carisma della profezia, che deve essere esaminato, ma che anche non può essere disprezzato. Al riguardo occorre tener presente che la profezia nel senso della Bibbia non significa predire il futuro, ma spiegare la volontà di Dio per il presente e quindi mostrare la retta via verso il futuro. Colui che predice l'avvenire viene incontro alla curiosità della ragione, che desidera squarciare il velo del futuro; il profeta viene incontro alla cecità della volontà e del pensiero e chiarisce la volontà di Dio come esigenza ed indicazione per il presente. L'importanza della predizione del futuro in questo caso è secondaria. Essenziale è l'attualizzazione dell'unica rivelazione, che mi riguarda profondamente: la parola profetica è avvertimento o anche consolazione o entrambe insieme. In questo senso si può collegare il carisma della profezia con la categoria dei «segni del tempo», che è stata rimessa in luce dal Vaticano II: « ...Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? » (Lc 12, 56). Per «segni del tempo» in questa parola di Gesù si deve intendere il suo proprio cammino, egli stesso. Interpretare i segni del tempo alla luce della fede significa riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo. Nelle rivelazioni private riconosciute dalla Chiesa — quindi anche in Fatima — si tratta di questo: aiutarci a comprendere i segni del tempo ed a trovare per essi la giusta risposta nella fede. 

La struttura antropologica delle rivelazioni private. Dopo che con queste riflessioni abbiamo cercato di determinare il luogo teologico delle rivelazioni private, prima di impegnarci in un'interpretazione del messaggio di Fatima, dobbiamo ancora brevemente cercare di chiarire un poco il loro carattere antropologico (psicologico). L'antropologia teologica distingue in questo ambito tre forme di percezione o «visione»: la visione con i sensi, quindi la percezione esterna corporea, la percezione interiore e la visione spirituale (visio sensibilis - imaginativa - intellectualis). È chiaro che nelle visioni di Lourdes, Fatima, ecc. non si tratta della normale percezione esterna dei sensi: le immagini e le figure, che vengono vedute, non si trovano esteriormente nello spazio, come vi si trovano ad esempio un albero o una casa. Ciò è del tutto evidente, ad esempio, per quanto riguarda la visione dell'inferno (descritta nella prima parte del «segreto» di Fatima) o anche la visione descritta nella terza parte del «segreto», ma si può dimostrare molto facilmente anche per le altre visioni, soprattutto perché non tutti i presenti le vedevano, ma di fatto solo i «veggenti». Così pure è evidente che non si tratta di una «visione» intellettuale senza immagini, come essa si trova negli alti gradi della mistica. Quindi si tratta della categoria di mezzo, la percezione interiore, che certamente ha per il veggente una forza di presenza, che per lui equivale alla manifestazione esterna sensibile. Vedere interiormente non significa che si tratta di fantasia, che sarebbe solo un'espressione dell'immaginazione soggettiva. Piuttosto significa che l'anima viene sfiorata dal tocco di qualcosa di reale anche se sovrasensibile e viene resa capace di vedere il non sensibile, il non visibile ai sensi — una visione con i «sensi interni». Si tratta di veri «oggetti», che toccano l'anima, sebbene essi non appartengano al nostro abituale mondo sensibile. Per questo si esige una vigilanza interiore del cuore, che per lo più non c'è motivo della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e pensieri che riempiono l'anima. La persona viene condotta al di là della pura esteriorità e dimensioni più profonde della realtà la toccano, le si rendono visibili. Forse si può così comprendere perché proprio i bambini siano i destinatari preferiti di tali apparizioni: l'anima è ancora poco alterata, la sua capacità interiore di percezione è ancora poco deteriorata. «Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai ricevuto lode», risponde Gesù con una frase del Salmo 8 (v. 3) alla critica dei Sommi Sacerdoti e degli anziani, che trovavano inopportuno il grido di osanna dei bambini (Mt 21, 16). La «visione interiore» non è fantasia, ma una vera e propria maniera di verificare, abbiamo detto. Ma comporta anche limitazioni. Già nella visione esteriore è sempre coinvolto anche il fattore soggettivo: non vediamo l'oggetto puro, ma esso giunge a noi attraverso il filtro dei nostri sensi, che devono compiere un processo di traduzione. Ciò è ancora più evidente nella visione interiore, soprattutto allorché si tratta di realtà, che oltrepassano in se stesse il nostro orizzonte. Il soggetto, il veggente, è coinvolto in modo ancora più forte. Egli vede con le sue possibilità concrete, con le modalità a lui accessibili di rappresentazione e di conoscenza. Nella visione interiore si tratta in modo ancora più ampio che in quella esteriore di un processo di traduzione, così che il soggetto è essenzialmente compartecipe del formarsi, come immagine, di ciò che appare. L'immagine può arrivare solo secondo le sue misure e le sue possibilità. Tali visioni pertanto non sono mai semplici «fotografie» dell'aldilà, ma portano in sé anche le possibilità ed i limiti del soggetto che percepisce. Ciò lo si può mostrare in tutte le grandi visioni dei santi; naturalmente vale anche per le visioni dei bambini di Fatima. Le immagini da essi delineate non sono affatto semplice espressione della loro fantasia, ma frutto di una reale percezione di origine superiore ed interiore, ma non sono neppure da immaginare come se per un attimo il velo dell'aldilà venisse tolto ed il cielo nella sua pura essenzialità apparisse, così come un giorno noi speriamo di vederlo nella definitiva unione con Dio. Le immagini sono piuttosto, per così dire, una sintesi dell'impulso proveniente dall'Alto e delle possibilità per questo disponibili del soggetto che percepisce, cioè dei bambini. Per questo motivo il linguaggio immaginifico di queste visioni è un linguaggio simbolico. Il Cardinal Sodano dice al riguardo: « ... non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate ». Questo addensamento di tempi e spazi in un'unica immagine è tipica per tali visioni, che per lo più possono essere decifrate solo a posteriori. Non ogni elemento visivo deve, al riguardo, avere un concreto senso storico. Conta la visione come insieme, e a partire dall'insieme delle immagini devono essere compresi i particolari. Quale sia il centro di un'immagine, si svela ultimamente a partire da ciò che è il centro della «profezia» cristiana in assoluto: il centro è là dove la visione diviene appello e guida verso la volontà di Dio. 

Un tentativo di interpretazione del «segreto» di Fatima. La prima e la seconda parte del «segreto» di Fatima sono già state discusse così ampiamente dalla letteratura relativa, che non devono qui essere illustrate ancora una volta. Vorrei solo brevemente richiamare l'attenzione sul punto più significativo. I bambini hanno sperimentato per la durata di un terribile attimo una visione dell'inferno. Hanno veduto la caduta delle «anime dei poveri peccatori». Ed ora viene loro detto perché sono stati esposti a questo istante: per «salvarle» — per mostrare una via di salvezza. Viene in mente la frase della prima lettera di Pietro: «meta della vostra fede è la salvezza delle anime» (1, 9). Come via a questo scopo viene indicato — in modo sorprendente per persone provenienti dall'ambito culturale anglosassone e tedesco —: la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Per capire questo può bastare qui una breve indicazione. «Cuore» significa nel linguaggio della Bibbia il centro dell'esistenza umana, la confluenza di ragione, volontà, temperamento e sensibilità, in cui la persona trova la sua unità ed il suo orientamento interiore. Il «cuore immacolato» è secondo Mt 5, 8 un cuore, che a partire da Dio è giunto ad una perfetta unità interiore e pertanto «vede Dio». «Devozione» al Cuore Immacolato di Maria pertanto è avvicinarsi a questo atteggiamento del cuore, nel quale il fiat — «sia fatta la tua volontà» — diviene il centro informante di tutta quanta l'esistenza. Se qualcuno volesse obiettare che non dovremmo però frapporre un essere umano fra noi e Cristo, allora si dovrebbe ricordare che Paolo non ha timore di dire alle sue comunità: imitatemi (1 Cor 4, 16; Fil 3, 17; 1 Tess 1, 6; 2 Tess 3, 7.9). Nell'apostolo esse possono verificare concretamente che cosa significa seguire Cristo. Da chi però noi potremmo in ogni tempo imparare meglio se non dalla Madre del Signore? Arriviamo così finalmente alla terza parte del «segreto» di Fatima qui per la prima volta pubblicato integralmente. Come emerge dalla documentazione precedente, l'interpretazione, che il Cardinale Sodano ha offerto nel suo testo del 13 maggio, è stata dapprima presentata personalmente a Suor Lucia. Suor Lucia al riguardo ha innanzitutto osservato che ad essa era stata data la visione, ma non la sua interpretazione. L'interpretazione, diceva, non compete al veggente, ma alla Chiesa. Essa però dopo la lettura del testo ha detto che questa interpretazione corrispondeva a quanto essa aveva sperimentato e che essa da parte sua riconosceva questa interpretazione come corretta. In quanto segue quindi si potrà solo cercare di dare un fondamento in maniera approfondita a questa interpretazione a partire dai criteri finora sviluppati. Come parola chiave della prima e della seconda parte del «segreto» abbiamo scoperto quella di «salvare le anime», così la parola chiave di questo «segreto» è il triplice grido: «Penitenza, Penitenza, Penitenza!». Ci ritorna alla mente l'inizio del Vangelo: «paenitemini et credite evangelio» (Mc 1, 15). Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l'urgenza della penitenza - della conversione - della fede. Questa è la risposta giusta al momento storico, che è caratterizzato da grandi pericoli, i quali verranno delineati nelle immagini successive. Mi permetto di inserire qui un ricordo personale; in un colloquio con me Suor Lucia mi ha detto che le appariva sempre più chiaramente come lo scopo di tutte quante le apparizioni sia stato quello di far crescere sempre più nella fede, nella speranza e nella carità — tutto il resto intendeva solo portare a questo. Esaminiamo ora un poco più da vicino le singole immagini. L'angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio ricorda analoghe immagini dell'Apocalisse. Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo. La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente più come pura fantasia: l'uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco. La visione mostra poi la forza che si contrappone al potere della distruzione — lo splendore della Madre di Dio, e, proveniente in un certo modo da questo, l'appello alla penitenza. In tal modo viene sottolineata l'importanza della libertà dell'uomo: il futuro non è affatto determinato in modo immutabile, e l'immagine, che i bambini videro, non è affatto un film anticipato del futuro, del quale nulla potrebbe più essere cambiato. Tutta quanta la visione avviene in realtà solo per richiamare sullo scenario la libertà e per volgerla in una direzione positiva. Il senso della visione non è quindi quello di mostrare un film sul futuro irrimediabilmente fissato. Il suo senso è esattamente il contrario, quello di mobilitare le forze del cambiamento in bene. Perciò sono totalmente fuorvianti quelle spiegazioni fatalistiche del «segreto», che ad esempio dicono che l'attentatore del 13 maggio 1981 sarebbe stato in definitiva uno strumento del piano divino guidato dalla Provvidenza e che pertanto non avrebbe potuto agire liberamente, o altre idee simili che circolano. La visione parla piuttosto di pericoli e della via per salvarsi da essi. Le frasi seguenti del testo mostrano ancora una volta molto chiaramente il carattere simbolico della visione: Dio rimane l'incommensurabile e la luce che supera ogni nostra visione. Le persone umane appaiono come in uno specchio. Dobbiamo tenere continuamente presente questa limitazione interna della visione, i cui confini vengono qui visivamente indicati. Il futuro si mostra solo «come in uno specchio, in maniera confusa» (cfr 1 Cor 13, 12). Prendiamo ora in considerazione le singole immagini, che seguono nel testo del «segreto». Il luogo dell'azione viene descritto con tre simboli: una ripida montagna, una grande città mezza in rovina e finalmente una grande croce di tronchi grezzi. Montagna e città simboleggiano il luogo della storia umana: la storia come faticosa ascesa verso l'alto, la storia come luogo dell'umana creatività e convivenza, ma allo stesso tempo come luogo delle distruzioni, nelle quali l'uomo annienta l'opera del suo proprio lavoro. La città può essere luogo di comunione e di progresso, ma anche luogo del pericolo e della minaccia più estrema. Sulla montagna sta la croce — meta e punto di orientamento della storia. Nella croce la distruzione è trasformata in salvezza; si erge come segno della miseria della storia e come promessa per essa. Appaiono poi qui delle persone umane: il vescovo vestito di bianco («abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre»), altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e finalmente uomini e donne di tutte le classi e gli strati sociali. Il Papa sembra precedere gli altri, tremando e soffrendo per tutti gli orrori, che lo circondano. Non solo le case della città giacciono mezze in rovina — il suo cammino passa in mezzo ai cadaveri dei morti. La via della Chiesa viene così descritta come una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni. Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo. Come i luoghi della terra sono sinteticamente raffigurati nelle due immagini della montagna e della città e sono orientati alla croce, così anche i tempi sono presentati in modo contratto: nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello «specchio» di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni. Al riguardo sembra opportuno menzionare una frase della lettera che Suor Lucia scrisse al Santo Padre il 12 maggio 1982: «la terza parte del “segreto” si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se no (la Russia) spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte”». Nella Via Crucis di un secolo la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del «segreto», riconoscervi il suo proprio destino? Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: « ...fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte » (13 maggio 1994). Che qui una «mano materna» abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni. La conclusione del «segreto» ricorda immagini, che Lucia può avere visto in libri di pietà ed il cui contenuto deriva da antiche intuizioni di fede. È una visione consolante, che vuole rendere permeabile alla potenza risanatrice di Dio una storia di sangue e lacrime. Angeli raccolgono sotto i bracci della croce il sangue dei martiri e irrigano così le anime, che si avvicinano a Dio. Il sangue di Cristo ed il sangue dei martiri vengono qui considerati insieme: il sangue dei martiri scorre dalle braccia della croce. Il loro martirio si compie in solidarietà con la passione di Cristo, diventa una cosa sola con essa. Essi completano a favore del corpo di Cristo, ciò che ancora manca alle sue sofferenze (cfr Col 1, 24). La loro vita è divenuta essa stessa eucaristia, inserita nel mistero del chicco di grano che muore e diventa fecondo. Il sangue dei martiri è seme di cristiani, ha detto Tertulliano. Come dalla morte di Cristo, dal suo costato aperto, è nata la Chiesa, così la morte dei testimoni è feconda per la vita futura della Chiesa. La visione della terza parte del «segreto», così angustiante al suo inizio, si conclude quindi con una immagine di speranza: nessuna sofferenza è vana, e proprio una Chiesa sofferente, una Chiesa dei martiri, diviene segno indicatore per la ricerca di Dio da parte dell'uomo. Nelle amorose mani di Dio non sono accolti soltanto i sofferenti come Lazzaro, che trovò la grande consolazione e misteriosamente rappresenta Cristo, che volle divenire per noi il povero Lazzaro; vi è qualcosa di più: dalla sofferenza dei testimoni deriva una forza di purificazione e di rinnovamento, perché essa è attualizzazione della stessa sofferenza di Cristo e trasmette nel presente la sua efficacia salvifica. Siamo così giunti ad un'ultima domanda: Che cosa significa nel suo insieme (nelle sue tre parti) il «segreto» di Fatima? Che cosa dice a noi? Innanzitutto dobbiamo affermare con il Cardinale Sodano: « ...le vicende a cui fa riferimento la terza parte del « segreto » di Fatima sembrano ormai appartenere al passato ». Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato. Chi aveva atteso eccitanti rivelazioni apocalittiche sulla fine del mondo o sul futuro corso della storia, deve rimanere deluso. Fatima non ci offre tali appagamenti della nostra curiosità, come del resto in generale la fede cristiana non vuole e non può essere pastura per la nostra curiosità. Ciò che rimane l'abbiamo visto subito all'inizio delle nostre riflessioni sul testo del «segreto»: l'esortazione alla preghiera come via per la «salvezza delle anime» e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione. Vorrei alla fine riprendere ancora un'altra parola chiave del «segreto» divenuta giustamente famosa: «il Mio Cuore Immacolato trionferà». Che cosa significa? Il Cuore aperto a Dio, purificato dalla contemplazione di Dio è più forte dei fucili e delle armi di ogni specie. Il fiatdi Maria, la parola del suo cuore, ha cambiato la storia del mondo, perché essa ha introdotto in questo mondo il Salvatore — perché grazie a questo «Sì» Dio poteva diventare uomo nel nostro spazio e tale ora rimane per sempre. Il maligno ha potere in questo mondo, lo vediamo e lo sperimentiamo continuamente; egli ha potere, perché la nostra libertà si lascia continuamente distogliere da Dio. Ma da quando Dio stesso ha un cuore umano ed ha così rivolto la libertà dell'uomo verso il bene, verso Dio, la libertà per il male non ha più l'ultima parola. Da allora vale la parola: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo » (Gv 16, 33). Il messaggio di Fatima ci invita ad affidarci a questa promessa. Joseph Card. Ratzinger Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.  

Fatima: profezia realizzata. E’ singolare constatare come spesso quando si parla di Fatima si tenda a glissare sul famoso "Segreto", quasi come se fosse una questione irrilevante o comunque secondaria rispetto ad altri aspetti più prettamente teologici e devozionali (che pure hanno la loro indubbia importanza). Spesso notiamo con rammarico come anche i più attenti studiosi di queste apparizioni tendano a trascurare i tanti nessi tra certi eventi storici del secolo trascorso e le profezie contenute nel "Segreto", alcune delle quali hanno dimostrato ampiamente - alla luce dei dati storici oggi a nostra disposizione - di essersi realizzate, parola per parola. Proprio nel realizzarsi del Segreto c’è un’ulteriore inconfutabile dimostrazione non solo dell’autenticità di queste apparizioni, ma anche dell’importanza di questo genere di interventi straordinari della Madonna nel mondo. Mettere maggiormente in luce queste "inspiegabili concordanze" costituisce forse la medicina più efficace: 

1) contro quella mentalità agnostica e indifferentista tanto diffusa al giorno d’oggi (le opere potenti di Dio rafforzano la fede in Cristo e incoraggiano a perseverare in essa); 

2) contro i tentativi di sminuire la figura di Maria e il suo ruolo di Madre della Chiesa e principale avvocata e mediatrice presso Dio, una Verità che oggi - purtroppo - sono in tanti a mettere in discussione, perfino all’interno della Chiesa.

Fatima - per chi avesse qualche dubbio in proposito - ci dimostra in maniera inequivocabile che Dio per salvare il mondo si serve - soprattutto nel nostro tempo - di Sua Madre che a questo fine opera nella Chiesa Cattolica e attraverso la Chiesa Cattolica, a dimostrazione che - in tempo di indifferentismo e relativismo galoppante - questa e solo questa è la Chiesa voluta da Cristo per custodire la pienezza della Verità Rivelata. Maria Santissima appare per aprirci gli occhi sul "mistero di iniquità" che pervade la nostra epoca; appare per salvarci dal naufragio nel mare tempestoso dei mali apocalittici del nostro tempo. Bisogna dire che, ancor prima del Segreto, già altre profezie della Madonna si erano realizzate durante le apparizioni del 1917. Già nei dialoghi con i veggenti (durante le apparizioni del 13 luglio e del 13 settembre 1917) la Vergine, per provare la verità della sua presenza a Fatima, promise che nel mese di ottobre di quello stesso anno avrebbe fatto "un miracolo che tutti potranno vedere bene per credere". Il 13 ottobre effettivamente la Madonna operò il prodigio delle trasformazioni cromatiche e dei movimenti del sole ("miracolo del sole"). Questo prodigio, che fu notato in una zona tanto più vasta del luogo delle apparizioni, non può essere spiegato come un fenomeno di suggestione collettiva, per altro eccezionalmente difficile da prodursi nelle migliaia di persone - dalle 50.000 alle 70.000 - presenti alla Cova da Iria. Abbiamo parlato in precedenza di "mali apocalittici" del nostro tempo. Difficile non scorgere in questo grande miracolo un chiaro riferimento al libro dell’Apocalisse di Giovanni, riferimento che lo stesso Giovanni Paolo II parve mettere in evidenza durante la cerimonia di beatificazione di Francesco e Giacinta (13 maggio 2000). Il Santo Padre fece riferimento per ben due volte al capitolo 12° dell'Apocalisse, prima citando il versetto 1: "Per disegno divino, è venuta dal Cielo su questa terra, alla ricerca dei piccoli privilegiati dal Padre, «una Donna vestita di sole» (Ap 12,1)". L'autrice del "miracolo del sole" di Fatima era stata la Madonna, cioè la "Donna vestita di sole" (la Chiesa tradizionalmente vede nella "Donna vestita di sole" dell'Apocalisse la Madre di Dio). Si noti anche che la prima parte di quel versetto dice: "Nel cielo apparve poi un segno grandioso..."; qui l’analogia con il miracolo di Fatima è davvero straordinaria! Poi il Papa menzionò il versetto 4: "Il messaggio di Fatima è un appello alla conversione, che mette in guardia l’umanità affinché non faccia il gioco del «drago», il quale con la «coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra» (Ap 12,4)" [cfr. Omelia di Giovanni Paolo II nella Messa di beatificazione di Francesco e Giacinta, del 13.5.2000]. E qui il Santo Padre sembra attualizzare al nostro presente l'azione del "drago" dell'Apocalisse (Satana); e questo deve servirci da monito, perché il nostro cedere alle tante lusinghe che Satana propone al mondo di oggi, potrebbe avere tragiche conseguenze per tutti noi, non solo nell'eternità (non dimentichiamo la visione dell'inferno data ai tre veggenti) ma anche su questa terra: quelle stesse tribolazioni e flagelli che San Giovanni descrive con drammatico realismo nelle sue visioni profetiche. Ma c’è anche un’altra profezia realizzata. La Madonna nell’apparizione del 13 ottobre aveva detto: "La guerra finirà e i soldati torneranno presto alle loro case", e questo effettivamente accadde dopo breve tempo. Ormai praticamente tutto il messaggio profetico di Fatima sembra essersi realizzato fin nei minimi particolari, tranne forse per la terza parte del "Segreto" in cui si parla della morte del Santo Padre (vedremo più avanti in che senso questo aspetto non sembrerebbe essersi realizzato completamente) e soprattutto per quanto riguarda l’avvento del "periodo di pace" che la Madonna ha promesso al mondo. Vediamo quindi di capire i risvolti profetici di questo Segreto mettendoli in relazione con i dati storici che oggi abbiamo a disposizione.

La prima parte del "Segreto" di Fatima. La prima parte del segreto è la visione dell'inferno come esito ultimo ed eterno del peccato, una verità che nel XX secolo sarebbe stata progressivamente messa in discussione persino all’interno della Chiesa, da parte di certe correnti teologiche emergenti di stampo modernista.

Nella seconda parte del segreto la Madonna aveva spiegato ai veggenti: "Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato". E il 13 agosto aveva detto: "Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Badate che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro". La seconda parte del "Segreto" di Fatima. "La guerra sta per finire [la Prima Guerra Mondiale; N.d.R.]; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre": questo appello della Madre di Dio purtroppo rimase inascoltato e quindi un’altra guerra ebbe inizio - proprio come lei aveva preannunciato - durante il Pontificato di Pio XI: la Seconda Guerra Mondiale.

Suor Lucia Dos Santos. Suor Lucia credette di riconoscere quel "grande segno", la "luce sconosciuta" di cui si parla nel Segreto, nella straordinaria aurora di colore rosso che illuminò il cielo in tutto l’emisfero settentrionale nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1938 (dalle 20.45 all’1.15). La "luce" sembrava provocata da un enorme incendio - come di una foresta che bruciava in lontananza - che illuminò nella notte i cieli della Scandinavia, del Nord Europa, Nord Africa e Nord America. Di fronte alle numerose chiamate di persone allarmate dal fenomeno, le autorità si affrettarono a rassicurare che si trattava di una semplice aurora boreale. Ma quell’evento così impressionante nella sua inusitata imponenza, era qualcosa di più di un semplice fenomeno naturale, era presagio dei tragici avvenimenti che tutto il continente europeo e il mondo intero si apprestavano a vivere. Il secondo conflitto mondiale ebbe inizio appena due mesi più tardi quando, il 12 marzo 1938, Hitler invase l’Austria. La guerra durò 7 anni e quando finì, nel 1945, circa 50 milioni di persone vi avevano perso la vita. Fra queste, 6 milioni di ebrei e altri 5 milioni di persone erano morte per la fame, le torture o bruciate nei forni crematori nei campi di concentramento nazisti. Se poi si sommano a questi morti anche quelli di Lenin e Stalin nelle varie guerre e persecuzioni politico-religiose in Russia, si possono calcolare circa 100-150 milioni di vittime, solo nella prima metà del XX secolo. A fronte di tali cifre non fa meraviglia che Dio abbia inviato Sua Madre a Fatima per avvertire l’umanità e cercare così di salvarla dai drammatici eventi che stavano per infiammare il mondo. Ma la Madonna - come vedremo più avanti - era venuta a Fatima soprattutto per salvare il mondo da un altro e più grande male del nostro secolo: l’offensiva planetaria del comunismo.  "la Russia...spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati": gli "errori" che la Russia avrebbe sparso nel mondo non erano altro che il comunismo, che di lì a poco dalla Russia sarebbe dilagato in tutto il mondo causando persecuzioni ai cristiani e insanguinando molte nazioni. I Bolscevichi (comunisti) presero il potere in Russia il 7 novembre 1917 dopo la cosiddetta "Rivoluzione di Ottobre" iniziata il 25 ottobre 1917 (cioè pochi giorni dopo la fine delle apparizioni di Fatima). Alla fine della Seconda Guerra Mondiale (fra il 1945 e il ‘49) il comunismo si era ormai instaurato in Albania, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Ungheria, Germania Orientale, Polonia, mentre Lettonia, Estonia e Lituania erano state direttamente annesse dall’Unione Sovietica nel 1940. Le forze sovietiche avevano occupato tutti questi paesi tranne la Jugoslavia dove Josip Tito riuscì in qualche modo a mantenere il controllo della regione. Le persecuzioni alla Chiesa in questo paese iniziarono non appena Tito andò al potere. Centinaia di membri del clero vennero uccisi o deportati nei campi di lavoro, fra questi anche vescovi cattolici e ortodossi. Vi furono per tanti anni pesanti persecuzioni anche in Cecoslovacchia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Polonia e un po’ in tutti i paesi del blocco sovietico. Le persecuzioni contro i cristiani causarono nei primi decenni del regime comunista più martiri che in tutti i secoli precedenti messi assieme. Solo nella Chiesa Ortodossa russa fra gli anni ‘20 e ‘30, circa 50.000 persone fra preti e monaci morirono martiri per essersi rifiutate di rinnegare la loro fede. Si stima che il numero di membri del clero e di religiosi di tutte le confessioni cristiane martirizzati dai comunisti si aggiri attorno a 140.000. Solo Lenin, nell’arco di 5 anni pare che abbia fatto uccidere non meno di 1200 sacerdoti e 28 vescovi. Stalin già nel 1930 aveva chiuso metà delle chiese di Mosca e tutti i monasteri dell’Ucraina. Un gran numero di icone religiose venne fatto bruciare. Venne soppressa la Domenica e gli operai venivano costretti a firmare una dichiarazione di apostasia e di odio contro Dio, senza la quale non ottenevano le tessere con cui venivano assegnati cibo, vestiti e alloggio. Nel periodo delle purghe staliniane (1934-39) milioni di persone morirono nei gulag sovietici. Si stima che fra il 1935 e il ‘41 più di 19 milioni di persone siano state arrestate da Stalin. Meno della metà di questi venne passata per le armi subito, il resto morì nei gulag della Siberia. Regimi più o meno comunisti esistono ancora oggi in Cina, Corea del Nord, Laos, Vietnam e a Cuba. La Cina cadde in mano ai comunisti nel 1949, dopo che i precedenti governanti furono mandati in esilio nell'isola di Taiwan. In Cina molti milioni di persone che si erano opposte all'affermarsi del comunismo furono uccise. Il Vietnam del Nord cadde nel 1954; più tardi anche il Sud cadde in mano ai comunisti, dopo che gli Stati Uniti avevano lasciato il paese nel 1975. La Corea del Nord divenne uno stato comunista il 1 maggio 1948 in seguito all'occupazione sovietica. Il 25 giugno 1950, forze comuniste nordcoreane violarono il confine con la Corea del Sud, dando così inizio alla guerra di Corea (1950-1953). Cuba cadde sotto il dominio comunista quando Fidel Castro assunse il controllo del governo il 1 gennaio 1959. Nel 1961, dopo che Cuba fu ufficialmente dichiarata uno stato socialista, 350 scuole cattoliche vennero nazionalizzate. 136 sacerdoti furono espulsi e la Chiesa da allora è stata sottoposta a severe restrizioni e molte persone hanno cessato la pratica della fede cattolica. All'inizio del 1960 si stimava che 900 milioni di persone, più di 1/3 della popolazione mondiale, fossero dominate da regimi comunisti. "il Santo Padre avrà molto da soffrire": sebbene la Madonna non indichi qui a quale Papa specificamente si riferisca, generalmente si tende a ritenere che questo pontefice sia Giovanni Paolo II. Egli è considerato ormai il "Papa di Fatima", sia per via dell’attentato del 1981 sia per il suo contributo determinante alla caduta del Comunismo e alla dissoluzione dell’Urss. Ma parallelamente, in questa profezia si possono intravedere anche le sofferenze morali di tutti i pontefici che nel secolo scorso si sono dovuti misurare con i tanti attacchi feroci che Satana ha sferrato alla Chiesa, e - possiamo ragionevolmente prevedere - anche le sofferenze dei papi a venire, almeno fino a quando il "periodo di pace" non si sarà compiuto. Giovanni Paolo II ha compiuto una personale Via Crucis, cominciata da quell'attentato del 13 maggio 1981 (era l’anniversario della prima apparizione della Madonna a Fatima) in cui il turco Mehmet Ali Agca gli sparò in piazza San Pietro. Ali Agca, secondo varie indagini compiute dai magistrati italiani, sarebbe stato ingaggiato dai servizi segreti bulgari per conto dell’Unione Sovietica con il compito di uccidere Giovanni Paolo II; un Papa troppo scomodo e pericoloso, che bisognava fermare ad ogni costo. Troppo imprevedibili (potenzialmente destabilizzanti per il regime comunista) potevano essere gli effetti del suo pontificato, non solo per la sua patria (la Polonia) ma per l’intero blocco sovietico. Alle 17,17 di quel 13 maggio, mentre Giovanni Paolo II salutava la folla sulla sua jeep bianca, baciando bambini e stringendo mani, il giovane Agca ad una decina di metri da lui, estraeva una pistola e faceva fuoco. Colpito dalle pallottole, Giovanni Paolo II con l'abito pontificale macchiato di sangue, si accasciava sulla vettura che partiva di corsa per raggiungere il più vicino ospedale. I proiettili centrarono il bersaglio, perforando l'addome e ferendo il Pontefice ad una mano, ma non lo uccisero. Wojtyla, qualche tempo più tardi, disse che quel giorno a salvarlo fu l'aiuto celeste della Madonna di Fatima che con la sua mano invisibile aveva deviato la traiettoria del proiettile. In effetti, i medici del Policlinico Gemelli che lo curarono si sono sempre interrogati sull'anomalo tragitto della pallottola: un millimetro più in là e il Papa sarebbe stato colpito mortalmente agli organi vitali. Al Gemelli il Papa rimase in convalescenza per ben cinque mesi. Il proiettile sparato da Ali Agca, per volere di Wojtyla è stato incastonato nella corona tempestata di pietre preziose della statua della Vergine di Fatima. Ali Agca in seguito rivelerà in un’intervista un’altra coincidenza impressionante: la suora che arrestò la sua fuga quel 13 maggio si chiamava suor Lucia, proprio come l'unica superstite dei tre pastorelli cui esattamente 64 anni prima era apparsa la Madonna a Fatima. E’ da notare che sempre nel 1981, esattamente un mese dopo l'attentato al "Papa di Fatima", sono iniziate le apparizioni di Medjugorje - un paesino della Bosnia Erzegovina, allora ancora sotto il regime comunista jugoslavo. Le apparizioni di Medjugorje vengono oggi considerate dagli esperti in qualche modo come la continuazione di quelle di Fatima. La stessa Vergine in un messaggio del ‘91 ha spiegato che a Medjugorje intendeva compiere quello che aveva iniziato a Fatima. Ma questo del 1981 non fu l’unico attentato alla vita del Santo Padre. Il 12 maggio 1982 vi fu un altro tentativo di assassinare Giovanni Paolo II, un uomo a Fatima cercò di accoltellarlo, ma venne neutralizzato dalle forze di sicurezza prima che potesse portare a termine il suo piano. Durante una sua visita nelle Filippine, nel corso della giornata mondiale della gioventù del 1995, alcuni terroristi islamici organizzarono un altro attentato al Santo Padre, senza però riuscire nei loro intenti. Uno degli arrestati disse che dietro al gruppo c'erano varie organizzazioni ed un "miliardario saudita" (Al-Qaeda?). Ma si può dire che tutto il suo pontificato fu un vero calvario di sofferenza per i tanti problemi di salute che il Papa dovette patire fin dai primi anni. Il 15 luglio 1992 (11 anni dopo il primo ricovero) venne sottoposto ad un intervento chirurgico per l’asportazione di un voluminoso tumore benigno. Nell'occasione Giovanni Paolo II subì anche un intervento alla cistifellea, per la presenza di "alcuni calcoli". Ma per anni circolò la voce, infondata, di un tumore maligno. L'11 novembre 1993, durante un'udienza Giovanni Paolo II inciampò e cadde. Ricoverato al Gemelli subì la riduzione di una lussazione alla spalla destra. Il 29 aprile 1994 fu nuovamente ricoverato; era scivolato in bagno e si era fratturato un femore. Con un intervento chirurgico venne sostituita la testa del femore con una protesi. L'8 ottobre 1996 venne operato di appendicite. Nel frattempo si facevano sempre più evidenti i sintomi del Parkinson. I primi accenni della malattia avevano cominciato a manifestarsi già dal 1992 e col passare degli anni divennero rapidamente sempre più gravi e invalidanti: la mano sinistra cominciò a tremare, la muscolatura facciale si irrigidiva ed assumeva la maschera tipica del morbo. Con il passare del tempo apparirono sintomi secondari, come difficoltà nel pronunciare le parole, problemi respiratori ed un atteggiamento esitante. Con gli anni il Papa aveva avuto anche un significativo calo dell'udito, tanto che, in gran segreto, gli fu applicato un piccolissimo apparecchio prima all'orecchio destro, poi ad entrambi. Ad aggravare gli effetti menomanti del progredire del Parkinson si aggiunsero i dolori per l’intervento al femore e le conseguenze di un'artrosi che dal febbraio 2002 lo colpì al ginocchio destro. Pian piano per il Papa diventava sempre più difficile muoversi e camminare. Il 1 febbraio 2005 Giovanni Paolo II fu ricoverato d'urgenza per "una laringo-tracheite acuta con episodi di laringospasmo", esiti di un’influenza che lo aveva colpito qualche giorno prima. Il 24 febbraio 2005 vi fu un nuovo ricovero, sempre per motivi respiratori. Questa volta gli venne praticata una tracheotomia, un intervento che incise drasticamente sulla capacità del Papa di parlare. Alla fine di marzo vi fu poi l'aggravamento definitivo delle sue condizioni che ebbe per esito il decesso, avvenuto il 2 aprile 2005 alle ore 21.37. Questa vita così densa di tribolazioni e sofferenze, ricorda in qualche misura quella di certi mistici a cui il Signore ha affidato il compito di essere anime vittime per l’umanità. All’età di 84 anni si spegneva il papa che aveva guidato la Chiesa per oltre 26 anni (uno dei pontificati più lunghi della storia) con mirabile saggezza e santità, vigoroso impegno e ispirato magistero, e che aveva giocato un ruolo chiave nella caduta del comunismo in Europa. Appena pochi giorni prima (il 13 febbraio) era morta anche Suor Lucia, una coincidenza che pare quasi un suggello del (definitivo?) compimento di quel misterioso disegno divino iniziato nel 1917 a Fatima. Un’altra singolare coincidenza legata a Fatima è che il Papa si spense nel primo sabato del mese, il che ricorda la pia pratica dei "Primi 5 Sabati" chiesta a Suor Lucia dalla Vergine di Fatima il 10 dicembre 1925, quando le apparve nella casa delle Suore Dorotee a Pontevedra, in Spagna. Ma c'è anche un'altra coincidenza legata al giorno in cui Giovanni Paolo II è morto che, sebbene non collegata direttamente a Fatima, è davvero straordinaria e merita di essere menzionata. Egli rese l'anima a Dio nelle prime ore della festa della Divina Misericordia (dopo i Vespri del sabato), festa e che è stata introdotta da lui stesso nel 2000. Per l’istituzione della festa, che si celebra nella prima domenica dopo la Pasqua, il Santo Padre trasse ispirazione dalle rivelazioni di suor Faustina Kowalska, una mistica polacca a cui egli fin dalla giovinezza fu particolarmente devoto. Tra l’altro fu proprio Papa Wojtyla a promuovere la causa di beatificazione di suor Faustina e sempre lui nell'Anno Santo del 2000 l’ha proclamata santa. "Verrò a chiedere la consacrazione della Russia": la Madonna mantenne questa promessa il 13 giugno 1929, quando apparve a Suor Lucia nella cappella del suo convento. Così Suor Lucia riferisce le parole di Maria SS.: "La Madonna mi disse: "Il momento è venuto in cui Dio chiede al Santo Padre [a quel tempo era papa Pio XI; si noti che la Madonna nel "Segreto" del 1917 aveva annunciato che proprio durante il pontificato di questo papa ci sarebbe stata una grande guerra, peggiore della Prima Guerra Mondiale, se le sue richieste non fossero state accolte; N.d.R.], in unione con tutti i vescovi del mondo, di consacrare la Russia al mio Cuore Immacolato, promettendo così di salvarla in questo modo. Ci sono così tante anime che sono condannate dalla giustizia di Dio per i peccati commessi contro di me, che sono venuta a chiedere riparazione: fai sacrifici per questa intenzione e prega". Ma Pio XI non fece la consacrazione al Cuore Immacolato che la Madonna aveva chiesto. La consacrazione fu fatta invece da Pio XII in due occasioni, nel 1942 e nel 1952, ma non come la Madonna l’aveva richiesta. Anche Papa Wojtyla fece (nel 1982 e nel 1983) due consacrazioni, ritenute però da suor Lucia "invalide". "Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà": durante un solenne pellegrinaggio a Fatima, il 13 maggio 1982 per ringraziare la Vergine di avergli salvato la vita esattamente un anno prima, Giovanni Paolo II consacrò il mondo al Cuore Immacolato di Maria, con una "speciale menzione" al popolo russo. Il Santo Padre rinnovò questo atto di offerta e consacrazione in altre tre occasioni: il 16 ottobre 1983, il 25 marzo 1984 e infine l’8 dicembre 1985 (lo stesso anno in cui Gorbaciov andò al potere). Suor Lucia Dos Santos confermò la validità della consacrazione del 1984: "la consacrazione desiderata da Nostra Signora è stata fatta nel 1984, ed è stata accetta al Cielo" (cfr. Incontro di Mons. Tarcisio Bertone con Suor Lucia, "L'Osservatore Romano", 21.12.2001). Quel 25 marzo del 1984 Giovanni Paolo II compiva - in comunione con tutti i vescovi del mondo - l’Atto di affidamento a Maria del mondo, pronunciando queste parole: "Ci troviamo uniti con tutti i Pastori della Chiesa, in un particolare vincolo, costituendo un corpo e un collegio, così come per volontà di Cristo gli Apostoli costituivano un corpo e un collegio con Pietro. Nel vincolo di tale unità, pronunziamo le parole del presente Atto, in cui desideriamo racchiudere, ancora una volta, le speranze e le angosce della Chiesa per il mondo contemporaneo" (Atto di affidamento alla Madonna, del 25-3-1984, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, pp. 774-775). A questo punto si può dire che il tempo dell’Unione Sovietica era ormai contato: per il regime comunista iniziò quasi subito un rapido declino. Nel 1984 l’Unione Sovietica era già da tempo in una situazione di grave crisi economica e non era più in grado di sostenere la corsa agli armamenti con gli Stati Uniti. Gli storici dicono che il Cremino mise per la prima volta, in maniera ufficiale, all’ordine del giorno la possibilità di un attacco di sorpresa agli USA, perché l’idea era che attaccando per primi si poteva vincere. Quello fu certamente il momento di maggior pericolo per il mondo. In un’intervista inedita a Suor Lucia, resa pubblica nella trasmissione di Raidue "Excalibur" il 31 febbraio 2003, tra le tante cose suor Lucia parlò della Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria compiuta da Giovanni Paolo II in unione con tutti i vescovi del mondo, del pericolo costituito dal materialismo edonista che sta invadendo il pianeta, e tornò a parlare del rischio, scongiurato dal crollo dell’impero comunista, "di guerre atomiche come non ce ne erano mai state prima e che potevano distruggere l’umanità". Già in precedenza Suor Lucia aveva usato, in una lettera pubblicata all’indomani della caduta del muro di Berlino (cfr. mensile "30 Giorni", marzo 1990), parole inquietanti: "Quanto accade all’Est è dovuto ad una azione di Dio nel mondo per liberarlo dal pericolo di una guerra atomica che potrebbe distruggerlo". In molti si sono chiesti il perché di questi ripetuti, allarmanti accenni a guerre atomiche da parte di suor Lucia, dato che la Madonna, durante le apparizioni di Fatima, non ne ha mai fatto cenno. Forse la risposta sta tra le righe di un’intervista rilasciata ad Excalibur dal vescovo di Fatima, che ipotizzava che suor Lucia potesse aver avuto, oltre alle celebri apparizioni di Fatima, altre rivelazioni da parte della Vergine; rivelazioni di cui, ancora, nessuno è a conoscenza. La primavera del 1984 segnava l’inizio di un periodo davvero catastrofico per l’Urss. Il 13 maggio 1984 (ancora un anniversario delle apparizioni di Fatima) saltava in aria l'arsenale di Severomorsk sul mare del nord. Con questa esplosione la speranza di vittoria sovietica in un conflitto nucleare - dato per imminente -  veniva vanificata. Senza quell’apparato missilistico che controllava l‘Atlantico, l’Urss non aveva più alcuna speranza di prevalere sugli avversari. Per questo ogni opzione militare fu abbandonata. La notte del 26 aprile 1986, esplodeva il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl. Era il più grave disastro ambientale della storia dell'umanità che avrebbe causato in quei mesi e negli anni successivi la morte di migliaia di persone (secondo l’Onu circa 7000). Venne rilasciata nell’atmosfera una quantità di radiazioni superiore a quella di tutti gli esperimenti nucleari messi assieme mai condotti nel mondo. Quello stesso anno, in ottobre, un sommergibile russo affondò nell’Atlantico, trascinando con sé due reattori nucleari e 32 testate nucleari. Tre anni dopo, il 7 aprile 1989, 42 marinai sovietici morirono nel naufragio di un sottomarino nucleare nel Mar di Norvegia dopo lo scatenarsi di un terribile incendio causato da un'esplosione. A bordo del sommergibile c’erano due siluri muniti di cariche nucleari. Intanto in Romania, il 22 dicembre 1989, il dittatore comunista Nicolae Ceausescu e sua moglie, dopo essere stati contestati dalla folla durante un incontro a Bucarest, fuggivano precipitosamente in elicottero. Saranno arrestati il 25 dicembre (giorno di Natale!), sottoposti a processo sommario e poi messi a morte. La velocità con cui si svilupparono gli eventi nel Paese alla fine del dicembre 1989 fu a dir poco sorprendente, tanto che tutti gli osservatori politici, sia in occidente che in oriente, ne rimasero sgomenti. Dopo il 1984 anche il clima politico in Russia cambiò radicalmente. L'11 marzo 1985 (ad un anno dalla consacrazione al Cuore Immacolato fatta da Giovanni Paolo II), Mikhail Gorbaciov veniva eletto Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista. La sua politica di riforme avvierà numerosi processi di cambiamento che grazie alla Glasnost ("apertura"), alla Perestroika ("ristrutturazione") e all'Uskorenie ("accelerazione" dello sviluppo economico), porteranno alla fine della Guerra Fredda, arrestando la corsa agli armamenti ed eliminando il rischio di un conflitto nucleare. L'11 ottobre 1986, infatti, Gorbaciov ed il presidente statunitense Ronald Reagan si incontravano a Reykjavik (in Islanda) per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Tutto ciò condurrà, nel 1987 alla firma del trattato di non proliferazione nucleare. Fallita la politica di riforma di Mikhail Gorbaciov e crollati i regimi satellite europei, nel 1991 un tentativo fallito di golpe mandò in pensione il vecchio establishment sovietico. L'Unione Sovietica cessava di esistere l’8 dicembre 1991 (festa dell’Immacolata Concezione!), quando i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia ne annunciavano formalmente la dissoluzione. In seguito alla dissoluzione dell'URSS nascerà la Comunità di stati indipendenti (CSI). Il 25 dicembre 1991 - giorno di Natale in Occidente - Mikhail Gorbaciov rassegnava le dimissioni da presidente dell’URSS. La bandiera rossa che per molti decenni aveva svettato sul Kremlino venne ammainata definitivamente e sostituita dalla bandiera nazionale russa. Il comunismo sovietico era stato sconfitto! Si noti che esattamente quattro mesi prima, il 25 agosto 1991, in un messaggio dato ai veggenti di Medjugorje la Madonna aveva detto: "vi invito, cari figli, a pregare e digiunare ancora più fortemente. Vi invito alla rinuncia durante nove giorni, affinché con il vostro aiuto sia realizzato tutto quello che voglio realizzare attraverso i segreti che ho iniziato a Fatima. Vi invito, cari figli, a comprendere l'importanza della mia venuta e la serietà della situazione". La storia aveva dimostrato che la Madonna aveva mantenuto la promessa fatta nel 1917: alla fine con la consacrazione della Russia al Suo Cuore Immacolato era riuscita, senza il minimo spargimento di sangue, ad ottenere la liberazione della Russia (assieme agli altri Stati dell’Urss) dal giogo comunista che l’aveva tirannicamente oppressa per ben 70 anni. "In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede": la Repubblica massonica che aveva governato il Portogallo dal 1910 cadde in maniera repentina (inspiegabilmente) nel 1926. Il Paese iberico, dapprima anticlericale e massonico, divenne sempre più devoto alla Vergine e il 13 maggio 1931 i Vescovi portoghesi consacrarono al Cuore Immacolato la loro Nazione, rinnovando poi la consacrazione nel 1938 e nel 1946. Grazie al Cuore Immacolato di Maria, il Portogallo fu miracolosamente preservato dall’instaurazione di un regime comunista o comunque alleato ai comunisti, come invece accadde alla vicina Spagna, e venne risparmiato dalla Seconda Guerra Mondiale. Ad oggi il Portogallo rimane una delle nazioni dove la Fede cattolica è più sentita. Dopo la sconfitta della Massoneria, il Portogallo recuperò una buona stabilità economica e politica e vi fu un periodo di vera e propria rinascita del cattolicesimo: a milioni si convertirono e vi fu in questo Paese uno straordinario rifiorire delle vocazioni sacerdotali e di istituti religiosi. Il Portogallo mantenne la Fede, proprio come la Madonna aveva promesso a Fatima. Ma da questa profezia possiamo trarre anche un’altra considerazione: se la Madonna fa speciale menzione del fatto che in Portogallo "si conserverà il dogma della fede" questo vuol dire implicitamente che tale dogma in altre parti del mondo sarebbe stato rifiutato. E in effetti questo è quanto è accaduto progressivamente in tutto il corso del XX secolo; un secolo che ha visto l’affermarsi prepotente di una cultura relativista che nega l’esistenza di verità assolute e si oppone ad ogni Verità di Fede che la Chiesa propone a credere. Questa tendenza è stata denunciata in numerosissime occasioni dalla Chiesa. Anche Papa Benedetto XVI ha stigmatizzato questa mentalità ormai dominante. Lunedì 18 aprile 2005 (quando era ancora cardinale), presiedendo la Messa per l’elezione del successore di Giovanni Paolo II, diceva: "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo ad un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via". In questa situazione "avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni".

Ratzinger in quell’occasione parlò di una "dittatura del relativismo", "che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie".

La terza parte del "Segreto" di Fatima. Rappresentazione del "Terzo Segreto". Il cosiddetto "Terzo Segreto", che papa Wojtyla ha voluto che venisse rivelato nel 2000, secondo l’interpretazione ufficiale della Santa Sede riguardava le persecuzioni del XX secolo alla Chiesa e al Santo Padre. Il Cardinale Ratzinger nel suo commento teologico al messaggio di Fatima, a questo proposito scriveva che nel "Segreto" la via della Chiesa viene descritta come "una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni. Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo [...] nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello «specchio» di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni". In questa terza parte del Segreto si parla in particolare di un "Vescovo vestito di Bianco" che Suor Lucia ritenne essere il Santo Padre. In questa figura di vescovo vestito di bianco, Ratzinger vi vede tutti i papi che hanno occupato il Soglio di Pietro nel corso del XX secolo, fino a Giovanni Paolo II che rischiò di morire nell’attentato del 1981: "Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del Segreto, riconoscervi il suo proprio destino?". Ma se è vero che il "Terzo Segreto" riguarda i martiri cristiani e i pontefici del XX secolo, non possiamo tuttavia escludere che l’arco temporale che esso abbraccia non sia limitato solo al secolo scorso. Fu lo stesso Ratzinger, ormai Papa Benedetto XVI, a sostenere la possibilità che esso abbracci anche il presente e il futuro, quando proprio a Fatima affermò: "Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa", nel segreto "oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano" (Fatima, 11 maggio 2010). Non dobbiamo per altro dimenticare che dalle rivelazioni di diversi mistici del passato e del presente appare chiaro che prima dell’Era di Pace (che come abbiamo visto è stata profetizzata anche a Fatima ["...sarà concesso al mondo un periodo di pace"] e che - è evidente - non si è ancora realizzata) dovrebbero esserci altre e ben più gravi persecuzioni alla Chiesa, e in alcune di queste rivelazioni si afferma persino che ci sarà in futuro un papa che, in esilio, verrà assassinato. Considerando queste rivelazioni emerge quindi la possibilità che la terza parte del "Segreto" non si sia ancora compiuta in maniera definitiva e completa: la morte del "Vescovo vestito di Bianco" potrebbe anche riguardare un futuro pontefice e alcune delle persecuzioni a "Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni" vedute da Suor Lucia nella sua visione potrebbero essere ancora di là da venire. In ogni caso Fatima - come abbiamo visto - ci insegna che abbiamo nella Madre del Signore il più potente degli intercessori, per cui il futuro non deve crearci preoccupazioni. Abbiamo visto come la Madonna, subito dopo la consacrazione della Russia al Suo Cuore Immacolato, sia intervenuta prontamente ed efficacemente per liberare quella nazione dal giogo del comunismo. Facendo tesoro delle lezioni della storia, ora siamo ben consapevoli di quanto sia importante non disattendere gli appelli e gli ammonimenti che Maria Santissima ci invia; e quella di Fatima è una lezione che andrebbe applicata anche alle tante apparizioni mariane del nostro presente, fatto salvo il dovere di un prudente discernimento personale dei singoli casi, anche alla luce del Magistero della Chiesa (tenendo debitamente conto di eventuali pronunciamenti dei vescovi o della Santa Sede). Bisogna sempre accogliere con gratitudine e filiale abbandono gli inviti della Madonna e mettere in pratica con sollecitudine i consigli e le indicazioni che ci da’, per non incorrere in errori le cui conseguenze questa volta potrebbero essere davvero tragiche per tutta l’umanità. Fede e preghiera sono gli unici veri rimedi all’indolenza dei nostri dubbi e dei nostri timori verso gli appelli di Maria e l’unica difesa alle innumerevoli insidie sataniche del nostro tempo. Ratzinger - sempre nel commento al messaggio di Fatima - a questo proposito scrive: "Che qui una «mano materna» abbia deviato la pallottola mortale [diretta a Giovanni Paolo II; N.d.R.], mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni".

A cura di Profezie per il Terzo Millennio. Gli Errori dell’Ecumenismo. La seguente è una trascrizione, riveduta e corretta, di un discorso dato da Padre Paul Kramer, B.Ph., S.T.B., M.Div., S.T.L. (Cand.). Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. (Matt. 28:18-20) Nostro Signore Gesù Cristo non misurava le Sue parole. Il testo qui sopra, tratto dal Vangelo secondo Matteo, le parole che provengono dalla bocca del Nostro Divino Salvatore, incolpano il Concilio Vaticano Secondo di errore contro la Fede Cattolica. E’ quello che, dopotutto, è contenuto nel Terzo Segreto di Fatima, come disse il Cardinale Ciappi: “Nel Terzo Segreto (di Fatima), viene predetto, tra le altre cose, che la grande apostasia nella Chiesa comincerà dal suo vertice.” Sappiamo dalle profezie di San Francesco d’Assisi, predetta centinaia di anni fa, che vi sarà un Anti-Papa. Egli sarà un eretico. Non possiederà la Fede Cattolica. E cercherà di distruggere la Chiesa, riformandola con una nuova riforma. In pratica, la rivolta contro la legge di Dio ha avuto il suo inizio quando il Concilio ha proclamato l’errore dell’Ecumenismo. Ora vi saranno alcuni cosiddetti conservatori che si affretteranno ad obiettare, dicendo: “come puoi dire una cosa del genere? Dopo tutto, tutti i Concili Ecumenici sono infallibili, e così il Concilio non può sbagliarsi, non può insegnare un errore.” Io rispondo a quella domanda con un’altra: “Quale chiesa ha mai insegnato una cosa del genere?” Non certo quella Cattolica Romana. Il Wandererlo insegna, ma di certo nessun Papa l’ha mai fatto. Se guardiamo il Catechismo di Baltimora, vi leggeremo sopra che un Concilio è infallibile, ma esso non dice che il Concilio è infallibile in un suo qualsiasi pronunciamento. Cosa rende infallibile un Concilio? E’ il crisma dell’infallibilità. E la Chiesa insegna che possiamo verificare quando tale crisma viene esercitato. E’ esercitato quando la Chiesa definisce. Vi sono tre modi con cui la Chiesa definisce infallibilmente.

Il primo e più chiaro pronunciamento è quando il Papa, insieme ai vescovi radunati in un Concilio Ecumenico, definiscono solennemente e infallibilmente che un insegnamento è stato divinamente rivelato.

Il secondo avviene quando un Papa, da solo, pronuncia ex cathedra delle definizioni di Fede o di morale, esercitando il crisma dell’infallibilità, e pertanto non può essere in errore. Il Concilio può fare tutti gli errori di questo mondo quando non sta definendo, ma quando i Padri del Concilio, insieme con il Papa, pronunciano solennemente una definizione in termini di Fede o di morale, il Concilio non può errare. In questo senso va quindi interpretato il Catechismo riguardo all’infallibilità di un Concilio Ecumenico. Ecco come la Chiesa considera l’infallibilità, malgrado i neo-conservatori1 o i post-Conciliari2 possano pensare altrimenti.

Il terzo criterio di infallibilità nella Chiesa è il Magistero universale della Chiesa, il Magistero universale e ordinario, quando il Papa, insieme a tutti i vescovi Cattolici del mondo, nei loro insegnamenti ordinari, insegnano definitivamente che una dottrina va creduta; che una dottrina è stata divinamente rivelata.

Sono i neo-conservatori che guardano tutti gli errori del Vaticano II e dicono: “ebbene, non può essere un errore, perché è insegnato dal Concilio.” Sono sulla cattiva strada, perché non è l’insegnamento della Chiesa che qualsiasi pronunciamento di un Concilio sia da considerarsi infallibile. Ma è ciò che un Concilio definisce solennemente insieme al Papa ad esserlo: quest’ultimo è sicuramente infallibile. Essi obietteranno: “ma questi sono problemi dottrinali, importanti e seri problemi dottrinali. E’ il Papa insieme a tutti i vescovi del mondo che stanno insegnando tali argomenti, pertanto devono essere infallibili.” La risposta è “No! Non è infallibile. Non si tratta del Magistero universale e ordinario. Non è definitivo.”

Un Concilio è infallibile quando definisce. Quando il Concilio non definisce, il Concilio non è infallibile, e pertanto non è il Magistero universale e ordinario della Chiesa che sta parlando. Il Magistero universale e ordinario della Chiesa consiste in tutti i vescovi, di tutte le parti del mondo, che insegnano nelle loro diocesi – definitivamente – riguardo a materie di Fede e morale, insieme al Papa nella sua diocesi nei suoi insegnamenti ordinari – definitivamente – riguardo a materie di fede e morale. Ecco cosa viene chiamato infallibile Magistero universale e ordinario della Chiesa.

I vescovi ed il Papa che parlano in materia di dottrina in un Concilio Ecumenico non sono il Magistero universale e ordinario della Chiesa, e non sono infallibili – solo quando definiscono. E’ in questo contesto che possiamo chiaramente affermare che il Concilio Vaticano Secondo ha proclamato degli errori. Esso non ha assolutamente cercato di definire, non nel senso tecnico di una definizione dogmatica, nei modi di un solenne pronunciamento dello straordinario, infallibile Magistero della Chiesa. Anche nel senso ordinario del termine “definizione”, essi non hanno definito i propri termini.

Il Vaticano II non ha Definito l’Ecumenismo. Nel documento riguardante l’ecumenismo, si suppone che la Chiesa abbia proclamato l’ecumenismo. Ora, è una cosa piuttosto curiosa il fatto che nel proclamare l’ecumenismo, il Concilio non abbia chiaramente affermato cosa esattamente sia quest’ecumenismo. Hanno usato solo frasi descrittive, ma non hanno detto esattamente cosa fosse. Ebbene, gli esperti del Concilio – coloro che erano stati nominati espressamente quali esperti del Concilio, iperiti3– ovvero coloro che erano responsabili della stesura dei documenti, della loro correzione e revisioni; essi fecero in modo che il termine ecumenismo non venisse definito. Perché se avessero definito tale termine, almeno il 90% dei vescovi presenti al Concilio Vaticano II avrebbero urlato: “Questa è un eresia! Deve essere rifiutata. Non possiamo proclamare questa cosa, è un errore. E’ contro la Fede Cattolica, è eresia”.

Spieghiamo i motivi degli Eretici Modernisti. Pertanto, i periti Modernisti, sapevano che la battaglia si sarebbe persa istantaneamente se avessero osato definire i propri termini. Quindi lasciarono i termini indefiniti, e la loro scusa per non aver definito quelle cose fu: “dopo tutto, è un Concilio Pastorale. Non siamo qui per definire la dottrina, quindi non siamo qui per essere filosofici nella nostra definizione delle cose, questo è un Concilio pastorale. E quindi rinunciamo al compito di definire.” Ovviamente quella era la scusa. Il motivo reale dei liberali, ovvero più precisamente dei Modernisti, era che essi non osarono definire i propri termini perché sarebbero risultato smascherati per gli eretici che erano, e gli eretici che sono. L’ecumenismo è diametralmente opposto alla Fede Cattolica. Ed è chiaramente evidente quando si esamina cosa realmente sia. Papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut Unam Sint, si riferiva all’ecumenismo come avente orine nelle cosiddette Chiese della riforma: le chiese riformate, le chiese riformanti – in una sola parola: i Protestanti.

L’Ecumenismo è un’Eresia Protestante. Giovanni Paolo II riconosce che l’ecumenismo è un’invenzione Protestante. E’ questa cosa Protestante che ha invaso la Chiesa. Il Protestantesimo è un’eresia, e l’ecumenismo è una delle eresie del Protestantesimo. L’ecclesiologia del Protestantesimo è l’ecclesiologia dell’ecumenismo. L’ecclesiologia dell’ecumenismo è l’ecclesiologia dell’allora Cardinale Ratzinger, è l’ecclesiologia di Hans Küng e di tutti i modernisti. L’uomo in carica dell’ecumenismo nella Chiesa odierna è il Cardinale Walter Kasper, un’ecumenista; la sua ecclesiologia è Protestante. Ricordo quando visitai la Chiesa di San Tommaso a New York, di una bellezza tradizionale – contrariamente alla ristrutturata Cattedrale di San Patrizio in fondo alla strada, con il suo tavolo da banchetti posto dinanzi ai fedeli. Alla Chiesa di San Tommaso l’altare è orientato correttamente, ivi il cosiddetto sacerdote prega per incontrare il Signore, e la gente con lui. E c’è il messale, nell’epistilio dell’altare. Ci crediate o no, quella è una Chiesa anglicana Episcopale che sembra tanto Cattolica. Ho udito una volta la storia di una signora che ha passato i mesi estivi a New York, e che aveva l’abitudine di andare in quella chiesa (fosse San Tommaso o San Bartolomeo ora non ricordo con esattezza). A San Bartolomeo puoi vedere i confessionali, e l’altare situato nello stesso modo di San Tommaso, sembrano così tradizionali, così Cattolici. E dopo sette anni, ella scoprì che stava andando ad una chiesa anglicana. Pensava che fosse Cattolica Romana. Cosa l’aveva attratta in quelle chiese? Erano più Cattoliche delle sue parrocchie Romane. Non parlo di parrocchie Cattoliche, parlo di parrocchie ecumenico romane, parrocchie Protestanti Romane, parrocchie ecumeniche, dove non c’è più un altare oramai, ma piuttosto un tavolo da banchetto. E non ci sono più i bei confessionali di legno, come a San Bartolomeo, bensì una stanza di riconciliazione.

Come i Protestanti definiscono la Chiesa. C’è stata una nuova riforma nella Chiesa Cattolica, ed essa trae la propria ecclesiologia da quella chiesa che sembra Cattolica, ma non lo è. Mentre ero a San Tommaso, ho preso un opuscolo ed ho esaminato la presentazione della dottrina Anglicana, dove viene chiaramente affermato che non siamo religioni differenti, ma che siamo tutti parte di un’unica Chiesa Cristiana. Siamo differenti denominazioni dell’unica Chiesa Cristiana, sia che ci chiamiamo Romani, Cattolici, Ortodossi, Evangelici, Anglicani o Santi Rocchettari, per quanto possa importare. Qualunque sia la definizione, sono solo denominazioni di una stessa unica Chiesa Cristiana. Tutti professano la loro fede in Gesù Cristo, tutti fanno parte di un’unica chiesa universale. Questo è ecumenismo. Questa è l’ecclesiologia dell’ecumenismo. Questa è l’eresia dell’ecumenismo, diametralmente opposta all’insegnamento ed alla tradizione originali della Chiesa Cattolica, creata dal Signore, proclamata dagli Apostoli e salvaguardata dai Padri, come insegna Sant’Attanasio.

Qual è il Dogma Cattolico della Chiesa di Cristo. L’insegnamento Cattolico riguardo alla Chiesa Cattolica Romana è quello per cui Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, fondò l’Unica Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa che durerà fino alla fine dei tempi. Tutte le altre religioni sono false, non piacciono a Dio e a meno che una persona non abbandoni le false chiese per unirsi alla Chiesa Cattolica Romana (che include i Riti Orientali della Chiesa Cattolica) e perseveri nella Fede Cattolica fino alla morte, egli non potrà salvare la propria anima. “Al di fuori della Chiesa non v’è salvezza” è un dogma definito solennemente per tre volte dai papi Cattolici. E’ riassunta nella fraseologia semplice e diretta usata da Gesù Cristo, Nostro Signore e Salvatore. “In quel tempo, Gesù disse ai Suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matt. 28:18-20). Da notare quante volte Egli usi la parola “tutto”. Oggi è diventata una parola sporca, viene definito esclusivismo. “Come osi affermare che questa sia l’unica vera Chiesa e le altre religioni siano false?” C’è un unico Dio, ed Egli ha rivelato solo tramite la verità divina. C’è solo un’unica rivelazione divina, e si trova nell’unica Chiesa che Egli ha fondato. Come possono gli Indù o i Santi rocchettari possedere qualche aspetto in comune con la Fede Cattolica? E ogni chiesa differente, ogni diversa religione ha dottrine in conflitto tra loro. Essi insegnano cose differenti che sono opposte e contraddittorie, come il bianco col nero. Come possono dire realmente che “sono tutte la stessa cosa”?

Non il Dialogo, ma la Conversione. Nostro Signore Gesù Cristo ha detto: “Mi è stato dato tutto il potere”. Tutto il potere, non solo quello di parlare ai Cattolici. “Mi è stato dato tutto il potere… Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni… insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.” Egli non ha invocato tutto il suo potere per mandarci la fuori semplicemente a dialogare con le altre religioni, ed a vivere in armonia perpetua ed in pace con i movimenti, per esempio, che non cercano altro che di distruggerci. Non tutti di loro desiderano quest’ultima cosa, ma quando il clero Islamico va sui minareti e proclama la guerra santa, la Jihad, allora anche i più miti tra i Mussulmani si avvieranno alla guerra.

L’Islam è contro la Fede Cattolica. L’empio libro del Corano afferma che tutti imushrik, ovvero gli infedeli, i bestemmiatori, gli idolatri, sono coloro che credono che l’Unico Dio sia in Tre Persone. Quando morì Santa Cecilia, martirizzata da un colpo mortale, in una mano aveva un dito alzato, nell’altre ne aveva tre. Tre Persone in un unico Dio: ella stava professando la Santissima Trinità nel momento del suo martirio. Si era rifiutata di praticare il paganesimo. E’ questo il vero dialogo ecumenico. Proclamare infallibilmente gli articoli della Fede e la fondazione di tutti i dogma e tutta la divina verità è il mistero impenetrabile della Santissima Trinità. L’Islam dice che coloro che professano il proprio credo nella Santissima Trinità sono idolatri; infedeli; sono mushrik.

L’Islam converte per mezzo della Spada. Cosa insegna il Corano riguardo all’idolatra, al bestemmiatore, all’infedele, almushrik? L’insegnamento di Maometto nel Corano è quello di uccidere il mushrik.

L’Islam vuole che tutti gli Uomini diventino Mussulmani. La Madonna di Fatima ha detto: “i buoni saranno martirizzati”. Sono i martiri coloro i quali, contrariamente allo spirito del dialogo ecumenico, rifiutano di lasciarsi spaventare dalla minaccia della spada. “Devi abbracciare l’Islam” dicono i mussulmani. Anche in un piccolo centro del New England, c’è un “centro” informativo Islamico, una parola che nasconde il fatto che c’è, in realtà, una moschea in città. E quando un sacerdote Cattolico ha visitato la moschea, gli è stato detto dal chierico islamico che “doveva convertirsi all’Islam”. Il Sacerdote ha detto: “No, no, non puoi dirmi questa cosa. Sono un sacerdote Cattolico, io credo in Gesù Cristo.” Il Mussulmano gli ha detto: “tutto il Nord America deve abbracciare l’Islam; esso sarà una terra islamica.” “Tutto” è la parola usata da Nostro Signore Gesù Cristo.

L’Ecumenismo è Impossibile. Si può affermare che vi è sempre un modo per far ragionare la gente e per provare a vivere insieme, pacificamente, anche se si hanno credi differenti l’uno dall’altro. Ma questa è la cosa che dobbiamo capire riguardo all’ecumenismo: le varie confessioni, di per se, sono in conflitto l’una con l’altra; sono inconciliabili. E quindi ci dovremmo chiedere in che direzione va l’ecumenismo e qual è lo scopo che cerca di ottenere? Se uno è un Massone, o un Comunista, allora capirà esattamente cosa vuole ottenere l’ecumenismo. E’ li per compiere qualcosa, ed in particolare per raggiungere gli scopi dei Massoni, dei Comunisti, che includono l’ideale ateo e anti-Cristiano di un Unico Governo Mondiale, di un'Unica Religione Mondiale, di un’Unica Tirannia Mondiale per schiavizzare tutta l’umanità. Ma in un contesto Cattolico, cosa può realizzare esattamente l’ecumenismo? Può realizzare qualcosa di Cattolico? Assolutamente no. E’ diametralmente opposto al Cattolicesimo. Esso cerca, all’interno del contesto Cattolico, di conciliare l’inconciliabile. Maometto dice: “converti il mondo all’Islam, e chiunque non abbracci l’Islam, sia tagliata la sua testa. Uccidi il mushrik!”

I Cattolici si Convertono per mezzo della Grazia e delle Missioni. Gesù Cristo ha detto: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. E’ questo compito che dobbiamo realizzare. I Mussulmani usano la spada, e la impugneranno, ma non otterranno nient’altro che spargimento di sangue. Ma essi non conquisteranno il mondo per l’Islam. Il mondo è pieno di infedeli e di idolatri. Coloro che possiedono la Fede Cattolica riconoscono questo fatto. Ma contrariamente all’Islam, noi non cominceremo ad usare i nostri mitra o le nostre spade, correndo a riempire di piombo chiunque non sia d’accordo con la nostra fede.

Gli Angeli ci difendono. Quando Attila Re degli Unni stava per distruggere Roma, Papa San Leone si incontrò con lui. Aveva 12 sacerdoti con lui, mentre Attila aveva tutto il suo esercito. Attila irrise il Papa: “dov’è il tuo esercito” e Papa Leone indicò i cieli, e li Attila vide un grande esercito di angeli. Fuggì terrorizzato, ed il suo esercito con lui. Scapparono in preda al terrore.

L’Islam è un flagello; è in lotta fino alla morte con la Cristianità, con la Fede Cattolica. E’ stato ispirato dal diavolo con lo scopo di portare la guerra contro la fede di Gesù Cristo. Maometto disse: “Dio invierà cinquemila angeli per dare la vittoria all’Islam, quindi non temete, procedete verso la battaglia.”

La Terza Guerra Mondiale con l’Islam è stata profetizzata. Sappiamo dal Terzo Segreto di Fatima, lo sappiamo dalle tante apparizioni della Madonna, è rivelato che vi sarà una Terza Guerra Mondiale. Sarà una guerra che scoppierà da Oriente verso l’Occidente, all’improvviso. E vi sarà una grande invasione dei Mussulmani in Europa, i quali compiranno numerosi atti di terrorismo in Europa, in Nord America ed in Asia: ovunque si trovino i Mussulmani. Sarà una Jihad coordinata in tutto il mondo. E tutti loro, con sfrontatezza, attaccheranno tutti coloro che chiamano mushriks, per ucciderne quanti più potranno.

Il Signore difende la Cristianità, se essa pregherà abbastanza. I Mussulmani non hanno capito che la promessa di Maometto è un falso. Non sono ancora arrivati alla conclusione, non hanno ancora fatto la connessione. I Saraceni vennero cacciati dall’Europa. I Mori vennero scacciati dalla Penisola Iberica. I Turchi attaccarono Malta all’inizio della loro guerra di conquista per rendere l’Europa un continente Mussulmano. Novanta navi piene di guerrieri Turchi vennero sconfitte da un esercito di 1500 monaci combattenti dell’ordine di San Giovanni, con l’aiuto di qualche nativo Maltese. Infine i Turchi erano pronti per attaccare di nuovo. Il capo dei Turchi, Solimano il Magnifico, ebbe dei ripensamenti, malgrado la vasta superiorità militare delle sue forze. Egli disse: “temo più le preghiere di Papa Pio V che tutte le navi da guerra di Venezia.” Ed aveva una buona ragione per temere le preghiere di Papa Pio V, perché quest’ultimo proclamò una Crociata. Crociata è per i Mussulmani la più sporca delle parole umane. Essi non capirono ancora la lezione, ed assediarono Vienna con un grande esercito. Superavano di numero le forze Cristiane in maniera così enorme, che non vi era possibilità, da un punto di vista terreno, di poterli sconfiggere. I Mussulmani vennero messi in rossa e fuggirono. Non ebbero neanche il tempo di prendere il loro caffé e di portarlo con se. Gli europei si godettero il bottino di guerra, ed è così che il caffé divenne così popolare in Europa. I Turchi erano stati sconfitti ancora una volta. In qualche modo, i cinquemila angeli promessi da Maometto non si erano visti al loro fianco. Da quale parte si sarebbero schierati? Ebbene, Papa San Leone indicò il Cielo e quell’esercito di Angeli divenne visibile. Allo stesso modo, durante la riconquista della Spagna quando i Mori vennero sconfitti in un luogo chiamato Covadunga. Venne eretto un santuario in memoria di quella grande battaglia che dette inizio alla riconquista, cacciando fuori i Mussulmani, rimandandoli nelle terre Arabe da cui provenivano. Un angelo fu visto venire dal Cielo in groppa ad un cavallo, ed egli aveva una grande sciabola tra le mani. E quest’angelo impugnò la spada e tagliò la testa dei Mori.

Il Trionfo della Madonna di Fatima su tutti gli infedeli. Gli angeli scendono dal Cielo, ma lo fanno per dare la vittoria ai Cristiani, non ai Mussulmani. Il giorno verrà, ed è stato detto dalla Madonna In persona a Suor Elena Aiello, che gli Arabi si convertiranno alla Fede Cattolica. La Russia si convertirà alla Fede Cattolica; lo sappiamo perché la Madonna di Fatima ha verificato le Sue promesse con il tremendo Miracolo del Sole. Un miracolo che avrebbe potuto essere unicamente opera di Dio; un miracolo che rafforza e ci ricorda le promesse dateci proprio dal Nostro Salvatore Divino. Ed è questo il motivo per cui non dobbiamo temere: gli angeli del Cielo verranno ancora e distruggeranno i senza Dio. Essi distruggeranno tutto ciò che è impuro e profano. Non è da Cristiani agitare l’arma della infedele Jihad, ma piuttosto rispondere ad essa per mezzo di una Santa Crociata. E l’ausilio degli angeli, degli eserciti angelici, è con i discepoli ed i seguaci di Cristo. E deve essere così, perché la promessa di Nostro Signore non ha una data di scadenza: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

PAPA FRANCESCO, LA TERZA GUERRA MONDIALE E IL QUARTO SEGRETO DI FATIMA: SIAMO AGLI ULTIMI TEMPI? Parole forti quelle del Pontefice, secondo il quale “siamo nella Terza guerra mondiale, ma a pezzi”. Si può sintetizzare così la visione del Papa davanti al precipitare della situazione irachena e del conflitto in Terrasanta. Proponiamo una riflessione di Antonio Socci, giornalista d'inchiesta su “fatti ecclesiastici”, secondo il quale esisterebbe una quarta parte dei Segreti di Fatima non ancora svelata e che farebbe riferimento ai tempi che stiamo vivendo. Che siano veramente gli ultimi? C’è una novità nel giallo del “terzo segreto di Fatima”, una profezia che attraversa tutto il Novecento e sembra proiettata alla sua realizzazione finale. La novità è contenuta in una pubblicazione ufficiale del Carmelo di Coimbra, quello dove è vissuta ed è morta (nel 2005) suor Lucia dos Santos, l’ultima veggente. S’intitola “Un caminho sob o olhar de Maria” ed è una biografia di suor Lucia, scritta dalle consorelle, con dei preziosi documenti inediti della stessa veggente. Prima di vederli bisogna ricordare bene qual è la storia di Fatima. La storia di un secolo. Nel divampare della Grande Guerra, il 13 maggio 1917 la Madonna appare, nel villaggio portoghese, a tre pastorelli. I giornali laici irridono i “creduloni” sfidando la Vergine a dare un segno pubblico della sua presenza. Lei preannuncia ai tre bimbi che darà il segno e nell’ultima apparizione, quella del 13 ottobre, 70 mila persona accorse alla Cova de Iria assistono terrorizzati al vorticare del sole nel cielo. Un fenomeno che l’indomani sarà riferito sui giornali (pure anticlericali). Nell’apparizione del 13 luglio la Madonna aveva affidato ai bambini un messaggio per il mondo intero. Era la grande profezia sui decenni successivi se l’umanità non fosse tornata a Dio. In effetti si realizzò tutto: la rivoluzione bolscevica in Russia, la diffusione del comunismo nel mondo, le sanguinose persecuzioni contro la Chiesa e infine la seconda tragica guerra mondiale. C’era poi una terza parte di quel segreto che si doveva rivelare – disse la Madonna – nel 1960. Arrivata quella data Giovanni XXIII secretò tutto perché terribile era il suo contenuto. Provocò così una ridda di ipotesi. Nel 2000 Giovanni Paolo II rese noto il testo del terzo segreto che contiene la famosa visione del “vescovo vestito di bianco”, con il Papa che attraversa una città distrutta, i tanti cadaveri e poi il martirio del Santo Padre, di vescovi, preti e fedeli. Da molti elementi si poteva intuire che non era tutto. Anche io, come altri autori, nel 2006 pubblicai un libro, “Il quarto segreto di Fatima”, dove mostravo che mancava la parte, scritta e inviata successivamente, con le parole della Madonna che spiegavano la visione medesima. Lo stesso segretario di Giovanni XXIII, monsignor Capovilla, che aveva vissuto tutto in prima persona, in una conversazione con Solideo Paolini accennò proprio all’esistenza di quel misterioso “allegato”. Da parte ecclesiastica si è ufficialmente smentito che esista e che vi siano profezie che riguardano i tempi odierni. Ma una clamorosa conferma implicita arrivò dallo stesso Benedetto XVI che durante un improvviso pellegrinaggio a Fatima, il 13 maggio 2010, affermò: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. Aggiunse: “sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano… e quindi sono sofferenze della Chiesa che si annunciano”. Ma quali profezie potrebbero trovarsi in quel testo? Fanno riflettere queste due frasi del Papa pronunciate in quel discorso a Fatima: “L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo”. E poi: “La fede in ampie regioni della terra, rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata”. Dalle parole di papa Benedetto s’intuì dunque che c’è davvero dell’altro in quel Terzo Segreto ed è drammatico per il mondo e per la Chiesa. Proprio a quella visita del papa è forse dovuta l’uscita di questo libro che fa filtrare un altro pezzetto di verità. Il volume infatti attinge alle lettere di suor Lucia e al Diario inedito intitolato “Il mio cammino”. Impressionante, fra gli inediti, è il racconto di come suor Lucia superò il terrore che le impediva di scrivere il Terzo Segreto. Verso le 16 del 3 gennaio 1944, nella cappella del convento, davanti al tabernacolo, Lucia chiese a Gesù di farle conoscere la sua volontà: “sento allora che una mano amica, affettuosa e materna mi tocca la spalla”. E’ “la Madre del Cielo” che le dice: “stai in pace e scrivi quello che ti comandano, non però quello che ti è stato dato di comprendere del suo significato”, intendendo alludere al significato della visione che la Vergine stessa le aveva rivelato. Subito dopo – dice suor Lucia – “ho sentito lo spirito inondato da un mistero di luce che è Dio e in Lui ho visto e udito: la punta della lancia come fiamma che si stacca, tocca l’asse della terra ed essa trema: montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti sono sepolti. Il mare, i fiumi e le nubi escono dai limiti, traboccano, inondano e trascinano con sé in un turbine, case e persone in un numero che non si può contare, è la purificazione del mondo dal peccato nel quale sta immerso. L’odio, l’ambizione, provocano la guerra distruttrice. Dopo ho sentito nel palpitare accelerato del cuore e nel mio spirito una voce leggera che diceva: “nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica. Nell’eternità il Cielo!”. Questa parola Cielo riempì il mio cuore di pace e felicità, in tal modo che, quasi senza rendermi conto, continuai a ripetermi per molto tempo: il cielo, il cielo!”. Così le viene data la forza per scrivere il Terzo Segreto. L’inedito che ho appena citato è un documento molto interessante, dove gli addetti ai lavori trovano facilmente conferma alla ricostruzione storica per cui il Terzo segreto è composto di due parti: una, la visione, fu scritta e inviata prima, mentre l’altra – quella che nelle parole della Madonna è “il significato” della visione stessa – fu scritta e inviata successivamente. E’ il famoso e misterioso “allegato” a cui accennò Capovilla. E’ il testo, tuttora non pubblicato, dove presumibilmente sta la parte che più spaventava suor Lucia. La stessa parte che spaventò Giovanni XXIII (ma anche, prima di lui, Pio XII) e che Roncalli decise di non rendere nota perché – a suo avviso – poteva essere solo un pensiero di suor Lucia e non avere origine soprannaturale. E’ una parte così esplosiva che si continua tuttora, ufficialmente a negarne l’esistenza. E l’apertura di Benedetto XVI nel 2010, che ha portato anche alla pubblicazione di questo volume, oggi si è richiusa. Chi tace…Lo dimostra quanto è accaduto a Solideo Paolini, il maggiore studioso italiano di Fatima che, viste le pagine di questo libro che gli ho inviato, ha scritto al Carmelo di Coimbra chiedendo di poter consultare le due opere inedite menzionate nel volume, ritenendo che lì vi siano ulteriori dettagli sulla parte secretata. La lettera è arrivata a destinazione (ne fa fede la ricevuta), ma non ha avuto risposta. Paolini allora ha scritto di nuovo entrando nel merito e chiedendo se suor Lucia ha mai messo nero su bianco quel “significato della visione” che dall’Alto le era stato dato di comprendere e che quel 3 gennaio evitò di annotare su suggerimento della Madonna: “nelle opere che vi avevo chiesto di consultare c’è nessun riferimento a ‘qualcosa di più’ a riguardo del Segreto di Fatima, a tutt’oggi testualmente inedito?”. La lettera risulta pervenuta il 6 giugno. Ma anch’essa non ha avuto risposta. Eppure sarebbe stato semplice rispondere di no. Evidentemente la risposta era “sì”, ma non si può dare, perché sarebbe esplosiva. Così tacciono. Tuttavia la visione che ho appena citato rimanda ai due elementi che presumibilmente sono contenuti nel testo inedito del Segreto: la profezia di un’immane sciagura per il mondo e una grande apostasia e crisi della Chiesa. Una prova apocalittica al termine della quale – disse la Madonna stessa a Fatima – “il mio Cuore Immacolato trionferà”. A questo sperato “trionfo” fece riferimento nel 2010 Benedetto XVI: “Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni (2017) affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità”. Significa che oggi, 18 agosto 2014, siamo già entrati nella spaventosa prova? In effetti se si guarda la cronaca…Antonio Socci

E se fosse Bergoglio il Papa del terzo segreto di Fatima? Scrive Francesco Antonio Grana il 31 marzo 2016 su "Il Fatto Quotidiano". E se fosse Bergoglio il Papa del terzo segreto di Fatima? Se quel “vescovo vestito di bianco” che viene “ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce”, secondo il racconto dell’ultima veggente suor Lucia dos Santos, fosse Francesco? A riaprire il caso sono le presunte apparizioni mariane che avrebbe ricevuto a Roma, dal 1947 fino alla sua morte avvenuta nel 2001, Bruno Cornacchiola. Nel volume Il veggente (Salani) Saverio Gaeta, caporedattore dei settimanali della San Paolo Famiglia cristiana e Credere, ripercorre per la prima volta in modo sistematico queste rivelazioni. E tra le profezie che la Madonna avrebbe svelato a Cornacchiola molte riguardano proprio l’assassinio di un Papa. “Sogni, sempre sogni, – scrive nel 1975 il presunto veggente – è un periodo di tempo che non faccio altro che sognare il Papa che fugge: non Paolo VI, ma un altro. Lo aiuto e il mondo salta in aria; sangue, molto sangue, che sembra melma e molti restano presi come se fosse pece, restano attaccati. Molti sacerdoti e suore in piazza San Pietro squartati”. Anche Cornacchiola racconta di aver visto la stessa profezia che i tre pastorelli di Fatima, i beati Giacinta e Francisco Marto, oltre a suor Lucia, videro nel 1917. “Il Papa, – annota il presunto veggente – colpito gravemente, cade. Subito, coloro che stanno insieme con lui corrono ad aiutarlo e lo rialzano. Il Papa è colpito la seconda volta, cade di nuovo e muore. Un grido di vittoria e di gioia risuona tra i nemici; sulle loro navi si scorge un indicibile tripudio. Senonché, appena morto il Pontefice, un altro Papa sottentra al suo posto. I piloti radunati lo hanno eletto così subitamente, che la notizia della morte del Papa giunge colla notizia dell’elezione del successore. Gli avversari incominciano a perdersi di coraggio”. Il 19 giugno 1982, quindi un anno dopo l’attentato a san Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981, Cornacchiola annota ancora: “Non vorrei essere preso per iettatore, né per indovino, ma questa notte di nuovo sogno: mi trovo a San Pietro proprio davanti alla Basilica, si attendeva il Papa, la gente attorno gridava: Eccolo, eccolo!. Mi presento davanti a lui, la scorta mi allontana, un grido, il Papa è a terra intriso di sangue, non mi fanno avvicinare, piango, mi sveglio e prego molto per lui”. Il 1° marzo 1983 Cornacchiola scrive: “Quello che mi hai fatto vedere, o Signore, sangue in quantità sopra il bianco vestito del Papa, fa’ che non si avveri”. E il 7 febbraio 1986 aggiunge: “Mentre il Papa stava celebrando la messa, si sente una grande confusione e voci che si elevano minacciose, avanzano verso l’altare, la polizia incomincia a sparare, grida, fuggi fuggi, il Papa viene colpito, il sangue arrossa l’abito talare bianco e si sente gridare: ‘È morto! È morto’”. I contenuti di queste profezie sono già presenti nel primo messaggio che la Madonna avrebbe affidato a Cornacchiola nel 1947: “La Chiesa sarà lasciata vedova, ecco il drappo talare funebre, sarà lasciata in balia del mondo”. Nel 1970 il presunto veggente annota ancora: “Un sogno mi ha tenuto in apprensione tutta la notte. Il Papa circondato da cardinali e vescovi che gridano verso di lui dicendogli parole rivoluzionarie: ‘Non vogliamo vivere una vita imposta, ma liberi e praticare la religione a nostro piacere e sistema locale’. Il Papa gridava piangendo: ‘No, non è possibile sostituire con culti pagani il culto di Cristo, la Chiesa ha lottato molto per abbattere l’ateismo e l’idolatria’. Il Papa viene preso e scaraventato dentro un pozzo”. Quando durante il Grande Giubileo del 2000 Wojtyla decise di rendere pubblico il terzo segreto di Fatima dichiarò di aver letto in esso l’attentato subito per mano di Agca. Ma voci autorevoli all’interno della Chiesa cattolica hanno successivamente sostenuto che la profezia rivelata dalla Madonna ai tre pastorelli non si è esaurita con quanto avvenuto a san Giovanni Paolo II. A iniziare da Benedetto XVI che nel 2010 proprio in Portogallo davanti al luogo delle apparizioni disse: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. E con i giornalisti sul volo papale spiegò: “Oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano”. A fare eco alle parole di Ratzinger è stato il cardinale portoghese José Saraiva Martins, amico di suor Lucia e a lungo prefetto della Congregazione per le cause dei santi. Il porporato ha spiegato che “il terzo segreto di Fatima è stato rivelato tutto, ma ciò non toglie che può darsi che succeda ancora che sparino a un Papa come si legge nel testo dell’ultima veggente”. Nelle profezie riportate da Cornacchiola c’è molto altro: dalla tragedia di Superga in cui persero la vita tutti gli uomini del Grande Torino, all’elezione del beato Paolo VI avvenuta nel 1963, alla guerra dello Yom Kippur nel 1973, al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, dall’attentato a san Giovanni Paolo II nel 1981 all’esplosione del reattore della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, fino alla caduta delle Torri Gemelli nel 2001. Ma ci sono anche rivelazioni che riguardano la piaga della pedofilia del clero e il terrorismo di matrice islamica. Profezie, però, alle quali la Chiesa, almeno fino a oggi, non ha dato molto credito.

SOCIALISMO ISLAMICO.

Socialismo islamico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Socialismo islamico è un termine coniato da diversi leader musulmani per descrivere una forma più spirituale di socialismo, simile al marxismo islamico e all'affine socialismo arabo, che coniughi i valori dell'Islam (principale divisione tra loro e i marxisti "puri" dei paesi islamici) con la socialdemocrazia nata in Occidente, il secolarismo e l'uguaglianza e talvolta col nazionalismo arabo e il panarabismo. I socialisti islamici credono che gli insegnamenti del Corano e di Maometto - soprattutto lo zakat, uno dei cinque pilastri dell'Islam - sono compatibili con i principi di uguaglianza economica e sociale. Traggono ispirazione dallo stato sociale ante litteram istituito, secondo loro, da Maometto durante il suo governo a Medina. I socialisti musulmani non sono in genere di tendenza "liberale" come le loro controparti occidentali, anche se ci sono le dovute eccezioni. Come i cristiano-democratici, essi tentano di coniugare la democrazia con i principi culturali di origine religiosa, ma avversano la sharia e la commistione tra religione e potere politico. Molti di essi trovano le loro radici nell'anti-imperialismo. Molti leader socialisti musulmani credono generalmente nella democrazia rappresentativa o diretta e nella derivazione di legittimità da parte del popolo, al contrario dei leader dei partiti religiosi islamici, che proclamano di essere successori di Maometto, spesso sostenendo la democrazia islamica o la teocrazia, rigettata dagli islamosocialisti. Esempi di socialismo islamico sono l'ideologia del Libro Verde di Muammar Gheddafi in Libia, quella di Fatah in Palestina, del partito Baath di Iraq (Saddam Hussein e in seguito gli ex sostenitori del passato regime) e Siria (Hafiz e Bashar al-Assad) e dei Mojahedin del Popolo Iraniano e, in passato, il nasserismo in Egitto, il regime di Ben Ali in Tunisia e il Partito Socialista Rivoluzionario Somalo di Siad Barre.

ISLAM, SOCIALISMO E CAMALEONTISMO. LA PARABOLA DI AL QADDAFI, scrive Lawrence M.F. Sudbury su “In Storia”. Certo il personaggio è di quelli che non lasciano indifferenti: centinaia di capi di stato visitano l’Italia ogni anno, ma solo Muhammar Gheddafi (o meglio, con una traslitterazione dall’arabo un po’ più precisa di quella normalmente utilizzata, Mu’ammar al-Qaddafi) può riuscire a riempire le pagine dei giornali come in occasione della sua ultima visita del mese scorso. D’altra parte, chi altro presentandosi in un paese straniero in visita di stato, si porterebbe dietro una tenda beduina in cui soggiornare, uno stuolo di cavalieri berberi con relativi cavalli e una squadra di amazzoni-guardie del corpo pronte a sacrificare la loro vita per lui? Chi altri chiederebbe di organizzare un incontro con 500 hostess (pagate) da catechizzare sull’Islam, con tanto di regalo di una copia tradotta del Corano? Chi altri, con un tratto diplomatico a dir poco “inusuale”, non solo non si periterebbe di chiedere cinque miliardi all’Unione Europea per bloccare l’emigrazione clandestina che investe il nostro continente a partire dal suo paese, ma arriverebbe addirittura ad affermare che, in pratica, risulta inevitabile che a breve l’intera Europa si convertirà alla religione del Profeta? Anche dal punto di vista politico, le reazioni provocate dal “colonnello” (per autonomina, visto che il suo ultimo grado nell’esercito libico è stato capitano) sono state a dir poco diseguali: se da una parte si vantano rapporti privilegiati con lui e si considerano tali rapporti come una chiave per uno sviluppo commerciale in tutta l’Africa, dall’altra si è sollevato un coro piuttosto “bipartisan” contro l’idea di essersi piegati alle sue “stranezze” e di aver fatto dell’Italia un palcoscenico per i suoi proclami. Questioni di schieramenti interni e di alleanze politiche, certo, che, ovviamente, risultano contingenti: ben più interessante, allora, risulta cercare di capire chi sia quest’uomo odiato o idolatrato che, al di là delle sue eccentricità, a lungo è stato in grado, come vedremo, di tener testa alla più grande potenza militare del pianeta e ancor oggi non si perita, come nel caso del recentissimo braccio di ferro con la Svizzera, di rompere relazioni diplomatiche per questioni meramente personali. In realtà, della gioventù di Qaddafi prima della sua presa di potere in Libia (avvenuta a soli 27 anni), si sa ben poco, sia per la difficoltà di reperire dati storici all’interno dei clan bedu da cui la sua famiglia proviene, sia per uno stretto riserbo che l’ex ufficiale ha, stranamente visto le sue predisposizioni all’esternazione e all’autoincensamento, sempre dimostrato e che ha fatto nascere una ridda di pettegolezzi sulle sue origine, da quello relativo all’essere figlio illegittimo di un ufficiale corso dell’aeronautica della Francia libera di stanza in Libia durante la II Guerra Mondiale a quello riguardante una sua discendenza ebraica, come figlio di una ebrea convertita scacciata dalla sua famiglia per aver sposato un musulmano: nessuna delle ipotesi è, però, stata provata, anche se, almeno parzialmente, la prima potrebbe spiegare la lunga ostilità con l’occidente e la seconda il rapporto difficile con la “razza ebraica” che lo ha portato, subito dopo la “rivoluzione”, a scacciare tutti gli ebrei da Cirenaica e Tripolitania. Di certo, comunque, il rapporto altalenante e a lungo apertamente ostile nei confronti dell’Italia deriva dall’essere nato presso Sirte, nell’allora provincia coloniale fascista di Misurata e dall’essere rimasto ferito a sei anni dallo scoppio di una bomba italiana inesplosa che provocò la morte di due suoi cugini: sia quest’ultimo episodio che l’odio instillatogli dal suo clan per l’occupazione italiana sono stati riferiti, nel corso di varie interviste, dal diretto interessato. Dopo aver frequentato, dai quattordici ai diciannove anni, la scuola coranica di Sirte, nella quale si distinse per quell’incrollabile fede islamica che, a quanto pare, sembra ancora animarlo, Qaddafi, nella migliore tradizione bedu, entrò nell’Accademia Militare di Bengasi, al termina della quale e dopo un breve soggiorno di specializzazione in Gran Bretagna, ebbe, nel 1968, la sua prima (e unica) nomina come capitano di una unità militare nella sua regione natale. Già ai tempi della scuola coranica, il neo-ufficiale era entrato in contatto con le idee nazionaliste e relative ad una “via araba al socialismo” del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, rimanendone molto colpito, ma era stato nel periodo dell’Accademia che il giovane Qaddafi aveva sviluppato, proprio a partire dalle idee nasseriane che aveva fatte proprie, una profonda ostilità per il governo di re Idris, che, come molti altri militari e comuni cittadini, riteneva corrotto, infiltrato da elementi sionisti e prono ai voleri neo-coloniali occidentali. Per comprendere quanto ci potesse essere di sensato in simili opinioni, è necessario dare una rapida scorsa a quanto era accaduto nel paese al termine della II Guerra Mondiale. Il 21 novembre 1949 l’Assemblea generale dell’ONU aveva approvato una risoluzione in cui si affermava che la Libia dovesse diventare una nazione indipendente (dopo essere stata parte dell’Impero turco per poi divenire colonia italiana) prima del 1 gennaio 1952. I negoziati all’O.N.U., in rappresentanza del popolo libico, erano state affidati dai vari clan dominanti a Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, una guida sufi già emiro della Cirenaica e della Tripolitania e strenuo sostenitore (con l’appoggio della Gran Bretagna) dell’indipendenza dal Regno d’Italia, e, quindi, quando la Libia, il 24 dicembre 1951, divenne il primo stato a raggiungere l’indipendenza attraverso le Nazioni Unite, sembrò naturale a tutti che il paese si trasformasse, come sancito dalla costituzione varata nell’ottobre 1951, in una monarchia costituzionale federale guidata proprio da re Idris I, i cui poteri risultavano notevolmente ampi. I problemi derivanti da tale eccessiva concentrazione di potere nelle mani reali non tardarono a farsi sentire già subito dopo le prime elezioni generali del febbraio 1952, quando i partiti politici furono aboliti, il governo federale entrò in conflitto con quelli locali della federazione nel tentativo di accentrare la politica nazionale e re Idris incominciò ad attuare una politica assolutistica. Tutti questi elementi, rientrando nel normale assetto governativo nord-africano, avrebbero potuto essere tranquillamente assorbiti dalla popolazione, se non fosse stato per la volontà del re di mantenere i suoi contatti con l’occidente che lo portò a stipulare, nel 1953, un trattato ventennale di amicizia e alleanza con la Gran Bretagna in base al quale quest’ultima avrebbe avuto basi militari in territorio libico in cambio di aiuti finanziari e militari e, l’anno successivo, un accordo con gli Stati Uniti, a cui si prometteva il diritto di costruire basi militari e un poligono aereo nel deserto (la Wheelus Air Base) in cambio di sovvenzioni economiche. Nello stesso periodo, la Libia strinse legami segreti con Francia, Italia, Grecia e Turchia, che offrirono programmi di aiuto tecnico e sociale, ottenendone in cambio mano libera nel gestire l’economia del nuovo stato. Ciò portò certamente ad un miglioramento del bilancio statale, ma il ritmo di crescita fu lento e la Libia rimase a lungo un paese povero e sottosviluppato fortemente dipendente dagli aiuti stranieri. La situazione cambiò improvvisamente e drammaticamente nel giugno del 1959, quando i prospettori della Esso confermarono la presenza di grandi giacimenti petroliferi a Zaltan in Cirenaica e di numerosi altri pozzi sparsi nella regione: lo sfruttamento commerciale dell’estrazione del greggio venne rapidamente sviluppato dai proprietari delle concessioni, con un ritorno del 50% dei profitti globali che, sotto forma di tasse, andava alla Libia, rendendola una nazione indipendente, ricca e con ampie potenzialità di sviluppo. Su questa base, nel 1963 venne lanciato da governo un piano quinquennale che, però, cercando di favorire in ogni modo lo sviluppo di investimenti stranieri in campo industriale, non solo deprimeva nettamente il settore agricolo, principale fonte di sostentamento di gran parte della popolazione, ma aboliva anche l’assetto federale a favore della centralizzazione e manteneva la Libia, pur parte integrante della Lega Araba e co-fondatrice dell’Organizzazione per l’Unità Africana, ai margini del mondo arabo, come chiaramente dimostrato dal basso profilo tenuto dal paese nel conflitto arabo-israeliano. Con questi presupposti legati al neo-colonialismo e fortemente opposti al trend nasseriano allora in pieno sviluppo, era ovvio che il governo di re Idris non suscitasse nessuna simpatia sia nelle masse che, tantomeno, in un esercito imbevuto di idee provenienti dal vicino Egitto. A farsi portavoce del malcontento fu un gruppo di ufficiali intermedi, guidato proprio da Qaddafi, che, approfittando dell’assenza del re, in Grecia per trattamenti medici, il 26 agosto 1969 organizzò un colpo di stato incruento che portò, il 1 settembre, alla dichiarazione di deposizione di Idris, all’arresto dell’erede al trono, principe Sayyid Hasan ar-Rida al-Mahdi as-Sanussi (a cui venne poi riservato, con la sua famiglia, un trattamento terribile, con anni di arresti domiciliari, confisca di tutti i beni e, infine, con l’assegnazione come abitazione di tre cabine presso i bagni pubblici di una spiaggia di Tripoli, cosa che gli provocò un ictus paralizzante a 60 anni e la conseguente morte due anni dopo) e alla proclamazione della “repubblica araba”. Il paese venne posto sotto il governo di un Consiglio di Comando della Rivoluzione, formato da 12 militari di tendenze panarabe presieduti dal giovane capitano Qaddafi, che subito salì al grado di colonnello. Pochi mesi dopo, accentrando sempre più il potere nelle sue mani, egli assunse anche il titolo di primo ministro, che, però, abbandonò nel 1972, mantenendo, comunque, il ruolo di comandante supremo dell’esercito. In brevissimo tempo Qaddafi si impose nettamente sulla giunta, diventando di fatto dittatore assoluto della “Jamahiryya” (neologismo coniato nel 1977 dal colonnello per indicare il “governo delle masse”) Islamica e sviluppando un regime basato su una miscela molto particolare di nazionalismo arabo, stato sociale e (pseudo-)democrazia popolare definita “Socialismo Islamico”. Nella pratica, si doveva trattare di una sorta di “terza via” tra comunismo e capitalismo, con l’unione dei principi del panarabismo con quelli della socialdemocrazia cosi come in seguito esposto in quel “Libretto Verde” che, pubblicato in tre volumi tra 1975 e 1979, sul calco del “Libretto Rosso” di Mao doveva essere il testo di riferimento per comprendere l’ideologia del nuovo stato. Nella realtà dei fatti, comunque, non tutto andò nella direzione di quel “paradiso dei cittadini arabi” che Qaddafi aveva preconizzato: se è vero che vi fu un innalzamento del salario minimo dei lavoratori, una loro partecipazione alla gestione delle aziende e, soprattutto grazie ai maggiori introiti petroliferi, dal 1977 in poi, una notevole campagna di lavori pubblici con la costruzione di strade, ospedali e acquedotti, è altrettanto vero che il nuovo regime si presentò immediatamente come repressivo nei confronti di ogni libertà individuale, con una adozione strettissima della Sha’aria islamica (con eliminazione dell’alcol da tutto il paese, chiusura di ogni locale notturno e norme morali rigidissime) e con l’eliminazione fisica di ogni voce dissidente, sia all’interno che all’esterno del territorio libico, fino all’editto del 26 aprile 1980 in cui si ordinava il rientro di ogni oppositore politico in Libia per essere giudicato da un tribunale rivoluzionario o, in caso di disobbedienza, la condanna a morte in contumacia per qualunque libico osasse criticare il nuovo assetto statale (e, infatti, nove oppositori della dittatura vennero assassinati in Europa, cinque dei quali in Italia). Nella pratica, dunque, il governo libico si caratterizzava e continua a caratterizzarsi come una sorta di autocrazia populista, in cui si fa grande ostentazione di termini quali “emancipazione popolare” o “educazione delle masse”, si vanta l’unicità dell’idea (anch’essa sviluppata nel “Libretto Verde”) di una piccola azienda privata e di una grande azienda nazionalizzata e si dà enorme risalto a elementi propagandistici, come quelli che, per un presunto taglio alle spese pubbliche (in realtà per ragioni di sicurezza), da sempre portano Qaddafi a dormire in tende beduine (per altro lussuosissime) o che lo hanno portato, nel corso del tempo, ad abbandonare, in nome di una “alternanza democratica”, tutti i suoi incarichi (pur rimanendo, come “Guida della Rivoluzione” padrone assoluto della vita e della morte di ogni libico e centro unico decisionale di tutto il paese), ma in cui viene negato ogni forma di diritto democratico. Al di là della continua negazione della libertà dei suoi connazionali, Qaddafi sì è, soprattutto, reso protagonista, fin dalla rivoluzione, di incredibili violazioni del diritto internazionale. Già dal 1969 il colonnello nazionalizzò tutte le proprietà petrolifere straniere (nonostante contratti legalmente sottoscritti dal governo precedente) e tutte le basi militari anglo-americane (espropriate con il materiale bellico in esse contenuto) e, il 15 ottobre 1970, con un atto a dir poco proditorio, al fine di “restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori”, espulse tutti i 20.000 italiani presenti nella ex-colonia, privandoli di ogni avere (inclusi i contributi INPS versati, trattenuti come presunto “danni di guerra”). Sempre in quel periodo, alla ricerca di una unita pan-africana, il dittatore non si peritò di sostenere regimi folli come quelli di Amin in Uganda e di Bokassa nella Repubblica Centroafricana e di propugnare la nascita di una fantomatica entità politica che avrebbe dovuto denominarsi Stati Uniti d’Africa e che, naturalmente, non vide mai la luce. Fu, però, negli anni ‘80 che la politica anti-occidentale libica raggiunse il suo culmine: Qaddafi divenne un aperto sostenitore di gruppi terroristici come l’IRA, l’ETA e Settembre Nero (fornendo finanziamenti, materiale bellico e addestramento militare), si rese responsabile di attentati (la cui paternità, a dire il vero, non fu mai provata essere libica, sebbene i sospetti fossero fortissimi) in Italia, Gran Bretagna e Francia e arrivò a lanciare un missile contro la Sicilia per questioni di violazioni di acque territoriali. Questo atteggiamento rese a poco a poco la Libia il nemico numero uno dell’occidente e le tensioni raggiunsero il loro apice quando Reagan venne eletto presidente degli Stati Uniti: l’amministrazione Reagan vedeva la Libia come uno “stato canaglia belligerante” a causa del suo atteggiamento intransigente in materia di indipendenza palestinese, del suo sostegno all’Iran nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1988), e dei suoi aiuti ai “movimenti di liberazione” di tutti gli stati in via di sviluppo, tanto che il presidente arrivò a soprannominare Qaddafi il “cane pazzo del Medio Oriente” e a vietare l’importazione di petrolio libico nei cinquanta stati federali e l’esportazione di tecnologia statunitense nella Jamahiryya. Inizialmente gli stati europei non seguirono gli USA in queste decisioni, ma, nel 1984, quando la funzionaria di polizia britannica Yvonne Fletcher, in servizio di sorveglianza durante una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata libica di Londra, venne uccisa da un colpo di arma da fuoco esploso dall’interno dell’ambasciata stessa (i responsabili, avvalendosi dell’immunità diplomatica, non furono mai assicurati alla giustizia), si ebbe la rottura delle relazioni diplomatiche tra Libia e Regno Unito (relazioni riprese solo oltre dieci anni più tardi). Infine, dopo alcuni attacchi americani a motovedette libiche che rivendicavano acque territoriali all’imboccatura del Golfo della Sirte nel gennaio-marzo 1986 (le rivendicazioni territoriali non erano nuove al colonnello, come prova la ventennale guerra di confine con il Chad), il 15 aprile 1986 Reagan ordinò la cosiddetta “Operazione Eldorado”, consistente in un bombardamento di obiettivi sensibili a Tripoli e Bengasi che provocò la morte di 45 militari e di 15 civili, tra cui una figlia adottiva di Qaddafi (che, a quanto pare dalle ultime versioni in circolazione, si salvò solo grazie all’avvertimento preventivo dell’allora premier italiano Bettino Craxi, in completo disaccordo con l’iniziativa americana). Arriviamo così al 21 dicembre 1988, quando un aereo della Pan Am esplose sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, provocando la morte delle 259 persone a bordo e di 11 cittadini della località britannica. Subito le indagini si concentrarono su due cittadini libici, la cui responsabilità nell’attentato risultava così evidente da indurre l’ONU a chiedere al governo di Tripoli l’arresto dei due sospettati e la loro estradizione in Scozia. Al rifiuto di Qaddafi, le Nazioni Unite votarono la Risoluzione 748, che sanciva durissime sanzioni commerciali contro lo stato nordafricano, che, da parte sua, stava già vivendo una discreta contrazione economica. Per la maggior parte degli anni ‘90 la Libia visse, dunque, in una situazione di embargo e di isolamento diplomatico. Solo per intercessione del presidente sudafricano Nelson Mandela, in visita ufficiale da Qaddafi nel 1997, e del Segretario generale dell’ONU Kofi Annan, si riuscì, nel 1999, ad ottenere una soluzione compromissoria tale per cui gli imputati vennero consegnati per essere processati presso la Corte Internazionale dell’Aja in cambio della sospensione delle sanzioni internazionali (sebbene quelle statunitensi rimanessero in vigore). La vicenda giunse, comunque, finalmente a conclusione solo nel 2003, quando, due anni dopo la condanna di uno dei due imputati, la Libia, in una lettera alle Nazioni Unite, accettò di assumersi formalmente “la responsabilità delle azioni dei suoi funzionari” per quanto riguardava l’attentato e di pagare un risarcimento fino a 2,7 miliardi di euro o fino a 10 milioni di dollari ciascuno alle famiglie delle 270 vittime. Venti giorni dopo, Gran Bretagna e Bulgaria co-sponsorizzarono una risoluzione ONU, che aboliva le sanzioni sospese. La missiva di Qaddafi all’ONU segnava, in qualche modo, una importante inversione di rotta nella politica del colonnello, che da quel momento in poi sembrò fare di tutto per “sdoganarsi” nei confronti dell’occidente. In questo senso, alcuni passi risultarono fondamentali:

- già dal 1999, cioè in epoca ben precedente l’attacco dell’11 settembre, la Libia si impegnò a combattere Al Qaeda e a permettere libero accesso agli ispettori internazionali per controllare i propri depositi di armamenti (cosa mai avvenuta semplicemente perché la Libia non era già più ritenuta un pericolo dall’amministrazione Bush);

- dopo l’11 settembre 2001, Qaddafi stigmatizzò duramente l’attentato alle Torri Gemelle e apparve sulla emittente ABC in una intervista concessa a George Stephanopulos;

- dopo la caduta di Saddam Hussein, nel 2003, il leader della Jamahiryya rinnovò l’invito agli osservatori internazionali di controllare il suo programma militare e si dichiarò disposto a distruggere ogni arma di distruzione di massa in suo possesso. Sebbene l’amministrazione Bush abbia parlato di un atto dovuto alla paura di possibili ritorsioni, appare più verosimile che tali azioni rientrassero pienamente nel tentativo del colonnello di rilegittimarsi agli occhi dell’occidente (e, infatti, tre anni dopo la Francia concluse un accordo con la Libia per sviluppare un programma nucleare congiunto a scopi pacifici);

- nel marzo 2004 il premier britannico Tony Blair incontrò pubblicamente Qaddafi in una visita ufficiale a Tripoli e ne elogiò pubblicamente le nuove propensioni a fungere da ponte tra occidente e mondo arabo;

- il 15 maggio 2006 il Dipartimento di Stato americano ripristinò piene relazioni diplomatiche con la Libia, che venne rimossa dalla “lista nera” degli stati fiancheggiatori del terrorismo (evidentemente non tenendo conto del “terrorismo interno”, visto che, poco più di tre mesi dopo, Qaddafi invitò tutti i cittadini libici ad uccidere ogni oppositore del regime ...);

- nel luglio 2007 il presidente francese Sarkozy, in visita ufficiale in Libia, sottoscrisse una serie di accordi commerciali bilaterali con Qaddafi e alcuni accordi multilaterali che riguardavano tutta l’Unione Europea;

- nel settembre 2008 il segretario di stato americano Condoleezza Rice fu la prima “ministra degli esteri” americana a compiere una visita ufficiale in Libia dal 1953;

- il 23 settembre 2009 vide la prima apparizione, non priva di manifestazioni di protesta di sostenitori dei diritti umani, di Qaddafi all’Assemblea Generale delle nazioni Unite, presso la quale, per altro, il colonnello tenne un duro discorso di accusa contro la politica del Consiglio di Sicurezza, che definì “di feudalesimo della paura”.

Quale è stato il ruolo dell’Italia in questa curiosa parabola politica internazionale del colonnello?

Certamente uno dei ruoli più particolari tra quelli dei paesi europei, che ha visto lo sviluppo di relazioni italo-libiche a dir poco ondivaghe, fluttuanti tra l’aperta ostilità e la creazione di partnership privilegiate. Al momento del colpo di stato che depone Idris, infatti, Qaddafi sfrutta il passato coloniale italiano per crearsi un “nemico esterno” contro cui coalizzare la popolazione del suo paese: da qui le varie mosse propagandistiche quali la confisca dei beni italiani, l’istituzione del “giorno della vendetta” per ricordare la “cacciata dell’invasore” e, soprattutto, il lungo contenzioso sui danni di guerra, richiesti allo Stato italiano come risarcimento per aver il governo fascista trascinato la Libia (sua colonia) in guerra. Dal punto di vista del diritto internazionale, quest’ultima richiesta è, di per sé, risibile, essendo stata la Libia, tra il 1940 e il 1945, internazionalmente riconosciuta come parte integrante del Regno d’Italia, ma, sia per questioni relative agli interessi petroliferi italiani in territorio libico, sia per questioni geo-politiche legate ai flussi migratori e ai rapporti di vicinato sul Mediterraneo, non può essere certamente trattata alla leggera. In realtà, un “risarcimento”, in qualche modo, c’è stato già dai tempi della “rivoluzione verde”: con la confisca dei beni dei ventimila italiani espulsi nel 1970, infatti, lo stato libico ha incamerato circa 400 miliardi di lire dell’epoca, pari, all’incirca, a 310 miliardi di euro attuali, che non sono mai stati neppure menzionati all’interno dell’accordo Dini-Mountasser del luglio 1998, che avrebbe dovuto chiudere una volta per tutte il contenzioso tra Italia e Libia in materia. A questa cifra va aggiunta quella dei crediti vantati da oltre 100 aziende italiane tra anni ‘80 e 2000 e mai saldati, per varie motivazioni, da alcuni enti libici: tali crediti, che ammontano a oltre 620 milioni di euro, sono stati calcolati nel 2004 dal governo libico come elementi per un rimborso forfettario molto inferiore al valore reale e, al rifiuto dei debitori di accettare la proposta, come cifre da ricalcolare singolarmente, credito per credito (ricalcolo mai avvenuto nella pratica). Nonostante tutto ciò, il menzionato accordo Dini-Mountasser, sancito dal Comunicato Congiunto firmato il 4 luglio 1998, è chiaramente fortemente sbilanciato a favore della Libia, prevedendo un esborso (in realtà non chiaramente quantificato e mai ratificato dal parlamento) dell’Erario italiano a favore della Jamahiryya, risarcimenti ai libici danneggiati dalla guerra e aiuti per lo sminamento dei residui bellici, oltre che la creazione di una società mista pubblica e privata di cooperazione economica tra Italia e Libia. Visto che l’attuazione delle direttive del Comunicato procedeva a rilento, nel 2001, anche se non soprattutto per evitare il continuo ripetersi delle minacce libiche di ritorsione, in alcuni casi accompagnate dal sequestro di imprenditori italiani operanti nel paese nordafricano, l’Italia decide di compiere il “Grande Gesto”, consistente nella costruzione a Tripoli, con capitali a fondo perduto, di un ospedale oncologico supervisionato da specialisti italiani e di un’autostrada sulla costa libica tra Tunisia ed Egitto per un costo complessivo valutato tra 1,5 e 6 miliardi di Euro. Anche questa risoluzione finisce nel nulla (al di là di progetti più o meno ambiziosi), non essendo l’Italia in grado di sostenere l’esborso economico richiesto. Tra 2004 e 2008 i rapporti tra i due paesi si trascinano con alterne vicende, tra una visita a Tripoli del premier Berlusconi nel 2004 (con il colonnello Qaddafi che decide di rinominare il “giorno della vendetta” in “giorno dell’amicizia italo-libica”, sebbene negli anni successivi i giornali libici continuino a utilizzare il primo appellativo), la devastazione del Consolato Generale d’Italia a Bengasi e un proclama anti-italiano del leader libico a Sirte nel 2006 e convegni di riconciliazione organizzati dal premier Prodi nel 2007. Poi, nel 2008, avviene la svolta: il 30 agosto Berlusconi e Qaddafi firmano, a Bengasi, il cosiddetto trattato di Amicizia e Cooperazione.

E tutto si può dire fuorché esso sia minimamente svantaggioso per la Jamahiryya, prevedendo, nelle sue tre parti:

a) il risarcimento per le vicende coloniali attraverso la costruzione di un’autostrada di duemila chilometri lungo la costa libica, con una spesa totale 3,5 miliardi di euro, bilanciata in modo solo parziale dalla chiusura del contenzioso con le ditte italiane danneggiate dalle decisioni libiche prese nel 1970 (valore stimato di 600 milioni);

b) l’impegno da parte dell’Italia a realizzare infrastrutture in Libia per un valore di 5 miliardi di dollari tramite esborso di 250 milioni di dollari all’anno per 20 anni, con fondi reperiti tramite addizionale IRES a carico delle aziende petrolifere e gestiti direttamente dall’Italia tramite commesse a ditte italiane;

c) lo sviluppo di iniziative speciali a carico dell’Italia quali borse di studio e un programma di riabilitazione per i feriti dallo scoppio di mine.

In cambio, la Libia prenderà misure per combattere l’immigrazione clandestina dalle sue coste, e favorirà gli investimenti nelle aziende italiane, in particolare dell’ENI, operante nel deserto libico dagli anni ‘50. A seguito della risoluzione definitiva della questione, nel giugno 2009 Gheddafi ha compiuto la sua prima visita ufficiale a Roma, recandosi in Campidoglio, all’università La Sapienza (dove è stato duramente contestato), alla sede di Confindustria e incontrando le massime cariche italiane, arrivando costantemente in ritardo agli appuntamenti e sempre mostrando, appuntata sulla sua divisa militare una foto dell’eroe della resistenza libica anti-italiana Omar al-Mukhtar. Insomma, a quanto, pare questo nuovo corso della politica di Qaddafi potrà certamente essere positivo per la pace mediorientale, per la cooperazione mediterranea e, in prospettiva, forse anche per l’industria europea in generale e italiana in particolare, ma, fino ad ora, non sembra essere stata un grande affare per l’Italia, né dal punto di vista finanziario né, soprattutto, ieri come oggi, dal punto di vista del prestigio e dell’orgoglio nazionale.

ATTENTATO A BARCELLONA. DA KARL MARX A MAOMETTO.

Una cosa che saltava agli occhi di questo “Osservatorio sul martirio dei cristiani”; è quello che, sia gli islamici che i comunisti, ancora oggi uccidono i cristiani! Sono forse attualmente coalizzati per dare il colpo di grazia alla civiltà cristiana? “El islamismo, relevo del comunismo” – vignetta pubblicata su El Pais, nel 1992.

Articolo tratto da Tradizione Famiglia Proprietà Anno 7, n. 34 set. Nov. 2001. Pensatori socialcomunisti vanno da tempo affermando che il fondamentalismo islamico è succeduto al marxismo come motore della lotta di classe.

La nuova lotta di classe. Tramonto della minaccia sovietica. Prima del 1990, gli occidentali erano abituati a considerare il comunismo come un'ombra colossale incombente sui rapporti internazionali e sulla vita interna di ogni paese. Sul panorama mondiale aleggiava la costante minaccia di un'aggressione sovietica, che facilmente avrebbe potuto degenerare in guerra nucleare. Un'abile propaganda sfruttava questa situazione, incutendo negli occidentali il panico di una tale ecatombe, mentre sussurrava che l'unico modo di evitarla sarebbe stata una politica di concessioni. In tal modo si rafforzava ulteriormente le possibilità dell'URSS di esercitare una pressione psicologica per mezzo del ricatto nucleare. All'interno di ogni paese c'era poi la costante pressione della propaganda marxista, promossa dai partiti comunisti locali comandati da Mosca. C'era perfino la possibilità che un trionfo elettorale dei comunisti collocasse ipso facto il paese nell'orbita del Cremlino, per non parlare dei movimenti guerriglieri e terroristici spalleggiati da Mosca. Per questi ed altri motivi, la minaccia comunista occupava un posto fondamentale nel panorama mentale dell'uomo moderno. A un dato momento, questa minaccia è svanita. Il Muro di Berlino è stato abbattuto ed è finita la "guerra fredda" fra la NATO ed il Patto di Varsavia. Uno ad uno quasi tutti i vecchi governi comunisti hanno ceduto, sostituiti da regimi più o meno democratici che dicevano di voler attuare riforme di stampo liberista. Le due Germanie si sono unificate sotto l'egida di quella occidentale. L'URSS si è sgretolata. Il PCUS, punta di lancia della rivoluzione mondiale, ha votato la sua "autodissoluzione" ed ha adottato un altro nome. Come obbedendo ad un ordine preciso, i partiti comunisti occidentali hanno seguito le orme del loro padrone, rinnegando il passato marxista e cambiando a loro volta di nome. Così, nonostante la precaria sopravvivenza di "dinosauri" come Fidel Castro, nel breve spazio di due anni, il mostro che aveva tenuto il mondo col fiato sospeso per più di mezzo secolo, sembrò svanire nel nulla.

La spaventosa miseria del comunismo. Il problema del comunismo, come ogni problema sociopolitico, aveva un aspetto dottrinale ed uno pratico. Si trattava non solo di sapere se l'insieme di dottrine conosciute come marxismoleninismo fosse valido o meno a livello teorico, ma anche di sapere se la loro applicazione avesse ottenuto risultati soddisfacenti. Se il comunismo fosse stata la panacea pretesa dai suoi alfieri, come spiegarne l'eventuale fallimento concreto? Gli occidentali avevano appena una vaga idea della miseria causata dal comunismo in Russia. Abbattuta la "Cortina di ferro", si è invece rivelato agli occhi di tutti il clamoroso fallimento dell'esperienza sovietica. Per la prima volta il mondo ha potuto constatare la spaventosa eredità del comunismo: una situazione di miseria e di oppressione quale il mondo non aveva mai visto, e che il Cardinale Ratzinger ha giustamente qualificato come "la vergogna del nostro tempo". Questa constatazione ebbe un immediato riscontro in campo ideologico: apparve chiaro al buon senso dell'opinione pubblica che l'utopia comunista era irrealizzabile. Di fronte al clamoroso fallimento del socialismo reale, come potevano mai i comunisti continuare a difendere le loro dottrine? Così alla disfatta politica si aggiunse pure quella ideologica, scatenando all'interno dei vari PC una crisi d'identità non ancora risolta.

La morte delle ideologie. Questa duplice disfatta delle correnti comuniste si situa all'interno d'un panorama più ampio: la "morte delle ideologie". Da tempo dilaga nello spirito dell'uomo occidentale un tremendo indifferentismo morale, provocato dall'erosione del principio di non contraddizione, principio fondamentale e supremo del pensiero umano. Si parla perfino del tramonto dell'uso di ragione. Si diffonde un nuovo tipo umano incapace di interessarsi a ciò che oltrepassa il suo campo individuale, incapace quindi di emettere un giudizio profondo sugli avvenimenti, ridotto a un coacervo di emozioni, di umori e di reazioni istintive. Questo tipo umano presenta un grave problema anche per la sinistra, che si ritrova di colpo impossibilitata a mobilitare come prima le masse per le sue cause rivoluzionarie. Morto il comunismo come ideologia e distrutta la sua base operativa, come articolare un nuovo movimento rivoluzionario internazionale, tenendo conto anche di questa atonia ideologica? Occorreva ricostituire un certo quadro generale di fronte al quale le persone potessero essere sollecitate a schierarsi e scendere in campo.

Ritorna la lotta di classe? Un primo tassello della risposta è quello che si potrebbe definire il riciclaggio della lotta di classe. Secondo il marxismo, la società moderna era divisa fra i proprietari dei mezzi di produzione (i borghesi) e quelli che ne erano privi (i proletari), costretti perciò a vendere il loro lavoro ai primi. Da questa divisione scaturiva necessariamente un antagonismo, la lotta di classe, ritenuta il motore del processo rivoluzionario. Secondo questo mito, i borghesi sarebbero diventati sempre più ricchi e i proletari sempre più poveri. Pari passo, l'antagonismo si sarebbe fatto sempre più aspro fino all'esplosione finale, culminando nella rovina dell'ordine borghese e nell'instaurazione della dittatura del proletariato. La storia si è successivamente incaricata di sfatare questo mito.  Nell'Occidente capitalista il proletariato ha migliorato la sua situazione economica fino a diventare in pratica un'agiata classe media; nel mondo socialista, invece, il capitalismo di Stato non ha prodotto altro che miseria e oppressione. Lungi dall’ammettere il fallimento di questo mito, i rivoluzionari lo hanno sostituito con un altro: una nuova tensione, più profonda, fra Sud (paesi poveri) e Nord (paesi ricchi) al posto della tensione Est-Ovest. All'antico antagonismo fra proletariato e borghesia a livello nazionale, e fra mondo comunista e mondo libero a livello internazionale, è subentrato questo nuovo antagonismo. Da questa prospettiva sparisce, almeno apparentemente, qualsiasi connotazione ideologica. Si tratta, dicono, d'una situazione di fatto: alcuni paesi sono poveri, altri sono ricchi. I primi producono materie prime a basso prezzo; i secondi le acquistano e le trasformano in prodotti industriali che poi vendono a prezzi maggiorati.  Si stabilisce così un circolo vizioso per il quale i poveri diventano sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi. Questa crescente tensione sfocerà nello scontro fra i due mondi, dal quale uscirà vincente il Sud. Si instaurerà un ordine economico internazionale più "giusto", dove le ricchezze saranno ridistribuite e finalmente regnerà l'uguaglianza. Nel frattempo, i poveri avranno avuto diritto a partecipare direttamente all'abbondanza dei ricchi, trasferendosi nei loro paesi. Ed ecco la giustizia intrinseca che ci sarebbe negli enormi flussi migratori degli ultimi tempi. L'insediamento di queste masse umane, non più assimilabili dalla cultura locale come una volta, crea delle vere e proprie colonie del Sud nelle cittadelle del Nord. Queste colonie tenderanno solo a crescere, visto il loro alto tasso demografico. Oltre a destabilizzare la vita interna dei paesi ospitanti, a giudizio degli alfieri di questa nuova visione, queste colonie potrebbero eventualmente fornire masse di manovra per moti rivoluzionari. In casi estremi, alcuni paesi del Nord potrebbero perfino perdere la loro identità culturale e storica. Questa prospettiva offre alla sinistra un valido pretesto per mobilitare i suoi militanti e reclutare compagni di viaggio. L'intensa carica sentimentale dell'obiettivo, alimentata dalle agghiaccianti fotografie di squallide favelas, scheletrici bambini africani e via dicendo, permette alla sinistra di risparmiarsi la seccatura della persuasione ideologica, rivolgendosi direttamente al cuore delle persone.

Un'ideologia innominabile. Gli alfieri di questa nuova prospettiva dichiarano che in essa non c'è nulla di ideologico, e dunque niente di programmato, in quanto non sarebbe altro che il risultato di una situazione di fatto: lo squilibrio economico mondiale. Per cominciare, questa analisi ci sembra troppo semplicistica. Essa non prende in considerazione i motivi della povertà dei paesi del Sud. Molti di questi paesi, ricchi di risorse naturali, sono poveri per via della disastrosa applicazione di programmi di stampo statalista. Perché non se ne fa mai menzione?

Forse perché in tal modo si aprirebbe lo spiraglio di una possibile soluzione? C'è da augurarsi, infatti, che, abbandonando i disastrosi accentramenti economici e amministrativi e applicando invece le formule che hanno funzionato bene al Nord, questi paesi possano svilupparsi. Ma allora essi non sarebbero più il "Sud", si imborghesirebbero e la sinistra potrebbe rimanere ancora una volta senza massa di manovra...Desta poi meraviglia l'ampiezza del termine "povero". Gli alfieri di questa nuova prospettiva mettono sullo stesso piatto indigenza e povertà. Si tratta, invece, di due situazioni molto diverse. Nel caso di un paese indigente, l'aiuto dei paesi ricchi sarebbe un imperativo di giustizia, giacché il diritto delle popolazioni a vivere in condizioni di dignità prevale sul diritto dei paesi ricchi a godere dell'abbondanza. Ma fin dove deve spingersi l'imperativo, quando si tratta di un paese appena povero? Anzi, cosa vuoi dire povero? Secondo loro, è povero non solo chi ha troppo poco, ma chi ha meno di altri. Solo in questo senso relativo si potrebbe applicare il termine a paesi come Brasile, Argentina o Messico. Ma allora si cominciano a intravedere i lineamenti di una soggiacente ideologia. Essa si può così riassumere: è ingiusto che vi siano paesi ricchi e paesi poveri, così come è ingiusto che vi siano classi ricche e classi povere. In altre parole, è ingiusto che vi siano disuguaglianze. Perciò, al di là dei pretestuosi motivi economici, questa rivoluzione è ispirata al principio dell'egualitarismo — cioè alla stessa essenza del comunismo — che sussiste sentimentalmente nel cuore di milioni di persone. Siamo quindi in presenza di una ideologia innominabile. Ecco quindi delineati i contorni di una autentica rivoluzione mondiale in preparazione, proprio quando il comunismo sembrava morto. Difatti, pochi si accorgono dell'ispirazione neomarxista di questa rivoluzione, giacché il comunismo è stato ufficialmente dichiarato morto... "Si rischia una guerra di classe da fare impallidire il ricordo delle lotte sociali che fin qui hanno punteggiato la storia moderna", ammonisce Eugenio Scalfari.

Il neoproletariato. A questo punto qualche ottimista incallito potrebbe ingenuamente replicare: "Ma non dobbiamo preoccuparci! Cosa possono un pugno di straccioni contro l'immensa potenza economica, politica e, se fosse il caso, anche militare dell'Occidente?" Il nostro ottimista però non prende in considerazione un elemento fondamentale della situazione: l'esistenza di partigiani del Sud nelle roccaforti del Nord. Chi sono costoro?

Risponde Francesco Alberoni: "II neomarxismo rivoluzionario si differenzia da quello precedente perché non fa più riferimento al proletariato, ma alle 'moltitudini', cioè ai poveri, gli emarginati, i dissenzienti di tutto il mondo".

Ed egli passa quindi ad elencarne alcune componenti: "Per ora il popolo di Seattle eterogeneo, vi si esprimono preoccupazioni ecologiche per l'inquinamento, l'effetto serra, i prodotti transgenici, tensioni dovute al mercato globale, richieste di protezionismo, domande dei più poveri, pressioni per l'immigrazione, appelli religiosi all'uguaglianza". Questo popolo è, infatti, eterogeneo. Però, come abbiamo accennato all'inizio, considerato sotto l'angolazione che in seguito illustreremo, vi si può rilevare una profonda coerenza.

L'allargamento del concetto di "oppressione". Pur nella loro ampia varietà, le ideologie rivoluzionarie conservano sempre un nucleo in comune: l'idea d'una "liberazione" da una certa situazione di "oppressione". Nel marxismo l'oppressione era fondamentalmente quella economica esercitata dai borghesi ai danni dei proletari. Le oppressioni politiche e sociali erano considerate "emanazioni" di questa. Ma già dagli anni Trenta pensatori comunisti come Antonio Gramsci e i tedeschi della cosiddetta scuola di Francoforte cominciarono a sviluppare una teoria molto più ampia e sofisticata: l'oppressione culturale. Secondo questa teoria, la borghesia opprime i proletari non solo perché possiede i mezzi di produzione, ma anche perché "fabbrica" la cultura dominante. Senza nemmeno accorgersene, i proletari sarebbero costretti a vivere dentro una cornice culturale modellata dalle classi dirigenti, vale a dire tutto un sistema di valori, di criteri e di modi di essere orientati alla conservazione dello status quo. Così come i borghesi sarebbero i padroni dei corpi dei proletari perché acquistano il loro lavoro manuale, attraverso la cultura sarebbero anche i padroni delle loro menti. La cultura si sarebbe dunque trasformata in un'arma di oppressione molto più profonda e terribile di quella economica, giacché soggiogherebbe lo stesso spirito. Secondo questa prospettiva, la "liberazione" non sarà totale finché il proletariato non ripudierà la cultura dominante. E questo può avvenire solo con un profondo cambiamento di mentalità, e anche di temperamento, nel quale egli espunga da sé la cultura degli oppressori, adottando una "coscienza critica" nei loro confronti, che naturalmente tenderà a sfociare nella ribellione. Ed ecco il germogliare di una galassia di controculture, come quelle dei Centri sociali, dove si formano i militanti della nuova rivoluzione, liberi da condizionamenti culturali borghesi. Qualche anno dopo, teorici rivoluzionari come Wilhelm Reich e Herbert Marcuse hanno cominciato a lanciare l'idea di oppressione morale. Ispirati al freudismo più radicale, questi ideologi affermano che l'uomo ha il diritto di soddisfare ogni suo impulso senza dover subire nessuna coercizione. L'unico limite sarebbe il rispetto per il diritto degli altri.  Questa teoria, inizialmente conosciuta come "freudomarxismo", trova nel "vietato vietare" sessantottino la sua formulazione essenziale. Per i freudomarxisti non basta "liberarsi" dalle strutture economiche, politiche, sociali e culturali. C'è un'altra rivoluzione molto più importante da fare, questa sì fondamentale: la distruzione della gerarchia interna nell'uomo, in virtù della quale la Fede illumina la ragione e questa guida la volontà, che a sua volta domina la sensibilità. Questa rivoluzione propugna una radicale liberazione della sensibilità e degli istinti contro gli inferiori freni inibitori imposti da secoli di cultura e di civiltà, che sanciscono il dominio dell'intelligenza e della volontà sulle passioni. Propugna quindi una rivoluzione finalizzata a distruggere le istituzioni che perpetuano socialmente quest'ordine morale, a cominciare dalla famiglia monogamica ed indissolubile, ritenuta l'origine di tutte le nevrosi moderne. Perciò una delle sue principali rivendicazioni è proprio l'illimitata libertà sessuale. Per sua stessa natura, questa esplosione passionale che ne deriva tende a trascinare nel vortice della lotta contro ogni autorità e "repressione" tutte le attività e tutti i rapporti umani: nella famiglia, ne lavoro, nella scuola, nell'economia, nella cultura, nella politica e via dicendo. Più recentemente si, sta facendo strada un'altra idea, ancor più vaga e struggente: quella di una sorta di oppressione psicologica. Secondo questa idea, pur in mezzo alla prosperità materiale, l'uomo contemporaneo è afflitto da un profondo e multiforme malessere. Questo malessere sarebbe da attribuirsi all'ipertecnicismo della società industriale, che ha finito col rompere certi equilibri naturali, producendo un ambiente ostico all'uomo. Insomma, la modernità sarebbe profondamente malata. Sarebbero riconducibili a questa causa lo stress della vita moderna, le paure per i cibi transgenici, il degrado dell'ambiente, le svariate nevrosi che affliggono gli abitanti delle grandi città, e così via. Ed ecco che, per "liberarsi" di questo malessere, dilagano pratiche orientaleggianti, come lo yoga, nonché diverse abitudini alternative alla moderna società occidentale. La propaganda neorivoluzionaria si farà tentare anche dal desiderio di sfruttare gli islamici come nuova categoria discriminata dopo gli attacchi dell'11 settembre, cercando di sommare la loro forza a quella della contestazione anti-occidentale? E questa l'idea soggiacente, per esempio, alla sinistra ambientalista, che nelle sue frange più radicali propone addirittura la fine della civiltà moderna ed il ritorno a forme primitive di vita, in nome di un ritrovato equilibrio mentale ed ecologico.

La rivoluzione totale di un nuovo proletariato multiforme. Sfruttando queste ed altre idee, la neorivoluzione supera gli schemi marxisti, che abbracciavano il campo economico, e quindi quello politico e sociale, per contestare radicalmente e allo stesso tempo tutte le forme di autorità e di coazione legale, morale o psicologica, in ogni campo e in ogni forma.

“l'Occidente nella tenaglia”. Spunta così la rivoluzione totale. Questa rivoluzione, spiega il teorico neomarxista francese Pierre Fougeyrollas, "significa veramente una rivoluzione nella maniera di sentire, agire e pensare, una rivoluzione nelle maniere di vivere (collettivamente ed individualmente), insomma una rivoluzione della civiltà".

Alla "oppressione culturale" si contrapporrebbe una "rivoluzione culturale". Secondo il copione marxista, la Rivoluzione avrebbe dovuto ricevere impulso prevalentemente dai proletari in rivolta contro l'oppressiva società capitalista. Nella neorivoluzione, questo proletariato viene affiancato da una sorta di nuovo, variegato "proletariato" socioculturale, composto da quelle categorie che, indipendentemente della loro situazione economica o sociale, si ritengono in qualche forma discriminate da fattori di un qualunque tipo: morali, culturali, psicologici, razziali, religiosi, ecc. Così le femministe si sentiranno discriminate dalla "cultura maschilista"; gli omosessuali si sentiranno discriminati dalla morale cristiana; gli immigrati dalla "xenofobia"; i drogati dalla legislazione proibizionista; le prostitute dal rifiuto sociale nei loro confronti; le minoranze etniche dal "razzismo"; i libertini si sentiranno oppressi da una società piena di regole; i nudisti dai "preconcetti borghesi" e via dicendo. La propaganda neorivoluzionaria si farà tentare anche dal desiderio di sfruttare gli islamici come nuova categoria discriminata dopo gli attacchi all'America dell'11 settembre 2001, cercando di sommare la loro forza a quella della contestazione anti-occidentale? Secondo il nuovo copione, ogni categoria di emarginati dovrà scrollarsi di dosso i fattori di oppressione che concretamente gravano su di essa, ponendosi alla testa, ognuna nel suo campo, di una lotta liberatrice. Per la naturale sinergia fra tutte queste "liberazioni", avremo quindi la rivoluzione totale di cui sopra. Questo mutamento di Rivoluzione implica anche una trasformazione delle strutture che la promuovono. Nella nuova prospettiva, il Partito comunista, come organizzazione politica, "dogmatica" e rigidamente articolata, viene superato. Le forze della neorivoluzione non si organizzano in partiti politici ma in "reti", ossia in gruppi di pressione che si muovono piuttosto in campo sociale e culturale, adottando spesso nomi ingannevoli, stabilendo coalizioni flessibili che si formano e si sciolgono al ritmo degli avvenimenti. L'uso di Internet permette a queste reti di comunicare in modo alquanto fluido e veloce. Il ruolo di queste reti non sarebbe quello di imporre un'ideologia, ma di acuire le tensioni etniche, morali, culturali, sociali e via dicendo; di "liberare" le energie rivoluzionarie latenti nelle varie categorie discriminate, e poi di coordinarne gli effetti disgreganti, finalizzando il tutto alla distruzione di quanto resta della civiltà cristiana. Nel loro insieme, queste reti svolgerebbero per la neorivoluzione un ruolo non molto diverso da quello svolto dal Komintern ai tempi della rivoluzione comunista. L'assenza d'un organo centrale darebbe poi l'illusione di movimenti piuttosto spontanei. Questo punto va sottolineato. Più di un commentatore ha argomentato che per l'assenza di una ideologia fondante, nonché di una proposta alternativa e di un coordinamento politico, i fatti di Genova non avrebbero il carattere di vera e propria rivoluzione. A nostro parere, essi non tengono nella dovuta considerazione tutta la portata dei cambiamenti nel processo rivoluzionario. Nell'agosto 1991 i leader delle varie reti si riunirono a Ginevra per cercare di "stabilire le basi d'un movimento mondiale che annoveri ONG 19, movimenti popolari, centri sociali e simili". Qualcuno parlò addirittura di formare una "Quinta Internazionale". Ma non è facile mobilitare persone contro un "sistema" troppo vago. Mancava un patente - casus belli - che permettesse a questa eterogenea accozzaglia di coagularsi e scagliarsi contro un nemico concreto. L'occasione fu servita su un piatto d'argento nel 1992. Preoccupata per gli effetti di un eccessivo sviluppo industriale sull'ambiente, l'ONU aveva convocato un "Vertice della terra" (Earth Summit) per esaminare il problema al più alto livello. Tenutasi a Rio de Janeiro, la II Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (UNCED, nell'acronimo inglese) è stata forse la maggior assise della storia, con 118 capi di Stato, 4.000 ministri e sottosegretari di 170 paesi, nonché rappresentanti di 50 agenzie intergovernative. Mentre l'UNCED si riuniva in un centro convegni fuori città, nel Parque do Flamenco, sul lungomare carioca si teneva un "vertice alternativo" e non meno affollato: il Global Forum of NGOs and Social Movements (Forum Globale delle ONG e dei Movimenti Sociali). Presentandosi come la voce di tutti gli scontenti, gli emarginati, ed i contestatori dell'attuale ordine internazionale, il Global Forum radunò parecchie migliaia di persone in un immenso happening che si protrasse per una settimana. Vi erano rappresentate più di 800 ONG di 150 paesi. Fu un primo tentativo riuscito di articolare questa variopinta "quinta internazionale". Il vertice di Rio si prefiggeva di esaminare un problema cruciale per l'umanità: l'attuale modello di sviluppo industriale è compatibile col corretto uso delle risorse naturali? Oppure, l'eccessiva industrializzazione dei paesi ricchi sta svuotando le risorse e producendo anche un inquinamento che nuocerà alle generazioni future? In questo caso, non converrebbe ridurre il ritmo di sviluppo dei ricchi e abbassare il loro tenore di vita per conservare meglio l'ambiente? Così tutti, anche i poveri, potrebbero usufruire equamente delle risorse. Ecco come l'allora Primo Ministro di Norvegia Grò Harem Bruntland, vicepresidente dell'Internazionale Socialista nonché primadonna dell'UNCED, enunciava il problema: "Dobbiamo cambiare radicalmente i criteri di consumo e di produzione. Dobbiamo chiedere ai paesi sviluppati di cambiare il loro modello ormai inaccettabile. (...) Dobbiamo ammettere che noi, paesi industrializzati, abbiamo aumentato il nostro livello di vita abusando delle risorse naturali. (...) E adesso non possiamo dire al Terzo Mondo: pagate voi il conto. Siamo noi che dobbiamo pagare". Perfetto casus belli: un pugno di paesi industrializzati che, per incrementare il loro già altissimo livello di vita, saccheggiano le risorse naturali del pianeta a danno dei più poveri, i quali per giunta ne devono pagare le conseguenze anche in termini di inquinamento! E mentre i paesi ricchi, con a capo gli USA, difendevano a spada tratta il loro modello di sviluppo, il Global Forum insorgeva contro questa "ingiustizia planetaria". Il suo tono lo possiamo dedurre dal proclama rivolto ai convenuti da Femando Gabeira, ex-terrorista rosso e presidente del Partito Verde brasiliano: "Da questo raduno scaturirà una guerra fra il Nord ed il Sud del pianeta. L'inquinamento, la deforestazione, la sovrappopolazione e il buco dell'ozono saranno le armi di questa lotta". La neorivoluzione aveva individuato il nemico.

Da Seattle al World Social Forum di Porto Alegre: la neorivoluzione prende fiato. Negli anni successivi a Rio, gli alfieri di questa "quinta internazionale" si dettero a definire meglio il bersaglio, nonché a escogitare i mezzi per colpirlo. Correggendo leggermente il tiro, lasciarono scivolare a un secondo piano il discorso ambientalista — troppo soggetto a complicate discussioni scientifiche e comunque non atto alla mobilitazione delle masse — e puntarono il dito contro il nuovo spauracchio: la globalizzazione. Secondo questa visione, il mondo è governato dai paesi ricchi capeggiati dai cosiddetti G8. Essi manipolano i fili dell'economia e della finanza attraverso le aziende multinazionali. Per perpetuare questa situazione di privilegio hanno creato una serie di istituzioni che dettano le regole del commercio e della finanza internazionale, come la World Trade Organisation e il World Economie Forum, nonché istituzioni che possono intervenire ovunque, come il Fondo Monetario Internazionale, sempre, è chiaro, in difesa dei loro interessi. Questo strapotere economico conferisce loro anche il dominio politico nonché l'egemonia culturale. La globalizzazione non sarebbe altro che un processo atto a consolidare e accrescere questo potere ai danni dei poveri del pianeta. Non è nostro proposito discutere in questa sede quanto sia giusto o meno un ordine internazionale "globalizzato". Siamo comunque convinti che qualsiasi ordinamento che espropri le nazioni della loro legittima sovranità e i popoli delle loro identità culturali e anche religiose, non può essere ammissibile dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa alla quale facciamo riferimento. Anche se il libero commercio deriva dal l'ordine naturale e, nelle attuali circostanze, non può non produrre una certa internazionalizzazione dei rapporti umani, questo resta un punto fermo. Ma il fatto, è che i neorivoluzionari non sono contro la globalizzazione, ma contro una determinata globalizzazione: quella capeggiata dai paesi industrializzati. "[Questi ideologi], presentano proposte teoriche e pratiche che permetterebbero di visualizzare una globalizzazione di nuovo tipo, — spiega il giornale parigino Le Monde — [essi] tentano di lanciare le basi di un'altra globalizzazione". Sarebbe, nelle parole di un commentatore, "una globalizzazione dal volto umano".

World Social Forum di Porto Alegre, "l'atto costitutivo della Quinta Internazionale". Una prima occasione di confronto con questo nemico fu offerta dalla riunione della WTO a Seattle (USA), nel novembre 1999. Con un perfetto coordinamento, che lascia intravedere un'abile regia internazionale, decine di migliaia di militanti della "quinta internazionale" — che nel frattempo aveva abbandonato la sigla Global Forum — calarono sulla città statunitense per una catena di proteste "pacifiche". Puntualmente, queste proteste degenerarono nei più violenti scontri dai tempi della guerra del Vietnam, che lasciarono il centro di Seattle devastato e riuscirono perfino a bloccare la riunione della WTO. Le sinistre di tutto il mondo insorsero contro la "prepotenza" della polizia, e infuocate manifestazioni antiglobal si verificarono un po' ovunque. A Ginevra, 5000 persone bloccarono la sede centrale della WTO, mentre a Londra violenti scontri scoppiarono davanti a Euston Station. Era nato il "popolo di Seattle". Seguirono altre manifestazioni, tra le quali bisogna ricordare quella di Genova, nel maggio 2000, contro una conferenza di aziende nel settore della biotecnologia. Per la prima volta fecero irruzione le "tute bianche", armate con manganelli, maschere da gas, scudi ed altri attrezzi che non lasciavano dubbi sul fatto che i militanti della "quinta internazionale" si addestrassero alla guerriglia. A settembre toccò a Praga, dove migliaia di manifestanti protestarono contro la riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale, scontrandosi con la polizia e causando ingente danni. Stesso copione a Nizza, in dicembre. Ma il vero atto costitutivo di questa "quinta internazionale" è stato il World Social Forum, convenuto nella città brasiliana di Porto Alegre nel gennaio 2001 in concomitanza con la riunione a Davos, Svizzera, del World Economie Forum. E interessante rilevare che fra gli organizzatori del Social Forum troviamo molti reduci dal Global Forum del 1992, il che ne evidenzia la continuità. Non è questa la sede per farne un'analisi approfondita, rileviamo appena qualche spunto utile per la nostra tesi. Del World Social Forum hanno partecipato più di 1.500 ONG, movimenti sociali e gruppi "alternativi" di tutto il mondo, per un totale di 15.000 persone provenienti da 122 paesi. Il membro italiano del Comitato organizzatore era Vittorio Agnoletto, che poi ritroveremo a Genova a svolgere il ruolo di portavoce della contestazione. L'elenco dei partecipanti ci offre uno squarcio della estrema complessità del neoproletariato: dai guerriglieri colombiani delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) ai membri del PROUT, un movimento indiano che promuove la fusione fra marxismo e yoga; dai teologi della liberazione latinoamericani all'agitatore francese José Bove; dalla delegazione del governo comunista di Cuba (molto applaudita) ai movimenti animalisti; da gruppi africani tribalistici a dirigenti dell'Internazionale Socialista ai vertici del Partito dei Lavoratori brasiliano (PT), di ispirazione marxista. Fra i convenuti c'era anche una folta schiera di reduci di Seattle e di Praga. Tutta questa allegra accozzaglia era però compattamente unanime nel denunciare il grande nemico del nuovo millennio: il neoliberismo. Cogliendo il senso profondo dell'avvenimento, Le Monde Diplomatìque commentava in un editoriale: "Una sorta di - Internazionale Ribelle - è nata in Brasile, mentre i signori del mondo si riunivano a Davos, Svizzera". Da parte sua, in un documento ufficiale il Social Forum si definiva "un arcipelago planetario di resistenza". La varietà dei temi trattati riflette la stessa eterogeneità delle componenti di questo arcipelago planetario. Così, da infuocate sessioni in cui guerriglieri colombiani convocavano alla "resistenza armata contro il neoliberismo", si passava a show in cui attrici in topless auspicavano che "la Santa Madre Chiesa corregga gli errori delle tavole di Mosè e il sesto comandamento ordini di festeggiare il corpo". Una cosa, però, era palese: la consapevolezza che gli ideali del Social Forum fossero la continuazione, in termini moderni, del processo rivoluzionario. "Perché siamo qui? — si domandava nella sessione inaugurale il candidato marxista alla presidenza del Brasile, José Ignacio da Silva — Che cosa ci accomuna? Abbiamo lo stesso impulso che ha dato vita alla Rivoluzione Francese, alla Rivoluzione Messicana del 1911, alla Rivoluzione Cubana".

Il ruolo basilare del nuovo '68. Finalmente, nel luglio scorso, questa "internazionale ribelle" sbarca a Genova con armi e bagagli sotto il patrocinio del Genoa Social Forum (GSF), con le conseguenze che abbiamo visto. Non si è quindi trattato di una spontanea manifestazione di protesta, ma di una operazione lungamente pianificata. "I trecentomila che hanno sfilato in occasione del G8 — spiega Don Luigi Ciotti, fondato re del gruppo Abele e figura di riferimento del movimento no global — non sono spuntati dal nulla. Erano anni che centinaia e centinaia di gruppi, di associazioni, di piccoli movimenti lavoravano e costruivano e si sporcavano le mani". L'agenzia ADISTA definisce il GSF come "il cartello che riunisce oltre 500 gruppi, associazioni, ONG, sindacati, centri sociali in lotta contro il neoliberismo". Il fattore agglutinante è la consapevolezza di essere, in vari modi, i continuatori del processo rivoluzionario. Già Toni Negri, ex cattivo maestro di Potere Operaio e ideologo del movimento noglobal, proclamava a chiare note: "II popolo di Seattle? Un'eruzione, un grande fenomeno di libertà. (...) forse un nuovo Sessantotto". Da parte sua, il sociologo Sabino Acquaviva avvertiva: "Si sta giocando col fuoco. (...) C'è davvero il pericolo che si arrivi a qualcosa di simile al '68". Semmai, questo giudizio pecca di eccessiva cautela. Proclamando che il GSF "riprende i grandi valori del '68", Agnoletto dichiara "noi dobbiamo andare oltre".

Sinistra cattolica: Rispunta il cattocomunismo. Ma forse l'aspetto più rivelatore emerso dagli episodi di Genova è stato il ritorno della "sinistra cattolica" o del "catto-comunismo", che da più parti era stato dato troppo frettolosamente per defunto in seguito al tramonto dei movimenti rivoluzionari, suo humus naturale. Eccolo invece riciclato all'interno della neorivoluzione, di cui anzi in alcuni casi funge da forza tramante. Lo stesso Agnoletto, portavoce della contestazione, proviene da una doppia militanza: Associazione cattolica degli scout e Democrazia Proletaria. Tra le componenti della contestazione noglobal spiccano numerose sigle cattoliche. "C'è anche un pezzo di Chiesa all'interno del movimento di contestazione", rivela ADISTA, precisando che "è piuttosto folta la presenza di gruppi e organismi cattolici all'interno del GenoaSocial Forum".  Sulla prima pagina del Corriere della Sera, Angelo Panebianco denunciava "la ripresa di quel fenomeno, noto come cattocomunismo, che tanto peso ha avuto nella storia del nostro Paese". E due settimane dopo rilevava: "C'è qualcosa di paradossale nel fatto che mentre la sinistra intellettuale, ormai da tempo, ha buttato il marxismo alle ortiche, esso continui a godere di così tanta popolarità in ambito cattolico". Purtroppo, non si tratta di un fenomeno marginale. Questi gruppi e organismi non solo vengono spalleggiati da rilevanti settori del cattolicesimo italiano, ma si fregiano perfino di autorevoli legittimazioni da parte di certi esponenti della gerarchia ecclesiastica. D'altronde, si sentono sicuri dell'acquiescenza di quelle non poche autorità che dovrebbero invece contrastarli. Non potremo mai sottovalutare questo apporto cattolico, vista la presenza del Papato sul suolo italiano e l'influenza che la leadership spirituale della Chiesa esercita sulla maggioranza degli italiani. Commentando il manifesto delle Associazioni Cattoliche che, volens nolens, portavano acqua al mulino del Genoa Social Forum, Antonio Gaspari notava che esso "ha creato una grande confusione, fornendo al Genoa-Social Forum visibilità, credibilità e soprattutto una massa di gente da manovrare per fini strettamente politici".  E Panebianco rincarava: "Si è data una patente di legittimità ai contestatori, ingenerando nell'opinione pubblica la sensazione che la Chiesa condividesse il loro manicheismo morale. (...) Probabilmente, il governo non avrebbe mai dato quel passo [dialogare col GSF] se non avesse registrato una così massiccia adesione del mondo cattolico". Un'adesione che, tra l'altro, veniva sottoscritta anche da rappresentanti della sinistra come Pietro Burlando, Livia Turco e Marco Minniti, nonché dall'ex-segretario della Quercia Achille Occhetto.

C’è alleanza tra fondamentalismo islamico e comunismo? si sono tirati indietro, pur prendendo le distanze dalla violenza che, tutto sommato, è un fattore secondario e strumentale nella Rivoluzione, non la sua essenza. Dichiara Mons. Diego Natale, presidente del movimento Pax Christi e vescovo di Saluzzo: "È il nostro dovere tenere alta la speranza nata da una colossale mobilitazione dei cattolici. Il movimento sceso in piazza a Genova allarga gli orizzonti della Chiesa e della società". Analoga posizione ha preso Mons. Nogaro, vescovo di Caserta. Orfani del comunismo, i cosiddetti catto-comunisti sembrano alla ricerca di una nuova identità. Un po' dappertutto li vediamo adesso gioire per averla trovata nella contestazione noglobal. "La notte oscura continua", secondo un padre storico della teologia della liberazione, il sacerdote belga Joseph Comblin, "e tuttavia stanno comparendo luci che potrebbero annunciare tempi nuovi". In una dichiarazione all'organo neocomunista L'Unità, Don Luigi Ciotti segnala che "nel mondo cattolico stanno crescendo sempre più le aree 'impegnate' che giudicano l'attuale sistema capitalistico del tutto inadeguato a gestire questo passaggio di civiltà della storia dell'uomo. A Genova c'erano moltissimi gruppi cattolici". Fra le realtà che cominciano a rispuntare vi è la teologia della liberazione. In occasione del World Social Forum di Porto Alegre, il teologo belga Francois Houtart ha salutato il movimento noglobal come un chiaro segno della "rinascita della teologia della liberazione". Ma così come sbaglia chi vede nella neo rivoluzione una tardiva manifestazione del marxismoleninismo, sbaglia pure chi scorge in questa "rinascita" una semplice riedizione della teologia della liberazione.

Il riciclaggio della teologia della liberazione. La teologia della liberazione (TdL) non è spuntata ieri dal nulla. Essa è figlia di quelle correnti che, almeno dai tempi della Rivoluzione francese, si vanno adoperando per spiegare in chiave pseudoreligiosa le successive tappe del processo rivoluzionario e, quindi, trasbordarvi un certo numero di cattolici: una corrente di attivismo sociale di sinistra che comincia come "cattolicesimo sociale", si trasforma poi in "cattolicesimo democratico" e infine sfocia nel "socialismo cristiano"; e una corrente filosoficoteologica che, nata come "cattolicesimo liberale" ha dato vita al "modernismo" e successivamente alla "teologia nuova" o "progressista". La TdL ebbe il suo periodo d'oro fra gli anni 1960-1990, in concomitanza e in intima correlazione con l'apogeo della rivoluzione comunista, specialmente in America Latina. Col tramonto di questa rivoluzione, analogamente a ciò che è accaduto all'interno dei vari partiti marxisti, anche la TdL ha dovuto iniziare un processo di adattamento alle nuove realtà. A questo scopo, per esempio, si era tenuto un convegno mondiale di teologi della liberazione nella casa madre dell'Ordine Maryknoll a New York, nel luglio 1988.  E così, come dal ventre della rivoluzione marxista è sorta la neorivoluzione, dal movimento della TdL stanno spuntando una serie di dottrine e di correnti che si prefiggono di offrire una giustificazione pseudoreligiosa alle nuove lotte rivoluzionarie.

Una "Rivelazione" dall'interno del processo rivoluzionario. Lungi dall'essere in contrasto colla vecchia TdL, questo adattamento non è che lo sviluppo logico delle sue premesse dottrinali. Per appoggiare la Rivoluzione permanente, la TdL si fonda sull'idea di una Rivelazione permanente. Negando la dottrina cattolica, secondo la quale la Rivelazione pubblica si è conclusa con la morte dell'ultimo Apostolo ed è integralmente contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione, la TdL sostiene che essa continua lungo la storia. Così la TdL distrugge l'idea d'un deposito della Fede completo e di un Magistero che lo interpreta infallibilmente, e va a cercare una rivelazione immanente nelle realtà socio-politiche in evoluzione. Secondo la TdL, questa rivelazione immanente si manifesterebbe preferenzialmente — diremmo quasi esclusivamente — mediante un aspetto concreto della realtà storica, e cioè i "poveri" od "oppressi", impegnati in una "prassi sovversiva". I teologi della liberazione parlano di "poveri", ma questo vocabolo non va inteso nel suo senso stretto, cioè riferendosi alle persone materialmente bisognose. Nella logica della TdL, "povero" è qualsiasi persona che in qualche modo si senta "oppresso" o "alienato", vittima cioè d'una situazione di discriminazione o di disuguaglianza. La TdL considera quindi come portatori di "rivelazione" i movimenti ed i processi storici rivoluzionari, cioè i grandi movimenti sovversivi politici, economici e culturali dei tempi moderni. Con l'orecchio rivolto a questi processi storici ed interpretando il loro senso profondo, secondo la TdL, possiamo in un certo modo sentire la voce di Dio che essi esprimono. A partire da queste premesse, è facile capire come la TdL sia riuscita ad inserirsi nella neo-rivoluzione. Basta sostituire "povero" con ognuna delle categorie del neoproletariato sopra descritte, analizzare le "oppressioni" che concretamente gravano su di esse e proclamare poi una "prassi Hberatrice" impregnata di "rivelazione divina". In questo modo si può ricavare una quantità praticamente infinita di teologie della liberazione: teologia nera, teologia indigenista, teologia femminista, teologia gay, teologia animalista e via dicendo. Le situazioni rivoluzionarie cambiano enormemente e quindi non esiste una rivoluzione statica. Il metodo della TdL è applicabile a situazioni e a processi rivoluzionari diversi e sempre mutevoli. Una di queste situazioni è, appunto, la contestazione noglobal. È molto significativo che, a giustificazione del suo ruolo da protagonista negli episodi di Genova, Don Vitaliano Della Sala abbia dichiarato che "Dio non è soltanto nel Vangelo, parla anche attraverso la storia". E la storia passa oggi per la contestazione noglobal che, tra l'altro, egli considera la continuazione della sovversione marxista: "Esiste un filo conduttore tra il nuovo movimento e la guerriglia del Che Guevara".

Una prassi rivoluzionaria. Secondo la TdL il "povero" pacifico e rassegnato non costituisce di per sé una fonte di rivelazione. Questo privilegio spetta unicamente a coloro che sono concretamente impegnati in una prassi sovversiva tesa a cancellare le situazioni di oppressione. Da questa prospettiva, sono solo quindi i rivoluzionari militanti, i partigiani di dottrine eversive e i fomentatori di rivolte a poter interpretare in modo adeguato la voce di Dio immanente nella storia. Le loro attività sovversive diventano luoghi privilegiati di rivelazione, la materia prima di cui sarà poi fatta la teologia della liberazione. Questo punto è importante. Più che una dottrina, la TdL è una prassi, e concretamente una prassi rivoluzionaria. "Ciò che noi intendiamo per teologia della liberazione è l'inserimento nel processo politico rivoluzionario", scrive il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez, fondatore della corrente. È perciò che i teologi della liberazione usano l'insolita espressione "fare teologia", anziché conoscere o studiare teologia. Non ci vuole troppa immaginazione per capire come, nella logica della TdL, un militante del Black Block sventolando una bandiera nera su una macchina bruciata e capovolta a Genova possa essere considerato un "povero" nell'atto di "fare teologia"...Quale futuro? Si svilupperà questa nuova TdL fino alle ultime conseguenze? Si impegneranno i progressisti cattolici fino in fondo nella contestazione noglobal? Trascineranno con loro la massa dei fedeli? La risposta a queste domande dipenderà largamente dalla risoluzione dei quesiti posti all'inizio. Davanti alla neorivoluzione si vanno formando due blocchi, separati da fessure molto più accentuate in profondità di quanto non appaiano in superficie. In termini più semplici, sarebbero i partigiani della contestazione e i suoi oppositori. Tutto dipenderà essenzialmente dalla rispettiva farce de frappe dei due schieramenti. Quale sarà maggiore? C'è però il grande dato nuovo: assistiamo anche al crescente spostamento d'una maggioranza finora inerte verso atteggiamenti, se non di attiva opposizione alla Rivoluzione, almeno di rifiuto delle sue manifestazioni più estremiste. Fin dove arriverà questo spostamento? Ecco la grande domanda alla quale solo il futuro saprà rispondere.

Una verità nascosta: L'ombra della Rivoluzione sul fondamentalismo islamico. Dopo gli attentati dell'11 settembre, il tema più trat­tato dai media è l'Islam. Le sue molteplici cor­renti vengono accuratamente suddivise, descritte e paragonate &a loro. In maniera superficiale, si ciancia su "moderati" e "radicali", e s'indaga sulle complesse divisioni etniche e culturali. "Personalità" islamiche, in verità del tutto sconosciute, vengono presentate all'Occidente e le parole arabe vengono utilizzate come se tutto il mondo le capisse. Dopo questo bombardamento psicologico, il lettore chiude il giornale, o spegne la tivù, con la sensazione di non aver ricevuto una informazione oggettiva e chiara sulla realtà. Un aspetto capitale della tematica sembra venirci metico­losamente nascosto: cosa è in realtà questo fondamentalismo islamico? S'identifica veramente con Maometto e col Corano? E se non s'identifica, cosa è allora? D'altra parte, perché la sinistra più radicale dell'Occidente, particolarmente il cosiddetto cattocomunismo, non riesce a nascondere la propria simpatia per i talebani fondamentalisti? Perché 23 vescovi di Brasile, Argentina e Messico, hanno duramente criticato gli attacchi angloamericani all'Afghanistan paragonandoli ad atti terroristici, con l'aggravante — secondo loro — di essere compiuti "da governi che si presentano come democratici, civilizzati e cristiani"? Infine, dietro le apparenze, esiste un denominatore comune che unisce la sinistra progressista al fondamentalismo islamico? Islam: mondo finora sconosciuto e poco significativo per l'Occidente. L'Islam, in quanto fede reli­giosa, è sparso in una immensità di popoli, che vanno dall'Atlan­tico fino alla Polinesia, alcuni dei quali immersi in una grande miseria. Fino a poco fa, il suo multisecolare torpore era perturbato solo da dispute locali. L'afflusso di petrodollari, che dovrebbero servire a pro­muovere lo sviluppo moderno nei domini islamici, sembrava Luis Dufaur non aver eliminato questa parali­si; Soltanto un pugno di emiri, sceicchi e sultani sprecava miliar­di in lussi sfrenati, in genere di cattivo gusto e spesso immorali, mentre la massa delle popolazioni — seguendo gl'insegnamenti del "Profeta" sulla "sottomissione" ("Islam" appunto) — vegetava all'ombra di quegli arcimiliardari. Era diventata abissale la sproporzione tra l'organizzazione e lo slancio dell'Occidente, nato dalla civiltà cristiana — sebbene oggi profondamente corrotto dal neopaganesimo — e il disordine e l'immobilismo della pesante eredità di Maometto. Nel secolo XIX, quasi tutte le terre musulmane erano sotto controllo di nazioni europee, ricche e dinamiche. Se la paralisi non genera movimento, donde viene quel dinamismo? All'inizio del secolo XX, in quel magma da secoli sclerotizzato, esplose una tendenza nuova chiamata fondamentalismo. Essa è attiva, aggressiva, modernizzata nelle sue tecniche molte volte terroristica. All'improvviso incominciò a minacciare l'ordine occidentale neopaganizzato, un tempo cristiano, "padrone dell'universo". Dice l'adagio popolare: nessuno da quello che non ha. Siccome la paralisi non genera il movimento, il dinamismo può provenire solo da chi lo possiede. Un rapido giro nelle biogra­fie dei capi islamici fondamentalisti mostra che essi, nella maggioranza, si laurearono nelle università dell'Occidente o in equivalenti scuole occidentalizzate nell'Oriente, I loro scritti riproducono le stesse idee che corrodono le basi cristiane delle società occidentali. E come se il virus rivoluzionario occidentale fosse stato iniettato in un brodo di coltura ristagnante, producendo una infezione esplosiva, con caratteristiche proprie ma con la stessa o maggiore pericolosità.

Il capo terrorista Bin Laden è un esempio caratteristico di questo processo di laboratorio della Rivoluzione. Figlio di miliardari, fu educato nell'esclusivo collegio Le Rosey, in Svizzera. La sua giovinezza fu quella di un playboy del jetset, in mezzo a lussi e scandali nelle grandi capitali occidentali, nel Libano e nell'Arabia Saudita. Sì, di quel jetset che tanto piace a certe sinistre...Hassan el Turabi, ideologo del regime persecutore dei cristiani in Sudan, si è laureato ad Oxford e alla Sorbona. Ali Benadi e Abasi Madani, capi fondamentalisti dell'Algeria, impararono le loro dottrine e tec­niche sovversive in Europa. Anche i seguaci più stretti di Bin Laden provengono da ambienti colti e agiati. La lista è interminabile. Lo studioso francese Roger du Pasquier commenta che i teorici più autorevoli in seno ai movimenti integristi e attivisti impegnati nel mondo musulma­no, nonostante il loro formale e superficiale rifiuto, manifestano in realtà una contaminazione intellettuale da concezioni occidentali moderne. Quali concezioni? Egli chiarisce: "Le forze sovversive che da due secoli hanno causato tante rivoluzioni e violenze in Occidente e in Oriente, perfino in Cina". Cioè, il socialismo e il comunismo, non nelle versioni ormai fallimentari, ma in versioni più aggiornate, come vedremo. Il lettore ricordi questo concetto e vedrà che può essere la chiave di lettura per capire molti degli avvenimenti attuali. Noti promotori della Rivoluzione anticristiana in Occidente sono divenuti musulmani. Da anni, personalità impegnate nella Rivoluzione politico-sociale e culturale che squassa le fondamenta cristiane dell'Occi­dente sono divenute musulmane, senza però rinunciare alle loro idee. Per esempio, Roger Garaudy, già responsabile del Partito Comunista francese per i rapporti con le religioni, ha predicato l'islamismo fino alla morte, come via superiore per raggiungere le mete utopistiche di Marx e Lenin. Cat Stevens, star della musica rock, anche lui si è sbattezzato nell'Islam e finanzia una ONG islamica. Lo stesso hanno fatto, fra gli altri, l'ecologista Jacques Cousteau, il coreografo Maurice Béjart, i cantanti Richard e Linda Thompson, il campione mondia­le di box Cassius Clay, che aderì ai Musulmani Neri, movimento filomarxista capeggiato da Malcoim X, un altro convertito.

Primi tentativi d'inoculazione rivoluzionaria nell'Islam. Nei secoli di ristagno, ci furono tentativi di riaccendere il furore anticristiano islamico, ma non andarono oltre casi ristretti. Per esempio Muhammad Ibn Abdel Wahhab (17031787) formò una confraternita radicale — il wahhabismo — che sarebbe rimasta ignota se, in occasione della prima Guerra Mondiale, i suoi scarsi seguaci non si fosse­ro alleati all'Inghilterra contro la Turchia. Dopo il conflitto, rice­vettero come ricompensa il regno dell'Arabia Saudita. Fu alla fine del secolo XIX e durante il XX che crebbe la penetrazione di idee rivoluzionarie occidentali nel mondo musulmano.

Djamal edDin Afghani, a partire da Londra, attizzò l'insurrezione iraniana.

Muhammad Abduh (1849 - 1905), il suo continuatore, predicò le idee progressiste europee di   tipo   anticolonialista.

Nell'India Sayed Ahmad Kahn, che vantava il titolo di sir inglese, creò il nucleo del pensiero nazionalista musulmano, da cui nacque il Pakistan (il "Paese dei Puri").

Muhammad Iqbal (18731938), un altro baronetto inglese, laureato ad Oxford, Heidelberg e Monaco di Baviera, ammiratore di Hegel, Nietzsche e Bergson, fu colui che formulò l'idea e il nome del l'attuale Pakistan. Egli elogiava il marxismo e tentò di realizzare la sintesi fra il socialismo e la dottrina di Maometto.

Il suo discepolo, Abdui Ala Maududi, fortemente modernista, predicò una terza via fra il capitalismo e il comunismo ed è considerato il padre del fondamentalismo pakistano odierno.

Dalla notte al giorno, da Marx a Khomeini. Nella famosa rivoluzione di Khomeini in Iran, iniziata nel 1979, numerosi militanti della sinistra divennero fondamentalisti. L'intellettuale cristiano marxista Gahii Chuckri narra: "Fra gli aspetti che ancora sono presenti alla memoria, c'è il fatto di aver visto pensatori, noti per il loro passato marxista, diventare in un batter d'occhio islamici convinti. Sì, pensatori che appartenevano — in quanto battezzati — al Cristianesimo, si trasformarono, dalla notte al giorno, in musulmani estremisti; pensatori che appartenevano per cultura all'Occidente e al modernismo, diventarono fanatici dell'Oriente, senza alcuna remora o restrizione!". Il Partito Comunista iraniano (Tudeh) approvò la rivoluzione degli ayatollah: "II contenuto del processo di evoluzione storica prende oggi un aspetto religioso. Per i marxisti, è perfettamente naturale che la lotta di liberazione, a seconda delle condizioni del tempo e del luogo, assuma forme differenti. (...) Questa rivoluzione anti-imperialista, antidittatoriale e popolare è stata fatta secondo le parole d'ordine dell'Islam e sotto la direzione di un capo religioso celebre nell'Iran, l'imam Khomeini". Tornato da Parigi, Khomeini creò l'organizzazione terroristica Hezbollah. Il discorso inaugurale dell'organismo fu una parafrasi del sovversivo grido di Marx ed Engels, "Proletari di tutto il mondo, unitevi!".

"Finora gli oppressi erano disuniti e nulla si ottiene dalla disunione. Adesso che è stato dato un esempio di efficacia dell'unione degli oppressi in terra musulmana, questo modello dev'essere diffuso dappertutto e prendere il nome di 'Partito degli Oppressi, sinonimo del "Partito di Dio" (Hezbollah). Gli oppressi devono regnare sulla terra, questa è la volontà dell'Altissimo, di Allah". Come si vede, si tratta del vecchio marxismo travestito da islamismo. Bruno Etienne, professore d'Islamismo all'università di Aixen Provence in Francia, spiega l'affinità fra Marx e il fondamentalismo: "La lotta di classe, come Engels l'aveva prevista, non sbocca nella rivoluzione tranne che quando essa si può presentare in termini religiosi; la finalità dell'islamismo radicale è molto mondana: creare un regno ugualitario che rovesci l'arroganza dei padroni".

Per svelare le profondità del fondamentalismo. Nulla ha contato tanto nella genesi del fondamentalismo quanto l'associazione egiziana Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 da un modesto professore, Hassan alBanna. "La resurrezione islamica, che si manifesta oggi nel mondo arabo, proviene direttamente o indirettamente dall'organizzazione dei Fratelli Musulmani", spiega un sito islamico americano che pubblica la sua biografia. In una opera chiave, al Banna insegna che il dovere dei Fratelli è "espandere l'Islam in tutti gli angoli del globo, finché non ci sarà più rivolta ne oppressione e la religione di Allah avrà prevalso". Insegna anche il loro slogan: "La morte sulle vie di Allah dev'essere la nostra più nobile aspirazione". In questa Fraternità, sunniti e shiiti marciano fianco a fianco e mantengono una unità di azione.

Nel 1989, il regime di Teheran divulgò un opuscolo che accumulava esempi di concordanze e collaborazioni fra sunniti e shiiti radicali in seno ai Fratelli. Esso trascrive lodi sperticate della Fraternità a Khomeini e, viceversa, esalta al Banna come grande artefice di questa unità. Ai suoi primordi, l'organizzazione simpatizzò per le idee nazifasciste, nazionaliste, anticapitalistiche e antiebraiche, all'epoca di moda in Europa. Tale tendenza non ha mai smesso di esistere nel movimento fondamentalista, ma in genere è stata accresciuta da altri elementi.

Sayyid Qutb il Gramsci del fondamentalismo rilegge il Corano in chiave rivoluzionaria. Nessuno segnò tanto la Fraternità Musulmana quanto Sayyid Qutb (19061966), che rappresentò per il fondamentalismo ciò che l'italiano Gramsci fu per il comunismo, cioè fece con Maometto quello che il pensatore sardo fece con Marx: una rilettura rivoluzionaria. Negli Stati Uniti, Qutb conobbe la rinascita pentecostalista del protestantesimo, basata sul ritorno alle cosiddette fondamenta. Di conseguenza il "fondamentalismo" venne esteso al neoislamismo, anche se questo non impiega mai tale termine. Qutb riadattò la vulgata musulmana alle utopie rivoluzionarie occidentali. E necessario, secondo lui, che l'Islam torni alla sua natura originaria, alle sue fondamenta; e riformulò tali fondamenta parafrasando la dottrina anarchica della disalienazione (nessuno dev'essere sottomesso a nessuno). Nel suo libro basilare insegna: "L'Islam è una dichiarazione generale di liberazione del l'uomo nel mondo dalla dominazione da parte dei suoi simili; (...) il rifiuto completo del potere di ogni creatura, sotto ogni forma; il rifiuto di ogni situazione di dominazione su esseri umani per opera di organizzazioni o situazioni, di qualunque forma. Quando il potere è in mano ad esseri umani, questi impersonano il Creatore e di conseguenza vengono accettati dai loro simili.  Orbene, questo è misconoscere ed espropriare il potere di Allah.

"Insieme Iran e Cuba sono in condizione di mettere in ginocchio l'America.” Fidel Castro all'Università di Teheran, nel corso di un giro per i paesi arabi radicali lo scorso maggio. (AFP, 10052001). Fino a dove potrà arrivare questa sorta di simbiosi fra fondamentalismo islamico e comunismo? e questi usurpatori devono essere eliminati. Questo comporta la negazione del regno degli esseri umani, per sostituirlo con un regno divino sulla terra". Qutb sapeva che un regno diretto di Allah sugli uomini non è realizzabile e allora proponeva un regime intermediario in cui una organizzazione poco visibile guidasse i popoli, fino al momento in cui ogni governo cesserebbe e gli uomini passerebbero a vivere in contatto diretto con Allah. Cioè, qualcosa di analogo alla "avanguardia del proletariato" di Lenin.

Le somiglianze fra il progressismo cattolico e il fondamentalismo islamico. Secondo il Corano, Dio si rivelò originariamente ad Abramo. A causa della prevaricazione degli ebrei, si manifestò poi a Gesù. Ma anche i cristiani falsificarono la rivelazione divina, e allora Dio si manifestò a Maometto. Il Corano sarebbe il messaggio definitivo indiscutibile e Maometto l'ultimo dei "profeti". Qutb spiega l'apostasia dei cristiani seguendo il pensiero del progressismo occidentale. Le prime comunità cristiane, secondo lui, avevano un diretto contatto con Dio, senza intermediari ne autorità ne dottrine razionali. Ma il riconoscimento di un magistero teologico e pastorale razionale portò alla catastrofe. E aggiunge: "La più grande calamità fu il successivo evento del trionfo storico del cristianesimo. Esso accadde quando l'imperatore romano Costantino abbracciò la nuova religione". E poi, secondo Qutb, i concili definirono verità di fede e rafforzarono l'autorità pontificia. Qutb vedeva difensori della "vera religione" negli eretici ariani, monofisisti e giacobiti, scomunicati dalla Chiesa. L'apostasia, secondo la sua tesi, culminò nel Medioevo. Qutb se la prende contro il monachesimo medioevale, l'ubbidienza e la castità praticata da monaci e frati. "Furono introdotti nel credo — asserisce — dogmi astratti assolutamente incomprensibili, inconcepibili ed incredibili (...) il più sorprendete dei quali fu il dogma riguardante l'Eucarestia, contro cui si rivoltarono Martin Lutero, Giovanni Calvino e Ulrich Zwingli, ponendo le basi di quel fenomeno storico-religioso chiamato Protestantesimo". Egli aborrisce anche l'Inquisizione, che punì Giordano Bruno con la morte e Galileo Galilei con le censure ecclesiastiche. Nelle eresie e nelle contestazioni alla Chiesa cattolica, egli vede segni precursori di un ritorno al messaggio primitivo del Cristianesimo, che sarebbe rimasto integro nell'Islam. "L'Europa si ribellò al Cristianesimo; l'Europa si ribellò contro l'arbitrio degli uomini di Chiesa. Ma l'Europa ribelle rimase tanto segnata dalla Chiesa che non se ne può sperare la salvezza". L'europeo, secondo lui, in ogni cosa ragiona logicamente, fa distinzioni, per influenza della Chiesa prevaricatrice. La missione del fondamentalismo: completare la Rivoluzione anticristiana. Questa è una delle chiavi di lettura per comprendere il fenomeno del fondamentalismo islamico. Siamo allo stadio culminante del processo rivoluzionario, denunciato e analizzato da Plinio Correa de Oliveira. Qutb riverisce i "principi della Rivoluzione francese e i diritti di libertà individuale, all'inizio dell'esperienza democratica nordamericana". Tuttavia, lamenta che "questi valori non si sono mai pienamente sviluppati ne realizzati interamente. Essi sono insufficienti per far fronte alle esigenze di una umanità in evoluzione". La salvezza, concludeva l'ideologo dei Fratelli Musulmani, non verrà dall'Occidente ma dall'Islam, che completerà ciò, che la ribellione contro il Cristianesimo non è riuscita a fare. "Ciò presuppone una operazione di risurrezione islamica che sarà seguita prima o poi dalla conquista del comando del destino umano nel mondo". "L'Islam è destinato a tutto il genere umano: il suo campo di azione è la terra, tutta la terra", che deve costituirsi in una Repubblica islamica universale, sotto la guida di autorità religiose coperte dal segreto.

Sradicare dalla terra tutte le vestigia della Cristianità. Ecco la finalità del ritorno alle fondamenta: scacciare dalla terra le ultime vestigia di Cristianità che ancora sopravvivono nei Paesi un tempo cattolici. Cioè, gli ultimi riflessi soprannaturali sull'ordine temporale, che sono fra i beni più preziosi donati al mondo dai meriti della Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo. Qutb espone una visione abbastanza chiara del processo rivoluzionario che, dalla decadenza del Medioevo, va corrodendo la Civiltà cristiana. Tuttavia, gli aggiunge un epilogo tragico che pochi hanno intravisto: alla fine della Rivoluzione anticristiana non si realizzerà un mondo di piaceri e libertà, ma una sinistra tirannia materiale e morale, sotto la frusta del fanatismo fondamentalista islamico.

Una Rivoluzione che supera il comunismo sclerotizzato. Per quanto riguarda la proprietà privata, il prof. Olivier Carré riassume così le massime di Qutb: "Nell'Islam, il proprietario non ha mai il diritto di usare o di abusare del suo bene. Nell'Islam, la proprietà privata è un mezzo sociale al servizio delle utilità. Ma allora come spiegare il fatto che fondamentalisti islamici si dichiarino anticomunisti? L'ayatolah Baqir assadr, chiamato "il Khomeini iracheno", giustiziato nel 1980, così risolve la difficoltà. Egli sintetizza la dottrina comunista: "II fine inconscio che il marxismo attribuisce al movimento della storia consiste nell'eliminazione degli sbarramenti sulla strada dello sviluppo delle forze produttive. Questo fine sarà raggiunto mediante l'abolizione della proprietà privata e la costruzione di una società comunista". E, in seguito, introduce la critica fondamentalista: "Dopo questa liberazione, la storia si fermerà e tutte le potenzialità e l'impulso dell'uomo nuovo spariranno". Per evitare che l'evoluzione si fermi, spiega l'ayatollah, ci vuole un orizzonte nuovo che trascini gli uomini oltre il comunismo.

Una teologia della liberazione per il mondo islamico? Questo orizzonte nuovo dev'essere religioso. Dice as Sadr: "Porre Allah come fine della marcia evolutiva costituisce l'unica struttura ideologica che può offrire al movimento umano una inesauribile energia".  In questa prospettiva i comunisti classici rappresentano una sclerosi e devono essere eliminati. Il compito verrà quindi assegnato ai religiosi. L'orizzonte nuovo ha anche una finalità di rottura. Nel mondo musulmano, l'autorità naturale e religiosa dei capi tribali ed etnici è tenuta in grande considerazione. Per i rivoluzionari era impossibile distruggere quel resto di ordine naturale appellandosi alle dottrine laiche moderne, "perché prima o poi il movimento nuovo mostrerà la sua vera faccia di nemico dichiarato della Religione. Questo porterà a un grande spreco di energie ed esporrà l'opera in corso ai pericoli provenienti dalla maggioranza dei conservatori del mondo islamico". Questo risultato diventa ottenibile solo sotto vesti religiose. Del resto, mutatis mutandis, lo stesso avviene con il progressismo cattolico che, per motivazioni analoghe a quelle dei fondamentalisti musulmani, ha fatto ricorso alla teologia della liberazione.

Dalle "mille e una notti" alle tenebre infernali. Il fondamentalismo non mira a riaccendere il mondo delle Mille e una notti, degli affascinanti tappeti, dei mitici emiri e sceicchi del deserto, degli slanciati ed eleganti minareti e delle dorate moschee, del TajMahal. Quell’universo di meraviglie riflette aspetti positivi che oggi languiscono nell'Islam. Il fondamentalismo mira anzi a estinguere quelle potenzialità dell'anima che potrebbero far sbocciare civiltà da favola — se si convertissero all'unica vera Chiesa, quella santa, cattolica e apostolica — e vuole anzi una civiltà proletarizzata, miserabilista, tribale. E a questo scopo, per convenienza, si maschera con antiche e sacrali venustà. La rivoluzione ugualitaria occidentale inoculata nell'islamismo genera il mostro fondamentalista. Roger Garaudy, già dirigente del PC francese poi diventato islamico, raccontò le sue conversazioni col dittatore libico Muhammar Gheddafi. Significativa vignetta pubblicata sul giornale spagnolo El Pais, nel 1992. Pensatori socialcomunisti vanno da tempo affermando che il fondamentalismo islamico è succeduto al marxismo come motore della lotta di classe. Fino a poco tempo fa ritenuto in Occidente sostenitore del terrorismo internazionale. Gheddafi gli fece vedere la traduzione politica del versetto II13 6 del Corano: "E una democrazia diretta senza deleghe di potere e senza alienazione. Niente si sostituirà al popolo, ne partiti ne parlamenti. Democrazia diretta attraverso comitati e congressi popolari, come emanazione immediata delle imprese, delle cooperative agricole, delle università, dei villaggi e dei quartieri".  In altre parole, un aggiornamento del modello che i soviet non sono riusciti a realizzare e che le sinistre riciclate tentano di raggiungere impiegando varie forme di autogestione. Nel 1995, Garaudy pubblicò il libro Verso una guerra di Religione? Il dibattito del secolo, prefatto da Leonardo Boff, teologo della liberazione ed ex religioso. L'ex frate francescano qualificava Garaudy come un profeta che, assieme a Mons. Helder Camara, avrebbe posto le fondamenta per una convergenza cristiano-marxista in chiave anti-capitalistica, e aggiungeva che il fondamentalismo islamico vive dello stesso fuoco libertario della teologia della liberazione. Garaudy annuncia una guerra di religione, non fra la Chiesa cattolica e l'Islam, ma quella dei credenti ribelli contro ogni forma di autorità, perché questa sarebbe intrinsecamente complice del capitalismo consumistico ed edonistico. Infatti, il fondamentalismo islamico fa parte di un vasto movimento che oltrepassa i limiti dell'islamismo storico. Il molto documentato Atlas Mondial de l'Islam Activiste constata che "la rinascita islamica non è un fenomeno isolato, ma s'inserisce in un movimento globale di rifiuto del materialismo mercantilistico e mediatico, che dilaga nel mondo da decenni. Questo movimento ha una dimensione naturalistica: quella ecologista, e una religiosa: il ritorno alle fondamenta". Il fondamentalismo è oggettivamente un alleato delle forze del caos, che si sono manifestate nel World Social Forum di Porto Alegre, nelle sommosse di Seattle, Praga e Genova e nella sovversione ecclesiastica progressista. Il fondamentalismo, feccia dell'Occidente, cerca di realizzare una sintesi della Rivoluzione con l'Allah maomettano. Questa funesta convergenza ricorda la tesi di uno storico articolo del prof. Plinio Corréa de Oliveira: "Se Oriente e Occidente si uniscono fuori della Chiesa, genereranno mostri". Il fondamentalismo islamico e il terrificante attentato dell'11 settembre ne costituiscono una tragica conferma.

Attentati a Barcellona e Cambrils: chi sono le vittime e i feriti. 14 i morti, il più piccolo ha solo 3 anni. Hanno perso la vita anche 2 italiani e un'italoargentina. Non ce l'ha fatta neanche il piccolo Julian, scrive il 21 agosto 2017 Panorama. Il bilancio degli attentati terroristici che hanno colpito la Catalogna è salito a 14 morti: uno dei feriti di Cambrils è deceduto. Il pomeriggio del 17 agosto un furgone bianco si è scagliato sulla Rambla di Barcellona, cercando di travolgere quanti più passanti: 13 morti e 120 feriti, di cui 15 gravi. Tra le vittime che hanno perso la vita anche un bambino di 3 anni e due italiani. Tre invece gli italiani feriti. Sono 34 le nazionalità diverse coinvolte. Poche ore dopo la strage nel capoluogo catalano, nella notte un nuovo attacco a Cambrils, 120 chilometri a sud di Barcellona, nella provincia di Tarragona. Sei civili e un agente sono rimasti feriti: uno di questi è poi deceduto. Cinque terroristi sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia. Dopo ore di apprensione per la sorte di due italiani, in tarda mattinata del 18 agosto la Farnesina ha confermato che due italiani sono morti nell'attentato di Barcellona. Sono Bruno Gulotta e Luca Russo: lo comunica il premier Gentiloni su Twitter.

Il datore di lavoro di Bruno Gulotta, 35 anni, di Legnano (Milano), aveva confermato già in mattinata la morte del giovane nell'attentato di Barcellona, comunicatagli dalla compagna di Bruno. Gulotta lavorava alla Tom's Hardware Italia, che sul suo sito pubblica un necrologio: "Oggi per noi è giornata di lutto. Ci stringiamo tutti con affetto alla compagna Martina e ai due figlioletti di Bruno". E ancora: "La notizia ci è giunta all'improvviso ieri sera. Il collega e amico è stato travolto e ucciso da un infame terrorista. Era lì in ferie con la compagna e i due figli".

Luca Russo, 25 anni, di Bassano del Grappa (Vicenza), laureatosi in ingegneria a Padova l'anno scorso, era a Barcellona con la fidanzata, rimasta ferita ma non in gravi condizioni. "Aiutatemi a riportarlo a casa. Vi prego": è l'appello scritto su Facebook della sorella di Luca, Chiara Russo. Proprio su Facebook Luca il 15 giugno aveva scritto il suo ultimo post: "Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza portare via nulla. E in mezzo litighiamo per possedere qualcosa".

Carmen Lopardo, 80 anni, da più di 60 residente in Argentina, originaria della provincia di Potenza, è tra le vittime dell'attentato di Barcellona. Lo rendono noto fonti argentine. La signora italoargentina era in Spagna come turista. 

Tra chi ha perso la vita a Barcellona c'è anche un bambino spagnolo di 3 anni, Javi Martinez, la vittima più giovane. È morto anche un suo zio. Il bambino era insieme alla mamma e allo zio di quest'ultima, entrambi morti.

Lo zio della donna, Francisco López Rodríguez, aveva invece 56 anni ed era insieme a sua moglie, che si è salvata ma è ricoverata in ospedale in gravi.

È morta ed stata identificata, tra le 13 vittime di Barcellona anche un'argentina-spagnola di 40 anni, Alejandra Pereyra, che viveva da una decina di anni a Barcellona. 

Tra i dispersi dopo l'attacco di Barcellona c'è stato a lungo Julian Cadman, un bambino australiano di 7 anni. Purtroppo è morto. Il suo caso ha tenuto col fiato sospeso. Era a Barcellona insieme alla madre, Jumarie, di origine filippine, per partecipare a un matrimonio. Stava passeggiando sulla Rambla quando il van si è scagliato contro la gente e lo ha separato dalla mamma, che è stata ricoverata in ospedale ed è in gravi condizioni, in coma. Il suo viso sorridente ha popolato i tweet disperati del nonno e altri famigliari che lo stavano cercando: "Questo bimbo è scomparso dopo l'attentato, ritwittate questa foto per ritrovare questo piccolo angelo". Fino all'epilogo peggiore. Poi il messaggio della famiglia: "Siamo stati benedetti per averlo avuto con noi. Ci ricorderemo per sempre il suo sorriso. I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno alle famiglie delle altre vittime". 

La polizia conferma che tra le persone uccise nell'attentato a Barcellona ci sono tre tedeschi. 

Tra le vittime identificate c'è una donna belga di 44 anni, Elke Vanbockrijck, di Tongeren. Era in vacanza con suo marito e i figli adolescenti quando è stata travolta e uccisa.

Una 61enne di Saragozza è l'unica vittima dell'attentato di Cambrils: è stata accoltellata al volto da un terrorista in fuga.

Tra i dispersi di Barcellona il 43enne americano Jared Tucker, di Lafayette, in California. Sua moglie Heidi Nunes, 40 anni, lo sta cercando. Erano in città per festeggiare il primo anniversario di nozze. Lei stava guardando una vetrina, suo marito si era allontanato per andare in bagno, quando ha sentito le grida e si è nascosta in un chiosco di souvenir.

Tra i feriti di Barcellona ci sono anche tre italiani, due dei quali sono stati già dimessi. Il terzo è Marta Scomazzon, la fidanzata di Luca Russo: non è grave, ha fratture ha gomito e piede.

Tra i feriti anche 26 francesi, 11 dei quali gravi. Il presidente francese, Emmanuel Macron ha scritto su Twitter: "La Francia paga un pesante tributo in questo terribile attacco di Barcellona. Massimo appoggio alle vittime, alle loro famiglie e ai loro familiari".

Barcellona, la 15esima vittima degli attentati di cui nessuno parla: un morto di "serie B", scrive il 20 Agosto 2017 “Libero Quotidiano”. In verità, le vittime degli attacchi a Barcellona sono 15, e non 14. Eppure tra loro c'è un morto di "serie B", del quale non si tiene conto nei conteggi ufficiali. Lui è Pau Pérez Villan, 34 anni, spagnolo. Il giorno dell'attentato si trovava a bordo di una Ford Focus bianca, che presumibilmente - è sostanzialmente certo - è stata rubata da uno dei killer. Pau è stato accoltellato a morte dalle bestie e sbattuto sui sedili posteriori dell'auto in fuga. Lì è stato ritrovato, massacrato a suon di fendenti. Inizialmente, e per brevissimo tempo, sospettato di essere un terrorista, poco dopo la verità sul suo tragico destino è stata delineata. Ma di lui nessuno, o quasi, ne parla. Pau è la 15esima vittima della furia islamista a Barcellona.

Il poliziotto eroe di Barcellona: 6 colpi, 4 morti. Il nuovo eroe della Spagna è il poliziotto che ha ucciso 4 terroristi a Cambrils nella tragica notte subito dopo l'attentato di Barcellona, scrive Franco Grilli, lunedì 21/08/2017 su "Il Giornale". Il nuovo eroe della Spagna è il poliziotto che ha ucciso 4 terroristi a Cambrils nella tragica notte subito dopo l'attentato di Barcellona. Sulla sua identità c'è molta confusione. In un primo momento si era parlato di un agente, poi di una poliziotta e infine di un poliziotto ex legionario. Per motivi di sicurezza i Mossod d'Esquadra hanno preferito non rivelare il nome dell'agente. Ma qualche indiscrezione sul suo passato e su come sono andate le cose in quella notte iniziano ad emergere. Come riporta El Mundo, l'agente ieri di fatto avrebbe ricevuto un applauso spontaneo da parte dei colleghi durante una riunione nel quartier generale della polizia catalana. Umile ha fatto spallucce, ma sa bene che con la sua pistola, uccidendo 4 terroristi ha salvato diverse vite sottraendole ai rischi di un altro possibile attacco. L'agente avrebbe esploso i colpi appena si è trovato nella traiettoria dei terroristi che avanzavano dopo aver forzato un posto di blocco. I jihadisti avevano già ucciso una persona e si preparavano ad accoltellare chiunque si fosse trovato sul loro percorso. A questo punto l'agente, con 11 anni di esperienza, ha di fatto esploso sei colpi. Mira precisa: 4 morti. Adesso viene sostenuto anche da un gruppo di psicologi e prova a trovare quella serenità che a Cambrils ha perso.

Attentato Spagna. I documenti di Es Satty e del kamikaze di Nassiriya trovati nel 2006 nella stessa casa, crocevia di 3 stragi. Nel 2006 i documenti dell'imam ritenuto ispiratore dell'attacco terroristico a Barcellona furono rinvenuti insieme a quelli di Bellil Belgacem, l'algerino che si fece esplodere in Iraq uccidendo 19 italiani, in un'abitazione di Vilanova i la Getru, a 50 km dalla capitale catalana. La casa era di Mohamed Mrabet Fahsi, ritenuto capo della cellula finita a processo per il massacro di Atocha dell'11 marzo 2004, scrivono M. Pasciuti e A. Tundo il 20 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Faceva il garzone in macelleria. Prima di lasciare la Spagna alla volta di Nassiriya, dove si sarebbe lanciato con un camion imbottito di esplosivo contro un gruppo di soldati italiani uccidendone 19, Bellil Belgacem aveva lasciato tutti i suoi oggetti personali e i documenti in casa di Mohamed Mrabet Fahsi, che della macelleria era il padrone. In quella stessa casa la polizia aveva ritrovato i documenti di Abdelbaki Es Satty, l’imam che le autorità catalane considerano ‘mente’ della cellula che voleva far esplodere la Sagrada Familia a Barcellona. Da quella casa di Vilanova i la Geltru, 50 chilometri a sud dalla capitale della Catalogna, passa un filo rosso che parte dall’eccidio dei militari italiani del 12 novembre 2003 in Iraq, transita per l’attacco di Atocha dell’11 marzo 2004 a Madrid e arriva al furgone che il 17 agosto ha ucciso 13 persone sulla Rambla. Un particolare che rafforza l’idea degli investigatori secondo cui la cellula “aveva contatti con altri Paesi europei”.

L’operazione Chacal. Fahsi, il macellaio di Vilanova, era la mente delle due cellule che egli stesso aveva creato a metà del 2003 come parte del Gruppo islamico combattente marocchino (Gicm), con ramificazioni in Francia, Belgio, Olanda, Algeria, Marocco, Turchia, Siria e Iraq e accusato di aver preparato il massacro dell’11 marzo 2004 a Madrid nel quale morirono 192 persone. Per il ministero dell’Interno spagnolo era stato lui a convincere Belgacem a diventare mujaheddin, fare della guerra santa il suo orizzonte di vita e farsi esplodere contro la base di Nassiriya uccidendo 12 carabinieri, 5 soldati dell’esercito e 2 civili italiani. La polizia aveva fermato Fahsi solo nella notte del 10 gennaio 2006. Quel giorno, in due operazioni simultanee tra la Catalogna, Madrid e i Paesi Baschi denominate Chacal e Camaleon-Genesis, finirono dentro 15 cittadini marocchini, 3 spagnoli, un turco e un algerino. Tra loro l’imam della moschea locale Mohamed Samadi e un uomo di nome Mostapha Es Satty.

Il documento di Es Satty. Gli agenti uscirono dal palazzo portando con sé casse di documenti trovati in stanze “piene zeppe di carte”: centinaia di pagine scritte in arabo, francese e inglese, documentazione “molta e buona” secondo gli inquirenti, in grado di “estendere l’inchiesta a più fronti”. Ora un rivolo minuscolo di quella indagine potrebbe collegarsi a quella sulla strage di giovedì. Nella sentenza di primo grado è scritto nero su bianco che tra le carte sequestrate a Fahsi c’erano anche le fotocopie dei documenti di Abdelbaki Es Satty, la ‘mente’ della strage sulle Rambla nonché cugino di quel Mostapha finito a processo dopo le operazioni del 2006 e poi assolto.

Le assoluzioni. Il 13 gennaio 2010 l’Audiencia Nacional aveva condannato in primo grado 5 dei 7 mandati a processo a un totale di 34 anni di carcere: Omar Nachka a 9 anni, Fahsi a 7, Saffet Karakoc a 8, Djmel Dahmani e Redouan Ayach a 5 per integrazione e collaborazione con organizzazione terrorista per aver reclutato kamikaze da inviare in Iraq a commettere attentati. E qui il filo rosso prende di nuovo la direzione della capitale iberica: secondo la Audiencia il leader del gruppo, Omar Nachka, aveva aiutato la fuga dalla Spagna di uno degli autori materiali degli attentati alle stazioni di Madrid, Mohamed Belhadj, fornendogli un passaporto e 700 euro in contanti. Alla Corte suprema non erano bastate le prove per confermare la condanna. Ma l’ombra di quella cellula torna ad affacciarsi sull’inchiesta di Barcellona.

Il carcere e le preghiere con El Conejo. A undici anni di distanza dagli arresti, un nome impresso in bianco e nero tra le centinaia di pagine sequestrate a Fahsi è diventato il vertice della cellula jihadista che ha insanguinato la Rambla. Non prima di passare dal carcere per un’inchiesta legata all’immigrazione clandestina. È il gennaio 2012 quando Abdelbaki Es Satty viene rinchiuso a Castellon. Mentre è dentro, il futuro imam di Ripoll viene incaricato di organizzare la preghiera per i detenuti musulmani e stringe “amicizia e conoscenza” con Rachid Aglif, alias El Conejo, condannato in via definitiva a 18 anni. “Il Coniglio” non è un personaggio qualunque sullo scacchiere del jihadismo europeo. Fu infatti tra i protagonisti della riunione in un fast food di Carabanchel durante la quale venne deciso l’acquisto degli oltre 200 chili di esplosivo utilizzati per la strage di Atocha.

I viaggi a Vilvoorde, la patria dei foreign fighters. Dopo quel periodo in carcere, Es Satty era tornato a Tangeri, per poi rientrare in Spagna. Si era inabissato nel 2014 a Ripoll, 10mila abitanti ai piedi dei Pirenei. Una comunità musulmana di poco più di 500 persone, tranquille e operose. Viene scelto come imam, litiga e apre un nuovo centro di culto. Lì lontano da sguardi indiscreti inizia la sua opera di proselitismo. Viaggia spesso. A volte verso il Marocco, anche lo scorso luglio assieme ai presunti appartenenti alla cellula, altre verso il Belgio dove si chiude la ‘rotta’ più battuta del Gruppo islamico combattente marocchino. Mentre il Segretario di Stato per l’immigrazione di Bruxelles dice che quel nome è sconosciuto al Dipartimento, fonti investigative hanno rivelato a un quotidiano belga che Es Satty ha soggiornato più volte dal 2015 a Diegem e Vilvoorde, uno dei centri nevralgici dell’islamismo radicale europeo da dove sono partiti diversi foreign fighters. L’ultimo viaggio risalirebbe a pochi mesi fa.

I preparativi nel silenzio di Ripoll. Il sospetto degli inquirenti spagnoli – che hanno confermato i “contatti della cellula con altri Paesi europei” – è che in Belgio possa aver ricevuto istruzioni su come organizzare un attentato. Lo avrebbe voluto ad alto impatto emotivo, l’imam. Per questo aveva indottrinato e istruito quel gruppo di ragazzini che frequentavano la sua moschea. Si era procurato 120 bombole di gas e anche il Tatp, l’esplosivo con il quale sono stati firmati anche gli attentati di Parigi, Manchester e Bruxelles. È morto sepolto dallo scoppio accidentale dei suoi stessi ordigni prima di completare l’opera. Ma oggi Abdelbaki Es Satty, grazie ai baby-terroristi che aveva convinto a seguirlo, non è più solo il nome su un documento d’identità sequestrato al macellaio Mohamed Mrabet Fahsi né l’uomo che guidava le preghiere in carcere di Rachid Aglif. Tutti lo avevano dimenticato. E invece si stava preparando nel silenzio delle colline di Ripoll.

Perché la Spagna? E perché proprio Barcellona? Una delle più celebri strade del mondo, la "strada globale" per eccellenza, in Europa: bersaglio perfetto per colpire tutto l'Occidente, scrive il 18 agosto 2017 Alessandro Turci su Panorama. Sparandogli alla schiena, l’attentatore turco che uccideva ad Ankara l’Ambasciatore russo nel dicembre scorso non scelse l’ormai atroce urlo di battaglia Allah Akbar. Urlò un macabro manifesto programmatico: “Noi moriamo ad Aleppo. Voi qui”. L’Aleppo di oggi è Raqqa, dove lo Stato islamico collassa proprio in queste ore, e Ankara è diventata Barcellona. Anche questa volta l’attacco arriva proditorio alla schiena, ma invece di un solo uomo, sono molti a cadere. E tutta gente comune.

Perché Barcellona? Il copione è quello di Nizza, di Londra, di Berlino. Pure rimane l’interrogativo: perché la Spagna e perché proprio Barcellona? Tra tutte le celebri strade del mondo, forse solo La Rambla rappresenta la strada globale. Non è la Promenade des Anglais di Nizza, elegante passeggiata che seleziona il suo pubblico di habitué come fosse un salotto all’aperto; La Rambla è la principale strada del turismo spagnolo ed europeo, dove tutte le nazionalità del pianeta sono rappresentate, e non solo all’apice del mese di agosto, ma in ogni periodo dell’anno. Lo stile di vita occidentale trova quindi nella Rambla una cartolina quasi perfetta: tra i caffè multiculturali, la gioventù proveniente da ogni parte del pianeta, i negozi di souvenir e le grandi catene dei marchi della globalizzazione. In una parola il bersaglio perfetto, perché tutto è racchiuso in un marciapiede. Totalmente indifeso. Oggi non si è colpito il cuore del sistema economico, come con le Torri Gemelle, né il cuore politico, come con Madrid nel 2004 considerata la responsabile, agli occhi degli jihadisti, della guerra a Saddam. Oggi si è colpito il simbolo della spensieratezza, riversando su persone a passeggio l’angoscia cieca di una guerra fanatica che si svolge altrove, cancellando forse per sempre la distanza geografica ma anche quella delle coscienze.

La storia si ripete? La Spagna, dopo gli attentati del 2004, aveva messo in atto una serie d’importanti politiche preventive. I risultati fino ad oggi erano stati incoraggianti, nonostante l’elevato numero di mujahiddin che il Califfato ha continuato ad arruolare in questi ultimi anni sul suo territorio. Per gli attentati del 2004 (192 morti e oltre 2000 feriti) le due exclave di Ceuta e Melilla avevano giocato un ruolo determinante. Da lì venivano o erano transitati i commandos dell’atto terroristico. Dopo anni di collaborazione con il Marocco e il rafforzamento del muro di contenimento dei migranti (e delle infiltrazioni annesse) qualcosa forse non ha funzionato. Da oggi in avanti sventare simili attacchi, come evitare la guerra di civiltà, sarà possibile solo attuando un’agenda politica chiara. La soluzione del conflitto siriano e della relativa frustrazione sunnita è il primo elemento. Inoltre sarà necessaria la distinzione netta tra flussi di migranti pacifici e infiltrazioni terroristiche al loro interno. 

Il Califfato non è morto. Il Califfato, pure in fase di sgretolamento per come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, dimostra di essere vivo e di poter colpire l’Occidente. La sua strategia non è la riconquista della Spagna cattolica. Non è una forza che guarda al passato: vuole invece rappresentare una minaccia per il nostro futuro, con un obiettivo preciso e angosciante, l’instaurazione del terrore permanente nell’opinione pubblica. Un’arma psicologica che potrebbe causare danni immensi se la reazione fosse affidata unicamente agli slogan sulla guerra di civiltà. In Siria, come in Iraq, c’è una guerra di poteri e d’interessi nella quale l’Occidente gioca un ruolo determinante. La soluzione di questo conflitto è il primo passo per togliere all’ISIS la sua forza di offesa, ora che ha dimostrato di poterci colpire anche in assenza di uno stato territoriale e probabilmente dello stesso Califfo. Le comunità islamiche occidentali devono però fare contemporaneamente la loro parte, ormai nessun alibi è più accettabile. Nessuna contiguità col Terrore è più ammissibile.

Da Karl Marx a Maometto. La diabolica alleanza spagnola tra sinistra e fondamentalisti. Nel 2004, la Fallaci nella "Forza della ragione" scrisse: "A Madrid il processo di islamizzazione procede spedito", scrive Sabato 19/08/2017 2Il Giornale". Oriana Fallaci: "Ma, soprattutto, il discorso vale per la Spagna. Quella Spagna dove da Barcellona a Madrid, da San Sebastian a Valladolid, da Alicante a Jerez de la Frontera, trovi i terroristi meglio addestrati del continente. (Non a caso nel luglio del 2001, cioè prima di stabilirsi a Miami, il neodottore in architettura Mohammed Atta vi si fermò per visitare un compagno detenuto nel carcere di Tarragona ed esperto in esplosivi). E dove da Malaga a Gibilterra, da Cadice a Siviglia, da Cordova a Granada, i nababbi marocchini e i reali sauditi e gli emiri del Golfo hanno comprato le terre più belle della regione. Qui finanziano la propaganda e il proselitismo, premiano con seimila dollari a testa le convertite che partoriscono un maschio, regalano mille dollari alle ragazze e alle bambine che portano lo hijab. Quella Spagna dove quasi tutti gli spagnoli credono ancora al mito dell'Età d'Oro dell'Andalusia, e all'Andalusia moresca guardano come a un Paradiso Perduto. Quella Spagna dove esiste un movimento politico che si chiama «Associazione per il Ritorno dell'Andalusia all'Islam» e dove nello storico quartiere di Albaicin, a pochi metri dal convento nel quale vivono le monache di clausura devote a san Tommaso, l'anno scorso s'è inaugurata la Grande Moschea di Granada con annesso Centro Islamico. Evento reso possibile dall'Atto d'Intesa che nel 1992 il socialista Felipe González firmò per garantire ai mussulmani di Spagna il pieno riconoscimento giuridico. Nonché materializzato grazie ai miliardi versati dalla Libia, dalla Malesia, dall'Arabia Saudita, dal Brunei, e dallo scandalosamente ricco sultano di Sharjah il cui figlio aprì la cerimonia dicendo: «Sono qui con l'emozione di chi torna nella propria patria». Sicché i convertiti spagnoli (nella sola Granada sono duemila) risposero con le parole: «Stiamo ritrovando le nostre radici». Forse perché otto secoli di giogo mussulmano si digeriscono male e troppi spagnoli il Corano ce l'hanno ancora nel sangue, la Spagna è il paese europeo nel quale il processo di islamizzazione avviene con maggiore spontaneità. È anche il paese nel quale quel processo dura da maggior tempo. Come spiega il geopolitico francese Alexandre Del Valle che sull'offensiva islamica e sul totalitarismo islamico ha scritto libri fondamentali (e naturalmente vituperati insultati denigrati dai Politically Correct) l'«Associazione per il Ritorno dell'Andalusia all'Islam» nacque a Cordova ben trent'anni fa. E a fondarla non furono i figli di Allah. Furono spagnoli dell'Estrema Sinistra che delusi dall'imborghesimento del proletariato e quindi smaniosi di darsi ad altre mistiche ebbrezze avevan scoperto il Dio del Corano cioè erano passati da Karl Marx a Maometto. Subito i nababbi marocchini e i reali sauditi e gli emiri del Golfo si precipitarono a benedirli coi soldi, e l'associazione fiorì. Si arricchì di apostati che venivano da Barcellona, da Guadalajara, da Valladolid, da Ciudad Real, da León, ma anche dall'Inghilterra. Anche dalla Svezia, anche dalla Danimarca. Anche dall'Italia. Anche dalla Germania. Anche dall'America. Senza che il governo intervenisse. E senza che la Chiesa cattolica si allarmasse. Nel 1979, in nome dell'ecumenismo, il vescovo di Cordova gli permise addirittura di celebrare la Festa del Sacrificio (quella durante la quale gli agnelli si sgozzano a fiumi) nell'interno della cattedrale. «Siamo-tutti-fratelli.» La concessione causò qualche problema. Crocifissi sloggiati, Madonne rovesciate, frattaglie d'agnello buttate nelle acquasantiere. Così l'anno dopo il vescovo li mandò a Siviglia. Ma qui capitarono proprio nel corso della Settimana Santa, e Gesù! Se esiste al mondo una cosa più sgomentevole della Festa del Sacrificio, questa è proprio la Settimana Santa di Siviglia. Le sue campane a morto, le sue lugubri processioni. Le sue macabre Vie Crucis, i suoi nazarenos che si flagellano. I suoi incappucciati che avanzano rullando il tamburo Gridando «Viva l'Andalusia mussulmana, abbasso Torquemada, Allah vincerà» i neofratelli in Maometto si gettarono sugli ex fratelli in Cristo, e giù botte. Risultato, dovettero sloggiare anche da Siviglia. Si trasferirono a Granada dove si installarono nello storico quartiere di Albaicin, ed eccoci al punto. Perché, malgrado l'ingenuo anticlericalismo esploso durante il corteo della Settimana Santa, non si trattava di tipi ingenui. A Granada avrebbero creato una realtà simile a quella che in quegli anni fagocitava Beirut e che ora sta fagocitando tante città francesi, inglesi, tedesche, italiane, olandesi, svedesi, danesi. Ergo, oggi il quartiere di Albaicin è in ogni senso uno Stato dentro lo Stato. Un feudo islamico che vive con le sue leggi, le sue istituzioni. Il suo ospedale, il suo cimitero. Il suo mattatoio, il suo giornale «La Hora del Islam». Le sue case editrici, le sue biblioteche, le sue scuole. (Scuole che insegnano esclusivamente a memorizzare il Corano). I suoi negozi, i suoi mercati. Le sue botteghe artigiane, le sue banche. E perfino la sua valuta, visto che lì si compra e si vende con le monete d'oro e d'argento coniate sul modello dei dirham in uso al tempo di Boabd il signore dell'antica Granada. (Monete coniate in una zecca di calle San Gregorio che per le solite ragioni di ordine pubblico il Ministero delle Finanze spagnolo finge di ignorare). E da tutto ciò nasce l'interrogativo nel quale mi dilanio da oltre due anni: ma com'è che siamo arrivati a questo?!?"

Quegli accordi segreti che ci hanno salvato dalla violenza islamica. Fu Moro il primo garante di intese ambigue col terrorismo arabo. Con tragiche eccezioni, scrive Paolo Guzzanti, lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". Tocchiamo ferro: tutto può succedere, ma è un fatto che solo l'Italia finora è stata risparmiata da stragi del terrorismo islamico come quelle che hanno insanguinato Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Belgio e Stati Uniti. Sappiamo dall'intelligence che sono in arrivo tremila terroristi specializzati per l'attaccare l'Europa, e che i servizi segreti sono impegnati in una guerra estrema fatta di tecnologia e intercettazioni. É un dato di fatto che l'Italia la sta facendo franca da decenni, rispetto agli altri Stati colpiti dal terrorismo. Fra pochi mesi, nel maggio 2018, saranno trascorsi quarant'anni dall'assassinio del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Fu questo statista il garante di patti segreti e contratti indecenti fra cui quello con il mondo islamico, a cominciare dai palestinesi dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e con Gheddafi, all'epoca molto aggressivo nei confronti dell'Italia che, pure, aveva favorito il colpo di Stato nel 1969. Quella politica di accordi segreti e non sempre decenti col mondo islamico fu poi battezzata con il nome di «lodo Moro» e consisteva in un patto non scritto tra servizi segreti italiani, l'Eni, l'Olp palestinese e Stati del mondo islamico. Rispetto alla Francia e all'Inghilterra, l'Italia aveva il vantaggio di aver perso le colonie e si era risparmiata anche le feroci guerre di decolonizzazione. Il «lodo» consisteva nel concedere mano libera ai terroristi islamici in Italia nelle loro attività contro altri Paesi, risparmiando il nostro: occhi chiusi e portafoglio aperto erano gli strumenti di quella politica. In Libano il colonnello Stefano Giovannone del servizio segreto italiano svolgeva il ruolo di abile smistatore di richieste e scambi. Su tutto lo scacchiere mediorientale e dell'Europa dell'Est, l'Eni svolgeva una sua politica energetica totalmente autonoma dal governo, fin dalla sua fondazione quando aveva al comando l'ex partigiano cattolico Enrico Mattei, che per la sua intraprendenza fu fatto precipitare con il suo aereo sabotato, sembra, dai servizi segreti francesi. Questa losca ma operativa «pax islamica» fu interrotta da gravi e sanguinose eccezioni. Nel 1985 un attacco palestinese all'aeroporto di Fiumicino e alla Sinagoga del Ghetto ebraico romano si concluse con una decina di morti. Nello stesso anno i palestinesi di Forza 17 dirottarono la nave italiana Achille Lauro dove trucidarono il cittadino ebreo americano Leon Klinghoffer paralizzato su una sedia a rotelle, delitto che portò ad una tensione altissima durante il governo Craxi, con soldati americani e carabinieri italiani nella base siciliana della Nato a Sigonella. Molti, fra cui chi scrive (come ex presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta Mitrokhin) ritengono che la strage di Bologna del 2 agosto 1980 fosse un atto di rappresaglia violazione del «lodo Moro» seguita agli arresti di alcuni membri del gruppo palestinese Fplp di George Abbash. Grazie allo stesso patto agiva indisturbato in Italia il terrorista Ilich Ramirez Sànchez, detto «Carlos lo sciacallo» che agiva per conto di molti gruppi terroristici arabi e su direttive della Stasi della Germania orientale attraverso la centrale del Kgb di Budapest. Carlos dall'ergastolo parigino mandò più volte messaggi in chiaro sulle responsabilità della strage di Bologna. A Parigi nel 2005 andai a raccogliere la testimonianza del giudice Jean-Luis Bruguière, il «Falcone francese» che aveva fatto condannare Carlos, il quale rivelò retroscena del tutto ignorati anche sull'attentato al papa Giovanni Paolo Secondo l'undici maggio 1981. L'Italia godeva ancora dei privilegi di uno Stato-cerniera fra Ovest ed Est, fino alla fine della guerra fredda nel 1989, che determinò la vendetta americana inglese e francese contro la classe dirigente italiana con un'operazione del Fbi «Clean Hands», poi nota come «Mani Pulite», orchestrata dal FBI con la partecipazione del procuratore Rudolph Giuliani, concedendo di fatto mano libera alla successione dei comunisti di Achille Occhetto la cui ascesa fu bloccata dalla famosa «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Il lato americano dell'operazione «Clean hands» è narrata in ogni dettaglio in «The Italian Guillotine» di Burnett e Mantovani, mai tradotto in italiano. Erano tramontati i tempi del «lodo Moro», ma l'Italia aveva comunque immagazzinato l'esperienza di decenni, poi dispiegata in con una nuova strategia dal governo Berlusconi per fronteggiare attraverso la Libia di Gheddafi l'esodo dall'Africa in Europa. Quella politica che è stata in questi giorni riproposta da Berlusconi e Tajani per una polizia confederata europea che metta insieme tutte le capacità ed esperienze. Finora i nostri servizi segreti godono della fama meritata grazie allo scampato pericolo. Secondo il politologo americano Edward Luttwak, l'Italia ha sviluppato una strategia efficace contro il terrorismo islamico e dovrebbe essere presa ad esempio. Sarà il futuro immediato a dire se Luttwak eccede o no nella sua valutazione della capacità italiana di tenersi alla larga dalla furia islamica.

Ma per gli "intellò" cattocomunisti il problema sono i razzisti e Trump. Da «Avvenire» a «Repubblica», predica sugli italiani intolleranti con gli immigrati. E il presidente Usa diventa un filonazista, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". Se in Johnny Stecchino il vero problema della Sicilia non era la mafia ma il traffico (e in second'ordine la siccità), nell'Europa delle stragi islamiste la vera piaga non è il radicalismo jihadista ma il razzismo degli europei, in particolare degli italiani novelli nazisti. Una lettura che trova concordi gli editorialisti dell'area clerico-progressista, da Repubblica ad Avvenire. Proprio il quotidiano della Cei, a tre giorni dalla mattanza di Barcellona, titola sull'emergenza che deve scuotere le nostre anime: l'«ordinario razzismo» dei connazionali. Mentre le città italiane si blindano per prevenire attacchi di camion kamikaze al grido Allah Akbar, il giornale dei vescovi riassume le piaghe che affliggono il nostro presente: «Propaganda sulle spiagge, discriminazioni e perfino aggressioni. Tanti episodi di un'estate segnata dall'intolleranza. E sulle Rete si muove la vasta galassia neofascista». Dopo il caso del bagnino di Chioggia ammiratore del Duce, e quindi le «polemiche strumentali sull'immigrazione e le Ong», l'altro caso che preoccupa il quotidiano dei vescovi è quello dell'ambulante senegalese cacciato dai bagnanti in una spiaggia di Cagliari. Viene interpellato anche uno psichiatra per certificare come «razzismo e nazionalismo siano frutto di un'ignoranza radicata». Nessuna disamina psichiatrica invece sull'adesione dei giovani maghrebini all'estremismo islamico, mentre sul tema viene ospitata un'intervista ad un'attivista marocchina che ringrazia Barcellona perché «ha capito che il nemico non è l'islam». Concorda in pieno con Avvenire il parroco di Pistoia, don Massimo Biancalani, prete pro-immigrati che sui social posta la foto di una piscina con a mollo una decina di giovani africani, corredata dal seguente commento: «E oggi piscina! Loro sono la mia patria, i fascisti e i razzisti i miei nemici!» (subito rilanciata da Salvini). Ma l'allarme è identico a quello suonato dal gruppo Espresso, e il suo giornale laico Repubblica (ma con la linea diretta tra Scalfari e Bergoglio la sintonia col Vaticano è diventata forte). Anche una presa in giro del tormentone sugli immigrati che vivono a sbafo inventato dall'autore satirico Luca Bottura (Samuel L. Jackson e Magic Johnson a Forte dei Marmi scambiati per migranti che se la spassano) viene raccontato in termini preoccupati come «un esperimento sociale che rivela molto sui razzisti». Del resto qualche settimana fa l'Espresso è uscito con una copertina con la svastica su fondo rosso e il titolo: «Nazitalia». Spiegazione dello storione di copertina, l'inchiesta sui nuovi nazisti del 2017: «Squadracce, violenze, xenofobia. L'estrema destra esce allo scoperto. Nella criminalità ma anche dentro le istituzioni». Mentre su Repubblica il Fondatore trova un nuovo aggettivo per gli attentati: «Sovversivi». L'altra grave minaccia che incombe sulla nostra società, oltre al razzismo (con propaggini hitleriane) degli italiani, si trova dall'altra parte dell'Atlantico, e costituisce il dramma personale del corrispondente dagli Usa Vittorio Zucconi. Si tratta di Donald Trump, la cui elezione alla Casa Bianca è un trauma ancora non smaltito. Trump «un re folle», Trump «un presidente che non sa quello che fa», Trump «ha perso il timone la Casa Bianca è alla deriva», con Trump «finisce il secolo americano». E poi naturalmente l'ombra del nazismo: «Si dice che la Casa Bianca, il circolo dei collaboratori più stretti, fra i quali americani ebrei in posizioni importanti, e lo stesso genero Jared Kushner, siano «sconvolti» da questo giustificazionismo del capo di fronte a cortei che intonavano slogan nazisti». La sciagura del filonazista Trump, il razzismo degli italiani, i bagnini col busto del Duce, le piaghe da risolvere nel tempo delle stragi islamiste. Oltre al traffico.

Julian Cadman è morto, la foto straziante dalla Rambla: l'eroe Harry cerca di salvarlo, ma non può fare nulla, scrive il 21 Agosto 2017 “Libero Quotidiano”. La storia di Julian è far le più strazianti che ci ha consegnato la strage di Barcellona. Prima disperso, poi "ritrovato" dunque ufficialmente morto. È lui la 15esima vittima della furia islamica che si è abbattuta sulla Rambla: una vita spezzata a 7 anni nel nome di Allah. E ora spuntano anche le foto, brutali, impressionanti, di Julian dopo che il furgone lo aveva travolto. È disteso, sulla Rambla. Su di lui un uomo, Harry Athwal, un inglese di 44 anni. Era al ristorante, ha raccontato al Mirror. "Ho guardato su entrambi i lati e alla mia destra c'era quel bambino in mezzo alla strada. Sono corso dritto da lui". Ha provato a soccorrerlo, ma è morto. Niente da fare. Harry, in Gran Bretagna, sta diventando "un simbolo di coraggio, umanità e aiuto alle vittime", parole scritte da El Mundo.

"Julian è salvo". Invece era morto. Troppe gaffe sulla pelle del bimbo. Il piccolo australiano di 7 anni disperso dopo l'attentato dato per vivo da «El Mundo» per l'ansia di buone notizie, scrive Andrea Cuomo, Lunedì 21/08/2017, su "Il Giornale". C'era una buona notizia da Barcellona. E ora non c'è più. Julian Cadman, il bambino anglo-australiano di 7 anni scomparso dopo l'attentato sulle Ramblas, l'altro ieri era stato dato per salvo, malconcio ma vivo. E ieri invece quel piccolo sorriso stiracchiato comparso sui volti provati di chi ha seguito le notizie dell'ennesimo assalto all'Europa si è spento: Julian è morto. La notizia l'ha data ieri la britannica Sky News. I funzionari del consolato australiano a Barcellona sabato sera sono andati ad accogliere Andrew, il padre del piccolo, all'aeroporto e lo hanno accompagnato all'obitorio per il riconoscimento della salma. La madre del piccolo, Jumerie detta Jom, è rimasta gravemente ferita ed è ricoverata in ospedale. Giovedì, subito dopo l'attacco del furgone sulla folla delle Ramblas, la donna era stata soccorsa dal farmacista-eroe Fouad Bakkali nel suo negozio, con due gambe rotte e altre ferite in tutto il corpo. La donna, malgrado le sue condizioni, si era subito preoccupata dei figlio smarrito. Anche il nonno, dall'Australia, aveva fatto un appello su facebook per avere notizie del nipote.

Sulla sorte di Julian si sono rincorse molte voci contrastanti nei tre giorni successivi all'attentato. Sabato il sito del quotidiano spagnolo El Mundo aveva raccontato che il bambino era stato trovato in un ospedale della città catalana e la notizia era stata ripresa dai giornali di tutto il mondo, in particolare da quelli australiani e britannici. Una notizia poi rivelatasi atrocemente falsa, ma probabilmente giustificata dall'ansia dei media spagnoli di trovare storie commoventi e possibilmente positive sulla mattanza delle Ramblas. La notizia infatti era stata datat frettolosamente e senza fare ulteriori riscontri. La morte è stata confermata dall'ufficio britannico per gli Affari Esteri e il Commonwealth, che in una dichiarazione ha detto che Julian (nato e cresciuto in Gran Bretagna, nel Kent) «è stato strappato via da noi mentre visitava le bellezze di Barcellona con la madre». Julian e la madre erano giunti in Spagna dall'Australia per partecipare a un matrimonio. «Julian - dicono i familiari nello stesso comunicato - era un amato e adorato membro della nostra famiglia. Era così pieno di energia, divertente e sfacciato, portava sempre un sorriso sui nostri volti. Siamo stati fortunati per averlo avuto nella nostra vita e ricorderemo i suoi sorrisi e custodiremo la sua memoria nei nostri cuori». La famiglia di Julian ha trovato anche le forze per ringraziare le autorità spagnole e tutti coloro che negli ultimi giorni si sono adoperati per aiutarli: «La loro gentilezza è stata incredibile in un momento per noi difficili. Sappiamo di non essere l'unica famiglia ad aver sofferto per i tragici eventi di giovedì e le nostre preghiere e i nostri pensieri sono per chi ha perso qualcuno».

Islam e terrorismo: ecco la foto che smaschera l’ipocrisia dei media, scrive Marcello Foa il 18 agosto 2017 su "Il Giornale". Dunque riepiloghiamo: la Cia aveva avvertito i servizi spagnoli sul rischio di un attentato proprio alla Rambla. L’Isis già in febbraio aveva minacciato azioni terroristiche nelle aree frequentate dai turisti e il rischio era così elevato che, come ha sottolineato ieri Germano Dottori durante lo speciale su Rai3, alcuni tour operator hanno reclutato in segreto più di 100 ex membri delle truppe speciali britanniche, affinché controllassero siti sensibili, come le spiagge di Ibiza. Sulla strage di Barcellona è già stato detto quasi tutto, mi limito a due osservazioni. La prima. Considerato l’altissimo livello di allarme era così difficile blindare le Ramblas con delle protezioni anti intrusione, come avviene in molte piazze europee? Purtroppo siamo di fronte, come già avvenuto a Parigi e a Nizza, a un clamoroso fallimento dei servizi di intelligence, in questo caso spagnoli. La seconda. E’ giunto il momento di smascherare l’ossimoro dietro a cui si trincerano le autorità dopo fatti come questi. Il refrain è sempre lo stesso: orrore per gli attentati, ma noi siamo migliori, noi non dobbiamo aver paura; dunque dobbiamo continuare a mantenere le frontiere aperte e ad accogliere gli immigrati islamici. Paradossalmente fino ad oggi questo approccio è stato vincente, ma razionalmente non sta in piedi. Anche l’ultimo attentato in Finlandia è avvenuto al grido di Allah Akbar. E questo perbenismo porta a inaccettabili forme di autocensura. Guardate queste immagini. Vi ricordano qualcosa? La prima la conoscete tutti. I media non si sono fatti scrupoli nel mostrare l’immagine del piccolo Aylan, perché serviva a giustificare moralmente l’immigrazione, ma la seconda immagine, segnalata su twitter, non diventerà una hit mondiale. La maggior parte del pubblico non la vedrà mai, eppure mostra un altro bambino di tre anni ucciso assieme alla madre dei terroristi islamici sulla Rambla. Viene censurata. Perché se venisse diffusa susciterebbe un’altra ondata emotiva ma nel senso contrario a quello desiderato dal mainstream multiculturale e globalizzante. E’ un’ipocrisia, ma rivelatrice. Così si gestisce l’opinione pubblica. Sia chiaro: sebbene le cause del terrorismo non possano essere banalizzate e ha ragione chi sostiene che a destabilizzare il Medio Oriente siamo stati noi occidentali, in primis gli americani in Irak, Afghanistan, Libia e Siria, è innegabile che l’immigrazione incontrollata a cui stiamo assistendo da mesi e che riguarda principalmente l’Italia, sia fonte di destabilizzazione sociale, per la mancata integrazione di masse enormi di migranti a cui è impossibile garantire un lavoro e una normale accoglienza, e dunque di fenomeni estremi, come l’aumento della violenza, della criminalità, dell’estremismo religioso e, infine, del terrorismo. Ecco perché ha ragione chi manifesta gridando “io non ho paura”. Ma quel grido andrebbe accompagnato con l’urlo: “Enough is enough” come dicono gli inglesi. Ovvero l’immigrazione incontrollata, soprattutto quella islamica, non è più accettabile. Ovvero, in italiano, abbiamo sopportato abbastanza.

Ci uccidono per strada e rispondiamo coi gattini. E Facebook, lento con l'Isis, censura le immagini di Barcellona, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 19/08/2017, su "Il Giornale". Mentre i corpi ormai freddi sanguinavano ancora sulle grosse piastrelle roventi della Rambla di Barcellona, sul web impazzavano le foto dei gattini. Sì dei gattini. Non è solo una stupida moda (era già avvenuto per altri attentati), non è neppure un tormentone. No è l'auto anamnesi del popolo del web, che è quel che resta dell'Occidente più che tramontato, che poi siamo tutti noi. È lo stupido esercizio di chi vuole chiudere gli occhi davanti alla realtà, cancellare la morte ed esorcizzare la paura pensando che il terrore si possa combattere con un meme. È l'immagine di una cultura malata, rassegnata e già sottomessa, che non ha la forza di tirare fuori gli artigli e mette la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Una società che pensa di poter arginare la violenza con le marce della pace, le fiaccolate, i gessetti colorati, i fiori nei cannoni, i vari je suis e la solita retorica muffosa delle braccia aperte e dell'accoglienza a tutti i costi (e Barcellona è stata una delle capitali di tutto questo). Loro ci ammazzano e noi postiamo felini. Mentre i nostri colleghi umani sono sbudellati sull'asfalto delle nostre città. È tutto un cortocircuito di ipocrisie buoniste. Un fuggi fuggi dalla realtà per non vedere quello che i nostri occhi dovrebbero guardare: le decine di corpi riversi sul cemento, le vittime di una furia tutt'altro che cieca, ma anzi precisa nella sua follia sterminatrice. Siamo noi i ciechi, che fingiamo di non vedere, affetti da una presbiopia politicamente corretta che ci fa vedere nitidamente le stragi a migliaia di chilometri da noi e sfoca quelle nelle nostre strade. Persino Facebook, sempre lento e macchinoso nel rimuovere i contenuti osceni e i profili di propaganda dell'Isis, allestisce in fretta e furia un avviso che preceda le immagini della strage. «Questo video potrebbe mostrare contenuti grafici violenti o sangue». No, care felpe radical della Silicon valley, non «potrebbe». Questi video «mostrano» le immagini del cancro che sta togliendo la vita all'Occidente. Mostrano il nostro sangue. Non devono essere censurati come si fa coi filmati pornografici. Non debbono essere vietati ai minorati di buonismo. Devono essere visti da tutti. Il corpo del piccolo Aylan, esanime sulla battigia di una spiaggia turca, aprì gli occhi del mondo sul dramma delle migrazioni. E quindi si poteva pubblicare. Invece l'immagine del bambino riverso sul selciato spagnolo va rimossa. Oscurata. Nascosta nelle pieghe del web. Anticipata da un avviso per non sconvolgere i benpensanti. Non si sa mai che qualcuno dalle nostre parti si accorga che siamo in guerra. Shhh. Fate silenzio. Non diteglielo. L'orrore, invece, va guardato in tutto il suo schifo. Per poterlo combattere. La prossima volta, sperando che mai ce ne sia un'altra, se proprio si vogliono censurare le immagini della morte con foto di animali, almeno si pubblichino i maiali. La cosa più vicina a queste bestie islamiche. Con rispetto parlando. Per i maiali.

"Così Boldrini & C. ci portano gli islamisti in casa". Lo scrittore accusa: "Da immigrato dico che la loro non è accoglienza, ma complicità morale", scrive Elena Barlozzari, Domenica 20/08/2017, su "Il Giornale". «Un altro nostro concittadino massacrato dai terroristi islamici, amici della Boldrini, sostenuti dalla sinistra italiana». Un j'accuse concentrato in 140 caratteri, digitati a caldo, con la mente che corre lungo la Rambla insanguinata. È la provocazione che lo scrittore di origine russa Nicolai Lilin affida a Twitter. E che ha scatenato le polemiche.

Dopo la strage di Barcellona, perché tirare in ballo Boldrini e «compagni»?

«Prima di esser etichettato come razzista solo perché parlo schiettamente, ci tengo a fare una premessa: anche io sono emigrato in Italia, a suo tempo, dalla Federazione Russa. Conosco e riconosco il valore dell'integrazione. Ma quello che vedo negli ultimi anni non ha nulla a che vedere con l'accoglienza. Far arrivare nel nostro Paese un flusso incontrollato di migranti, a discapito della sicurezza di un intero continente ed in barba alle sue leggi, non basterà a lavare le coscienze dell'Occidente e di personaggi come la Boldrini che, quando iniziò la guerra terroristica in Siria, sbandieravano la tesi dei ribelli moderati. Ma i ribelli moderati non sono mai esistiti, esistono i terroristi. E chi li ha spalleggiati e coperti, oggi, è moralmente responsabile anche del sangue sparso sulla Rambla».

La Boldrini ha cinguettato: «La nostra resistenza sarà più forte della ferocia».

«La Boldrini che parla di resistenza quando ha contribuito a consegnare il nostro Paese agli islamisti? Paradossale. La comunicazione boldriniana incarna la quintessenza dell'ipocrisia. Basta pensare che ha accolto il presidente della Rada ucraina già fondatore di un partito apertamente ispirato a quello Nazionalsocialista, Andriy Parubiy, a Montecitorio. Non ci si può ammantare di pacifismo e poi stringere la mano a simili personaggi».

Sembra determinato. Perché ha rimosso il suo commento dai social?

«Perché ho ricevuto delle pressioni enormi. Il portavoce della Boldrini si è scomodato a contattare la redazione televisiva con cui collaboro. Le lascio immaginare lo scopo della telefonata. Così, per non creare problemi alle persone con cui lavoro, ho cancellato il mio tweet. Ecco la loro democrazia e meno male che il dittatore sarebbe Putin».

Si è sentito minacciato?

«Nonostante le modalità usate per chiudermi la bocca, no. Le minacce della Boldrini non mi fanno paura, ma è giusto tener fuori da questa polemica chi non ha alcuna responsabilità per le mie parole».

E dalla Rete?

«Sono arrivate le offese di chi, da un lato, insulta me e, dall'altro, sostiene una che come vola un'offesa è pronta a querelare».

Dai suoi colleghi scrittori ha ricevuto un pizzico di solidarietà?

«Affatto, ma la cosa non mi ha stupito. Gli intellettuali in Italia sono molto bravi ad indignarsi con chi, a differenza loro, va controcorrente».

Teme intoppi per la sua carriera?

«Non temo per me, ma per l'Italia. Perché se la terza carica dello Stato arriva a intimidire chi esprime delle idee che non le vanno a genio significa che nel nostro Paese la democrazia non gode di ottima salute».

Lei è stato in Cecenia ai tempi della minaccia jihadista. Come siete risusciti a contenere così efficacemente il fenomeno?

«Solo combattendo. Risposte dure e lotta senza quartiere. Questo è l'unico modo per vincere la guerra contro il terrorismo».

E di gessetti colorati e immagini di gattini cosa ce ne facciamo?

«Possono servire a sensibilizzare l'opinione pubblica, a togliere la paura. Ma parallelamente bisogna adottare una strategia di contrasto al terrorismo che sia incisiva. L'Europa non si è ancora attrezzata a sufficienza perciò ci rimangono solo i gattini. E non bastano».

Da ex membro dei reparti speciali, secondo lei, l'Italia cosa rischia?

«Non penso che qui succederà qualcosa, i jihadisti sono folli ma non così stupidi da giocarsi il loro unico trampolino d'ingresso al vecchio continente».

Nicolai Lilin: "Attenti, l'obiettivo della Boldrini è eliminare la nostra cultura, scrive il 20 Agosto 2017 Gianluca Veneziani su “Libero Quotidiano”. Chiamatela educazione boldriniana. Guai a scrivere un post polemico contro la presidenta della Camera, guai a sostenere in modo provocatorio che sarebbe amica dei jihadisti, guai a dissentire dal suo pensiero filo-immigrazione indiscriminata. Subito si abbatte su di te la scure della repressione, fatta di chiamate per invitarti a moderare i toni e a cambiare linguaggio, di pressioni sul luogo di lavoro affinché non ripeta mai più prodezze simili o di insulti per darti dell'ignorante e comunicarti che d' ora in poi verrai boicottato ovunque tu parlerai, sempre che ti venga lasciata ancora libertà di parola. Lo scrittore italiano, di origini russe, Nicolai Lilin, autore del bestseller Educazione siberiana, è finito sulla graticola per aver postato su Twitter, all' indomani della strage di Barcellona, un pesante j' accuse contro la Boldrini: «Un' altro nostro concittadino massacrato dai terroristi islamici, amici della Boldrini, sostenuti dalla sinistra italiana». Apriti cielo: offeso sui social, invitato a rimuovere il post, ha dovuto assistere a «sollecitazioni» da parte dell'entourage della presidenta affinché d' ora in poi sia più cauto nelle sue esternazioni. Con il rischio non esplicitato, in caso di perseveranza, di non poter più continuare a parlare e pubblicare sui media e con le case editrici per le quali oggi lavora. Atteggiamenti che lo scrittore, ai nostri taccuini, non esita a definire «intimidatori e fascisti».

Lilin, per cominciare, ci spieghi il senso del suo tweet.

«Quella frase rientra in una strategia provocatoria che sto mettendo in atto da tempo per richiamare l'attenzione della Boldrini sulla strage di cittadini nel Donbass da parte dei nazisti ucraini, che la sinistra boldriniana non solo omette di raccontare ma addirittura sembra sostenere. Il mio riferimento era all' incontro dello scorso giugno tra la presidente della Camera e il presidente della Rada, il Parlamento ucraino, Andriy Parubiy: parliamo di un conclamato nazista, impegnato nella feroce repressione di chiunque si opponga al governo golpista di Kiev. Ebbene, i nazisti ucraini, come comprovato da diversi documenti, agiscono in stretta collaborazione con i miliziani dell'Isis. Sostenere gli uomini di Parubiy, come fa la Boldrini, significa stare anche dalla parte dei terroristi islamici. E questa è la conferma della solidarietà selettiva di cui la presidente è la principale interprete, quell' ipocrisia ideologica che la porta a indignarsi giustamente per i bambini morti nel Mediterraneo ma a ignorare deliberatamente i bambini uccisi dai nazisti nel Donbass. In tal modo, e qua è il più grande paradosso, pur di attaccare Putin, la sinistra boldriniana diventa alleata del nazismo».

Era questo l'unico significato del suo messaggio?

«No, intendevo anche dire che la Boldrini e i suoi seguaci sostengono i ribelli siriani ostili ad Assad, che si sono dimostrati essere tutt' altro che moderati, ma veri e propri radicalisti islamici. Da ultimo, mi riferivo al fatto che le sballate politiche sull' immigrazione di questo Paese di cui la Boldrini è uno dei massimi rappresentanti - politiche che pretendono di cancellare la nostra cultura importando modelli retrogradi e delegano alle ong quello che dovrebbe essere compito esclusivo dello Stato - favoriscono la guerra tra poveri, la marginalità di chi arriva da noi, la mancata integrazione, che poi è il presupposto per l'integralismo».

Dopo la pubblicazione del suo tweet, quali sono state le reazioni istituzionali?

«Il portavoce della Boldrini ha chiamato Tgcom, per cui conduco il programma La versione di Lilin, sollevando un polverone e chiedendo spiegazioni sul perché avessi scritto quel tweet. Chiamare il luogo dove lavoro è un metodo fascista, perché preferisce le intimidazioni al chiarimento personale. Non solo: diversi scrittori hanno contattato la Einaudi, con cui pubblico i miei libri, e manifestato il loro dissenso contro di me, inducendo la casa editrice a mettermi in guardia e a essere più prudente nelle future esternazioni. Da ultimo, molti troll boldriniani si sono scatenati contro di me, insultandomi con toni razzisti in quanto russo che offenderebbe la nostra lingua, solo perché ho scritto "un'altro" anziché "un altro". È così la sinistra boldriniana: più attenta a un apostrofo che alle vite umane di chi viene ammazzato in Ucraina».

Ora quali conseguenze teme? Pensa verrà denunciato dalla Boldrini?

«Che faccia pure. Sono stato ferito in guerra mentre combattevo contro i terroristi ceceni, figuriamoci se posso aver paura di una denuncia. Né posso temere chi su Twitter annuncia che mi boicotterà ai festival letterari. È anche questo un sintomo della cultura ai tempi della Boldrini: incapacità di distinguere tra letteratura e pensiero politico e tentativo di mettere a tacere tutte le voci di dissenso, bruciando simbolicamente i libri proibiti. L' ennesima manifestazione di un metodo fascista».

IL FASCISMO ISLAMICO. QUELLO CHE I FASCISTI NON VORREBBERO SAPERE…

Mussolini, Hitler e l’islam: quello che i nuovi fascisti non vorrebbero mai sapere. Cosa pensavano davvero i due dittatori della religione musulmana, scrive Lorena Cacace il 18 Dicembre 2015 su "Nano Press". “Se c’era lui, altro che invasione: non entrava nessuno in Italia”. In questi tempi d’isteria collettiva sul tema immigrazione, il populismo regna sovrano, sui social media e, purtroppo, anche in politica. A un problema di enorme difficoltà, si vuol dare una risposta semplice e immediata, mentre di semplice e veloce non c’è nulla in un fenomeno che ha radici antiche, con intrecci sempre più complessi e di difficile risoluzione. Come in una sorta di autodifesa, s’invoca il passato e “l’uomo forte”. Così, i nuovi neofascisti o neonazisti (spesso da tastiera) sognano il ritorno di un Duce o di un Fuhrer, dimenticando una cosa fondamentale: Benito Mussolini e Adolf Hitler erano entusiasti della religione musulmana e avevano rapporti più che ottimi con i paesi islamici.

Quando pensiamo a Hitler e all’ideologia nazista, ci immaginiamo una difesa dei valori tradizionali dell’Occidente. Mussolini lo disse chiaramente coniando lo slogan “Dio, patria e famiglia”. Tutto ciò è vero, senza alcun dubbio, ma c’è molto di più. La questione della religione è stata centrale anche nella Germania nazista e nell’Italia fascista e l’islam ha trovato grandi appoggi da parte dei due dittatori. Semplificando, si potrebbe usare il detto “il nemico del mio nemico è mio amico”: visto che il nemico numero uno erano gli ebrei, coloro che li avversavano (come i leader musulmani) erano alleati preziosi. C’è però molto di più.

HITLER VOLEVA ESSERE MUSULMANO. “La nostra sfortuna è stata avere la religione sbagliata. Perché abbiamo avuto il cristianesimo con la sua mitezza e flaccidità? L’Islam è una Männerreligion, una religione da uomini”. Parola di Adolf Hitler. La rivelazione arriva dal libro scritto dal professore Stefan Ihrig, “Atatürk in the Nazi Imagination” (Ataturk nell’immaginario nazista), a cui il Wall Street Journal e altri media statunitensi hanno dedicato lunghi articoli. Nel testo, Ihring sostiene che non fu Benito Mussolini a ispirare le prime azioni del Fuhrer, ma Mustafa Kemal Atatürk, il Padre di tutti i Turchi. Il motivo? Lo sterminio degli armeni (il primo dell’epoca moderna) e la cacciata dei greci dalla Turchia. Hitler in particolare era affascinato dalla religione musulmana che riteneva più adatta allo spirito germanico rispetto “a quella melensa e sacerdotale del cristianesimo”. L’idea che i “veri musulmani sono dei guerrieri”, fece breccia nella visione del mondo del Fuhrer per cui il mito del Superuomo era l’unico faro da seguire. Non quindi i valori del cristianesimo su cui si fonda (volente o nolente) l’Occidente, come oggi urlano i neofascisti (“salviamo il presepe”, “fuori i musulmani dall’Europa”): l’uomo che voleva portare la “razza ariana” alla guida del mondo, sognava di essere musulmano. I contatti tra figure dell’islamismo più radicale e la Germania nazista sono accertati. Celebre è l’episodio che riguarda Haj Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme (e uno dei primi teologi dell’Islam radicale). Hitler siglò un accordo con lui per creare la “Musligermanics”, primo contingente di combattenti nazisti non germanici ad arruolarsi nelle SS. I due fondarono una scuola per imam militari a Dresda, ma fu tutto l’entourage nazista a dare grande attenzione al mondo musulmano. Il ministro della Propaganda nazista ordinò ai giornalisti di non parlar male dell’Islam e anzi di sottolinearne il valore, come ricorda David Motadel nel libro “Islam and Nazi Germany’s War”. Antisionista, antifrancese e antibritannico, Hitler trovò nell’Islam radicale un alleato di grande importanza.

MUSSOLINI E LE MOSCHEE. Più complessa è il rapporto tra Benito Mussolini e la religione musulmana. La storia sembra narrare di due Mussolini molto diversi tra loro: quello che si fregiò del titolo di Protettore dell’Islam e quello che negò la costruzione della moschea a Roma. Il primo rimanda alla celebre foto del Duce a cavallo con la Spada dell’Islam, arma cerimoniale che gli venne donata nel 1937 con l’annessione della Libia all’Italia. Quando, tre anni prima, il Paese nordafricano entra a far parte dei domini extraterritoriali dell’Italia fascista, Mussolini fece costruire strade, scuole, ospedali e moschee per i “musulmani italiani della quarta sponda d’Italia”. A spingerlo non è certo uno spirito umanitario: è la politica e, in particolare, l’avversione alla suddivisione dell’Africa e del Medio Oriente decisa da Francia e Inghilterra dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono le mire espansionistiche del fascismo a muovere le fila, nient’altro. Il titolo di Protettore dell’Islam fu fortemente voluto da Mussolini perché gli dava la stessa autorità del Califfo su quelle terre: la religione viene piegata all’opportunità politica. La vicenda della moschea di Roma è esemplare. Secondo la leggenda, Mussolini rispose che solo quando avrebbe avuto il permesso di costruire una chiesa a La Mecca, avrebbe acconsentito all’edificazione di una moschea nella Capitale. In realtà, il Duce era più che favorevole a realizzarla in vista dell’annessione dell’Albania e quindi dell’aumento degli italiani di fede musulmana. A fermarlo fu il Vaticano (che decise di andare a braccetto con il governo fascista pur di ottenere i Patti Lateranensi). A differenza di Hitler, Mussolini non era affascinato dalla religione in sé, ma la usò per scopi politici contro il nemico comune (Francia e Inghilterra in primis). Che le peggiori dittature razziste di allora fossero filo-islamiche in chiave anti-ebraica (e contro Francia e Inghilterra) dovrebbe far riflettere in un solo senso: usare la religione come arma politica è sempre un errore. Allora come oggi.

IL FASCISMO E L'ISLAM. Mussolini paladino dei Musulmani? Un recente saggio ricostruisce luci e ombre dell'ambigua vocazione filoaraba del dittatore, scrive Alessandro Frigerio. In oro massiccio, finemente cesellata dagli abili artigiani berberi, la spada dell'Islam puntava dritta al cielo. Sotto, un Mussolini un po' appesantito nel fisico, ma rinvigorito nello spirito dalla recente conquista dell'Impero, la sguainava con soddisfazione, al culmine di una cerimonia sfarzosa e coreograficamente perfetta. Era il 20 marzo 1937, e nell'oasi di Bugàra, appena fuori Tripoli, si consumava l'atto finale del corteggiamento del fascismo nei confronti degli Arabi e dell'Islam. La spada, consegnata da Iusuf Kerbisc, capo di un contingente berbero utilizzato dagli italiani fin dal tempo della Grande Guerra contro i "ribelli", era il simbolo attraverso il quale una parte del mondo arabo voleva esprimere l'approvazione per la politica islamica del fascismo. Una politica che dopo il 1945 verrà dimenticata, oppure sbrigativamente inserita nella categoria del più classico opportunismo mussoliniano. Ma che per un decennio, dai primi anni Trenta fino allo scoppio del conflitto mondiale, sembrò interpretare, talvolta in modo disordinato, l'essenza stessa del fascismo, perennemente combattuto tra rivoluzione e ordine, tra la vocazione a farsi paladino revisionista del trattato di Versailles e le ambizioni coloniali da ultima arrivata tra le grandi potenze. A illuminare l'argomento è appena giunto un agile volume scritto da Enrico Galoppini, studioso e profondo conoscitore del mondo arabo (Il fascismo e l'Islam, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 2001, pp. 166), che ricostruisce alcuni aspetti delle inclinazioni filoaraba e filoislamica di Mussolini, indagandole alla luce dei più recenti studi e delle fonti giornalistiche d'epoca, seguendole nel suo percorso disordinato ma incessante, così simile, spiega l'autore, a un fiume carsico che "balzava periodicamente agli onori delle cronache per poi scomparire e proseguire lontano dagli sguardi dei più". La sorgente nascosta della politica verso il Medio Oriente risaliva agli anni Venti, e di organico aveva ben pochi aspetti, ereditata com'era da quella dell'Italia liberale. La lontana Rodi nel Dodecaneso, la Tripolitania e la Cirenaica ancora non completamente "pacificate" e le due teste di ponte in Africa orientale, l'Eritrea e la Somalia italiana, costituivano un lascito dei primi sessant'anni del Regno d'Italia. Ma negli anni Venti di una specifica politica araba ancora non si poteva parlare. Troppo forte era l'esigenza di Mussolini di giocare la carta della credibilità con l'Inghilterra per azzardare mosse che potessero dispiacere, troppo impellente la necessità di riconquistare saldamente le zone interne della Libia per poter fare degli arabi degli interlocutori politici. E, infine, ancora troppo influenti erano le spinte cattoliche, soprattutto dopo i Patti Lateranensi, per immaginare un avvicinamento al mondo islamico. Ma nei primi anni Trenta Mussolini si scopre giocatore sempre più audace e decide di sfoggiare una maggiore autonomia e un più marcato dinamismo. Il mondo arabo, sottoposto ai mandati di tipo semicoloniale di Francia e Inghilterra, diventa così una carta appetibile. Ma ancora Mussolini non ha deciso come giocarla. Lusingare le aspirazioni indipendentiste o farsi addirittura protettore dell'Islam? E ancora, spendere tutto per indurre l'Inghilterra a un gentlemen agreement che sancisca l'influenza italiana nel Mediterraneo o prendersi ciò vuole in barba a tutto e tutti? Una cosa però è certa. Fascismo e mondo arabo-islamico concordano nel sentirsi reciprocamente insoddisfatti per le sistemazioni di Versailles. E oltretutto possono dire di vantare anche dei nemici in comune. La Francia, principale beneficiaria dei "mandati", che in Siria e in Libano attizzava il particolarismo e si ergeva a protettrice dei cattolici d'Oriente. L'Inghilterra, che reprimeva il nazionalismo arabo e agevolava l'emigrazione ebraica in Palestina. E' così che scattano le prime iniziative di "attenzione" verso il mondo arabo. Nel 1930 nasce a Bari la Fiera del Levante, quattro anni dopo Radio Bari inizia a trasmettere anche in lingua araba, a Roma si organizzano un paio di convegni degli studenti asiatici, si promuovono pubblicazioni e partono le prime sovvenzioni a giornalisti e giornali arabi. Inizia un lavorio occulto per prendere contatto con esponenti nazionalisti e panarabi mediorientali. Fino a quando nel 1934 Mussolini enuncia a chiare lettere la sua svolta. "Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi: Asia e Africa. Sud e Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare la volontà e l'interesse degli italiani", dichiara alla seconda assemblea quinquennale del regime. E aggiunge, per sgombrare il campo da fraintendimenti, che "Non si tratta di conquiste territoriali, e questo sia inteso da tutti vicini e lontani, ma di un'espansione naturale, che deve condurre alla collaborazione fra l'Italia e le nazioni dell'Oriente immediato e mediato". Insomma, Italia come ponte tra Oriente e Occidente alla ricerca di una "espansione spirituale, politica, economica" che andasse ben oltre l'ambito ormai sempre più stretto del Mare Nostrum. Fin qui i fatti, forse non troppo noti ma già documentati anni addietro da Renzo De Felice (Il fascismo e l'Oriente, il Mulino, 1988). Il merito del volume di Galoppini è invece un altro, e cioè quello di chiarire quali furono le strategie di penetrazione tra gli Arabo-Musulmani e di individuare l'immagine, tutta personale, che il fascismo tentò di offrire di sé e dell'Islam al mondo. La difficoltà a stabilire "quanto l'opinione pubblica araba fosse davvero ben disposta nei confronti dell'Italia fascista, oppure convinta della strumentalità della sua politica islamica", la si deve soprattutto all'impossibilità a individuare nel mondo arabo-islamico, negli anni Trenta così come oggi, un interlocutore privilegiato. A livello religioso non esisteva un vero e proprio rappresentante dell'Islam, essendo questa religione priva di una gerarchia strutturata sulla falsariga di quella ecclesiastica. Sul piano politico, invece, mentre esistevano gruppuscoli nazionalisti e indipendentisti, sulla cui affidabilità permanevano tuttavia numerosi dubbi, a livello di politica 'alta' il fascismo doveva confrontarsi con la maggiore influenza di Francia e Inghilterra sulle èlites politiche arabe. A parte alcuni contatti con la corte egiziana, che non lasciarono grande traccia, in Medio Oriente il fascismo preferì puntare tutto sulla carta 'antiborghese' e sul 'fattore islam'. L'Italia si propose quindi come paladina di giustizia contro le 'demoplutocrazie', avvicinandosi preferibilmente agli esponenti tradizionali del mondo islamico piuttosto che agli intellettuali nazionalisti. Si aprirono così canali privilegiati con il Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Huseyni e con movimenti palestinesi contrari all'ebraizzazione della Palestina, si fornì assistenza economica e tecnologica all'Iraq, si guardò al sovrano saudita Ad Ibn Sa'ud come a un nuovo "Duce d'Arabia". Nacquero anche organizzazioni arabe d'ispirazione fascista, soprattutto in Egitto e in Siria. Strutturate spesso come formazioni paramilitari e caratterizzate, sulla scia della migliore liturgia nostrana, da divisa colorate (le camicie azzurre, le camicie verdi), queste formazioni ammiravano del fascismo l'aspetto militaristico, la sua volontà di rivalsa rispetto alle potenze occidentali e il suo oscillare continuo fra tradizione e progresso. Ma il filofascismo arabo si esaurì in queste e poche altre manifestazioni, non assumendo mai vere e proprie connotazioni ideologiche. Del resto, come ha puntualmente chiarito Renzo De Felice, "la qualifica di 'fascisti' attribuita anche da studiosi di rilevo al Mufti di Gerusalemme, a el-Gaylani, a Chandra Bose e ad altri esponenti dei movimenti nazionali asiatici ed africani che furono in contatto e collaborarono con qualcuna o tutte le potenze del Tripartito prima e durante la seconda guerra mondiale non regge ad uno studio ravvicinato delle vicende attraverso le quali si svilupparono i loro contatti e la loro collaborazione e alla immagine, al giudizio che di essi hanno i loro rispettivi popoli. […] Quanto al Mufti, in lui il movimento nazionale palestinese vede uno dei maggiori protagonisti della propria lotta nella fase antibritannica e anche sovrani arabi moderati, come quello dell'Egitto, negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, videro in lui un uomo da accogliere e trattare col massimo rispetto". Come mette bene in luce il volume di Galoppini, quel che invece s'impone dalla metà degli anni Trenta è "un'interpretazione dei rapporti con il mondo arabo-islamico che tende a stabilire un'analogia tra il fascismo e l'Islam. L'Italia lascia il posto al 'fascismo'; la rivoluzione starebbe dando i suoi frutti, lasciandosi alle spalle l'Italietta liberale". Sulla stampa italiana si comincia a parlare di razza araba e della sua superiorità rispetto non solo agli ebrei ma anche agli altri popoli di colore. In barba all'universalità del messaggio del Corano gli arabi vengono identificati come una sorta di razza eletta all'interno del mondo musulmano. E "a furia di assimilare in tutto l'Islam al fascismo - scrive Galoppini - si finiva per scambiare […] l'Islam per un regime d'ordine, quale per certi versi il fascismo fu". La consegna della spada dell'Islam a Tripoli, nel 1937, costituì l'apice della politica di Mussolini verso il mondo arabo. E da questo punto di vista la Libia fu il laboratorio dove la sua sperimentazione fu più intensa. Per non apparire imperialista e fugare ogni dubbio sulla sua 'vocazione' islamica il fascismo dovette però faticare non poco. Già in occasione della conquista dell'Etiopia la propaganda di regime dovette arrampicarsi sui vetri per fornire una giustificazione umanitaria alle operazioni e all'impiego di alcuni contingenti libici: la guerra d'Etiopia fu fatta passare per una guerra di liberazione dei mussulmani contro le vessazioni perpetrate dal governo 'schiavista' e filoccidentale del Negus. E per recuperare qualche punto anche a livello di immagine, in Libia il fascismo intervenne massicciamente costruendo e restaurando moschee, inaugurando scuole di cultura islamica e fornendo agevolazioni ai pellegrini diretti alla Mecca. La colonia libica rivestì a tutti gli effetti il "ruolo di vetrina delle buone disposizioni italiane nei confronti dell'Islam".

(Alcune righe prese dalla cronaca dell'anno 1937 - Ndr.) "A Tripoli, davanti una moltitudine araba convenuta per lo storico incontro, viene utilizzata una hollywodiana coreografia; l'"apparizione" di Mussolini su un cavallo bianco che spunta dalla cima di una duna del deserto seguito da duemilaseicento cavalieri, mentre lui snuda la fiammeggiante "spada dell'Islam" d'oro massiccio ricevuta dai capi arabi: Toccò il vertice della popolarità. La sua apoteosi sembrava pari a quella di Alessandro Magno; ebbe la sensazione che anche lui stava compiendo una "missione"; la riunione di popoli di varie razze, colore, lingue e religione. Gli balenò anche a lui, forse, come al macedone, "l'unificazione mondiale". L'onnipotenza sulla Terra. L'"Alessandrite" che ha contagiato tutti in 2300 anni. In Egitto - si disse e si scrisse - Mussolini compiva il suo secondo "miracolo" religioso; i secolari "infedeli saraceni", alla Mecca, davanti alla Kaaba, (era l'assurdo degli assurdi) invocarono Allah di proteggerlo e da lui farsi proteggere; lui "cristiano" (opportunista dei Patti Lateranensi) il "protettore dell'Islam!". Solo in seguito si seppe che quegli arabi erano degli arabo-spagnoli legati ad alcuni esponenti fascisti, "registi" della coreografia e che avevano recitato la parte come in un film, anzi era veramente un film, per i cinegiornali, e servivano per fare propaganda.

La missione civilizzatrice del fascismo voleva trasmettere l'idea che il bravo mussulmano fosse anche un bravo suddito coloniale, devoto al suo capo. "È questa la gente della Libia che ha giurato fedeltà all'Italia di Mussolini - si legge in una cronaca dell'epoca -, che è pronta ad agire ad un suo cenno, a prendere le armi contro il nemico comune". Ma i risultati della politica filo-araba, perseguita nel corso di tutti gli anni Trenta, alla fine si dimostreranno decisamente scarsi. L'Inghilterra li sopravvaluterà ampiamente, cadendo preda di una psicosi da 'italiano sotto il letto'. Una psicosi che contribuirà, assieme alla conquista italiana dell'Etiopia, a far perdere a Mussolini quel poco credito conquistato a Londra fino ad allora. Con la Germania, invece, l'Italia non riuscirà mai a stabilire una strategia comune. A Hitler, disinteressato alle colonie e attento esclusivamente alla conquista dello spazio vitale a est, la carta araba interessava solo in funzione antibritannica. Ma in alcuni casi ciò contribuì a fare del Reich un rivale di Mussolini, in quanto il totale disinteresse coloniale nazista fu in molti casi percepito dal mondo arabo come assai meno ambiguo del tentativo mussoliniano di tenere assieme il 'posto al sole', l'impero coloniale, con la tutela del modo arabo e dell'Islam.

Il fascismo e l'Islam, di Enrico Galoppini, Edizioni all'insegna del Veltro, 2001, pp. 166.

Il Duce amico dell'islam (persino nel cognome). C'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto, scrive Giancarlo Mazzuca, Venerdì 05/08/2016, su "Il Giornale". Sotto i colpi dei micidiali attentati perpetrati dai terroristi dell'Isis, ora l'Europa intera, nonostante le parole del Papa, guarda all'Islam con sentimenti d'odio e di grandissima paura. Ma c'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi, pur tra luci ed ombre, di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto. Un grande «feeling» che venne propiziato dall'affettuosa amicizia che il futuro duce intrattenne, quando era ancora direttore dell'Avanti!, con la giornalista Leda Rafanelli di fede musulmana. E che, poi, culminò con il matrimonio di Tripoli del 20 marzo 1937, testimone di nozze Italo Balbo, quando un impettito Mussolini, in sella a un magnifico puledro, sguainò la famosa spada dell'Islam ricevuta in dono dai berberi. Quell'immagine è diventata il simbolo di un lungo corteggiamento nato nel 1919, prima ancora della Marcia su Roma, con la pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Quella conferenza più che un trattato si rivelò, infatti, un vero e proprio «diktat» non solo per la Germania sconfitta, ma anche per l'Italia che, pure, quella guerra l'aveva vinta. A ispirare lo spirito di rivalsa nei confronti dell'asse franco-inglese era stato Gabriele D'Annunzio, il Vate della «vittoria mutilata» e il protagonista dell'impresa di Fiume, che mise il Belpaese sullo stesso piano del mondo arabo da sempre in conflitto con le potenze coloniali. Pur con le dovute differenze, il nazionalismo che cominciava a serpeggiare in una parte dell'Europa era della stessa matrice di quello che già si respirava sulla «quarta sponda». Revanscisti gli uni, revanscisti gli altri, divenne quasi naturale cercare punti d'incontro. Se la conquista dell'Etiopia venne presentata - i due amici-nemici Mussolini e D'Annunzio in primis - come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani, il «bel suol d'amore», Tripoli, diventò il terreno fertile per rinsaldare quell'intesa cordiale che oggi sembra davvero una grandissima utopia. Nel 1939, infatti, il governatore Balbo, nonostante i dissapori con il duce, fece ottenere la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B. Ci furono, in quegli anni, tanti punti d'incontro: se già nel 1934 Radio Bari cominciò a trasmettere programmi in lingua araba perché la comunicazione era un pallino del duce, i rapporti commerciali con i Paesi dell'Islam divennero intensi tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano. Parallelamente, dalle parti della Mezzaluna, si diffusero movimenti giovanili che guardavano al fascismo con particolare interesse, dalle Falangi Libanesi al Partito Giovane Egitto, dalle Camicie Verdi a quelle Azzurre. Anche allora, comunque, non tutti si trovarono d'accordo sull'innamoramento per gli «infedeli»: a parte il malumore di qualche alto prelato, è il caso di Leo Longanesi, romagnolo come Mussolini e amico della prim'ora, che, all'indomani dell'«incoronazione» del duce con la spada dell'Islam, sentenziò: «Sbagliando s'impera». Eppure, piccola curiosità, il fatto che Benito fosse amico del mondo musulmano starebbe nel cognome stesso: secondo un'ipotesi, non del tutto infondata, Mussolini deriverebbe da muslimin, plurale di muslin che, in arabo, significa musulmano. Strani gli scherzi del destino...

Benito Mussolini, in un libro l'amicizia tra il Duce e l'islam, scrive il 23 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. E' un tema poco esplorato, quello del rapporto tra Fascismo e nazismo da una parte e musulmani dall'altra. Ma negli ultimissimi tempi, due libri hanno fatto luce su questi rapporti, evidenziando come fossero forti e strutturali, in una chiave soprattutto anti-ebraica. "Bambini in fuga" di Mirella Serri racconta soprattutto del forte legame non solo ideologico tra Adolf Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme. In "Mussolini e i musulmani", invece, Giancarlo Mazzucca e Gianmarco Walch si concentrano sul fascino che islam e mondo arabo ebbero sul Duce. Un interesse che, scrivono i due autori, ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. Nel primo caso si trattò di una affettuosa amicizia che Mussolini intrattenne con la giornalista Leda Rafanelli, detta l'odalisca, di fede musulmana, negli anni Dieci del Novecento. Nel secondo caso, negli anni Trenta, fu l'antisemitismo a spingere il capo del governo italiano e gli islamici dalla stessa parte della barricata. In quegli anni il Duce guardò con sempre maggiore attenzione ai paesi islamici, imponendo nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con quei Paesi, da cui, come scrive il quotidiano Il Messaggero, venne ricambiato con fervore: là nacquero infatti diversi movimenti come le Falangi Libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto e le Camicie Azzurre che seguivano il fascismo come esempio tramite il quale nazionalizzare le masse per via autoritaria. Il feeling proseguì negli anni di guerra con il progetto di costruire in Italia una legione araba fedele alle forze dell'Asse, con la benedizione del Gran Muftì di Gerusalemme, al quale Mussolini nel '36 diede la disponibilità a fornire uomini e materiale per mettere in atto l'avvelenamento dell'acquedotto di Tel Aviv, città nella quale avevano trovato rifugio gran parte degli Ebrei in fuga dalle leggi razziali in Europa. Il piano fu poi abbandonato, ma al Gran Muftì arrivarono dal governo italiano 138mila sterline, che allora erano una cifra davvero cospicua.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

 

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

"Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti. Il capitalismo è un'ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria. Il comunismo è la filosofia dei falliti, il credo degli ignoranti, il vangelo dell’invidia; la sua caratteristica intrinseca è la condivisione della povertà. (Lo diceva dei comunisti solo perchè a quel tempo non c'erano i grillini Ndr). Pensieri attribuiti dal web a Winston Churchill.

Quel bisogno primordiale del Capro espiatorio, scrive Daniele Zaccaria il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il giustizialismo è la traduzione politica di una pulsione profonda: tra sacrifici umani e letterari, le società espiano le proprie colpe individuando una vittima designata all'interno del gruppo, da Edipo a Dreyfus, da Gesù Cristo al signor Malaussène. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l'applauso ammorbante del "popolo", questo tutti contro uno (o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall'alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che delinea una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all'interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta, confraternita) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle corrispondenze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è la regola aurea del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell'intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l'Affaire Dreyfus, l'ebreo alsaziano ufficiale dell'esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, donne in burquini, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l'antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l'ordine all'interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all'equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l'ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L'aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l'involucro di un espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo della vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac direttore tecnico di un grande magazzino nonché "capro espiatorio di professione". Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l'incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un'epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo come è raccontato dal Nuovo Testamento: "l'agnello di Dio", letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché si ritiene colpevole di lesa maestà ma perché sa che c'è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. È uno schema ciclico, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi idoli e i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell'indignazione popolare e della calunnia collettiva. Diffamare qualcuno senza prove, additare un comportamento non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, vedere ovunque complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario incarnate dai "signori" disincarnati dell'economia, del farmaco, della guerra, della droga, della religione, dell'informazione, dell'immigrazione testimonia questo bisogno corale di costruire sempre nuovi capri espiatori. Che poi uno lo faccia al grido di "onestà, onestà" o a quello di "fuori gli immigrati" poco cambia.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

Siamo un Paese in ostaggio degli scioperati. Se vogliono ci fanno tornare al Medioevo. Mario Cervi il 13 luglio 1979 tuona contro le serrate selvagge che cancellano luce, acqua e trasporti, (pubblicato su “Il Giornale” il 28/08/2016) per dimostrare che mai nulla cambia. Gli italiani possono ancora nutrirsi, dissetarsi, viaggiare sia pure irregolarmente in treno e in aereo, ricevere sporadicamente la posta, telefonare, solo perché gli scioperanti di questa o quella categoria, nella loro autonoma valutazione, decidono di consentirglielo: non perché esiste uno Stato che sappia o voglia garantire ai cittadini i beni e gli strumenti essenziali alla vita di ogni giorno. Quando i dipendenti degli acquedotti lo deliberassero mancherebbe l'acqua, così come è mancata l'energia elettrica perché l'hanno deliberato i dipendenti dell'Enel. II precedente delle luci tolte alle piste di Fiumicino ha fatto scuola. Non abbiamo più addetti ai servizi pubblici. Abbiamo i proprietari dei servizi pubblici, che possono disporne come di «cosa loro». Una categoria malcontenta si sente autorizzata a sequestrare il Paese, per ottenere soddisfazione. Quando non le pare sufficiente la sua pressione diretta sulla controparte - nella quale sta l'essenza dello sciopero - dilaga, blocca strade, ponti, stazioni: preannunciando queste azioni, che sono reati, con appositi comunicati, e facendole seguire da dichiarazioni sindacali che si assumono la «responsabilità politica» del sopruso. Se ancora non basta si ricorre al contagio, ossia agli scioperi di solidarietà, i lavoratori della Malpensa hanno interrotto il traffico per un'ora e mezzo, in segno di simpatia per i compagni metalmeccanici. Non hanno voluto infierire. Potevano interromperlo, se gli pareva, per un giorno o per una settimana. Questa tecnica schiude possibilità infinite. Il buio degli elettrici non metterà subito in ginocchio l'Enel? Potranno intervenire allora i dipendenti delle poste e dei telefoni, per aggiungere al buio l'isolamento totale, e costringerci a comunicare con messaggi recapitati magari a piedi o in bicicletta se per avventura si associassero al grande ricatto i ferrovieri e i benzinai. Una volta stabilito che l'Italia, priva di una legge che regolamenti lo sciopero, ha un codice penale caduto in desuetudine perché polizia e magistratura rinunciano ad applicarlo, senza il previo consenso dei sindacati; una volta stabilito che il governo, di fronte a questi avvenimenti, non vede (forse per il black-out) non sente e non parla, cos'altro resta da fare se non affidarsi alla benevolenza degli scioperanti? Siano magnanimi. Lascino un po' di energia elettrica e qualche strada transitabile a questo popolo di ostaggi. 13 luglio 1979

Dopo la maturità i figli non trovano lavoro? Cari genitori, mandateli a fare i politici. L'ironia di Marchi sul "mestiere migliore del mondo": l'unico senza responsabilità, scrive Cesare Marchi l'8 agosto 1981 (Pubblicato su “Il Giornale” il 26/08/2016). L'estate è tempo di vacanze ma anche di importanti decisioni familiari. II ragazzo ha finito le scuole, superato la maturità. Che mestiere gli faremo fare? Se mi è permesso dare un consiglio, suggerirei ai genitori incerti: carriera politica. È il più bel mestiere del mondo. L'unico dove non esista la responsabilità personale; dove, se le cose vanno bene, ci si impadronisce del merito, se vanno male, si scarica la colpa sugli altri. Il politico bocciato alle elezioni non resta disoccupato, non entra in cassa di integrazione, tutt'al più in una delle tante Casse di risparmio, come presidente o vice. Non viene mai silurato, bensì «promosso ad altro incarico», perché la politica è la sola branca dell'attività umana esente dalle ferree leggi della logica. Per esempio, in Francia i comunisti hanno preso una sonora batosta alle elezioni, perciò sono entrati nel governo con ben quattro ministri. In Italia i repubblicani, alle amministrative, non hanno guadagnato punti, perciò hanno ottenuto la presidenza del Consiglio. Il politico è sottratto alle leggi del tempo. Durante un incendio, un vigile del fuoco aziona immediatamente le pompe, un chirurgo, se gli presentano una gamba cancerosa, la amputa prima che sia troppo tardi. Un politico, davanti all'Italia che va in malora, chiede una «pausa di riflessione». In questo mestiere non esistono problemi di mobilità. I politici sono mobilissimi, pronti a balzare da un ministero all'altro, da un ente a una banca, spinti soltanto dal desiderio di impratichirsi nei molteplici e delicati settori dell'amministrazione pubblica. Grazie alla brevità dei governi e alla acrobatica rotazione dei portafogli, nessun Paese vanta dei politici specializzati, come i nostri, in tutto. Passando dalla Marina alle Poste, dai Trasporti ai Beni culturali, dall'Agricoltura alla Sanità, essi, in pochi mesi, sanno tutto sugli incrociatori e sulle raccomandate, sui Tir e sui bronzi di Riace, sui pomodori e sulle endovenose. Certo, per dare stabilità all'esecutivo, bisognerebbe creare dei governi composti di duecento ministri e ottocento sottosegretari, così tutti i mille parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama entrerebbero nel gabinetto ed avremmo non un governo di legislatura, bensì di vita natural durante, perché nessuno dei mille voterebbe la sfiducia contro se stesso. Sento l'obiezione di un genitore: mio figlio non sa parlare, come può tenere comizi? A parte il fatto che i comizi non usano più, per parlare in pubblico basta il foglietto preparato dallo zelante segretario. La stragrande maggioranza, senza foglietto, non arrischia due parole in croce. Meglio così, sarebbe una crocifissione straziante. Ad ogni modo, per fronteggiare qualunque emergenza orale, l'aspirante politico tenga presente questo prontuario di «ministrese» ottimo, come lo specifico di Dulcamara per tutti gli usi. Se non sa che cosa dire, tiri fuori il modello partecipativo che presuppone l'accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, in una visione totalizzante, enucleando, nel quadro di una tematica differenziata, l'annullamento di ogni ghettizzazione stratificante. Oppure per risolvere i problemi prioritari, porti avanti un approccio programmatorio, in una impostazione organica delle strutture verticistiche che privilegi, non senza il consenso della base, un modello di sviluppo, a monte e a valle della situazione contingente, in un contesto, beninteso, di iniziative cogestite e, al limite, autogestite. Chiaro? Il politico gode anche l'impagabile beneficio dell'incoerenza. Vota l'istituzione delle Saub ma se ha bisogno di cure si fa ricoverare in clinica privata. Vota anche la liberalizzazione degli accessi universitari, ma appena si accorge di quanto sia declassata, anche per colpa sua, la scuola italiana, manda il figlio a studiare all'estero. Insomma egli può, legittimamente, predicar bene e razzolar male. Raramente rispetta le leggi approvate da lui. Un commerciante, se dice al fornitore, scadutogli un pagamento: non ho soldi, torna fra sei mesi, perde la faccia. Il governo può rinviare il pagamento degli arretrati già pattuiti con gli insegnanti e non perde la faccia. Forse perché non ne ha mai avuta una. Ultimo vantaggio. Per ottenere un diploma alla fine delle scuole medie superiori, 350mila studenti hanno sudato l'anima. I politici non sono sottoposti a nessun esame di maturità politica. E dove li troveremmo, del resto, adeguati esaminatori? L'aspirante geometra deve dimostrare alla commissione di saper disegnare il progetto di una casa, calcolare la resistenza di un pavimento. I politici, sanno calcolare la resistenza degli italiani? In sfiduciosa attesa di una risposta, mi piace immaginarli, per un attimo, seduti in aula, per la prova di italiano, si può scegliere fra alcuni temi. Uno di questi dice, pressappoco «esponete i maggiori avvenimenti politici e sociali che hanno caratterizzato il periodo fra le due guerre mondiali». Non so come lo svolgerebbero gli altri, ma quello di Giovanni Spadolini comincerebbe sicuramente così: «Tra le due guerre mondiali sono nato io». Cesare Marchi 8 agosto 1981

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Figli di...La pancia della politica, scrive Cristina Cucciniello il 22 ago 2016 su “L’Espresso”. Da molti anni, trovo ridicola la reverenza del contro sinistra italiano verso uno sparuto gruppo di famiglie ritenute portatrici sane del gene dell'ortodossia sinistroide. Cognomi, famiglie, alberi genealogici che - per un motivo o l'altro - vengono ritenuti i capisaldi dell'aristocrazia della sinistra italiana, perché alla loro origine ci sono personaggi che - mi ripeto - per un motivo o l'altro hanno contribuito alla storia stessa della sinistra italiana: partigiani, intellettuali, giornalisti, scrittori, membri delle Camere durante le prime legislature repubblicane. Perché trovo ridicola la reverenza, perfino il sussiego, con i quali - tutt'oggi - vengono trattati i discendenti, gli eredi di cotanti pedigree? Beh, perché la sinistra in Europa nasce come un anelito all'eguaglianza - sociale, civile. Nasce come il superamento dei privilegi delle elite, che in altri secoli hanno coinciso con i privilegi di nascita: noi sappiamo che la nostra società, quella occidentale, ha vissuto secoli in cui nascere nobile o nascere figlio di contadino, servo della gleba, comportava un bel po' di differenze nel successivo svolgimento della propria esistenza. Sappiamo che, in altre epoche, nascere nobile - e benestante - significava poter accedere all'istruzione, alla cultura, alla possibilità di viaggiare ed ai diritti politici. Ma la sinistra nasce proprio dal bisogno, dal desiderio, dalla speranza di consentire a chiunque l'accesso ai diritti fondamentali della persona. Nasce come un atto rivoluzionario: dal riconoscimento che siamo eguali e che non importa il cognome che portiamo, la famiglia dalla quale proveniamo, il censo della nostra cerchia familiare. E questo spiega la profonda ridicolaggine - oggi, nel 2016, nel XXI secolo - del riverire totem, del provare reverenza verso l'aristocrazia che ha preso il posto di quella di origine feudale, nel pantheon dei riferimenti culturali della sinistra italiana. Abbattuti i troni, spodestati re, principi e principesse, la sinistra italiana ha ancora bisogno dei suoi aristocratici, probabilmente perché orfana di figure carismatiche contemporanee. Non mi provoca stupore vedere i vari fronti del Partito Democratico rincorrersi nella gara a chi ha in squadra il "figlio di" più famoso, nella battaglia referendaria. Posso soltanto ridere dei renziani che si appuntano sul petto la medaglia dell'endorsement della figlia di Palmiro Togliatti e dei componenti della minoranza del partito che cercano una papessa straniera nei molti rami della discendenza Berlinguer. Posso riderne perché io - che, se scorro il mio albero genealogico, posso vantare di discendere da Costanza di Chiaromonte, che da regina di Napoli si ritrovò dapprima a dover lavorare, perché ripudiata, e poi sposa, come nella migliore delle favole, di un vero principe azzurro - dicevo, io oggi, grazie alle rivoluzioni dei secoli scorsi, posso vantare di essere eguale fra gli eguali, cittadina di una repubblica democratica, parlamentare. Posso vantare di non aver privilegi di nascita e di essere elettore di uno schieramento che - in barba alla logica, al raziocinio, alla sua stessa origine e natura - ancora osanna chi, per banale casualità, porta un cognome particolare.

Berlinguer papessa del Pd? Soltanto un fuoco d'estate, scrive Francesco Damato il 21 ago 2016 su “Il Dubbio”. Bianca, il giornalismo è il suo mestiere. Prima di andare in ferie Bianca Berlinguer ha avuto la conferma del vecchio adagio popolare col quale siamo sempre stati invitati a guardarci più dagli amici che dai nemici, dai quali ultimi già cerca di proteggerci il Signore. Già difesa troppo pelosamente da giornali e giornalisti di area di centrodestra che da una parte ne hanno lamentata la sostituzione al vertice del Tg3 e dall'altra Le hanno praticamente rinfacciato il cognome che porta, come per dire che a suo tempo arrivò alla Rai perché figlia di un certo papà, si è trovata per un po' di giorni candidata addirittura a segretaria del Pd: per sostituire al prossimo congresso, ordinario o anticipato che sarà, l'odiato Matteo Renzi. Al quale si è attribuita, a torto o a ragione, la responsabilità politica della sua sostituzione alla direzione del telegiornale della terza rete della Rai. Una ritorsione alla grande, diciamo così. L'idea di una simile candidatura, per quanto Bianca Berlinguer fosse stata già prenotata pubblicamente dall'azienda per altri programmi d'impegno e di visibilità sulla stessa rete televisiva, è stata lanciata per primo da Il Fatto Quotidiano con un articolo di Fabrizio d'Esposito. Che si è spinto a prospettare una disponibilità dell'ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, in verità mai esplicitata davvero, a non candidarsi più al congresso contro Renzi nel caso di una corsa dell'ex direttrice del Tg3. Poi sono arrivate interviste dell'ex presidente del Pd Gianni Cuperlo, a La Stampa e ad altri giornali, su una "Papessa straniera", con esplicito riferimento proprio a Bianca Berlinguer, capace di rivitalizzare il maggiore partito italiano. Dove la sinistra non sarebbe riuscita a trovare ancora la personalità giusta da contrapporre a Renzi. Contemporaneamente un incontenibile, come al solito, Carlo Freccero, consigliere d'amministrazione della Rai indicato dai grillini, in una intervista a Il Foglio ha teorizzato il diritto di "strumentalizzare" tutto nella lotta al segretario del Pd: anche la vicenda della "rimozione" della Berlinguer dalla direzione del Tg3, pur essendo - ha riconosciuto Freccero - l'avvicendamento previsto, e direi fisiologico dopo una direzione durata sette anni. Strumentalizzazione per strumentalizzazione - ha fatto capire Freccero - starebbe bene anche una candidatura, a questo punto, della Berlinguer alla guida del partito di cui probabilmente è elettrice, forse anche iscritta. L'interessata ha sapientemente resistito ad ogni tentazione di commentare le cose che si scrivevano e di dicevano di lei, limitandosi a ricordare a chi l'assillava di domande di avere sempre considerato il giornalismo "il suo mestiere". Il silenzio di Bianca Berlinguer ha probabilmente, e opportunamente, contribuito a spegnere il dibattito, spiaggiato sulle cronache ferragostane di tutt'altro segno e contenuto. Ne ha in qualche modo tratto le somme su la Repubblica Claudio Tito liquidando la discussione su Papi e Papesse "straniere" per il Pd come l'ennesimo diversivo di una sinistra interna al Pd in cerca d'autore e d'identità. Un modo come un altro - ha scritto forse non a torto Tito prendendosela, in particolare, con Gianni Cuperlo - per cercare di segare le gambe al povero Roberto Speranza. Che probabilmente è troppo amico di Pier Luigi Bersani per piacere alle altre componenti della minoranza antirenziana del partito. È stato insomma un fuoco d'estate. Estinto per fortuna da una giornalista che anche sotto questo aspetto non meritava e non merita di vedere strumentalizzati il proprio cognome e la propria vicenda professionale.

Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge lasinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.

Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.

Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela,  l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…

I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.

Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.

Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film. 

Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».

I centri sociali sono un cancro da estirpare con la forza, scrive il 19 agosto 2016 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Centri sociali. Centri a-sociali, una piaga di questo paese figlia della borghesia dello status quo, sono da iscrivere al novero dei nemici della nazione. Quindici anni fa era la torrida estate del 2001, quando il 20 luglio morì, per mano del carabiniere ausiliario Mario Placanica, Carlo Giuliani. Il fondale Piazza Alimonda, protagonista la berretta del militare dell’Arma che esplose due colpi. Due colpi misero fine alla generazione “ingenua” dell’antifascismo scriteriato e intriso d’odio perorato da cobas, pacifisti, antagonisti, black bloc e c.s. assortiti. La Superba sconvolta dalla furia distruttiva di chi ha poco sale in zucca e come unico fine politico quello di spaccare vetrine ed incendiare auto, quelle di normali lavoratori, di cittadini italiani lontani anni luce dalle dinamiche del G8. Anch’essi vittime delle scelte dei pochi potenti che ci opprimono attraverso il loro cappio. Qual è il vero scopo di queste persone? Nei loro comunicati, nelle loro parole, nei loro gesti di fondo notiamo un astio viscerale verso l’Italia. Sputano sulle nostre città, si isolano in contesti lontani dalla legalità per tendere la mano agli extracomunitari a cui già l’UE e le Boldrini varie pensano in maniera ossessiva. Il brodo culturale da cui sono partoriti è un ammasso di Mtv e cantanti sbiaditi, in cerca di autore, che rispondono al nome di Banda Bassotti, Punkreas, 99 posse e Assalti Frontali. Si potrebbe citarne altri, ma sono spariti dai radar insieme alle loro battaglie di retroguardia. In quel luglio l’intento era di mostrare i muscoli contro le Forze dell’ordine, gettarsi in una battaglia per distruggere Genova, l’Italia e se stessi. La morte celebrale di individui che sputano sul seno della madre che li ha allevati. Serpi contro Roma. In quel contesto, tra i manifestanti, erano presenti alcuni dei governanti d’oggi, Alexis Tsipras, leader di Syriza e primo ministro greco, e Pablo Iglesias, segretario del partito spagnolo Podemos. Quelli che per una vita si sono dipinti come vittime del sistema, oggi sono i boia a guardia della struttura, a guardia dell’Europa di Bruxelles quella che schiaccia il loro tanto “amato” proletariato. Da Genova migriamo a Parma, anno 2010. Una giovane, allora ventenne, mantovana venne attratta nei locali della Rete Antifascista Parmigiana, centro sociale della città ducale, e dopo essere stata drogata venne ripetutamente violentata da più persone. Per questo fatto quattro persone sono agli arresti domiciliari, oltre a questo orrendo misfatto, molti antifascisti locali hanno cercato tramite sms e messaggi su Facebook di tappare la bocca alla ragazza. Tappargli la bocca per non far rilevare agli inquirenti nuovi dettagli arrivando, addirittura, a cercare di far ritrattare completamente la sua versione dei fatti. Il pm Giuseppe Amara ha aperto un nuovo corridoio all’interno dell’inchiesta facendo comparire in aula altre quattro persone con le accuse di estorsione e favoreggiamento. Una modalità d’azione cara a mafiosi, con pratiche di ricatto bieche e vergognose. Uno dei loro ispiratori Peppino Impastato, fondatore di Radio Aut, morto colpito dalla mano di Cosa Nostra per le sue denunce al sistema mafioso italiano, costretto a rigirarsi nella tomba. Come dimenticare la vile aggressione perorata ai danni di un banchetto elettorale di CasaPound, durante le scorse elezioni comunali tenutesi a Roma, quando un gruppo di cinquanta antifascisti armati di caschi e bastoni aggredì sei militanti del movimento della tartaruga frecciata. Nel corso dell’aggressione restarono feriti un invalido ed una donna. Il ragazzo disabile subì la rottura dello zigomo e venne operato d’urgenza. Il senso di fare politica dei centri sociali è quello di aggredire chi non la pensa come loro, coperti da certe istituzioni che li coccolano e ne chiedono i voti durante le campagne elettorali. Impossibile non citare il caso del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, pappa e ciccia con i militanti di Controllo Popolare. Anche Roberto Saviano ha dovuto ammetterlo via mezzo stampa: “Nel suo comizio riferendosi alle scorse elezioni nel capoluogo campano ha addirittura utilizzato l’immaginario preunitario, ‘Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro’. A tutti è sembrata un’ingenuità. Invece de Magitris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica”. Per accompagnarvi facendovi immergere nell’ideologia della radicale di sinistra, quella distante mille miglia dai lavoratori, basta ascoltare le parole pronunciate in questi giorni dal deputato di Sel, Arcangelo Sannicandro, inerenti ai tagli degli stipendi dei politici. L’onorevole è arrivato ad affermare “non siamo mica metalmeccanici”. Questo è il quadro. Il loro specchio riflette l’immagine del capitalismo più sfrenato, dell’uomo come numero a difesa dei propri privilegi, capitanati da un individualismo completamente dissoluto. Del resto basta prendere Milano per capire. Un articolo, apparso lo scorso anno, su MilanoPost ci aiuta a farci un’idea su cosa siano realmente i centri sociali: “Frutta agli occupanti riferendosi al Leoncavallo un rispettabile introito, valutato circa 20.000 euro a week-end, rigorosamente in nero, tra pranzi, chupito, aperitivi, concerti, ristorazione e alloggio. Perché il giovane emarginato, il rappomane sfigato, il “ggiovane tatuatissimo”, il clandestino, lo studente fuori corso, il giramondo no global consumano. Niente Siae, niente biglietti, niente fatture: si entra con una “offerta libera”. Tutto è low cost, ma gli incassi sono da capogiro. Ne sanno qualcosa gli imprenditori della notte del Cantiere, la nave scuola del vandalismo e dell’antagonismo dei black bloc chic, che girano ormai in Mercedes e ostentano Rolex da Costa Smeralda”. In tutto questo quante attività commerciali distrutte, quanti beni di comuni cittadini dati alle fiamme, da Milano a Palermo, da Roma a Cremona, un via vai di inutilità atte solo alla rovina del patrimonio altrui. Ma alla fine questa gente paga i danni che combina? Quasi mai, le istituzioni soprassiedono, si voltano dall’altra parte chiudendo gli occhi. Chi rompe paga, mi hanno insegnato da bambino, eppure con queste persone non succede mai. Sono una sorta di ente sovranazionale che si muove con logiche astruse, il solo fine quello di punire quelli che i loro padri gli hanno indicato di difendere. Tra sfratti evitati ai clandestini, aggressioni, stile malavitoso nel modo di relazionarsi con il mondo, i centri sociali sono diventati teatranti nel gioco della parti. Non servono a nulla e ci ricordiamo di loro solo quando spaccato tutto, in preda all’isterismo. Per non parlare di quando affrontano incappucciati, come veri codardi, armati di caschi e bastoni le Forze dell’ordine. Quest’ultimi devono essere umiliati, presi a sputi e a botte da gli omuncoli dei centri sociali, nient’altro che figli viziati di papà senza attributi per affrontare una vita onesta e senza conoscere cosa sia il sacrificio. I veri eroi, in tutto questo, sono i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri a cui lo Stato non dice nemmeno grazie. Anzi vuole cucirgli sulla divisa un numero identificativo, così da poter essere riconosciuti durante le spietate aggressioni che subiscono e qualora ferissero uno di questi delinquenti, dovrebbero essere riconosciuti e magari puniti o addirittura risarcire il criminale di turno ferito nella colluttazione. Ma vi rendete conto come siamo caduti in basso? Questa gente deve pagare quando viene arrestata, pagare i danni che ha combinato e deve marcire in galera, imparando in maniera dura ed irreprensibile cosa vuole dire distruggere i beni altrui. Qualcosa che con sacrificio e rinunce la gente per bene ha acquistato e che questi criminali da strapazzo, lo fanno solo per hobby, distruggono senza motivo. Offendono e sputano contro questo Stato che ai livelli più bassi cerca disperatamente di combatterli con le poche forze e i mezzi che ha a disposizione, per inciso Forze dell’ordine e magistratura. Ma ai livelli più alti, in Parlamento, esprime la precisa volontà di non punirli. Dunque mi chiedo perché nessuno ha mai, fino ad ora, varato delle leggi ad hoc per fermare, con il pugno di ferro, questi veri e propri criminali da strapazzo? In troppi sono collusi con gli antifascisti che si credono intoccabili.  

Quei tossici che hanno in mano la nostra vita. Medici, piloti e manager al lavoro sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o alcol. Ecco i pericoli che nessuno racconta, scrive Cristina Bassi, Lunedì 22/08/2016, su "Il Giornale". Un'operazione a cuore aperto, i comandi di un volo di linea, il futuro di centinaia di lavoratori: affidarli a una persona drogata o ubriaca equivale a un suicidio collettivo. Eppure ci sono categorie professionali più a rischio di altre per l'abuso di alcol e l'uso di sostanze stupefacenti. Sono medici, piloti, manager. Ma anche infermieri, controllori di volo, gruisti, conducenti di camion, autobus e treni. Cos'hanno in comune? Fanno lavori molto stressanti e hanno in mano la vita di altre persone. Non se ne parla. Si tratta di argomenti tabù, anche all'interno delle stesse categorie. E non ci sono, almeno in Italia, statistiche ufficiali sul fenomeno. Il velo sta appena cominciando ad alzarsi da ospedali e sale operatorie, rivelando che le professioni mediche sono tra quelle più colpite. Studi internazionali, negli Stati Uniti ma anche in Paesi europei come Spagna, Germania e Inghilterra, parlano del 12 per cento circa di operatori sanitari che hanno problemi - abuso oppure vere e proprie dipendenze - con alcol, droghe, farmaci, gioco d'azzardo. Nel nostro Paese una ricerca di Dianova International (del 2012) stima un dottore su dieci. Numeri, comunque, preoccupanti. Nasce da qui il Progetto Helper di Torino, un centro per la disintossicazione e la cura di medici affetti da dipendenze. L'idea è partita da don Paolo Fini, che da anni si occupa di recupero dei tossicodipendenti nel Centro torinese di solidarietà, e dal professor Augusto Consoli, capo del Dipartimento dipendenze della Asl Torino 2, in collaborazione con l'Ordine provinciale dei medici. Ma perché serve una clinica «speciale» per dottori? «Medici e infermieri - spiega la dottoressa Tiziana Borsatti, consigliera dell'Ordine e referente del progetto - sono pazienti difficili da gestire. Prima di tutto perché sono convinti di potersi autocurare. Poi perché hanno bisogno di un luogo dove isolarsi e dove ci sia privacy assoluta e l'anonimato sia garantito. Non possono permettersi che si sappia del loro problema o che qualcuno li riconosca al Sert. Diventerebbe uno stigma». La dottoressa, anestesista rianimatrice, ha incontrato colleghi che abusavano di sostanze. «Mi chiedevano aiuto - dice -, ma soprattutto di mantenere il segreto. È un fenomeno negato per anni. Helper oggi è un servizio indispensabile». I più colpiti sono chirurghi, anestesisti, psichiatri, medici di pronto soccorso, ginecologi. Con i cali di organico hanno turni sempre più duri. Non possono sbagliare nulla, sono sotto pressione continua, a contatto quotidiano con la sofferenza e la morte ma anche con le sostanze «proibite». Un dottore si prepara da solo la dose e crede di poterne gestire gli effetti. I veleni più utilizzati sono alcol, cocaina e psicofarmaci. Le conseguenze sono errori e conflittualità nelle équipe. I medici devono poi fare i conti con il rischio burn-out, la sindrome da «esaurimento emotivo» che colpisce chi lavora con il pubblico. Tra i dottori (il dato è nordamericano) c'è un tasso di suicidi doppio rispetto al resto della popolazione. Tra le donne medico, che spesso sopportano anche il peso della famiglia, il tasso è addirittura quadruplo se confrontato con la popolazione femminile. Aggiunge Borsatti: «Per il nostro centro, la cui apertura è prevista per il 2017, c'è già una lista d'attesa di persone interessate. Mi hanno contattato medici da altre regioni, sono gli stessi che oggi sarebbero costretti a farsi assistere all'estero». La struttura fornirà all'inizio un servizio ambulatoriale, poi anche di ricovero. Sono pronti la sede (l'indirizzo è segreto) e lo staff formato da medico internista, psichiatra, psicologo, infermieri. Mancano i fondi per partire. «La Regione Piemonte - conclude la consigliera dell'Ordine - è l'unica realtà a livello nazionale ad aver approvato un progetto come questo. Ed è pronta a creare le condizioni e le sinergie con le altre istituzioni per accompagnarlo e sostenerlo». Gabriele Gallone, medico del lavoro, ha l'incarico di svolgere i controlli tra i colleghi. «I professionisti della sanità - ammette - sono più esposti al bere problematico e all'assunzione di droghe. Il lavoro che fanno è uno dei fattori scatenanti dell'abuso di sostanze. Per questo occorre uno sforzo maggiore per aiutarli». La normativa che regola le verifiche sui dottori è diversa per ogni regione. «In alcune - continua Gallone -, come Veneto, Toscana, Lombardia, Piemonte i controlli sono frequenti. In Piemonte facciamo test anti alcol a campione direttamente nei reparti, a sorpresa. Ci presentiamo con l'etilometro e il tasso alcolemico deve risultare pari a zero. È quasi sempre così: gli accertamenti hanno un effetto deterrente. Alcuni medici segnalati subiscono anche esami del capello e del sangue». Se qualcuno risulta positivo, viene preso in cura dal Sert e ha diritto a sei mesi di astensione retribuita dal lavoro per curarsi. «Per le droghe - sottolinea l'esperto - è molto diverso. Non sono previsti controlli di questo tipo». Le legge elenca le categorie per cui i test anti droga sono obbligatori. Ci sono tra gli altri piloti, addetti a fabbriche di esplosivi, manovratori di muletti, conducenti di mezzi pubblici. «Non ci sono i sanitari - conclude il medico -. Si tratta di una lacuna da sanare. Anche se a mio avviso negli ospedali gli stupefacenti sono meno diffusi dell'alcol. In 12 anni di servizio non ho incontrato alcun caso di uso conclamato». Per i piloti, in Italia i test anti alcol e anti droga sono severi. Semmai c'è disparità tra le nostre regole e quelle degli altri Stati, pure europei. Anche se dopo il disastro Germanwings del marzo 2015 l'Agenzia europea per la sicurezza aerea lavora a un giro di vite. «La responsabilità dei controlli è della compagnia, che li affida a un medico competente spiega Antonello Furia, responsabile Funzione medica aeronautica dell'Enac. Vengono prelevati campioni di urine e rilevato il tasso alcolemico, con un preavviso molto breve, entro le 24 ore». Al pilota positivo l'Enac blocca l'idoneità al volo in attesa di accertamenti. Questo però avviene solo per le compagnie italiane, ogni Paese ha le proprie regole. Ma un pilota impiegato dove i test non si fanno può mettere a rischio passeggeri, scali e cieli italiani. «L'Agenzia europea continua Furia pensa di introdurre verifiche obbligatorie alla prima visita di idoneità e dopo ogni incidente grave o minore». Il lavoro di pilota comporta enormi carichi di stress e fatica. «Tuttavia sottolinea Ivan Viglietti, responsabile di categoria della Uil da noi la normativa è molto più severa che altrove, gli accertamenti sono rigidi e funzionano. Piuttosto mi preoccuperei della quantità e della qualità del riposo che oggi viene lasciato ai piloti». Non ci sono statistiche sui manager che fanno uso di droghe. Solo ricerche sulle sostanze più usate contro lo stress da chi guida un'azienda. In testa cocaina, alcol, antidepressivi, benzodiazepine come Tavor e Valium per la loro proprietà calmante, anfetamine e Ritalin, che aumentano le capacità cognitive. Tutte a elevato rischio di dipendenza e condannate dalle associazioni di categoria: «In particolare dichiara Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale dell'Associazione per la direzione del personale chi si occupa di risorse umane è un punto di riferimento per gli altri manager. Da qui la condanna di tutte le dipendenze per chi deve gestire persone e tutelare il loro benessere sul posto di lavoro».

Poi, per questi addirittura, non è previsto il testo psico-attitudinale. (Adnkronos 1 dic. 1997) - ''Buon senso ed equilibrio sono per un magistrato qualità più importanti della preparazione giuridica, perchè quando alla preparazione si unisce la mancanza di equilibrio i guasti possono essere devastanti''. Così il giudice di Cassazione Ferdinando Imposimato a Torino per presentare il volume del presidente del deputati del Ccd Carlo Giovanardi ''Storie di straordinaria ingiustizia'', interviene sulla proposta di sottoporre i giudici a visita medica obbligatoria. ''Credo - ha aggiunto il giudice di Cassazione - che sia giusto, senza nessuna offesa per i magistrati, prevedere che l'ingresso in magistratura di una persona sia preceduto da un esame psico-attitudinale che del resto si fa per chi vuole entrare in Polizia, nei Carabinieri e nella Finanza. Poi -ha concluso Imposimato - c'è il problema della verifica ricorrente, poichè bisogna verificare le capacità di intendere e di volere di una persona che deve essere dotata di equilibrio prima ancora che di preparazione giuridica''. Di diversa opinione il procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena che, a margine di un convegno organizzato dalla Sinistra giovanile torinese per discutere sulla bozza Boato, ha osservato: “il magistrato è un uomo, non un superuomo e io non sono dell'opinione che bisogna criminalizzare una categoria. Debbo dire che nell'ambito del pubblico impiego, dall'insegnamento alla sanità, è opportuno avere la sicurezza dell'equilibrio delle persone. Credo però che non si possa fare, all'interno del pubblico impiego, una differenziazione tra una categoria e l'altra anche se ci devono essere dei meccanismi che siano in grado di rimediare situazioni che si dovessero creare come per esempio maggiori tipi di controllo”.

Cossiga: «Test psichico per i magistrati». È polemica. Protesta Oscar Luigi Scalfaro: «Viviamo in un'epoca di continui attacchi ai giudici», scrive “Il Tempo” il 07/12/2003.  E si scontra con un altro presidente della Repubblica, il suo successore Oscar Luigi Scalfaro. Materia del contendere: i magistrati. Cossiga propone di sottoporre i candidati al concorso in magistratura ad un preventivo «esame psichiatrico e psico-attitudinale». Il senatore a vota ha anche presentato un disegno di legge in base al quale anche i magistrati già in servizio potrebbero essere sottoposti allo stesso tipo di esame medico. «L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero - scrive il Cossiga nella relazione al ddl - incide così profondamente e talvolta irreversibilmente sui diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera». Dunque, chi venga dichiarato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente non sarebbe ammesso al concorso. Inoltre, in qualunque momento il Csm, «di sua iniziativa o su richiesta del Ministro della Giustizia, del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione o di un Procuratore Generale della Repubblica presso una Corte d'Appello, può sottoporre qualunque magistrato all'esame psichiatrico e psico-attitudinale». Sarebbero nominato dal Csm i componenti di questa commissione medico-psicologica, il cui giudizio «deve esser valutato, e respinto o approvato, dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura». Chi venga giudicato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente è dichiarato decaduto e collocato in pensione o sospeso dall'esercizio delle funzioni e collocato in aspettativa, al termine della quale è di nuovo sottoposto a visita medico-psicologica». Un paio d'ore dopo aver presentato la proposta ha riferito di aver ricevuto una telefonata anonima da parte di un sedicente magistrato «dopo la trasmissione della relazione del testo del disegno di legge sul modo di risolvere i problemi della capacità mentale e dell'attitudine psichica di coloro che aspirano a diventare magistrati o di coloro che già fanno parte dell'ordine giudiziario». Arriva poi la la protesta di Scalfaro: «È un'epoca di attacchi continui a giudici e magistrati», afferma l'ex Capo dello stato anche lui magistrato. «È un'epoca di sortite con valutazioni antropologiche dissennate. E poi c'è un'ansia, servendosi della forza di una maggioranza che conosce sono l'ubbidienza cieca, una volontà ferrea di sottrarsi ad ogni costo al giudizio del magistrato, a cui un cittadino comune non può invece sottrarsi», dichiara ancora Scalfaro che, pur senza far riferimenti precisi, ha fatto chiare allusioni alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti. L'ex presidente della Repubblica ha parlato anche di «una maggioranza in certi momenti decisamente servile, che vota con entusiasmo una legge che serve a uno solo, non ad altri...». Scalfaro ha partecipato ad un convegno in ricordo dell'ex capo del pool di Palermo Antonino Caponnetto, morto un anno fa. Alla manifestazione c'erano anche altri magistrati tra i quali Gian Carlo Caselli, Piero Luigi Vigna, Gherardo Colombo, Piero Grasso.

Si drogava in tribunale. Per il magistrato solo una sospensione, scrive Qelsi Quotidiano il 12 novembre 2015. In qualsiasi altro luogo di lavoro, lo avrebbero licenziato. Lui, però, nonostante si drogasse in servizio, e all’interno di un Tribunale, ha avuto come pena un anno di collocamento fuori ruolo dalla magistratura. L’incredibile vicenda è stata raccontata dal sito Calabria Web Oggi: Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come “chance” di recupero, considerato che il giovane magistrato, F.S., è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All’epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all’esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, il magistrato era accusato di “aver violato l’obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio”, poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia “riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale” al punto che, si legge nel capo d’incolpazione, “continuava a dimenarsi e a farneticare”, facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il “regolare svolgimento del servizio”. Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l’accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la “rilevante recidività” e l’esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria”.

Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza. Scrive Manuela D’Alessandro su “Giustiziami” l'11 maggio 2015. Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto. Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze, ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte.

La carriera serena dei pm, paghe alte e scatti automatici, scrive “Il Dubbio” il 17 ago 2016. Gli scatti di anzianità sono automatici per tutti, a parità di anni di servizio non c'è differenza tra un procuratore capo e un suo sostituto. Un primario non va oltre i 4.200 euro netti. «Non faccio beneficenza, sono un giudice, ho diritto a quei soldi. Chi critica il mio stipendio conduce una battaglia contro tutta la magistratura e dovrà vedersela con l'Anm!». Queste dichiarazioni di fuoco, rilasciate da Carla Romana Raineri, neo capo di gabinetto del sindaco di Roma, a proposito del suo compenso da 193mila euro l'anno, suscitano fra i comuni mortali la curiosità di conoscere quanto guadagnano effettivamente i magistrati italiani. Diciamo subito che lo stipendio di un giovane magistrato vincitore di concorso, quello che un tempo si chiamava uditore e adesso invece magistrato ordinario in tirocinio, è di circa 2.400 euro netti al mese. Per tredici mensilità. Gli aumenti sono ogni quattro anni, coincidenti con la valutazione di professionalità. Cioè il momento valutativo sull'operato del magistrato compiuto dal Csm. Dopo i primi quattro anni si raggiungono circa 3.600 euro. All'ultima valutazione di professionalità, la settima, quindi dopo 28 anni dalla nomina, si arriva a 6.900 euro netti. Il massimo si raggiunge dopo i 35 anni, con 7.500 euro. Discorso a parte per il primo presidente della Cassazione che ha un emolumento a sé. Cifre importanti, che dovrebbero garantire l'indipendenza del giudice dai condizionamenti esterni. Insomma, non farsi corrompere. Fra i dirigenti pubblici i magistrati sono, dunque, quelli con la busta paga più alta. Più dei prefetti o dei professori universitari, tanto per fare qualche esempio. Il problema, però, non è tanto l'importo in sé dell'emolumento delle toghe, che per i motivi sopra esposti è anche giustificato, ma il criterio con cui questo stipendio viene erogato. Come si è visto, il passaggio da una classe economica a un'altra avviene in maniera automatica. In forza del solo trascorrere del tempo. Le valutazioni di professionalità, infatti, sono positive per il 99,6 per cento delle toghe. Praticamente tutte. Lo stipendio del magistrato rappresenta dunque un importo fisso e invariabile. Non essendo legato in alcun modo alla quantità e qualità delle funzioni svolte o al tempo impiegato a svolgerle. Non contempla neppure lo straordinario, non avendo il magistrato vincoli di orario. Considerando, poi, che i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni, lo stipendio di un giudice del dibattimento è identico a quello del pm, sempre a parità di anzianità e valutazione di professionalità. Ma c'è di più. Lo stipendio, per citare un magistrato conosciuto, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è uguale a quello di un suo sostituto con la sua stessa anzianità di servizio e la medesima valutazione di professionalità. Quindi il dirigente dell'ufficio non ha, come gli altri dirigenti della pubblica amministrazione, un riconoscimento per la particolare funzione svolta. E non ha neppure delle indennità legate al raggiungimento di determinati risultati, ad esempio se ha diminuito l'arretrato o ha pianificato una best practice che permetta un miglior funzionamento dell'ufficio. Trattandosi di un argomento assai delicato, ovviamente, nessuno ha pensato di mettere all'ordine del giorno una riforma di questo meccanismo retributivo. Che andava però bene il secolo scorso. Nell'attuale società, in cui con la riforma Madia del pubblico impiego è previsto anche il licenziamento per i dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, una riflessione sul punto sarebbe opportuna. Anche per valorizzare concretamente chi merita. Può essere comunque utile un raffronto con i medici ospedalieri e la loro retribuzione. Che, per un camice bianco appena assunto, è di circa 2.200, di poco inferiore dunque a quella di un giudice fresco vincitore di concorso. Ma ai 3.600 euro spettanti a un magistrato già dopo i primi 4 anni, un medico Asl ci arriva a stento a metà carriera. E un primario non supererà mai i 4.200 euro netti al mese, neppure col massimo dell'anzianità. Si ferma dunque poco oltre la metà di una toga arrivata al top della retribuzione. Entrambi dipendenti pubblici, entrambi con enormi responsabilità, entrambi con una professionalità molto alta (forse quella di alcuni medici è la più alta professionalità tra tutte le possibili professionalità), ma con regimi stipendiali che sembrano appartenere a due Stati diversi. Forse dipende anche dal fatto che è diverso, molto diverso, il potere che possiedono.

"Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali". Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli, scrive Marco Patarnello il 5 agosto 2016 su “La Repubblica”. In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti. "Caro direttore, l'opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell'importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un'attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent'anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un'analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un'impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l'economia di un territorio o anche dell'intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un'impresa, anche se si trattasse di denaro dell'Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso".

Crac bancari, giustizia non è fatta: quelle indagini fra sospetti e conflitti di interesse. I processi ai banchieri hanno tempi lunghi. E rischiano la prescrizione. Ma il problema non sono solo i tempi. Ci sono episodi più gravi. Negli atti spuntano infatti rapporti con magistrati che gettano ombre sulle attività giudiziarie. Assunzioni, favori, regali. Da Vicenza e Treviso, per arrivare a Palermo. Ecco i nomi, scrive Vittorio Malaguti il 17 agosto 2016 su "L'Espresso". Il processo? Non si può fare. Ad Ancona, i pm della Procura cittadina vagano da tre anni nel labirinto del crac di Banca Marche, un disastro da un miliardo di euro che ha travolto i risparmi di 50 mila famiglie. La lista degli indagati è lunga, 36 nomi, ma le accuse più pesanti riguardano l’ex direttore generale Massimo Bianconi, al vertice dell’istituto dal 2004 al 2012. È lui, secondo la ricostruzione dei commissari inviati da Bankitalia, l’uomo che ha dato le carte al tavolo di un poker affollato di bari e truffatori. Ebbene, poche settimane fa, per la prima volta dall’inizio delle indagini, un magistrato è stato chiamato a decidere se mandare alla sbarra Bianconi. Niente da fare. Il 9 giugno, l’udienza sul rinvio a giudizio del manager si è conclusa con un nulla di fatto. Motivo: nel fascicolo del procedimento depositato dalla Procura mancavano alcuni documenti. Il caso di Ancona non è un’eccezione. Nell’anno nero del risparmio, le polemiche sulla giustizia lenta si sommano a quelle sui controllori distratti, Bankitalia e Consob, capaci di intervenire solo per raccogliere i cocci. Nelle Marche come in Veneto, da Vicenza a Treviso, e poi ad Arezzo e a Genova, le indagini sui banchieri rischiano di affondare nelle sabbie mobili dei sospetti e dei veleni. I magistrati sono chiamati a esplorare una zona grigia di favori e complicità. Le inchieste delle procure tentano di smontare sistemi di potere consolidati nel tempo. Sistemi di cui spesso, come risulta dalle carte, gli stessi magistrati erano parte integrante. Ad Ancona il rinvio deciso a giugno riguarda un filone di indagine marginale. Una storia di presunte mazzette che l’ex direttore generale avrebbe incassato per dare via libera ai finanziamenti richiesti da due imprenditori, Vittorio Casale e Davide Degennaro, anche loro indagati. Il danno stimato si aggira sui 15 milioni: poca cosa nel calderone di Banca Marche, affondata in un mare di affari sballati. Se ne riparla a ottobre. Solo che, nel frattempo, i reati contestati a Bianconi rischiano di andare in prescrizione prima di approdare in tribunale. Intanto, il popolo degli sbancati, migliaia di famiglie che hanno perso i loro soldi nel tritacarne gestito da Bianconi, assiste rassegnato alla corsa a ostacoli della giustizia. Sono passati più di tre anni da quando, nella primavera del 2013, la Procura di Ancona aprì un fascicolo sulla disastrosa gestione dell’istituto marchigiano. A ben guardare, però, si scopre che già nel 2010 e nel 2011 gli ispettori della Vigilanza avevano segnalato ai magistrati irregolarità e omissioni nella gestione dell’istituto marchigiano. Nulla si mosse, all’epoca. Fino a quando, dopo il ribaltone al vertice e l’uscita di scena di Bianconi (con tanto di buonuscita milionaria e lettera di encomio), i pm scesero finalmente in campo. Ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, l’inchiesta della procura si è frantumata in cinque filoni. Quello principale per bancarotta, aperto dopo la formale dichiarazione d’insolvenza dell’istituto nel febbraio scorso, è alle prime battute. E gli altri riguardano aspetti secondari nella complicata vicenda di un crac da 1,1 miliardi di euro. A ottobre potrebbe arrivare il primo verdetto, ma solo perché Giuseppe Fornasari, ex presidente dell’istituto aretino, insieme a Luca Bronchi, già direttore generale, e all’ex dirigente Davide Canestri, saranno processati con il rito abbreviato per ostacolo alla Vigilanza su uno specifico affare immobiliare. Ben altri saranno i tempi dell’indagine che punta ad accertare le responsabilità del fallimento della banca. Un’indagine che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Proprio gli incroci pericolosi con il governo hanno finito per creare nuovi intralci in un’inchiesta già di per sé complicata. Nei mesi scorsi, Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo e titolare delle indagini sul dissesto della banca cittadina, è stato costretto a difendersi davanti al Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) per gli incarichi di consulenza ricevuti dalla presidenza del Consiglio ai tempi di Enrico Letta e mantenuti anche quando a Palazzo Chigi è approdato Matteo Renzi. Il verdetto è di fine luglio. «Tutto regolare: non c’è incompatibilità». Il pm potrà continuare a indagare sul padre di un ministro del governo di cui è stato consulente. Intanto, sono trascorsi più di tre anni da quando, nel 2013, gli ispettori di Bankitalia avevano formulato i primi pesanti rilievi sulla gestione dell’istituto. Nel novembre scorso, con l’azzeramento di Banca Etruria deciso dal governo, migliaia di azionisti e obbligazionisti hanno perso per intero il loro investimento. Le proteste e le manifestazioni di quei giorni sono un ricordo. Quel che resta sono centinaia di esposti dei risparmiatori che attendono giustizia. A Treviso e dintorni invece, decine di cittadini sono tornati in piazza il 2 agosto per brindare all’arresto di Vincenzo Consoli, un tempo riverito gran capo di Veneto Banca. Sui social network è partito il tormentone: «Perché Consoli sì e Zonin no?». Una storia parallela, quella dei due banchieri, ex potenti finiti nella polvere. Anche Gianni Zonin, già presidente della Popolare di Vicenza, è sotto inchiesta per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, gli stessi reati che al suo ex collega di Veneto Banca sono costati un’ordinanza di custodia cautelare. Nella città del Palladio, il capo della locale Procura si è fatto scudo di un’ovvietà: «Ogni inchiesta fa storia a sé», ha scandito il magistrato Antonio Cappelleri. Difficile affermare il contrario, in effetti. Intanto però i pm di Vicenza si sono tenuti ben stretto il fascicolo che riguarda la Popolare. Treviso invece, competente per territorio su Veneto Banca, ha ceduto il passo a Roma, con la motivazione che il reato di ostacolo alla Vigilanza della Banca d’Italia si è consumato nella capitale. Una rinuncia, quella di Treviso, disseminata di imbarazzi. Soprattutto da quando, nei mesi scorsi, sono emersi i rapporti tra Consoli e il colonnello Giuseppe De Maio, comandante della Guardia di Finanza trevigiana fotografato in Brasile, all’epoca dei mondiali 2014, mentre brinda con il banchiere. Al vaglio del Csm è finita anche la posizione di Michele Dalla Costa, il magistrato che dal 2013 guida la procura di Treviso. Sua moglie si chiama Ippolita Ghedini e lavora nello studio di famiglia insieme al fratello Niccolò, parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi in tanti processi. Gli accertamenti su Dalla Costa riguardano incarichi professionali che la signora Ghedini avrebbe ottenuto dal gruppo Veneto Banca. Del resto anche Giuseppe Schiavon, fino al 2012 presidente del tribunale di Treviso, era in rapporti più che cordiali con Consoli. Amicizia a parte, nelle settimane scorse Schiavon si è trovato nella spiacevole situazione di dover giustificare i regali ricevuti nel 2009 e nel 2010 dall’istituto con base a Montebelluna. Regali da migliaia di euro: una mountain bike, un orologio in oro bianco. «Non ho mai chiesto o ricevuto alcun compenso da Veneto Banca», ha tagliato corso il magistrato quando gli è stato chiesto di questi omaggi. Polemiche, veleni, sospetti: questo è il clima che circonda l’inchiesta su Consoli. Non è una sorpresa, allora, che la procura di Treviso abbia deciso di farsi da parte. A Vicenza, invece, Zonin continua a giocare in casa. In passato, i procedimenti a suo carico si sono invariabilmente chiusi con un nulla di fatto, mentre il banchiere vignaiolo, forte di una rete impressionante di relazioni nel mondo della politica, dell’alta burocrazia, della finanza e dei giornali, si è costruito la fama dell’intoccabile. Solo ora che il suo regno è finito, qualcosa si muove. Il Csm ha aperto un’indagine per chiarire le motivazioni che hanno portato all’archiviazione di due inchieste giudiziarie, che risalgono al 2001 e al 2008, a carico dell’allora presidente della Popolare. Sono già stati chiamati a deporre il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, e il procuratore capo Cappelleri. Dei pm che all’epoca si occuparono di quei casi, solo uno, Stefano Furlani, è ancora al lavoro nella città berica e adesso rischia il trasferimento. Tutti gli altri hanno cambiato sede o sono andati in pensione. E qualcuno, chiusa la carriera in magistratura, ha trovato una sistemazione a libro paga della banca vicentina. “L’Espresso”, nel febbraio 2015, ha rivelato il caso dell’ex pm Antonio Fojadelli, che nel 2014 è entrato nel consiglio di amministrazione di Nordest sgr, una società di gestione del risparmio controllata dalla Popolare di Vicenza. Nel 2002 l’allora procuratore Fojadelli chiese, e alla fine ottenne, l’archiviazione di un’inchiesta su Zonin. A distanza di anni il magistrato, da tempo in pensione, si è accomodato su una poltrona offerta dal banchiere su cui aveva indagato. Caso vuole che lo stesso Fojadelli, una volta lasciato l’incarico a Vicenza, sia approdato nel 2003 a Treviso, dove all’epoca regnava Vincenzo Consoli, patron di Veneto Banca. Dopo otto anni nella nuova sede, arriva la pensione e, nel 2014, Fojadelli accetta l’offerta della Popolare di Vicenza. Si ignora quali siano le sue competenze in materia di risparmio. Sta di fatto che anche adesso che la stella di Zonin è tramontata, l’ex pm risulta ancora amministratore di Nordest sgr. Stesso discorso per un altro magistrato come Manuela Romei Pasetti, che nel 2012 è entrata nel consiglio di Banca Nuova, controllata palermitana della Popolare Vicenza. Pochi mesi prima della nomina, Romei Pasetti aveva lasciato la toga come presidente della corte d’Appello di Venezia, competente anche su Vicenza. In quegli anni l’istituto palermitano, all’epoca guidato dal direttore generale Francesco Maiolini, aveva arruolato una schiera di dipendenti dai cognomi eccellenti: parenti di politici e di alti burocrati locali. Una lista in cui non mancavano figli e consorti di magistrati. Tra questi anche il figlio di Francesco Messineo, fino al luglio 2014 capo della procura di Palermo. E poi Germana Cupido, moglie di Ignazio De Francisci, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, e Margherita Milone, nuora di Leonardo Guarnotta, che nel 2015 ha lasciato l’incarico di presidente del tribunale palermitano. Nessun reato, salvo prova contraria, ma talvolta gli intrecci tra finanza e giustizia alimentano i peggiori sospetti. È successo a Genova, dove nel 2014 è stato arrestato Giovanni Berneschi, fino all’anno prima dominus assoluto di Carige, un’altra banca di provincia finita nei guai. Nelle carte dell’inchiesta sono emersi i rapporti tra Berneschi e alcuni magistrati, come l’ex procuratore capo Francesco Lalla e il giudice Roberto Fucigna. Entrambi, risulta dagli atti, avevano bussato alla porta del banchiere per ottenere favori di vario tipo. Proprio in quegli anni diverse indagini sul sistema Carige erano state archiviate. Una proprio da Fucigna. Solo nel 2013 comincia l’inchiesta che porterà alla caduta di Berneschi. A capo della procura però non c’era più Lalla, ma Michele Di Lecce, un magistrato venuto da fuori.

Popolare di Vicenza, Gianni Zonin arruola il pm che aveva indagato su di lui. Il magistrato in pensione Antonio Fojadelli è ora consigliere di una controllata dell'istituto, la Nordest sgr. E non è l'unica ex toga nel gruppo, scrive Vittorio Malaguti il 23 febbraio 2015 su "L'Espresso". All'epoca, correva l'anno 2002, la vicenda fece grande scalpore a Vicenza. L'uomo più potente della città, il banchiere Gianni Zonin, sotto inchiesta per falso in bilancio e conflitto d'interessi. E un giudice, il gip Cecilia Carreri, che ordina l'imputazione coatta dell'indagato eccellente sconfessando apertamente l'operato del pm Antonio Fojadelli, che invece aveva chiesto l'archiviazione. La vicenda giudiziaria, assai intricata, è arrivata al capolinea solo nel 2005 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del presidente della Popolare di Vicenza. A distanza di un decennio, però, le strade di Zonin e del pm che indagò su di lui sono tornate a incrociarsi. Alcuni mesi fa, infatti, Fojadelli, classe 1939, è stato nominato amministratore di Nordest sgr, una società che gestisce alcuni fondi d'investimento controllata al 100 per cento dalla Popolare di Vicenza. Nel frattempo il magistrato è andato in pensione, chiudendo la carriera a fine 2011 con i gradi di procuratore capo a Treviso. L'anno successivo l'ex sostituto procuratore vicentino aveva tentato lo sbarco in politica candidandosi senza successo a sindaco di Conegliano Veneto in una lista di centro sinistra appoggiata dal Pd. Nel 2014 è arrivata la chiamata della banca presieduta da Zonin. Fojadelli, peraltro, non è l'unica toga arruolata dal gruppo creditizio veneto. Nel consiglio di Banca Nuova, l'istituto con base a Palermo controllato dalla Popolare di Vicenza, siede da più di due anni Manuela Romei Pasetti. Ovvero l'ex giudice, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, coinvolta nell'inchiesta sulla gestione di Finmeccanica dell'ex amministratore delegato Giuseppe Orsi. Secondo l'accusa, Romei Pasetti, che era presidente dell'organo di vigilanza del gruppo pubblico, avrebbe fatto pressioni sul Csm per ostacolare le indagini del pm milanese Eugenio Fusco, distaccato a Busto Arsizio per condurre l'indagine su Finmeccanica. Da qui il coinvolgimento nell'inchiesta. Il nome di Romei Pasetti (questa volta non indagata) è tornato alla ribalta delle cronache l'anno scorso con l'inchiesta veneziana sul Mose, per le sue telefonate (intercettate dagli investigatori) con l'ex numero due della Guardia di Finanza, il generale Emilio Spaziante, che ha già patteggiato una pena di quattro anni.

GLI ITALIANI DI OGGI. TRA LADROCINIO E MALEDUCAZIONE. Galateo? Le buone maniere non sono più di moda. Oggi sei un cafone se non dici parolacce. Il galateo alla rovescia di Cesare Marchi irride i costumi scostumati del tempo, Scrive Cesare Marchi il 2 luglio 1980 (Pubblicato da "Il Giornale" il 10/08/2016). "Cambia il mondo e con esso il galateo. In tram non si cede più il posto alle signore, avendo esse ottenuto, assieme ai diritti dell'uomo, anche i doveri, compreso quello di stare in piedi. Nemmeno ai vecchi si cede più il posto, essendo per costoro ingiurioso affronto l'essere considerati tali, anzi ci sono dei vegliardi che vestono abiti giovanili, a tinte sgargianti, per camuffare l'inesorabile carta d'identità, mentre a loro volta i giovani, per distinguersi da questi pseudo coetanei, si invecchiano artificialmente con zazzere beethoveniane e barbe mosaiche. Ci si dà subito del tu. Chissà come esulterà nella tomba l'anima di Achille Starace apprendendo che è stato finalmente abolito il «lei», traguardo che una volta si raggiungeva solo dopo anni di guardinga, reciproca conoscenza, e reciproche, discrete indagini, presso i carabinieri o il parroco, l'uno all'insaputa dell'altro, per scoprire eventuali macchie del reciproco passato. E il fatto che dopo trent'anni di matrimonio i nostri nonni, i nostri genitori, usassero anche nell'intimità il lei, era la prova che quegli accertamenti non si erano ancora conclusi. Per abituare i ragazzi a mangiare composti, senza appoggiare i gomiti al tavolo, si infilavano sotto le loro ascelle due monetine. Se alla fine del pranzo non erano cadute, diventavano loro proprietà. I bambini parlavano solo se interrogati. I grandi avevano sempre ragione. Nei collegi-bene certi vocaboli erano proibiti, una educanda fu punita per aver scritto, nel tema, che il cavallo rinculò. Frequenti cartelli intimavano vietata la bestemmia e il turpiloquio, cose oggi tollerate se non addirittura incoraggiate. Un teologo ha scritto che la bestemmia è una, sia pur rabbiosa, invocazione al cielo, una sorta di «preghiera capovolta» (alla stessa stregua si potrebbe affermare che quel teologo è «ateo travestito»). Abbattuti i tabù puritani, il turpiloquio è entrato nella conversazione di tutti i giorni, e le signore nei salotti gli hanno spalancato le braccia, con l'entusiasmo dei neofiti, e le parolacce da trivio, fino allora costrette a rifugiarsi nei cessi, quasi non volevano credere ai loro occhi vedendo correre verso di sé, e accoglierle da pari a pari, letterati, intellettuali, poetesse, capintesta Cesare Zavattini, quello che si firma con due zeta. Una volta chi diceva le parolacce era un anticonformista, oggi lo è chi non le dice. Ma, ancora una volta, l'inflazione ha rovinato tutto. Pessimi amministratori del nostro patrimonio turpiloquente, lo abbiamo dilapidato col dissennato abuso; le parolacce che, ai tempi del proibizionismo, avevano lo stordente e raro profumo dei fiori del male, si sono svuotate di significato. Si sono, come dicono i semiologi, desemantizzati. Tornasse a vivere il grande Cambronne, visto lo spreco che si è fatto del suo vocabolo, al nemico che intima di arrendersi griderebbe «ciclamino». Queste considerazioni (stavo per dire preambolo, altro vocabolo inflazionato) mi sono state suggerite dalla lettura del libro di Giovanni Mosca «Il nuovo galateo», scritto dall'inesauribile umorista per colmare una lacuna, diventata negli ultimi tempi sempre più preoccupante. Infatti per quattro secoli funzionò quale indiscusso manuale di comportamento il famoso Galateo, trattato di buone maniere dedicato da monsignor Giovanni Della Casa all'amico Galeazzo Florimonte. Ma dopo l'ultimo dopoguerra le cose sono cambiate, la società ha subito tali mutazioni che quel codice non serve più. Anzi, è pericoloso seguirlo. Della Casa, per esempio, esorta ad evitare l'esagerata adulazione, la affettata umiltà, condanna il servilismo, il conformismo. Ma chi vuol fare carriera, difficilmente rinuncia a queste scorciatoie, tanto deplorevoli moralmente quanto redditizie professionalmente. A tempi nuovi, galateo nuovo. E qui la fantasia dell'umorista si scatena ondeggiando tra la satira graffiante, la serena ironia contemplativa e l'umorismo astratto, funambolico del vecchio Bertoldo. Ecco qualche perla. Il nudo, oggi tanto di moda, è espressione di libertà? «Niente di più falso. Abramo Lincoln, che della libertà fu uno dei più grandi campioni, abolì la schiavitù rimanendo sempre completamente vestito». Desiderate combinare qualche scherzo telefonico? «Mai telefonare a personaggi universalmente stimati probi e onesti, fingendosi carabinieri che li accusano di peculato e concussione: tali scherzi possono riuscire mortali, perché sono proprio gli uomini che reputiamo al di sopra di ogni sospetto, quelli che maggiormente si dedicano al peculato e alla concussione». In salotto non dite mai «non c'è denaro che possa comprarmi», «io dico pane al pane e vino al vino, sono un uomo tutto d'un pezzo», bensì «sono disposto a farmi corrompere anche per una modica somma», «quello che debbo dire mi guardo bene dal dirlo», «ho sempre cambiato idea», «se vado a testa alta è solo per l'artrosi». Così guadagnerete la stima e le fiducia da tutti, e tutto il mondo dirà «è uno dei nostri». Alle mostre di pittura, mai domandare che cosa il quadro rappresenti, e se per caso non sia stato appeso per il rovescio. Quanto agli omosessuali, non giudicateli anormali: «Sono semplicemente una minoranza che domani, diventando maggioranza, potrebbe capovolgere la situazione e gettare noi nel ghetto della minoranza, inducendoci a organizzare manifestazioni per ottenere la parità dei diritti». 2 luglio 1980".

Il bello è che gli ipocriti lestofanti sono i maestri del Politically correct. L'espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone.

LA MANCANZA DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.

Altro che disgrazia, Marcinelle fu un crimine! Scrive Ilario Ammendolia il 9 ago 2016 su “Il Dubbio”. Sessant'anni fa la strage dei minatori italiani emigrati in Belgio. I soccorsi furono ritardati: non si volevano far vedere l'inferno delle miniere e le baracche dei migranti. Nel mese di giugno del 1946 il governo italiano firmava con il Belgio l'accordo di scambio tra uomini e carbone. Per ogni italiano che scendeva in miniera, l'Italia riceveva 200 chili di carbone al giorno. In tutti gli uffici di collocamento furono affissi dei manifestini di color rosa pallido che invitavano gli aspiranti ed improvvisati minatori a trasferirsi in Belgio. Per ricevere il visto di ingresso in quel Paese, avrebbero dovuto però sottoporsi a visita medica e, a tal fine, fu creato un centro nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Da paesi del Sud (ma anche dal Veneto) partirono in migliaia e molti fecero ritorno con i bronchi distrutti dalla silicosi. L'8 agosto di sessanta anni fa la tragedia di Marcinelle! La miniera si trasforma in un inferno e 262 uomini bruciano come torce umane. La maggioranza sono meridionali. Dalla fine della guerra al 1956 i paesi del Sud vedono ridursi la popolazione di oltre un terzo dei propri abitanti. Ho un nitido ricordo delle famiglie del mio paese che aspettavano con trepidante attesa notizie dei loro cari residenti in Belgio. Le lacrime silenziose di quanti con compostezza si recavano quotidianamente in caserma nella speranza di conoscere la sorte dei loro familiari. Il carbone è servito per alimentare le industrie del "triangolo" industriale. Le rimesse degli emigranti furono utilizzate dalle banche per finanziare il "miracolo economico" italiano. Era l'Italia del 1956! Marcinelle non fu una disgrazia, fu un crimine. I soccorsi furono ritardati per non mostrare al mondo le condizioni impossibili nei quali i minatori erano costretti a lavorare. Non si volevano far vedere le miniere dove tutto era inadeguato e neanche le baracche dei migranti privi di servizi igienici. I padroni delle miniere risparmiavano sulle attrezzature e finanche sui mezzi di prevenzione e di soccorso, puntando ad aumentare i profitti sullo sfruttamento inumano dei minatori costretti a scendere a mille metri di profondità senza tutela alcuna. La tragedia fu circondata da un muro di omertà e finanche di crudeltà. Si pensi che i familiari delle vittime e dei feriti furono fermati per giorni alle frontiera perché non avevano il visto di ingresso in Belgio. Tuttavia c'era anche una diversa sensibilità rispetto al mondo del lavoro, tanto in Italia che in Europa. Quando ancora si scavava nella miniera di Marcinelle per raggiungere quota 835 alla ricerca di impossibili sopravvissuti, ovunque, lavoratori del Nord e del Sud scendevano in lotta in un moto di spontanea solidarietà alle famiglie delle vittime. Manifestazioni di solidarietà ai minatori furono indetti dai sindacati del Belgio ed in Francia. Il governo italiano fu costretto a denunciare l'infame accordo "uomo- carbone". Sulla stampa, in Parlamento e nel Paese, la strage di Marcinelle venne interpretata come l'ennesimo tributo di sangue imposto ai lavoratori, soprattutto meridionali, per consentire alla industria "padana" di potersi sviluppare. Negli stessi giorni si rivendicò con forza la centralità dell'uomo rispetto alle leggi del mercato. Fu riproposta la necessità di un "piano nazionale", capace di incentivare insediamenti industriali nei luoghi di residenza dei lavoratori disoccupati piuttosto che sradicare la gente del Sud e farla dormire nelle soffitte di Torino e di Milano ed, ancor peggio, nelle baracche belghe costruite per i prigionieri di guerra. Oggi la solidarietà tra gli uomini è messa a dura prova. Mentre, la stessa industria "padana" cresciuta sul sangue dei lavoratori meridionali (e settentrionali) in nome della comune Patria trasferisce i propri impianti all'estero inseguendo la sola legge del massimo profitto. Altro che ndrangheta! Nessuno pagò per il crimine di Marcinelle quasi che provocare la morte di minatori non dovesse esser considerato un reato! A sessant'anni di distanza il tasso di disoccupazione giovanile al Sud è maggiore rispetto al 1956. La forbice si è allargata ed oggi la distanza tra Calabria e Lombardia è maggiore rispetto a quella tra Germania e Grecia. Gli ospedali calabresi sono molto più vicini a quelli dell'Egitto rispetto a quelli del Veneto! Nonostante ciò, la questione meridionale è stata ridotta a mera questione criminale. Nei giorni scorsi il Senato della Repubblica ha dedicato sette ore del suo tempo per decidere l'arresto del senatore Caridi, considerato un "invisibile" di una "cupola" occulta, secondo quanto ipotizzato nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria denominata "Mammasantissima". E' stata l'unica occasione, in tutti questi anni, in cui in un'aula parlamentare si è speso così tanto tempo a parlare, sia pure di riflesso, di una vicenda calabrese. E' successo a sessanta anni esatti di Marcinelle. Un unico filo rosso collega e fa da sfondo ad avvenimenti così diversi e così distanti: la grande disperazione del Sud che le classi dirigenti nazionali non hanno mai affrontato e che ieri veniva camuffata come logica conseguenza di una «naturale depressione economica» mentre oggi viene derubricata a mera questione criminale.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

MALEDUCAZIONE? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Scuola, proteste insegnanti. Rondolino: "Perché la polizia non li riempie di botte?". Il tweet del giornalista ed ex spin doctor di Massimo D'Alema attacca i docenti che il 24 giugno sono scesi in piazza contro l'approvazione del ddl Renzi-Giannini al Senato. E, visti i disagi alla circolazione, chiede che le forze dell'ordine, dopo averli colpiti, liberino "il centro storico di Roma". A ilfattoquotidiano.it dice: "E' una provocazione, ma la città non può essere ostaggio di ultragarantiti che lavorano poco e male", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 giugno 2015. Rivendica la “libertà d’espressione e il diritto di essere provocatorio”, anche se ammette che avrebbe “dovuto scrivere semplicemente che le strade andavano sgomberate”. Ma non si pente di quanto ha scritto, perché una città non può essere “ostaggio” dalla protesta di “ultragarantiti che lavorano poco e male e che accusano Renzi di avere ucciso la scuola pubblica, quando in realtà sono loro i responsabili”. Fabrizio Rondolino, ex spin doctor di Massimo D’Alema, contattato da ilfattoquotidiano.it, spiega il significato del suo tweet pubblicato il 25 giugno in occasione delle proteste di migliaia di docenti contro il ddl scuola, approvato con la fiducia al Senato.” Ma perché la polizia non riempie di botte sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”, ha scritto Rondolino online. Dalle 17 migliaia di manifestanti hanno attraversato la Capitale, partendo dalla Bocca della verità e si è fermato, bloccato dalla polizia, a piazza Sant’Andrea della Valle, poco prima del Senato. In corso Rinascimento, di fronte all’accesso principale del Senato, si sono verificati momenti di tensione e la strada per precauzione è stata chiusa al traffico. “Si può protestare – prosegue il giornalista – ma non è possibile che una città rimanga paralizzata come è successo ieri a Roma. Sono uscito di casa alle 21.30 e alle 22 Roma era ancora bloccata. Una situazione inaccettabile. Ora, non dico di mandare gli insegnanti a manifestare sul raccordo”. Ma suggerisce: “Bastano 10, 50 docenti che vanno fuori dal Senato, così possono dire le loro cose. Davanti alla città presa in ostaggio, però, mi aspetto che le forze dell’ordine reagiscano. Si sa, quando c’è una piazza da sgomberare, ci possono essere anche cariche di alleggerimento”. Quindi i docenti in piazza dovevano essere caricati dalla polizia? “No, è una provocazione. Ma sindaco e prefetto non possono consentire che la città sia totalmente paralizzata”. Tanti i commenti al tweet di Rondolino, che in passato aveva insultato anche il direttore della Stampa e suo ex datore di lavoro, Mario Calabresi, definendolo “orfanello”. “Deve essere evidentemente una battuta. Di pessimo gusto ma una battuta”, spera Cassandra. E c’è chi ironizza: “Perché non fucilarli o gettarli da un aereo?”, “un bel rogo in piazza e via?”, “Dov’è la candid camera Fabrizio?”. Poi c’è chi spera che Rondolino non fosse “capace di intendere e di volere” e chi si augura che dopo questo messaggio La7 lo escluda “definitivamente dai palinsensti”. E ancora: “Perché non vai a dirglielo di persona agli insegnanti quello che scrivi qua?”, “Non hai le palle per dire in faccia queste cose!”. Rondolino, però, replica anche ad un attacco che arriva nei commenti sulla piattaforma di microblogging. “Se questo è un uomo”, scrive la cronista della Stampa Antonella Rampino, riportando poi il tweet sugli insegnanti. “Beh, se tu sei una donna…”, è la risposta del giornalista che a ilfattoquotidiano.it minimizza: “E’ semplicemente una risposta speculare a quanto ha scritto lei. Piuttosto dovremmo chiederci per quale motivo abbia abusato del titolo di un libro di Primo Levi”. I motivi della protesta – Dopo l’approvazione del Senato, il sindacato Anief ha ricordato i motivi della protesta di piazza: “Si fa un bel passo indietro sulla libertà all’insegnamento, si trasformano gli istituti scolastici in prototipi di aziende, i presidi sceglieranno il personale pescando dagli albi territoriali, scegliendo i 50mila docenti e i vincitori del nuovo concorso – ha spiegato il presidente Marcello Pacifico – Gli altri 50mila immessi in ruolo saranno assunti ad anno scolastico iniziato, con almeno altri 70mila insegnanti non assunti che chiederanno risarcimenti al tribunale civile di Roma”. Inoltre, ha aggiunto, “a settembre nelle scuole si creerà un caos senza precedenti, per il ritorno in classe dei vicepresidi e migliaia di dirigenti sguarniti dell’organico dell’autonomia. Vengono poi beffati tutti gli abilitati laureati, che per i prossimi cinque anni non potranno fare concorsi, né insegnare. Arriva, infine, il comitato di valutazione dei docenti, con i fondi del merito distribuiti dal preside-manager, sulla base delle indicazioni fornite anche dagli studenti 15enni”.

La sinistra e i professori non si vogliono più bene, scrive Francesco Boezi l’8 agosto 2016 su “Il Giornale”. Si erano tanto amati, la sinistra ed i docenti. Incontratisi per la prima volta sulle scale dell’università, si fusero nell’enfasi marxista; quindi la sinistra con tono impositorio disse: “Ora, se vorrete guadagnare la vera libertà, leggerete Marcuse tre volte, sovvertirete il sistema borghese, brucerete jeep, appiccherete roghi, occuperete facoltà e predicherete la fine dei costumi dei padri. Solo così diverrete veramente liberi!” Fu colpo di fulmine. I docenti, che allora erano solo degli studentelli sbarbati, credettero. Era il 1968’. “Ricordi? Sbocciavan le molotov.” Lei seduceva con l’inchiostro. Loro, in fin dei conti, erano solo i figli di quella borghesia da distruggere: la leva ideologica di un ventennio. Pier Paolo Pasolini pensava fossero vittime di un gigantesco equivoco: non sono rivoluzioni quelle fatte con i soldi di papà. L’esito? Un po’ l’inconsistenza, la finzione e la disperazione del terrazzo radical chic di Jep Gambardella, un po’ la “spada de’ foco” di Carlo Verdone nel salotto di Mario Brega. Vennero i governi e le riforme, la fantasia al potere, in televisione ed in cattedra. Gad Lerner e Michele Santoro, Marco Boato e Massimo Cacciari. Il sentimento tenne. Dalle aule delle università, vennero occupati i conti correnti: dicono i grafici di Bankitalia che il reddito medio di quella generazione crebbe molto di più rispetto quello delle successive. Sinistra progressista e classe docente, unite per la vita. “Encore!”, dice Lacan, è la domanda dell’amore. Ancora! Senza soluzione di continuità. Dal 18 politico con l’eskimo, al modello 730 con la barca a vela. A braccetto, nella buona e nella buonissima sorte. Anche gli insegnanti malpagati gridarono: “Encore!” Nei momenti di crisi si sparò a zero contro l’avversario politico, fatto qualche girotondo, andati al cinema insieme. Una passione filtrata dai decenni e mai interrotta. Neppure “La Cosa” di Achille Occhetto poté farci nulla. Persino il Partito Democratico andò giù liscio come l’olio. Ci voleva un algoritmo impazzito per distruggere un amore. Un nemico difficile contro cui girotondare perché, alla fine, è solo un numeretto. Che rende la vita precaria ancor prima del lavoro. Che ti spara dal sud al nord come la pallina di un flipper: docenti con punteggi altissimi costretti a lasciare la famiglia per trasferirsi a 700 km di distanza, altri con punteggi minori che possono insegnare sotto casa. L’evoluzione neoliberista della sinistra governativa europea. In Italia lo hanno fatto quelli che dicevano di voler visitare una scuola ogni settimana ed aumentare gli stipendi dei professori. Ve la ricordate la prima Leopolda sì? Senza famiglia a due passi, però, diventano tutti irascibili. Persino le truppe dell’egemonia gramsciana. La voglia di instabilità relazionale millantata nel 68’ era pura propaganda. L’idea di Marx per cui la borghesia avrebbe ridotto tutte le libertà a quella della mercificazione, meno. La sinistra e i professori no, non si vogliono più bene. 

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

LADROCINIO? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.

I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.

Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.

Indagati, rovinati e assolti. La crociata dei pm contro la politica, scrive Simona Musco il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici che devono subire il peso della gogna mediatica. E il caso di Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo. Lo diceva perfino la pm di ferro Ilda Boccassini: alcuni magistrati «hanno usato le inchieste per "altro", per scopi diversi dalla giustizia». Una giustizia "politicizzata", che a volte colpisce e annichilisce chi, alla fine, riesce ad uscirne pulito. Ma solo alla fine. Certo, non sempre l'errore è strumentale. Ma a volte, lo ammette tra le righe anche la pm più agguerrita d'Italia, è così. L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici. Che, seppure hanno forze diverse, devono subire il peso della gogna mediatica e politica. E Stefano Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo della lista. Certo, sulla sua testa rimane ancora un'accusa pesante dalla quale difendersi: voto di scambio. Ma per i pm non c'è più agevolazione della camorra, non c'è, cioè, il patto scellerato con la malavita, accusa che ad aprile lo aveva portato ad autosospendersi dalla carica di presidente, uscendo dal gruppo e mandando in crisi il Pd in Campania, che alle amministrative di Napoli ha fatto cilecca. Ma Graziano è solo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il caso Emilia - «C'è da chiedersi: che la golosità della preda abbia alterato le regole della caccia?», diceva al Dubbio, a giugno, Alessandro Gamberini, difensore dell'ex governatore dell'Emilia, Vasco Errani, assolto perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni, dallo scandalo "Terremerse". Uno scandalo che aveva trascinato l'Emilia-Romagna alle elezioni anticipate, con le dimissioni dell'ex governatore dopo la condanna nel primo appello del processo. Subito dopo, nel 2014, alla vigilia delle regionali, un altro scandalo: il deputato Pd Matteo Richetti, accusato di peculato, rinunciò alle primarie, diversamente dal suo sfidante, Stefano Bonaccini, in seguito prosciolto dalle accuse e poi eletto presidente della Regione. Primarie ed elezioni indette a causa di dimissioni evitabili. Così come la gogna, che invece fu implacabile. "Why not" - Dieci anni e tutti assolti per non aver commesso il fatto. Si è concluso così un troncone dell'inchiesta dell'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris sui politici calabresi imputati in un processo per associazione a delinquere nell'ambito di un'inchiesta sui presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria aperta nel 2006. Un'indagine molto più ampia, che coinvolse circa 150 persone e che portò alle dimissioni dell'allora Guardasigilli Clemente Mastella, alla caduta del governo Prodi e allo scontro fra le procure di Salerno e Catanzaro. Significative, però, sono le parole scritte dal gup Abigail Mellace nelle motivazioni della sentenza in abbreviato: quell'indagine, secondo il giudice, era il risultato di «un'operazione dal grande risalto mediatico». Per i politici e i manager coinvolti la condanna fu immediata: gogna mediatica e pubblico ludibrio. L'impresentabile De Luca - Un passo indietro di qualche mese ci porta a Vincenzo De Luca, governatore Pd della Campania. Su di lui si era scatenata la falce della presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che lo aveva inserito nella lista degli "impresentabili" alle scorse regionali per la vicenda "Sea Park", il parco acquatico mai realizzato nell'area industriale di Salerno, dove aveva da poco chiuso l'Ideal Standard, che lasciò a casa 200 lavoratori. De Luca, all'epoca deputato, intervenne per accelerare i tempi per la cassa integrazione di quei lavoratori. L'inchiesta è partita ben 18 anni fa e il pm, dopo otto anni di dibattimento, ha chiesto l'assoluzione dall'accusa di associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso perché «i fatti non sono sussistiti e non sussistono». Per lui, però, ci furono «anni di pesante aggressione politica e mediatica». Il "Sistema Sesto" - Altra vicenda clamorosa è quella che ha visto coinvolto l'ex presidente della provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, Filippo Penati, assolto in primo grado dal tribunale di Monza perché il fatto non sussiste dalle accuse di corruzione sulla gestione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni e finanziamento illecito dei partiti. Ma quando il suo nome finì su tutti i giornali, riempiendo pagine e pagine con parole altisonanti, rimase solo. «A suo tempo il Pd mi cancellò in fretta e furia - dichiarò dopo l'assoluzione -. Ma è sbagliato cedere alla gogna invocata dalla pubblica piazza. È ora che la politica si riprenda il suo primato, e stabilisca regole certe contro i furori di chi strumentalizza le inchieste». Tre anni di processi che hanno portato alla fine della sua carriera politica, terminati con un'assoluzione. Che non gli ha ridato ciò che gli è stato tolto. I grillini contro Venafro - Nell'inchiesta "Mafia Capitale" era comparso anche il suo nome. Maurizio Venafro, capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, era stato accusato di turbativa d'asta e rivelazione di segreto d'ufficio per aver favorito un imprenditore per la gara Recup (centralino unico prenotazioni). Lui si era subito dimesso dall'incarico, dichiarando la sua totale estraneità ai fatti. Ma il M5S ne aveva approfittato subito per lanciare la propria invettiva, ipotizzando un coinvolgimento della Regione Lazio nell'inchiesta. Qualche giorno fa, però, il tribunale penale di Roma ha assolto Venafro con formula piena. Il Pm aveva chiesto 2 anni e 6 mesi di carcere. «Ha combattuto nel processo, non ha mai concesso nulla alla polemica. Abbiamo avuto fiducia nella magistratura, meno nel mix tra una certa cattiva stampa e molta cattiva politica», ha commentato Zingaretti. Che per circa un anno si è sentito chiedere le dimissioni da tutti, dal M5S alla destra di Storace, passando per il Fatto Quotidiano. Oggi, però, quel castello di insinuazioni sulla corruzione all'interno del palazzo crolla. E anche le ricostruzioni fantasiose. Ma la gogna, nel frattempo, ha fatto il suo corso. Lo sceriffo Cioni - Hanno provato a chiedergli scusa. Ma non basta. Graziano Cioni, ex assessore Pd al Comune di Firenze, è stato assolto definitivamente dall'accusa di corruzione sulla trasformazione urbanistica dell'area di Castello. Il suo nome era stato inserito nel grafico della "piovra" che campeggia sul blog di Beppe Grillo. Un grafico preventivo, per il quale non vale il principio del "fino a prova contraria". Che ora c'è. Cioni «esce a testa alta da questi processi dopo otto anni di sofferenza», ha commentato l'avvocato Pasquale De Luca. Ma tre giorni dopo la sentenza del 6 maggio scorso, quel nome era ancora lì, alle spalle del deputato Alessandro Di Battista, intervenuto nel corso di una trasmissione su La7. Da qui la denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento di un milione. E le scuse. Tardive.

Mafia Capitale, l'arma persa per sempre dai grillini, scrive Errico Novi il 9 ago 2016 su "Il Dubbio". Il caso Muraro cambia lo schema del malaffare tutto in capo ai dem. Il direttorio M5S resta a difesa dell'assessora finita nella bufera, ma il maxiprocesso non potrà più essere bandito come una clava. Non sarà mai più la stessa Mafia Capitale. Non per i cinquestelle, che non solo governano Roma e sono dunque destinati a "sporcarsi le mani" per destino istituzionale, ma hanno anche un'assessora, Paola Muraro, in odore di rapporti con Salvatore Buzzi. La donna scelta da Virginia Raggi per occuparsi di Ambiente e per farsi carico, nell'amministrazione a cinque stelle, della grana rifiuti, è nel mirino dei media e soprattutto dei pm. In uno dei quattro filone d'indagine aperti da sostituto della Procura di Roma Alberto Galanti, Muraro rischia di entrare con tutti e due i piedi come figura coinvolta nelle commesse fuorilegge assegnate da Ama, la municipalizzata al centro del maxi processo a Buzzi e compagni. Al momento Muraro non rischia l'avviso di garanzia solo perché siamo nel pieno della sospensione dei termini feriali. Il dottor Galanti non si muoverebbe in ogni caso sotto Ferragosto, né il procuratore aggiunto Paolo Ieolo e il capo dell'ufficio Giuseppe Pignatone lo solleciteranno ad accelerare i tempi. Eppure l'iscrizione della Muraro al registro degli indagati pare inevitabile. Intanto perché l'ex amministratore delegato dell'Ama Daniele Forini ha presentato a piazzale Clodio una vera e propria collezione di esposti sull'epopea della gestione dei rifiuti a Roma, e nei dossier Muraro è chiamata più o meno direttamente in causa. Inoltre le carte sulla presunta cupola romana relative all'ex ad di Ama Franco Panzironi riferiscono del ruolo di Muraro in una commessa su un impianto di rifiuti a Trento. Nell'ordinanza ripresa ieri da Repubblica si profila addirittura un impegno preso da Panzironi con Muraro per assumerla come «tecnico» nella società che avrebbe dovuto gestire lo stabilimento. Panzironi è un imputato "top" del maxiprocesso: nelle carte, certo, non emerge alcunché di penalmente rilevante a carico della Muraro, ma basta la parola stessa, "Mafia Capitale", per determinare il contagio. Contagio mediatico, ovvio: fatto sta che d'ora in poi i cinquestelle faranno grande fatica a scaraventare la maxi inchiesta contro chi li ha preceduti in Campidiglio, ovvero il Pd. La situazione è di vera emergenza per il Movimento di Beppe Grillo. Ieri Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e altri esponenti di primo piano hanno riferito a Casaleggio junior sullo stato dei fatti. Ferma la linea di fare quadrato contro gli attacchi all'assessora. Ma c'è anche consapevolezza che il caso cambia per sempre il valore simbolico del processo su Mafia Capitale: non avrà mai più lo stesso significato proprio perché "una di loro", un'assessora di Virginia Raggi, è lambita da quelle vicende. E anzi, la materia sarà suscettibilissima di manipolazioni a danno dei grillini. Che la vedranno usata per dimostrare la loro "omogeneità" al resto della politica. Una macchia forse indelebile. Lo sanno bene gli altri assessori della giunta Raggi, che domani probabilmente neppure si presenteranno al Consiglio comunale. La seduta è convocata in via straordinaria per consentire a sindaca e assessora di rispondere a una raffica di interrogazioni su rifiuti e consulenze pagate più o meno a peso d'oro. Di sostanza, almeno in termini penali, praticamente non ce n'è. Ma del bommerang mediatico si vedono tutti i segni.

«Scusi lei è garantista?» «Oggi no: forse domani sera...», scrive Piero Sansonetti il 5 ago 2016 su "Il Dubbio".  Scusi, ma le oggi è garantista? «No, mi spiace, oggi son forcaiolo, ripassi domani, per favore». E’ esattamente così, nella politica italiana. Se escludiamo un minuscolo drappello di garantisti veri (in Parlamento saranno quattro o cinque tra destra e sinistra...) tutti gli altri vanno “a ore”. Garantisti granitici a favore dei propri amici, distributori di manette e gogne per gli avversari. Il cambio di casacca può avvenire anche nel giro di 24 ore e in casi eccezionali persino nella stessa giornata. Non solo l’aula del parlamento pullula di parlamentari pronti a votare a favore dell’arresto di qualunque collega dello schieramento opposto - senza neppure un briciolo di senso dell’umanità, né, naturalmente, della legalità - non solo trovi centinaia di esponenti politici che tuonano contro la giustizia spettacolo e poi chiedono abbondanti retate di piccoli spacciatori o immigrati illegali, o ladruncoli; ma ormai succede anche il contrario: forcaioli d’acciaio scattano come un sol uomo a difesa dei politici forcaioli, e gridano al complotto. L’altro ieri persino l’integerrimo Marco Travaglio ha speso un intero, lungo editoriale, furioso col “Corriere della Sera”, il quale aveva osato parlare di conflitto di interessi per l’assessora romana a 5 Stelle (la Muraro) che ha un contenzioso di svariate decine di miglia di euro (che lei vorrebbe riscuotere) con l’Ama, e cioè con l’azienda che ora entra sotto il suo controllo politico. Travaglio ha abbandonato anche lui la tradizionale intransigenza, e ha iniziato a chiedere “prove”. Un colpo di fulmine: la odiata e vituperata presunzione di innocenza - negata a tutti, specialmente a quelli del Pd - è tornata con baldanza alla ribalta a difesa della Muraro, oggetto del complotto della sinistra. Qualche settimana fa il dottor Graziano, segretario del Pd campano, per “il Fatto” era un camorrista (è stato prosciolto recentemente, con tante scuse: giusto il tempo di far tenere le elezioni regionali e mettere il Pd fuorigioco). Oggi invece il conflitto della Muraro non esiste e chi dice il contrario è un farabutto. Un tempo Travaglio scriveva che un politico deve dimettersi dinnanzi anche al più esile sospetto; oggi - intendiamoci: giustamente - chiede rispetto dell’innocenza presunta dell’assessora Muraro, anche in presenza delle registrazioni delle sue telefonate con Salvatore Buzzi, che fin qui i giornali hanno descritto come il capo della mafia romana. Bene: Travaglio ha ragione. E’ chiaro che ha ragione: la Muraro, a quanto ne sappiamo, è chiaramente in conflitto di interessi (ma questo si sapeva prima che fosse nominata) ma non ha commesso nessun reato, o almeno non risulta, e non è un reato aver parlato al telefono con Buzzi, che era semplicemente il capo di una cooperativa, e non risultava imputato di niente, tantomeno di associazione mafiosa (peraltro va detto che questa accusa è chiaramente assurda, anche se non bisogna dirlo). Travaglio ha ragione, e hanno ragione i grillini a difendere il diritto della Muraro a non dimettersi. Hanno torto quelli del Pd a chiederne le dimissioni. Così come ebbero torto i giornali romani, il “Corriere”, i grillini, Travaglio e tutta la santa alleanza che cacciò Marino dal Campidoglio per ragioni che non avevano nulla a che fare né con l’etica, né col diritto. Però questa splendida alternanza tra garantismo e forche - che dimostra la fragilità, o forse l’inesistenza dei principi, e la strumentalità di tutte le battaglie - mette una grande tristezza. La stessa tristezza che ci ha colto l’altra sera, quando abbiamo visto e sentito manipoli di mazzieri accanirsi contro Antonio Caridi in lacrime.

Giustizialisti, curatevi col cinema! Scrive Andrea Camaiora il 09/08/2016 su "Il Giornale". Moderati alla ricerca dell’unità. Si tormentano da mesi alla ricerca di una ricetta in grado di rimettere un’area politica in competizione con una sinistra resa forte dall’effetto Renzi. Ebbene, l’unità dei moderati passa attraverso la riscoperta del proprio dna. Prendete il garantismo, bandiera storica di Forza Italia e del centro destra in generale, finito prima col perdere smalto ed essere addirittura da qualcuno rinnegato, emulando una certa  sinistra a cinque stelle. Alla classe politica italiana servirebbe insomma un corso di cineforum di quelli che fino a qualche tempo fa organizzavano con successo le parrocchie.  Primo suggerimento: il film “Le vite degli altri” (2006), scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero. Il grande attore tedesco oggi scomparso¸ Ulrich Mühe, interpreta il capitano della Stasi Gerd Wiesler che viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale ed intellettuale della Germania orientale. Una grande lezione: attraverso un sistema di intercettazioni si poteva (e si può) giungere a devastare la vita anche di cittadini comuni.  Il secondo consiglio è “Tutti dentro”, dimenticato film del 1984 con Alberto Sordi, Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro. Il nostro amato Albertone è Annibale Salvemini, magistrato noto per il proprio carattere “zelante”. All’inizio del film Salvemini è vice di un collega anziano che sta indagando su fatti di corruzione relativi a personaggi dello spettacolo, della finanza e della politica. Il consigliere Vanzetti, collega ormai prossimo alla pensione, non è certo della piena fondatezza delle proprie indagini, dell’effettivo coinvolgimento di molti indagati e dunque della responsabilità di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta e pertanto non se la sente di spiccare un considerevole numero di mandati di cattura e decide così di affidare il fascicolo a Salvemini, raccomandandogli di esaminare tutta la documentazione e le varie informative con la massima cura e attenzione e di non agire avventatamente. Salvemini agirà con assai poca attenzione e firmerà centinaia di ordini di cattura, tra gli altri ai danni di un apprezzato (e poi innocente) conduttore del Tg2, Enrico Patellaro, nella cui storia e nelle cui sembianze non è difficile rinvenire la volontà di Sordi di spezzare una lancia in favore di Enzo Tortora (il cui caso risale al 1983). Terza pellicola, emblematica, è “In nome del popolo italiano” (1971), diretta da Dino Risi, nella quale il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), indagando sulla morte di una giovane prostituta, prende di mira l’imprenditore Renzo Santenocito (Vittorio Gassmann), imprenditore spregiudicato, che gode di influenti amicizie e che fa soldi corrompendo funzionari pubblici, inquinando e deturpando il paesaggio con veri e propri scempi edilizi. Il film di Risi – pietra miliare della cinematografia italiana – con disarmante lungimiranza, vede Santenocito che viene prelevato dalla polizia giudiziaria mentre partecipa a una festa vestito da antico romano. Immagini che riportano alla festa in maschera “Olympus”, organizzata da esponenti del Pdl di Roma nel 2010. In un crescendo drammatico, Bonifazi, quando pensa ormai di dover incriminare per omicidio Santenocito, entra in possesso del diario della giovane morta che annuncia il suicidio. Caso risolto? Non proprio. Bonifazi si trova a leggere il diario per strada proprio nel momento in cui l’Italia vince ai mondiali contro il Regno Unito. Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato in Santenocito. Disgustato proprio da quel «popolo italiano», il magistrato getta tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani la prova dell’innocenza dell’avversario. Quarto, indimenticabile prodotto del cinema italiano sulla malagiustizia, sugli effetti della carcerazione preventiva e le lentezze del nostro sistema giudiziario, infine, un capolavoro di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), che ha ancora una volta per protagonista il nostro amato Sordi. Il povero geometra romano Giuseppe Di Noi, accusato della mirabolante (e infondata) accusa di «omicidio colposo preterintenzionale», verrà arrestato non appena giunto alla frontiera italiana. Il lungo periodo in carcere, appunto “in attesa di giudizio”, lo vedrà vittima di umiliazioni e brutalità che lo segneranno irrimediabilmente sul piano fisico e psicologico. La “Cinecittà moderata” che ha reso grande il nostro cinema aveva le idee più chiare di giornalisti, politici e registi del giorno d’oggi. Garantismo, giustizia giusta e tempestiva, condizioni carcerarie umane, certezza della pena, indipendenza della magistratura e terzietà del giudice devono ancora passare dal grande schermo alla vita reale. * autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau).

Quelle vite spezzate dagli errori giudiziari, scrive Agostina Di Mare il 09/08/2016 su "Il Giornale". Avete mai pensato che una notte potrebbe suonare il campanello e che la vostra vita possa essere segnata per sempre? Detta così risulterebbe surreale; assistendo alla visione di “Non voltarti indietro” di Francesco Del Grosso, invece, quest’ipotesi diventa concreta e palpabile. Si avverte sulla propria pelle quella sensazione di comunanza con i cinque casi scelti e l’angoscia che lo spettatore prova sta proprio nella percezione tangibile che possa capitare a chiunque e in qualsiasi momento. La macchina da presa del documentarista cattura i volti e le parole di tre uomini e due donne: una commercialista, un impiegato delle Poste, un designer di moda, un assessore comunale e una dipendente pubblica. Persone accusate ingiustamente di reati ma i commessi. «Il docu-film si articola in tre macro blocchi, ciascuno chiamato a rappresentare i punti cardine tipici dell’architettura narrativa della tragedia classica. Passaggi che segnano e simboleggiano a loro volta le tappe fondamentali nel destino del personaggio che solitamente la anima: ascesa, caduta e rinascita. […] Questa esperienza che li ha segnati nel profondo passa proprio attraverso le tre fasi: arresto, detenzione, riconoscimento dell’innocenza» (dalle note di regia). Man mano che l’opera si dipana, si entra con loro al di là di quelle sbarre che di lì a poco si chiuderanno senza comprendere il motivo di quella reclusione. Del Grosso non cerca la lacrima facile, anzi la rifugge, ma siamo sicuri che, in modo particolare le spettatrici, saranno toccate dalla rievocazione delle fasi che precedono l’ingresso in cella (ci si deve denudare e viene chiesto di fare delle flessioni per i controlli anali). Si prova, con loro, la claustrofobia di essere in una gabbia 2×3, dormendo con estranei. Innegabilmente, per chi non l’ha provato direttamente, non è semplice immedesimarsi, eppure “Non voltarti indietro” riesce a traghettare la platea in un vortice di emozioni che va dallo spaesamento alla rabbia, dall’aggrapparsi al barlume di speranza alla paura di non vedere più la luce. Il merito va non solo alla sincerità e al trasporto dei racconti, ma anche all’intuizione registica di avvalersi dei disegni, foto realistici e in bianco e nero (realizzati a mano, a matita, dal giovane Luca Esposito), che aiutano a visualizzare ciò che i protagonisti narrano. A corollario, nota di merito va alle musiche di Emanuele Arnone e al montaggio del suono curato da Daniele Guarnera. Durante tutti i 75′ del docu-film si coglie costantemente il lavoro certosino fatto sul sonoro e non ci riferiamo soltanto alle chiavi del carcere, ma è un mix che avvolge lo spettatore continuando a farsi sentire anche a visione conclusa. Risuonano le gocce delle docce così come un eco (per fortuna lontano) delle voci nell’ora d’aria. Del Grosso, dopo diversi documentari tra cui “Negli occhi” dedicato a Vittorio Mezzogiorno, “11 metri” su Agostino Di Bartolomei e “Fuoco amico – La storia di Davide Cervia”, decide con quest’ultimo di puntare l’obiettivo su vite ferite per errori giudiziari. L’intento è quello di dar loro spazio, parola e dignità in un percorso di cicatrizzazione del dolore provocato dall’ingiusta detenzione. Si entra in empatia con i calvari di questi uomini e donne, restando attoniti di fronte all’idea che la realtà possa superare la fantasia. A partire dal 1992 ci sono stati 1000 casi di errori giudiziari e quindi 24.000 casi in 24 anni, per una spesa complessiva di 630 milioni di euro. Ovviamente vale il detto “errare humanum est” e, come in altre storie, sarebbe scorretto prendersela con il singolo giudice. Se i numeri sono così elevati c’è qualcosa che non va e questa considerazione non può che sorgere spontanea. Per fortuna il cinema, in questo caso reale, sceglie di non chiudere gli occhi. Non voltarti indietro nasce da un’idea, sposata dal regista, di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (i quali hanno dato vita a “Errorigiudiziari.com”, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni), e un avvocato, Stefano Oliva. I tre hanno voluto produrre con le proprie risorse, con il supporto della produzione esecutiva di Own Air, il documentario pensando anche che la Settima Arte possa arrivare in meandri impensabili. Il regista ha già ricevuto dei riconoscimenti importanti per questo lavoro: il Premio Speciale “Gold Elephant World Festival” e il Premio SAFITER alla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae. Recentemente, all’“Ariano International Film Festival”, “Non voltarti indietro” è stato decretato il vincitore della sezione Documentari. Post visione e prendendo atto dell’impegno civile e artistico di regista, produttori e troupe, non possiamo che dirci: non voltiamoci dall’altra parte.

Enzo Tortora, una ferita italiana, scrive Edoardo Sylos Labini il 09/08/2016 su "Il Giornale". A 30 anni dall’arresto di Enzo Tortora e dall’infame passerella mediatica che fu costretto a subire, questo film, come dice il titolo, riapre una ferita su un tema che in Italia non si affronta mai in modo adeguato: la malagiustizia. Con la politica in mezzo sempre pronta a strumentalizzare questa o quella battaglia, sembra non si riesca a fare una riforma che riequilibri quello che è diventato, nel nostro Paese, un problema molto serio. Chi risarcisce la vita e la reputazione di tutti quegli innocenti che ancora prima di subire un processo vengono puniti con feroce cinismo dalla gogna mediatica? Che fine fanno le famiglie di tutti questi presunti colpevoli’, che futuro hanno e come vengono visti in questa sempre più superficiale società dell’apparire? L’arte, il cinema servono anche a questo, a denunciare le ingiustizie, ad essere opere civili, oltre che di intrattenimento. E se il direttore del Festival di Roma ha reputato questo prodotto non interessante per il programma di una kermesse così prestigiosa, al contrario ilgiornaleoff.it – che nasce con l’intento di dare visibilità a chi viene oscurato o escluso dai grandi circuiti – vi offre in anteprima, grazie al regista Ambrogio Crespi, le prime immagini del film. Enzo Tortora, una ferita italiana andrebbe proiettato non solo nei Festival, ma in tutte le sale d’Italia, affinché insegni a ognuno di noi dove può arrivare l’ingiustizia italiana. Dunque, dove eravamo rimasti? Buona visione.

Ballata della giustizia ingiusta, scrive Andrea Piersanti il 09/08/2016 su "Il Giornale". “Prigioniero della mia libertà”, un film racconta gli innocenti vittime di errori giudiziari. “Ogni tanto me lo domando ancora: ma non poteva uccidermi e basta”. Si conclude così una dellesette testimonianze delle vittime degli errori giudiziari che sono raccolte nel libro “Prigioniero della mia libertà” di Rosario Errico, Stefano Pomilia e Michela Turchetta. Il volume è curato da Gabriele Magno (avvocato, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari) e da Luisa Badolato. Nella prima parte è stata pubblicata la sceneggiatura integrale del film omonimo diretto da Errico e interpretato, fra gli altri, anche da Giancarlo Giannini. La storia di fantasia raccontata nel film (la cui uscita è prevista per il prossimo autunno) prende spunto dalla realtà. Sono infatti quasi cinquantamila gli italiani innocenti che, dal 1989 ad oggi, sono finiti in carcere per errori giudiziari. Il caso di Enzo Tortora è solo la punta di un iceberg immenso. “Ogni anno vengono riconosciute dai tribunali, con l’assoluzione, circa 2.500 ingiuste detenzioni frutto in parte di errori giudiziari – ha spiegato l’avvocato Magno -. Ma solo un terzo, circa 800 vengono risarcite. Spesso, infatti, anche se riconosciuto innocente, l’ex detenuto viene considerato responsabile, per colpa grave o dolo, di aver indotto la pubblica accusa a ritenerlo colpevole. Un’altra causa delle celle strapiene è la lentezza dei processi, poiché molti detenuti sono in attesa di giudizio. Qualche mese fa il 40 per cento aspettava il primo grado”. Un fenomeno impressionante che ha spinto il regista (e attore) Rosario Errico ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione del film. “Comincio dalla fine di “Detenuto in attesa di giudizio”, ha detto Errico. Il protagonista del film è un architetto che cade nella trappola di un sedicente amico. E’ la vittima di una truffa ma si ritrova ad essere accusato di estorsione. Un apologo dell’orrore che stravolge completamente la serenità personale e familiare del protagonista.

Quando Garibaldi rubò i soldi al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, scrive su "Time Sicilia" Ignazio Coppola. Sulla gloriosa spedizione dei Mille in Sicilia ci hanno raccontato un sacco di menzogne. Non solo non ci fu nulla di eroico, ma Garibaldi svuotò le casse del Banco di Sicilia (depredando 5 milioni di ducati corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni) e poi le casse del Banco di Napoli (depredando 6 milioni di ducati equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro). Tutti soldi portati ai Savoia. E noi ancora oggi ricordiamo questo bandito di passo! 11 Maggio 1860, esattamente 156 anni fa, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala inizia la invasione del Sud e la sistematica colonizzazione della Sicilia. Uno sbarco che come tutto il resto della spedizione dei Mille, da Calatafimi alla presa di Palermo, sarà un’indegna sceneggiata caratterizzata da squallidi episodi che in termini militari si usano definire di “intelligenza con il nemico”. E di intelligenza con il nemico, a differenza di quanto da sempre ci è stato propinato dalla storiografia ufficiale, è macchiato ed inficiato lo sbarco dei garibaldini a Marsala. Basta rivisitare obbiettivamente le cronache dello sbarco indisturbato della camice rosse di quel lontano giorno alle ore 13,00 del 11 maggio 1861 per rendersi conto dell’accordo sottobanco tra Garibaldini e gli ufficiali della marina borbonica che avrebbero dovuto ostacolare e non lo fecero, se non in ritardo ed a sbarco avvenuto, e tutto questo con la complicità degli inglesi che avevano un forte radicamento economico a Marsala con una notevole presenza di loro bastimenti ancorati in quel porto. Non a caso, da parte di Garibaldi, essendo tutto, con chiare complicità, preparato a dovere, si scelse di sbarcare a Marsala. Le due navi il Piemonte ed il Lombardo – precedentemente prese a Genova non requisendole manu militari (come falsamente viene raccontato dalla storiografia ufficiale), ma pagate attraverso una fidejussione di 500 mila lire (una somma enorme per quei tempi) dagli industriali fratelli Antongini alla società Rubattino – entrano senza colpo ferire nel porto di Marsala, come anzidetto, alle ore 13,00 iniziando, indisturbate, a sbarcare il loro contingentamento mentre le navi della marina borbonica, la corvetta a vapore Stromboli e la fregata a vela Partenope, al comando del capitano Guglielmo Acton che si erano lanciate, con colpevole e sospetto ritardo, all’inseguimento del Piemonte e del Lombardo giungendo in vista del porto di Marsala alle ore 14 pomeridiane rimanevano, restando a guardare, inattive ed assistendo allo sbarco. Restare a guardare Un bel modo davvero per impedire un ‘aggressione armata al territorio sovrano delle Due Sicilie Tutto andava svolgendosi secondo il programma da parte del comandante Acton ossia di dichiarata e manifesta complicità ed “intelligenza con il nemico”. Guglielmo Acton, successivamente ricompensato da tale vergognoso comportamento e tradimento, diverrà ufficiale di grado superiore della marina-italo piemontese. Il tradimento alla fine paga. Ecco quanto scrive al proposito il capitano Marryat, ufficiale della marina inglese, presente e testimone degli avvenimenti di quel giorno, in un suo rapporto che lo si può considerare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’incomprensibile atteggiamento di Acton: “L’altro vapore era però arenato (si tratta del Lombardo che Bixio aveva mandato a schiantarsi contro il molo) quando i legni napoletani furono a portata con i loro cannoni. I parapetti erano già calati ed i legni a posto. Noi aspettavamo e seguivamo – prosegue Marryat nel suo rapporto – con ansietà per vedere il risultato della prima scarica (che ovviamente non ci fu). Invece di cominciare il fuoco, abbassarono un battello e lo mandarono verso i vapori sardi, ma – a nostra sorpresa – ecco che il vapore napoletano spinge la sua macchina verso l’Intrepido (una nave inglese), anziché impedire più oltre lo sbarco della spedizione”. Di una chiarezza disarmante il rapporto di Murryat sulla espressa volontà di Acton – che ritardò il suo intervento – di non volere ostacolare lo sbarco dei garibaldini giunti sani e salvi a terra e senza un graffio. Solo alcune ore dopo, a sbarco avvenuto e dopo che l’ultimo garibaldino avrà messo piede sul molo di Marsala ed assicuratosi che non vi fossero più ostacoli di sorta allo sbarco degli invasori, Guglielmo Acton si deciderà – troppo tardi, bontà sua – a fare fuoco. Risultato, molti dei colpi finirono in mare, uno uccise un cane che fu l’unica e sola povera vittima di quella giornata e altri ferirono di striscio due garibaldini. A dimostrazione della sua intelligenza e complicità con il nemico dopo il finto cannoneggiamento, il comandante Acton non si preoccupò minimamente di fare sbarcare gli equipaggi delle sue navi per combattere ed inseguire i garibaldini che poterono così entrare a Marsala indisturbati. Con questo atto di ignavia e di tradimento iniziava in Sicilia l’impresa dei Mille. Le battaglie-farsa caratterizzate da tradimenti e corruzioni si ripeteranno poi a Calatafimi e più avanti nella presa di Palermo. Protagonisti, i generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Entrato a Marsala, Garibaldi troverà, tranne il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, una popolazione ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica. Ecco quanto scrive Giuseppe Bandi, uno dei maggiori protagonisti dell’impresa garibaldina nel suo libro I Mille a proposito della fredda accoglienza ricevuta dalle camice rosse a Marsala da parte della popolazione locale: “Appena entrato in città, qualche curioso mi si fè incontro, che udendomi gridare: ‘Viva l’Italia e Vittorio Emanuele’, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca e poi tirò di lungo. Le strade erano quasi deserte. Finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città, per mio diporto, ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente, colta così di sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno”. (Purtroppo i siciliani e i meridionali lo capiranno molto bene sulla loro pelle negli anni a venire e sino ai nostri giorni). Questa l’autorevole è testimonianza dello scrittore e ufficiale dell’esercito garibaldino, Giuseppe Bandi, sulle “entusiastiche” accoglienze dei cittadini di Marsala all’ingresso di Garibaldi nella loro città. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle casse comunali. La stessa cosa farà poi depredando ed appropriandosi indebitamente del denaro contenuto nelle casse del Banco di Sicilia a Palermo: 5 milioni di ducati (corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni). Giunto a Napoli fece altrettanto con il Banco di Napoli, impossessandosi di 6 milioni di ducati (equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro) depositati nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziava la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

Non si spende per fare le opere, si fanno le opere per spendere, scrive Giuseppe De Tomaso il 17 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Duole dirlo in circostanze come questa. Ma la tragedia ferroviaria sulla linea Andria-Corato ha tragicamente messo in risalto l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali (politiche e burocratiche). Se queste terre del Sud sono ancora le «periferie» dell’Italia, per ripetere la locuzione del Papa ripresa da monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, davanti al presidente Sergio Mattarella, nell’omelia ai funerali per le vittime della strage del 12 luglio, la responsabilità non va attribuita solo allo Stato centrale, solitamente poco attento al Sud, ma anche o soprattutto alle sue diramazioni territoriali, che non possono certo ritenersi risparmiate da un altro brano dell’omelia vescovile: «Le nostre coscienze sono state addormentate da prassi che ci sembrano normali, ma non lo sono: quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere». Il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del Sud, un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale. Più grave perché stronca la fiducia, l’ottimismo. Se, anche quando i finanziamenti ci sono, si allungano spirali di ritardi, contenziosi, blocchi, da mandare in tilt un computer, figurarsi quando i soldi non ci sono, quando cioè bisogna mettersi in coda sperando in un Babbo Natale romano o europeo. Purtroppo, non si vede via d’uscita. Nel Sud, ma l’andazzo riguarda ormai l’intera nazione, spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere. L’obiettivo non è realizzare migliori servizi pubblici per i cittadini, ma utilizzare i progetti per mungere altra spesa pubblica, da destinare ad apparati privati, come possono essere i cenacoli clientelari ed elettorali in cui si danno di gomito politici di radicamento, burocrati di riferimento e (im) prenditori di sostentamento. La spesa per la spesa. Le opere al servizio della nomenklatura. Non la nomenklatura al servizio delle opere. L’istituto della concessione è istruttivo, a cominciare dalla parola stessa. In diritto amministrativo, la concessione è un atto con cui la Pubblica Amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati, e riservate ai pubblici poteri. Traduzione: il Principe «concede» di fatto a un suo devoto il rango di feudatario, con tutti i benefìci e i privilegi che l’elargizione comporta. Oggi, quasi sempre, la concessione consente al concessionario - non solo nel settore ferroviario - di incidere, decidere lui, sui tempi di realizzazione delle opere. Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo. E così all’infinito, o quasi. Nell’indifferenza generale e nella capillare complicità tra i protagonisti della vicenda. Ma siccome al peggio non c’è mai fine e a volte non si tocca mai il fondo, dal momento che dopo averlo toccato si può continuare a scavare ancora, prepariamoci nei prossimi mesi a prendere atto di una realtà vieppiù allarmante e frustrante. Da quando, nell’aprile 2016, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, il numero delle gare è crollato dell’85%. Praticamente è tutto fermo. Il dato lo ha illustrato sabato 16 luglio 2016 a Bari, nel convegno organizzato dalla Guardia di Finanza, il dottor Michele Corradino, componente dell’Anac presieduta da Raffaele Cantone. Ma c’è di più, cioè di peggio. Già a partire da novembre 2015 si era registrata una flessione del 30% delle gare, dovuta all’obbligo per i Comuni di comprare attraverso centrali di committenza, non più da soli. Risultato: il binomio centralizzazione degli acquisti e nuovo codice degli appalti sta devitalizzando, paralizzando il sistema. Le burocrazie comunali temono di sbagliare, le formazioni politiche stanno a guardare. Insieme forse stanno facendo resistenza alle due riforme. Ora. È vero che l’Italia è il paradiso del positivismo giuridico (una legge per qualsiasi inezia). È vero che il ricorso alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) spesso assume forme patologiche, ossessionanti e paralizzanti. È vero che il normativismo sfrenato e il proceduralismo bizantino oggi manderebbero in depressione gli antichi giuristi di Costantinopoli. È vero che ciascun comitato rionale si sente investito di un potere d’interdizione che non si sognerebbe nemmeno un taglieggiatore piazzatosi su un sentiero obbligato. Ma lo strabiliante ostruzionismo delle Caste politico-burocratiche nell’applicazione delle leggi dello Stato suscita più di un (angosciante) interrogativo. Qual è il livello di preparazione delle classi dirigenti? E qual è il loro livello di moralità? Possibile che nessuno, o quasi, sappia orientarsi fra i nuovi codici? Cosa c’è dietro lo sciopero bianco, dietro il sabotaggio di ogni novità? Non è semplice rispondere, anche se a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. Gira e rigira, la questione non cambia. Il Sud (ma non solo il Sud) è vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano, e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare. Progettare per spendere, anziché spendere per realizzare. C’è soprattutto questa filosofia perversa dietro la stagnazione-corruzione meridionale e dietro le tragedie umane che si susseguono con una frequenza vertiginosa. Giuseppe De Tomaso.

Il nuovo Codice degli appalti? Un capolavoro: 181 errori. Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti, scrive Gian Antonio Stella il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Centottantuno errori! Finisse sottomano ai maestri d’una volta, il dirigente di Palazzo Chigi che ha vistato il «Codice degli appalti», quello famoso che doveva «far ripartire l’Italia», sarebbe spedito dietro la lavagna col berretto a punta da somaro. Come si può incasinare una legge fondamentale con 181 errori su 220 articoli? C’è poi da stupirsi se il valore delle gare bandite, in questo caos, è crollato secondo l’Ance del 75%? «Voglio la testa dell’asino», dirà probabilmente Matteo Renzi nella scia del celeberrimo «Voglio la testa di Garcia» di Sam Peckinpah. Anche noi. Nome, cognome, ruolo. Per sapere se magari ha avuto lui pure il premio di «performance» come l’89% (ultimo dato disponibile) degli alti burocrati della presidenza del consiglio. Tutti bravissimi, tutti intelligentissimi, tutti preparatissimi. Sul «somarismo» non ci sono dubbi. La sentenza è della Gazzetta Ufficiale che ha appena pubblicato un umiliante «avviso di rettifica» (che vergogna…) con tutte le correzioni al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto…». Cinquecentoventisei righe per mettere in fila, come dicevamo, le correzioni a centottantuno errori. Alcune frutto di demenza burocratica. Come l’introduzione di un punto e il trasloco di un punto e virgola: «alla pagina 110, all’art. 97, comma 4, lettera c), dove è scritto: “...proposti dall’offerente;” leggasi: “...proposti dall’offerente.”;» Altre dovute alla negligenza: «Alla pagina 1, nelle premesse, al settimo visto, dove è scritto: “per l’attuazione delle direttive” leggasi: “per l’attuazione delle direttive”;» Altre causate da sciatterie sfuggite alla rilettura: «servizi di ingegnera». Altre ancora generate da evidenti difficoltà grammaticali: «alla pagina 18, all’art. 16, comma 1, al secondo rigo, dove è scritto: “è tenuto ad aggiudicare”, leggasi: “...sono tenute ad aggiudicare...”». Per non dire di spropositi vari: «alla pagina 28, all’art. 25, comma 6, al quinto rigo, dove è scritto: «... in sito dire periti archeologici.” leggasi: “... in sito di reperti archeologici.”» Oppure: «alla pagina 23, all’art. 23, comma 4, al secondo rigo, dove è scritto: “... i requisitigli elaborati ...” leggasi: “... i requisiti e gli elaborati ...”». Fino alle varianti pecorecce: «alla pagina 123, all’art. 105, comma 21, all’ultimo rigo, dove è scritto “...casi di pagamento di retto dei subappaltatori” leggasi “... casi di pagamento diretto dei subappaltatori”». E via così: dov’è scritto «infrastrutture strategiche» va letto «infrastrutture prioritarie», dove «...di cui al presente Titolo...» va letto «di cui al presente capo», dove «“il progetto di base indica ...” leggasi: “Il progetto a base di gara indica”». Dove «la seconda fase, avente ad oggetto» leggasi «il secondo grado, avente ad oggetto». Un delirio, con l’aggiunta di parole rococò: «alla pagina 61, all’art. 53, il comma 7 è da intendersi espunto». Sic. Nella galleria degli orrori, tuttavia, i più mostruosi sono altri. «Alla pagina 30, all’art. 26, comma 6, lettera b), dove è scritto: “... e di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... e di cui all’articolo 46, comma 1”». Per capirci: perfino un genio in materie tributarie o contrattualistiche, se i riferimenti sono sbagliati, si schianta. Sbagliare su queste cose, le pietre miliari delle leggi, significa far deragliare anche i fuoriclasse del settore. E il «Codice degli appalti» è pieno di strafalcioni così. «Il “comma 28” leggasi “comma 26”». «Dove è scritto: “... articoli 152, 153, 154, 155, 156 e 157.” leggasi: “... articoli 152, 153, 154, 155 e 156”». «Dove è scritto: “...di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... di cui all’articolo 46, comma 1”». Al che verrebbe da urlare: ne avessi almeno indovinato uno! Ora, non c’è al mondo piastrellista che possa posare 181 piastrelle sbagliate su 220, cuoco che possa carbonizzare 181 bistecche su 220, bomber che possa sbagliare 181 rigori su 220... Sarebbero tutti buttati fuori. Tutti. Giuliano Cazzola, sul blog formiche.net ironizza: «Nel Belpaese esiste una presunzione assoluta di corruzione a carico di tutte le opere pubbliche. Il che porta, in primo luogo, a fare delle leggi assurde e inapplicabili, vero e proprio tormentone per le imprese del settore. Ecco un esempio illuminante». Ancora più sferzante il giudizio di LavoriPubblici.it che per primo ha dato la notizia denunciando, al di là degli errori grammaticali o degli svarioni nella punteggiatura, la sostanziale modifica del «44% dell’articolato». «Ciò significa che per quasi tre mesi gli operatori hanno avuto a che fare con un codice difficilmente leggibile, con conseguenze che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di fare un’analisi libera da legacci politici», accusa durissimo il sito, «ci chiediamo, e vi chiediamo, se questo è il modo di legiferare e perché il testo originario sia stato predisposto dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri espropriando il ministero delle Infrastrutture della responsabilità e competenza della predisposizione di una legge che riguarda le infrastrutture ed i trasporti». Rileggiamo il verbo: «espropriando». Segno di uno scontro termonucleare tra due burocrazie. Di qua il ministero, di là Palazzo Chigi. Ma scusate: sarebbero questi i dirigenti pubblici che, stando al dossier del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, vengono pagati ai livelli apicali 12,63 volte più del reddito pro capite italiano cioè quasi il triplo, in proporzione, dei colleghi tedeschi? Questi i burocrati che mediamente prendono molto più che i vertici della Casa Bianca? Queste le «eccellenze» che per bocca di una sindacalista sostengono che il loro lavoro «richiede una elevata professionalità» e che «come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo» e che «nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio»? Ci si dirà: non facciamo d’ogni erba un fascio. Giusto. Per evitare generalizzazioni inique occorre però che chi aveva confezionato quello sconclusionato codice degli appalti, che secondo i costruttori ha fatto precipitare del 27% le gare bandite e del 75% il loro valore, venga subito rimosso. Anzi, per dirla a modo suo: espunto.

Mazzette nello spumante. Così pilotavano i processi. Sequestrato un elenco di sentenze a casa di Mazzocchi. Alcune riguardano Berlusconi, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Interventi al Consiglio di Stato per «aggiustare» i processi. È il nuovo e clamoroso filone di indagine avviato dai magistrati romani dopo la perquisizione effettuata a casa di Renato Mazzocchi, il funzionario di Palazzo Chigi indagato per riciclaggio perché nascondeva in casa oltre 230mila euro in contanti, bustarelle e fascicoli giudiziari. In particolare, alcune decisioni che riguardano Silvio Berlusconi. Gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava — titolari dell’inchiesta sul gruppo di faccendieri guidati da Raffaele Pizza che avrebbe truccato appalti e orientato nomine e assunzioni in enti pubblici — si concentrano sulle sentenze emesse negli ultimi due anni. E si intrecciano con quelli che hanno portato in carcere Stefano Ricucci. Anello di congiunzione sembra essere il giudice Nicola Russo, indagato e perquisito dalla Guardia di Finanza proprio perché sospettato di aver ottenuto soldi e favori, compreso il pagamento di notti in albergo con una donna, per «pilotare» l’esito dei provvedimenti. Ma i controlli riguardano adesso tutti i giudici componenti dei collegi. Il 4 luglio scorso — quando vengono arrestati Pizza, il suo presunto complice Alberto Orsini e numerosi imprenditori, mentre viene indagato il parlamentare di Ncd Antonio Marotta — gli investigatori del Nucleo Valutario coordinati dal generale Giuseppe Bottillo perquisiscono l’appartamento di Mazzocchi. Si tratta del capo della segreteria dell’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, funzionario del governo per la ricostruzione in Abruzzo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali dimostrano che l’uomo è molto legato a Marotta, dunque si cercano eventuali elementi utili all’indagine. E la sorpresa non manca. Come viene specificato nel decreto di sequestro «all’interno di una confezione di vino “Ferrari”, di una confezione di vino “Cavelleri”, di una scatola recante il logo “Frittyna”, tutte chiuse con nastro adesivo, sono occultati 247.350 euro». Una parte del denaro è già chiuso in alcune buste e tanto basta per avvalorare il sospetto che si tratti di tangenti. Anche perché nell’appartamento c’è molto altro: lettere di raccomandazioni e un pacco di sentenze emesse dal Tar e dal Consiglio di Stato. I pubblici ministeri chiedono la convalida del sequestro. Il giudice Pina Guglielmi accoglie l’istanza e nel provvedimento elenca i documenti trovati da Mazzocchi. Ma evidenzia anche il sospetto della Procura sui processi «aggiustati», sottolineando proprio il ruolo del funzionario all’interno delle istituzioni. E tanto basta per dare corpo al sospetto sull’esistenza di una «rete» in grado di orientare le scelte di alcuni giudici amministrativi e delle commissioni tributarie. Scrive la gip: «Circa la somma sequestrata al Mazzocchi, deve osservarsi che depongono nel senso della illecita provenienza l’importo rilevante, le modalità di occultamento, i contenuti della documentazione sequestrata (curriculum vitae di alcune persone, domanda di partecipazione del concorso di tale De Stefano Damiano, ordinanze e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato relative a contenziosi nei quali è parte Silvio Berlusconi). Detti elementi, complessivamente valutati, inducono a ritenere che Mazzocchi, grazie al lavoro che svolge (dipendente della Presidenza del Consiglio) sia il referente di persone interessate a concorsi pubblici o a giudizi amministrativi e che abbia ricevuto quel denaro di tali opachi contatti. A ciò si aggiunge che l’unica ragionevole spiegazione al fatto che Mazzocchi abbia scelto di occultare in casa una somma così rilevante, esponendosi in tal modo a tutti i gravi rischi conseguenti, può essere rappresentata solo dalla consapevolezza di non poterne dimostrare di averne acquisito la disponibilità in maniera lecita, a conferma, almeno in termini di fumus, che la somma proviene da un delitto che potrebbe essere il millantato credito o la corruzione». Nelle conversazioni di Pizza e di Marotta si parla spesso del Consiglio di Stato. Entrambi mostrano dimestichezza con i giudici. In un colloquio del 9 gennaio 2015 con Davide Tedesco, stretto collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Pizza dichiara: «Tanto per essere chiari io ho bloccato il sistema elettorale, se non era per me non si votava... perché vedi i miei rapporti, la dimostrazione è questa, io sono riuscito con i miei rapporti... nonostante c’erano il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministero degli Interni... con i miei rapporti sono riuscito a bloccare il sistema... il Consiglio di Stato ha dato ragione a me...». In questo «sistema» emerge il ruolo Nicola Russo, il giudice accusato di aver favorito Ricucci. Molti indagati ne parlano e le verifiche svolte sul suo conto hanno fatto emergere i regali e i favori ottenuti. Come le due notti presso l’hotel Valadier di Roma «insieme all’amante Zaineb Dridi, dove Ricucci lo ha accompagnato nel marzo scorso e lo ha contatto il giorno successivo». E dove, questo è il sospetto dei magistrati, ha pagato il conto.

Un giudice tarantino nello scandalo Ricucci. Si tratta di Nicola Russo, magistrato del Consiglio di Stato: è indagato, scrive Taranto Buona Sera il 23 luglio 2016.  È tarantino il giudice coinvolto nello scandalo che ha portato agli arresti l’immobiliarista Stefano Ricucci e l’imprenditore Mirko Coppola. Il magistrato è Nicola Russo, cinquantenne, in servizio al Consiglio di Stato e componente della Commissione tributaria regionale del Lazio. L’inchiesta riguarda un giro di fatture false per un milione di euro e un presunto aggiustamento di sentenze grazie alle quali Ricucci avrebbe ottenuto enormi vantaggi economici. Il caso, come è noto, è esploso con gli arresti eseguiti dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del Gip di Roma, nell’ambito di una inchiesta sul fallimento di una delle società del Gruppo Magiste, riconducibile a Ricucci. Veniamo al ruolo che avrebbe avuto il magistrato tarantino. Da quanto emerso dagli accertamenti disposti dal procuratore Paolo Ielo, il magistrato avrebbe ottenuto favori per pilotare alcune sentenze. Ma quali favori avrebbe ottenuto da Ricucci? Soldi, innanzitutto. Secondo quanto scrive Repubblica, per gli inquirenti «è altamente probabile» che Russo «sia stato indebitamente retribuito da Stefano Ricucci in cambio della indebita rivelazione e/o anche dello sviamento della decisione in favore della società del gruppo Magiste». A questa presunta indebita retribuzione, gli inquirenti fanno risalire l’acquisto da parte del giudice Russo di una Porsche Cayenne e di un immobile. Acquisti, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, effettuati dopo il deposito di una sentenza della Commissione Tributaria che avrebbe fatto maturare a Ricucci un credito da 20 milioni di euro. Nelle carte dell’inchiesta si fa riferimento allo «smodato tenore di vita» del magistrato. Nella storia c’è anche un particolare piuttosto piccante: Ricucci avrebbe pagato il soggiorno del magistrato in compagnia di una donna, tale Zaineb Dridi, all’hotel Valadier di Roma. Tutte circostanze che Ricucci, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, smentisce: «Non ho mai pagato il giudice Russo e nemmeno gli ho pagato l’albergo. Russo l’avrò visto una volta in vita mia e di sicuro dopo che era già uscita la sentenza». C’è da dire che la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto per il magistrato l’interdizione dalla professione, richiesta non accolta dal gip. Il giudice Russo resta comunque indagato.

La verità di Zaineb Dridi, con una lettera inviata alla stampa che ha fatto il suo nome accostandolo alla vicenda Ricucci-Russo e pubblicata solo su "Affari Italiani" il 14 agosto 2016. "Spett.li redazioni in indirizzo, con la presente e-mail, io sottoscritta Zaineb Dridi, intendo chiarire il macroscopico travisamento dei fatti in base al quale sono stata assurta addirittura a prova dei legami tra Stefano Ricucci e il giudice Nicola Russo, nonché falsamente e ingiustamente apostrofata all’interno di atti giudiziari quale “amante/meretrice” di quest’ultimo, con mio grande stupore e sgomento: e io che pensavo che le indagini e la giustizia fossero una cosa seria! Non conosco assolutamente il loro grado di conoscenza - come apparirà chiaro da quanto di seguito narrato -  ma conosco ovviamente la verità dei fatti che mi riguardano e che diverge totalmente da quanto riportato da alcuni di Voi negli articoli pubblicati dal 20 al 25 luglio scorso. Anzitutto desidero precisare che solo ora, a distanza di 20 giorni, sto trovando quel minimo di forza per contattarvi e affrontare questa vicenda per me drammatica: vi posso garantire che mi avete distrutto la vita e violentata nell’animo. Vi spiego ora come stanno le cose. Io non ho nessunissima relazione con Nicola Russo se non in quanto padre della mia migliore amica: io e la figlia siamo amiche intime da ormai due anni e di conseguenza è del tutto naturale che io ne conosca anche il padre, il quale diverse volte ha accompagnato la figlia intrattenendosi con noi in alcune delle numerosissime nostre serate trascorse insieme, da padre moderno e premuroso. Dunque io non ho mai passato un istante da sola con il giudice Russo, ma sempre alla presenza della figlia! Questo che vi sto dicendo lo posso provare con centinaia di foto e video (meno male che ho questa mania) fatti con il mio telefonino, con tanto di indicazione di data, ora e luogo, compreso un video fatto nella fatidica sera dell’8 marzo (nonché fiumi di conversazioni e messaggi vocali su WhatsApp sempre con la figlia). Quella sera eravamo una grossa tavolata a cena al “Bolognese” (tra cui Nicola Russo e la figlia) e verso fine cena abbiamo incontrato, ritengo per caso, un’altra comitiva con diverse amicizie in comune con la mia e nella quale c’era anche Stefano Ricucci. Quest’ultimo è una persona che ho incontrato pochissime volte per caso nei locali romani, si contano a stento sulle dita di una mano: in due anni che frequento Roma saranno state tre o quattro volte al massimo e con lui non ho alcun grado di conoscenza, benché mi abbia chiesto il numero di telefono io non glielo ho mai dato. Tornando a quella sera, si è deciso poi di continuare la serata andando a ballare tutti insieme all’hotel “Valadier”, dove come noto si svolgono tra le più belle feste serali romane. Ci siamo dunque spostati in gruppo con diverse macchine di proprietà e taxi tutti quanti pieni e insieme. Quindi non risponde minimamente al vero che Ricucci abbia accompagnato me e Russo al predetto hotel per avere un rapporto sessuale a pagamento. Continuando la narrazione della vicenda, siamo arrivati al Valadier dove abbiamo trascorso la serata ballando tutti quanti in comitiva e come vi dicevo ho anche un video di questo. In particolare, ricordo che Nicola Russo è rimasto pochissimo lì, forse mezz’ora e poi è andato via, presumo a casa da sua moglie. Io, invece, sono rimasta a ballare insieme alla figlia e ad un’altra mia amica intima e durante la serata Ricucci ha cercato di parlare, approcciare credo con me, ma io non gli ho dato alcuna particolare confidenza se non due chiacchiere di cortesia. A fine serata, siccome si era fatto molto tardi ed eravamo stanchissime, abbiamo deciso (io, la figlia di Russo e la mia suddetta amica, pronta a testimoniare) di rimanere a dormire lì al Valadier e a quanto so il conto della camera l’ha pagato il padre della mia amica, Nicola Russo. Preciso peraltro che non è la prima volta che io e la figlia Russo o l’altra mia amica dormivamo insieme in quell’hotel (circostanze documentate con numerose foto, selfie e video fatti nelle camere dell’hotel insieme) dove sono da tempo registrata. La mattina seguente, in camera è arrivata una telefonata da parte di Ricucci, da quanto ho capito sotto intercettazione, alla quale purtroppo ho risposto io. Ed in base a questa telefonata, intercettata dalla Guardia di Finanza, e nella quale Ricucci parlando con la reception faceva il mio nome e quello di Russo, non sapendo a che nome era prenotata la stanza (ma sapendo che ero lì a dormire con la figlia), facendosi transitare l’interno con il fine di parlare con me per invitarmi a pranzo e chiedere il mio numero di cellulare, richieste che ovviamente declinavo. Ebbene, da questa telefonata hanno costruito un castello: quanto si legge nei miei riguardi negli atti giudiziari è frutto del desiderio degli investigatori di far quadrare il cerchio e provare, in qualche modo o in qualsiasi modo, che Ricucci abbia pagato Russo e con lui avesse un’amicizia intima. Sono cose che io non so assolutamente e sono stata tirata in mezzo senza neanche uno straccio di prova. Hanno costruito un castello, ripeto, su base meramente indiziaria e sono stata usata, triturata come persona per una banale telefonata: …forse perché sono di origine straniera e dunque non valgo niente, non ho una dignità di persona… o forse perché l’equivalenza straniera-prostituta viene facile…ma così non è giusto, ne ho versate di lacrime nelle notti insonni per questo…Nessun’altra prova, neanche indizio! Se fossi stata l’amante di Russo avrebbero dovuto intercettare almeno qualche nostra telefonata intima, qualche messaggino amoroso, e invece niente! O se fossi stata una “meretrice” al soldo di Ricucci doveva avere almeno il mio numero di telefono, non credete??? E invece anche qui nulla di tutto questo, neanche una telefonata intercettata tra noi! Mi chiedo allora perché farmi tutto questo…distruggere chiunque pur di provare un reato…Questa storia, da quel 20 luglio, mi ha veramente rovinato la vita. Nonostante tutta la sofferenza che sto patendo ho trovato la forza per ribellarmi a questa brutale violenza subita: ora ho capito che le parole unite alla superficialità di chi indaga possono fare più male di qualsiasi altra cosa. Non sono un’esperta, ma basta vedere un qualsiasi film poliziesco per sapere che sarebbe bastato controllare le celle telefoniche agganciate quella notte dai nostri telefoni per verificare che in quell’hotel Nicola Russo non c’era ma c’eravamo io, sua figlia e un’altra mia amica. Quanto vi sto dicendo, l’ho anche dichiarato alla Guardia di Finanza il giorno 20 pomeriggio, quando sono stata ascoltata come persona informata sui fatti dopo l’arresto di Ricucci e dopo che quell’ordinanza riportata nei quotidiani, per me fatidica, era purtroppo già stata scritta. Sperando, questa volta, che sia chiara la verità, perché questa è la verità dei fatti! Per quanto sopra esposto, confido nella pubblicazione della mie dichiarazioni, oltre che per dovere di cronaca, anche a parziale ristoro della mia reputazione e onore, gravemente lesi, e per migliorare il mio stato di salute. Distinti saluti. Zaineb Dridi"

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su "Il Foglio". “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».

Guardia di Finanza, gli hotel pagati al generale Toschi: omaggio del socio di Verdini. Spuntano prove della sua rete di relazioni con personaggi come Riccardo Fusi, regista del sistema Grandi Appalti, poi condannato per corruzione e bancarotta fraudolenta, scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Nel passato del Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giorgio Toschi, c'è una scatola di cartone che dice qualcosa dell'uomo, quanto basta dell'ufficiale, molto della sua rete di rapporti che ne avrebbe sconsigliato la nomina il 29 aprile scorso e che forse, e al contrario, a questo punto la spiega. In quella scatola, custodita nell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, ci sono due fatture per altrettanti soggiorni alberghieri.  Soggiorni del luglio e del settembre del 2008 che il generale non ha mai saldato, perché qualcun altro lo faceva per lui. Un costruttore e corruttore che di nome fa Riccardo Fusi, un "pratese" che in quegli anni, a Firenze, dove Toschi era Comandante regionale, contava. Perché tasca e "socio occulto" di Denis Verdini. Perché Grande Elemosiniere toscano e perno del Sistema trasversale che presiedeva agli assetti politici e imprenditoriali lungo l'Arno. Almeno fino a quando le inchieste giudiziarie sui Grandi Appalti (2010) non lo hanno travolto insieme al suo gruppo (la BF holding e la BTP), schiantato sotto il peso dei debiti e per il cui crac Fusi risponde ora di bancarotta fraudolenta. Ultimo, ma non unico, dei processi che lo hanno visto e lo vedono imputato. Da quello che sta celebrando il suo primo grado a Firenze per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino (dove Fusi è imputato con Verdini), a quello chiuso nel febbraio scorso in Cassazione con una sentenza di condanna a 2 anni per la corruzione nell'appalto per la scuola dei Marescialli di Firenze. La scatola e il Generale, dunque. Sepolta negli atti del processo per il crack del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini, l'evidenza è numerata "B14". E, nel 2010, è parte delle migliaia di carte che il Ros dei Carabinieri acquisisce durante le perquisizioni negli uffici del Gruppo Fusi. All'interno, una messe di fatture, molte delle quali intestate "UNA hotel", la catena alberghiera di cui Fusi è proprietario. La scatola appare da subito un formidabile strumento di lettura della rete di relazioni di Riccardo Fusi, oltre che prova del suo rapporto "a catena" con Denis Verdini. Ma non solo. Tanto è vero che, con una decisione inedita e che la dice lunga sul grado di condizionamento ambientale che Verdini e Fusi erano riusciti a imporre, l'analisi del suo contenuto "contabile" viene delegata non alla Finanza, evidentemente ritenuta non affidabile, ma alla direzione generale dell'Agenzia delle Entrate della Toscana che, il 24 maggio di quell'anno, ne redige un rapporto di una quarantina di pagine. Le ultime delle quali di particolare interesse. "Nella stessa scatola B14 - scrive l'Agenzia delle Entrate - sono stati reperiti documenti di spesa emessi da UNA spa, addebito spese alberghiere non pagate dai relativi beneficiari e addebitate alla società BF servizi srl. (altra società del Gruppo Fusi ndr.)". E di quei beneficiari a scrocco viene allegato un elenco di 50 nomi. Alcuni decisamente più importanti di altri. Accanto al figlio di Denis Verdini, Tommaso, e ai suoi amici che, di volta in volta, decideva di portare con sé all'Una hotel del Lido di Camaiore, figurano infatti due ufficiali della Guardia di Finanza. Giorgio Toschi (laconicamente indicato dall'Agenzia come "generale della Gdf") e Marco De Fila (neppure indicato come appartenente alla Finanza). Il primo, Comandante regionale in Toscana dal 2006 al 2010. Il secondo, comandante provinciale nel 2009 della Finanza di Prato, quella competente per i controlli sul Gruppo Fusi (la cui sede legale era a Calenzano). E del resto che Fusi avesse un occhio attento a Prato lo dimostra la presenza nell'elenco degli ospiti anche di Costanza Palazzo, figlia di Salvatore, Presidente del Tribunale di Prato fino all'ottobre 2013, quando si dimise dalla magistratura per far cadere al Csm l'azione disciplinare cui era stato sottoposto per avere "omesso consapevolmente di astenersi dalla trattazione e dall'emissione di numerosi decreti ingiuntivi in favore di società che, pur in concordato preventivo, erano collegate a Riccardo Fusi, cui era legato da amicizia e assidua frequentazione". Fusi, insomma, sa scegliere i suoi ospiti. E il generale Giorgio Toschi, lo è almeno due volte come documentano le fatture XRF 310520/07 e XRF453092/07. Entrambe nello stesso albergo: il quattro stelle UNA hotel di Bergamo, in via Borgo Palazzo, una costruzione in vetro e acciaio che chiuderà i battenti alla fine del 2013. La prima fattura è relativa a un soggiorno di due notti il 5 e 6 luglio 2008, un sabato e una domenica. La seconda, ancora due notti, il 9 e 10 settembre, un martedì e mercoledì, di quello stesso anno. Sempre la stessa camera. Una "matrimoniale classic" con "free upgrade in executive junior suite". Per una spesa che, in luglio, è pari a 199 euro e 50 centesimi, e in settembre a 188 euro. E in cui, perché l'ospite non abbia a rimanerne a male, tutto è compreso. Oltre al lettone, una mezza minerale e un pacchetto di patatine in luglio. Due mezze minerali e un succo di frutta in settembre. Del resto, l'ospite è così di riguardo che il lunedì 30 giugno del 2008, alla vigilia del primo soggiorno del Generale, una mail inviata dall'ufficio prenotazioni UNA all'hotel di Bergamo e allegata alla fattura trovata nella scatola "B14", raccomanda di "far trovare in camera al sig. Toschi un cesto di frutta". Non è dato sapere, né ha importanza, per quale motivo l'allora Comandante della Regione Toscana della Guardia di Finanza fosse a Bergamo e avesse bisogno di una matrimoniale con free upgrade a junior suite. Né se fossero improrogabili ragioni di servizio a spingerlo in Lombardia in un week-end estivo. Certo, si potrebbe osservare che se fossero state ragioni di ufficio a muoverlo da Firenze, non una ma due volte, il Generale avrebbe sicuramente potuto usufruire della foresteria dell'Accademia che a Bergamo ha la sua sede e che lo stesso Toschi ha comandato. In ogni caso, è singolare che un generale di divisione quale allora era Toschi, con uno stipendio netto mensile di circa 4mila e 500 euro, dovesse scroccare una camera di albergo, un pacchetto di patatine, due succhi di frutta a Riccardo Fusi e al suo Gruppo sui quali, come Comandante regionale, aveva "giurisdizione", senza che questo gli apparisse sconveniente. Non fosse altro per la formula linguistica con cui, riferendosi al Generale Toschi, la direzione della UNA Hotel di Bergamo chiede alla "Bf servizi srl" (società infragruppo di Fusi) di liquidare le fatture in sospeso dei suoi due soggiorni ("Con riferimento al soggiorno dei vostri clienti presso il nostro hotel siamo lieti di inviarvi le fatture per il relativo saldo"). Non fosse altro, perché - "cliente" o meno che fosse considerato dal Gruppo Fusi - i fatti hanno documentato come, fino al 2010 e alle indagini della Procura di Firenze e del Ros dei carabinieri, la Guardia di Finanza, che aveva in Toschi il suo ufficiale più alto in grado in Toscana, non si sia accorta di quale grumo di corruzione si fosse saldato nel rapporto tra Fusi e Verdini, tra il Gruppo BF-BTP e il Credito Cooperativo Fiorentino. È un fatto che le notti a Bergamo in carico a Fusi non sembrano uno sfortunato inciampo nella storia di Toschi. L'ufficiale era già finito in una vicenda non edificante in quel di Pisa nel 2002, dove era stato comandante Provinciale e dove una generosa archiviazione (come ha documentato il "il Fatto" il 3 maggio) lo aveva salvato da un processo per concussione. Accusato di aver chiesto e ottenuto denaro contante dalle concerie della zona per evitare verifiche (e per questo indagato), Toschi aveva dovuto spiegare per quale misteriosa ragione fosse riuscito a cambiare in cinque anni tre Mercedes nuove di pacca con formidabili sconti. Perché fosse per lui abitudine cenare con imprenditori della zona. Soprattutto, per quale ragione, non facesse altro che cambiare banconote vecchie con banconote nuove o perché, nell'arco di anni solari successivi, il suo conto corrente personale avesse registrato prelievi tra i 4 e i 10 milioni di lire. Come se l'uomo potessero campare di aria. "Ho ricevuto denaro contante dalla mia famiglia di origine", aveva sostenuto Toschi in un drammatico interrogatorio con l'allora procuratore Enzo Iannelli. In quel 2002, la spiegazione bastò. La scatola "B14" meriterà altre risposte.

Consob, il caso della funzionaria che vigila su stessa. La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo, scrivono Milena Gabanelli e Giovanna Boursier il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni? Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti. Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti», aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu. L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain». Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà. L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione. Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.

Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.

Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.

Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.

Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.

Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.

La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.

Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.

Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.

Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.

Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.

Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.

Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.

Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».

Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.

Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.

La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.

Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».

Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»

Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.

Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.

Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.

Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.

Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.

Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.

Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!

Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:

– Gesù è stato un leader religioso.

– Maometto è stato un leader religioso e militare.

– Gesù non ha mai ucciso nessuno.

– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.

– Gesù non ha mai posseduto schiavi.

– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).

– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.

– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).

– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.

– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.

– Gesù non ha mai torturato nessuno.

– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.

– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).

– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.

– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.

– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.

– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.

– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.

– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).

– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.

“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.

“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39

“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12

“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22

“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4

“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18

“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64

“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11

“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16

“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111

“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52

“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10

“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47

“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29

Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29

“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13

“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4

“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51

“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”.  – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234

“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36

“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35

“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28

“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14

“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12

“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13 

Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI….POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE“. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV

L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.

Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste». 

7 Luglio 1647, i potenti tremano: Masaniello è il Re di Napoli, scrive il 7 luglio 2015 Francesco Pipitone su “Vesuvio Live”. Masaniello è un nome che a Napoli viaggia ancora nell’aria, uno spirito che aleggia nella città, in particolare nella zona di Piazza Mercato, luogo dove la persona con una buona predisposizione dell’animo può allungare le mani e afferrare l’umile pescatore, Re senza corona che ha governato per pochi giorni e facendo tremare i potenti, fin quando la pazzia e le basse mire non hanno, brutalmente e fatalmente, ucciso il corpo, e solamente il corpo, del rivoltoso. Quella buona predisposizione d’animo in altro non consiste se non nel desiderio fermo, puro e forse un po’ ingenuo, di libertà, una libertà bella e semplice che vuol dire amare e rispettare la propria Terra, la propria gente. Tommaso Aniello d’Amalfi, luogo di origine del padre di Masaniello, nacque in Vico Rotto a Napoli il 29 Giugno 1620, da Cicco e Antonia Gargano. Nella metà del Seicento la popolazione partenopea all’interno delle mura ammonta a circa mezzo milione, del quale solo una piccola parte ha un’occupazione stabile: il resto vive alla giornata, mentre le classi più alte e agiate vivono di usura, speculando sulle gabelle (imposte indirette sulle merci), vendita di voti e rendita, mentre tra i nobili i soli che esercitano con onore la propria funzione erano quelli dei più antichi Sedili cittadini. Le gabelle gravano in particolar modo sui beni di prima necessità, come il grano, il pane, frutta, verdura, carne, pesce, in modo da costringere il popolo alla fame. Il pretesto per la rivolta popolare nasce da lontano, il giorno di Santo Stefano del 1646, quando il viceré don Rodrigo de Leon, Duca d’Arcos, viene contestato mentre si reca alla Santa Messa dopo la notizia di nuove gabelle sulla frutta. Il 3 Gennaio 1647 vengono pubblicate le tariffe, tuttavia è solo il 20 Maggio dello stesso anno che qualcosa si muove: in città spuntano manifesti che parlano di tumulti sorti a Palermo ed esortanti a fare lo stesso a Napoli; diciassette giorni dopo, il 6 Giugno, viene incendiata di notte la bottega nella quale avviene la riscossione della gabella sulla frutta, gesto che, come si seppe in seguito, fu compiuto da Masaniello. Come mai, però, costui si decise ad agire? Masaniello è un lazzaro, un giovane plebeo ca votta a campà, ossia tira a campare come può, che col tempo però si è “specializzato” nell’attività di pescivendolo. Molto furbo e con grande carisma, fedele alla sua gente, alla religione e al Re, come ogni lazzaro aveva avuto a che fare praticamente con tutti, dai poveracci ai signori, dai mariuoli agli intellettuali e agli artisti, specialmente quando era finito in galera per essersi opposto ai sequestri di pesce. In prigione ebbe modo di conoscere dei prigionieri politici, che lo portarono ad incontrare don Giulio Genoino, eletto del popolo destituito perché fastidioso e fervente nel difendere la plebe contro la nobiltà, fattosi prete a più di 70 anni perché stanco di entrare e uscire dalle carceri e il quale, con la sua cultura, affascinò Masaniello e lo rese cosciente della corruzione che soffocava la popolazione, pur senza mai arrivare a manovrarlo: se ci fosse riuscito, d’altra parte, il ragazzo non avrebbe fatto una triste fine. Spaventato dall’incendio, il viceré tenta di calmare la situazione scarcerando due guappi affinché l’eletto Naclerio potesse contrattarvi, Peppe Palumbo e l’abate Perrone, amici di Naclerio stesso oltre che di don Genoino. Nel frattempo Masaniello addestra qualche centinaio di alarbi, i lazzari che dovevano sfilare alla festa per la Madonna del Carmine curata da fra’ Savino, cuciniere del Carmine e amico di Genoino, in modo da indurli sì a protestare contro il mal governo, ma allo stesso tempo sottolineando la fedeltà al Re Filippo IV, detto El Rey Planeta perché con lui la Spagna portò alla massima espansione il suo impero dove non tramontava mai il Sole. La tappa successiva fu il 30 Giugno, quando Masaniello e più di duecento alarbi con un tamburo e vestiti di stracci, urlano “Mora lo mal governo, viva ‘o Rre”, oltre a vari altri gridi contro le gabelle e le soverchierie. Giunti sotto Palazzo Reale ai pezzenti non viene vietato di protestare, probabilmente per ordine dello stesso viceré che voleva evitare pericolose tensioni. Un chiaro segno di debolezza che incoraggia Masaniello, suo cognato Mase Carrese (padrone abbastanza benestante di una bottega di frutta, verdura e carbone) e Ciommo Donnarumma (ortolano, anch’egli abbastanza benestante) a organizzare una protesta ben più dura giusto una settimana dopo, domenica 7 Luglio, la vera e propria rivoluzione. Quella mattina gli alarbi sono circa trecento ed armati di canne, stanno dietro Sant’Eligio. Ad essi si aggiungono contadini, pescatori e commercianti che davanti alla bottega per la riscossione della gabella manifestano l’intenzione di non pagare. Coloro che ricorrono a Naclerio, che fa il doppio gioco insieme ai due camorristi (categoria fatta di venduti geneticamente traditori del popolo, dunque), si sentono dire che è meglio che paghino; una delegazione di negozianti riesce a farsi ricevere da Don Rodrigo d’Arcos, il quale li manda da un commissario, ma alla fine nulla cambia e perciò Carrese, dopo aver preso uno schiaffone sul volto al Mercato, rovescia a terra la sua merce e se la mette a vendere 4 soldi al rotolo senza alcuna tassa. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro. A quel segnale, Masaniello e alcuni dei suoi lasciano Sant’Eligio e si catapultano nel mezzo del mercato, gli scugnizzi portano l’Inferno a Napoli e non vogliono conoscere alcuna ragione, buttando dei fichi in faccia a un Naclerio che come al suo solito voleva dimostrare alla polizia di essere il padrone della folla. Gli alarbi scappano e seminano i poliziotti, arrivano altri lazzari che di fichi non sanno cosa farsene, se non mangiarli, allora tirano grossi sassi colpendo in petto Naclerio, salvato e condotto svenuto al Palazzo Reale da Perrone. A questo punto la folla si fa davvero consistente e Masaniello la arringa dalla fontana con i delfini, lo stesso punto, più o meno, dove trovò la morte per decapitazione Corradino di Svevia: non si sa di preciso cosa abbia detto, secondo alcuni semplicemente di ribellarsi e incendiare le botteghe dei dazi, secondo altri un discorso da capo con la promessa che, grazie alla Madonna del Carmine e il patrono San Gennaro, la sofferenza sarebbe ora finita. Masaniello, a capo di quasi mille persone, distrusse i locali del dazio e si diresse a Palazzo Reale per prendere Naclerio, rifugiato nelle stanze della moglie di don Rodrigo. Quello scappa, ma la rivolta si sta propagando in tutta la città e i soldati vengono man mano disarmati. Il viceré prepara la fuga e si rifugia al convento di San Luigi, da dove, sotto suggerimento del conte genovese Sauli, scrive dei bigliettini dove annuncia la soppressione della gabella e li lancia alla gente. Non è sufficiente per don Giulio Genoino, che vuole la reintroduzione di un discusso privilegio concesso al Regno di Napoli dall’imperatore Carlo V, con cui si stabiliva uguale rappresentanza per patrizi e plebei, oltre a una giusta redistribuzione dell’onere delle gabelle. Contemporaneamente in città venivano aperte le carceri e compiuti saccheggi, con i camorristi Perrone e Palumbo stavolta a capo di alcuni insorti – chissà se il viceré lo sapeva. Alla sera Masaniello fa suonare le campane del Carmine per adunare la gente, dando appuntamento per il giorno successivo: bisognava far abbassare anche la tassa sulla farina; don Rodrigo d’Arcos si è rifugiato al Maschio Angioino e ci resterà tre giorni. Masaniello ora è consapevole di quanto potere abbia nelle proprie mani; Genoino lo lascia fare, i due guappi pure. Il caporivolta dà i primi ordini, primo tra tutti abbassare il prezzo del pane, girando per gli esercizi, controllando di persone e minacciando di tagliare la testa agli imbroglioni. Inevitabilmente si concede qualche vendetta: per esempio, dà al fratello un elenco di case da bruciare, tutte appartenenti a uomini corrotti, con l’ordine puntualmente rispettato di non rubare neanche la cosa più insignificante: tutto alle fiamme. I consensi attorno a Masaniello crescono, a un certo punto medita una rottura con la Spagna, dato che può facilmente conquistare i castelli, ma Giulio Genoino lo fa desistere perché non vuole rinunciare alla protezione del Re, bensì solo le riforme: è la scelta, forse, che condanna Masaniello a morte. Don Rodrigo era convinto, in fondo, che si trattasse solo di un po’ di caos, il capriccio di un pescivendolo che presto sarebbe stato abbandonato, o si sarebbe scocciato. Un pescivendolo facilmente ammansibile, magari con un vitalizio consistente, da signore, ma il tentativo di corruzione non sortisce effetto. Altri individui bisogna dunque comprare, e allora gli avvocati Mastellone e De Palma fanno spuntare un documento che somiglia al privilegio di cui parla Genoino, che provvede personalmente a integrare e renderlo uguale all’originale, che secondo lui, evidentemente, si trova in Spagna. Genoino crede di non aver più bisogno di Masaniello, del quale il viceré può fare ciò che vuole: la notte tra mercoledì e giovedì, la vita di Masaniello è attentata due volte, prima con un coltello e poi con cinque colpi di archibugio, ma la colonna di nemici viene afferrata dal popolo devoto e giustiziata per essersi ribella al Re e al popolo: decapitati, teste infilzate sui pali in mostra al mercato e circa 30 corpi trascinati in città. Il privilegio viene letto finalmente nella Chiesa del Carmine e approvato dal popolo, ora Masaniello può andare dal viceré, insieme a Genoino e al mediatore cardinale Filomarino, affinché fosse firmato; per l’occasione don Rodrigo gli ha fatto consegnare un veste d’argento. Durante il tragitto Masaniello ripete più volte alla gente di incendiare tutta Napoli se non dovesse tornare dal palazzo, però tutto va liscio e dal balcone saluta la folla, oltre a baciare i piedi al viceré tra le acclamazioni della plebe, ricevendo in cambio il titolo di capitano del popolo e una collana d’oro, accettata solo una volta ricevuta l’autorizzazione dei popolani. Sono i primi segnali del suo crollo nervoso. I giorni seguenti prosegue a governare con i soliti buoni propositi, distribuisce le vivande, fa saccheggiare i tesori dei disonesti e le case dei nobili scappati per le opere utili al popolo, ristabilisce l’ordine pubblico. Con don Giulio e il nuovo eletto Francesco Arpaja però è sprezzante e irrispettoso, il suo comportamento si fa stravagante, anche nel Duomo in occasione del giuramento sul privilegio. Masaniello ha vinto la sua lotta, anche i suoi manovratori, i quali ora meditano la sua morte. Prima di tutto bisogna fargli mancare un favore così incondizionato della gente, dunque viene sparsa la falsa voce della pederastia di Masaniello, oltre a insinuare che non sia giusto che un semplice pescivendolo comandi sui suoi pari. La domenica annuncia di non voler più comandare e fa smantellare le milizie popolari, la gente festeggia e lui se ne va a Posillipo con il viceré che lo ha invitato, per distrarlo mentre si forma in segreto il nuovo assetto: d’ora in poi gli ordini di Masaniello sono considerati senza valore. Lunedì si sveglia dopo una notte febbricitante e comincia dare ordini, a pretendere esecuzioni, il suo fisico è debolissimo e la gente non lo segue più, essendogli anzi ostile per la sua pazzia. Di sera viene legato e sorvegliato in casa sua, il 16, giorno di celebrazione della Madonna del Carmine, viene destituito e se ne ordina l’incarcerazione fino alla guarigione. Masaniello, però, riesce a fuggire e si reca nella Chiesa, dove tiene sul pulpito l’ultimo amaro discorso in preda alla follia, in cui ricorda i risultati della lotta, ammonisce i concittadini che lo hanno tradito e annuncia la sua morte imminente, poi scese e si denudò in mezzo alla navata. Portato in cella, fu ucciso con alcuni colpi di archibugio da alcuni capitani corrotti e decapitato, il copro ai rifiuti e la testa al viceré come prova. I corrotti sono premiati con cariche di potere e somme di denaro. Il 17 Giugno il popolo si accorge che il pane costa di nuovo come prima e le gabelle reintrodotte, così va a recuperare il corpo disfatto di Tommaso Aniello e lo porta in processione, dopo averlo lavato e ricucito, il 18 Luglio al funerale celebrato dal cardinale Filomarino, forse l’unica persona che ha davvero apprezzato Masaniello, pur allontanandosene dopo le prime stravaganze. Con il feretro davanti al Palazzo Reale, don Rodrigo in segno di lutto fa abbassare le bandiere. Di lui il cardinale Filomarino scrisse, in una lettera al papa: Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA. 

Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.

La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)

Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.

Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica

Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.

La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.

LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.  

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Magistrati & storie di corna non accadono solo a Taranto: a Roma un membro del Csm simula il furto dell’Iphone! Dopo il “gossip” di un magistrato tarantino che sarebbe diventato l’amante dell’ex-moglie del suo avvocato che lo assisteva, questa volta i tradimenti arrivano al Csm a Roma, scrive il 28 giugno 2016 Frank Cimini e Manuela D’ Alessandro su “Giustiziami”. Aveva scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie che s’infuriava e chiedeva spiegazioni e lui replicava che l’apparecchio gli era stato rubato. Il nostro nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava una denuncia formale alla polizia affermando di aver subito un furto. Protagonista della vicenda un componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura che ora è nei guai, indagato dalla procura di Roma per simulazione di reato e sotto procedimento disciplinare. Perché la denuncia si è rivelata priva di riscontri con la realtà. I controlli e gli accertamenti in un caso del genere sono molto più accurati e soprattutto più veloci rispetto a quando una denuncia del genere viene presentata da un comune mortale. Per cui emergeva immediatamente che l’apparecchio, peraltro intestato al Csm, era sempre stato nella disponibilità del consigliere e mai oggetto di un furto. Il nostro magistrato è indagato dalla procura di Roma per aver simulato un reato e sotto inchiesta disciplinare da parte del Csm. Tutto è accaduto perché il consigliere non ha avuto la forza di far fronte alla rabbia di sua moglie per quel messaggio all’amante dal contenuto diciamo “inequivocabile” e ha finito per imboccare una strada senza ritorno. La vicenda è clamorosa, considerando l’importante incarico ricoperto dall’interessato che è tuttora al suo posto a giudicare i colleghi in attesa dello sviluppo delle indagini. L’episodio avvenuto alcuni mesi fa è coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non certo piccolo di persone. Con tutti i problemi che ha il Csm mancava solo una storia di corna gestita molto male (peggio non si poteva insomma) dal protagonista principale. Adesso si tratta di stare a vedere come sarà gestita dai colleghi del nostro, a Perugia e a Roma. Mettere tutto a tacere appare francamente difficile anche se recentemente in più occasioni il cosiddetto organo di autogoverno dei giudici ha dimostrato di avere l’omertà nel suo dna. Giovanni Legnini prova a smentire la vicenda del magistrato fedifrago svelata da giustiziami.it inviando una nota ai consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura: “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Csm”. Nessuno sembra però credergli e anzi molti deridono i toni ambigui del comunicato. Legnini ha dovuto emergere dal silenzio pressato dalle centinaia di magistrati che chiedono da giorni chiarezza nelle mailing list di corrente. “Se davvero è andata così, questo signore non può continuare a sedere nel Csm”, scrivono in molti. Altri manifestano livore contro la stampa: “Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista (è un termine improprio) e si dà origine alla notizia”.  Nei bar attorno al Tribunale di Milano all’ora di pranzo capannelli di toghe si confrontano sul nome (lo sanno tutti) e sui risvolti della vicenda.  E lo stesso accade a Roma, da dove stamattina il vicepresidente del Csm Legnini si è sentito in dovere di riportare “un clima sereno e proficuo” tra i magistrati. Ma la sua difesa non ha convinto stando alla mailing list di Anm. “E’ uno scialbo comunicato parasovietico del tipo in Urss non ci sono furti”, azzarda uno. “Legnini scrive ‘non è pendente alcun procedimento’ – osservano altri – parlando al presente. Questo significa che in passato lo era e magari è stato definito con un patteggiamento?”. E ancora: “Se non fosse per lo sputtanamento, ci sarebbe da ridere”; “Chiediamo a Signorini come sono andate le cose”. Chissà se il giornalista re del gossip sa se il Csm ha mai aperto un’inchiesta sul magistrato fedifrago, esercitando quell’azione penale che dovrebbe essere il pane della magistratura, oppure se ora sta insabbiando un’indagine conclusa con un patteggiamento o in altro modo che avrebbe dovuto portare alla rimozione dall’incarico, peraltro importante, rivestito dal magistrato.

Csm: Legnini, nessuna indagine su componente Consiglio. (Agenzia Italia – AGI) “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Cosi” il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, in una lettera inviata oggi a tutti i consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura, fornisce chiarimenti in merito alla vicenda, riportata da alcuni organi di stampa, che riguarderebbe un componente del Consiglio.  “Gentili consiglieri – scrive Legnini – a seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa oggi e nei giorni scorsi che ha destato in noi apprensione. Secondo ipotesi formulate da alcuni quotidiani e da talune testate giornalistiche in rete, penderebbero un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio Superiore; tali procedimenti asseritamente discenderebbero da una sua denuncia concernente l’impiego abusivo di un telefono cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi. Secondo quanto riportato sui siti e sui quotidiani, tale denuncia avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di responsabilità” per simulazione di reato. All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli aggiunge quindi che “alla luce di tali rilievi, non può” nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche, le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti basati su elementi privi di conferma in atti giudiziari”. Legnini, infine, auspica il “mantenimento di un clima sereno e proficuo in vista dell'impegnativo lavoro” delle prossime settimane.

Un sms agita il Csm, Legnini smonta il caso. Cimini conferma: «Storia vera». L’ex cronista giudiziario del “Mattino” a Milano: “il vicepresidente smentisce l’indagine sul consigliere? Ma la finta denuncia di furto del cellulare c’è stata, i pm hanno paura di indagare così in alto”. A proposito….ma la Legge non è uguale per tutti ?, scrive il 29 giugno 2016 Giovanni M. Jacobazzi su "Il Dubbio". Frank Cimini è uno dei cronisti che nel giornalismo italiano degli ultimi quarant’anni hanno fatto la storia della “giudiziaria”. Ex ferroviere, poi praticante al Manifesto, è stato per oltre un quarto di secolo l’inviato del Mattino al Palazzo di Giustizia di Milano. Ha vissuto gli anni ruggenti di “Tangentopoli”, gli anni del trionfo delle manette e della rivoluzione togata. In pensione dalla fine del 2013, cura un seguitissimo blog, Giustiziami.it, pieno di retroscena su quanto accade nelle austere stanze del Tribunale milanese. La testata rende bene l’essenza del Cimini pensiero, maturato dopo aver vissuto per decenni a contatto con i magistrati: “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato”. È stato lui lo scorso fine settimana a scatenare il panico nella magistratura italiana con un articolo dal titolo eloquente: “Storia di corna, membro del Csm simula furto dell’iPhone”. In questi giorni Cimini è a Ginostra. Lo raggiungiamo telefonicamente per un’intervista dopo che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha inviato a tutti i membri dell’organo di autogoverno una nota che smentisce le rivelazioni di Giustiziami.it: “A seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, Vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa”, si legge nella comunicazione di Legnini. Il quale ricorda come, secondo “alcuni quotidiani” e “talune testate giornalistiche in rete”, penderebbero “un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio superiore“. Procedimenti che “discenderebbero da una sua denuncia” sull’“impiego abusivo di un cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi”. Si tratterebbe di un messaggio WhatsApp inviato per errore alla moglie del consigliere del Csm ed evidentissimamente destinato a un’altra donna, che avrebbe spinto il membro del Consiglio a denunciare l’uso abusivo del telefonino, rimasto in realtà sempre in suo possesso. Legnini scrive ai consiglieri che “non risulta pendente alcun procedimento”.

Cimini, hai visto che caos hai scatenato? Il tuo pezzo ripreso anche da Dagospia è stato tra i più letti del weekend. Ma la storia è vera?

«Confermo pienamente il fatto storico. Un magistrato membro del Csm, con il cellulare di servizio, ha scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie. Per tentare di placare la furia della moglie tradita si è inventato la storia che gli era stato rubato il telefonino. E, nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava pure una denuncia affermando di aver subito un furto. Gli accertamenti svolti, però, hanno appurato che il cellulare era sempre rimasto nella disponibilità del consigliere togato e mai oggetto di un furto».

Quando sarebbe avvenuto l’episodio?

«Alcuni mesi fa. È coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non piccolo di persone».

Che provvedimenti hanno preso i colleghi dell’incauto consigliere?

«Questo non so dirlo. Non so quali siano le decisioni della Procura di Roma. Ma dubito seriamente che possano e vogliano procedere contro di lui».

E perché?

«Le carriere dei magistrati dipendono totalmente dal Csm. Il consigliere in questione è un potentissimo presidente di Commissione. Mi spieghi quale pm ha il coraggio di indagarlo a costo di vedere la sua carriera stroncata per sempre».

Legnini scrive che “non risulta pendente alcun procedimento penale”.

«Appunto, non risulta “pendente”. La smentita si limita a escludere attuali procedimenti penali. Non dice se il fatto è successo o meno. Se è stato archiviato oppure se è stato già definito».

Legnini ricorda anche che questa vicenda ha suscitato “apprensione” e “disagio” in tutto il Csm.

«Sarò prevenuto, ma questo Csm fu quello che, al culmine dello scontro che andava avanti da mesi fra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, annunciò il procedimento disciplinare solo quattro giorni dopo il comunicato con cui l’allora procuratore disse che di lì a poco sarebbe andato in pensione. I magistrati la devono smettere con la favola dell’indipendenza e dell’autonomia. E basta anche con questa farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale».

Su una cosa si può convenire, Cimini: se fosse stato un politico a mandare messaggi all’amante col telefonino di servizio e poi a simularne il furto, sarebbe stato crocifisso a testa in giù.

«Sì, sarebbe stato colpito e affondato a colpi di legalità».

IL PM, LE CORNA E IL FINTO FURTO. STORIA DEL GRANDE INTRIGO CHE SCUOTE IL CSM. Di Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016. Il Grande Intrigo del Csm. Come in un giallo di Raymond Chandler, si mescolano il presunto colpevole, il corpo del reato, l’amante e il poliziotto, in un’ondata di sospetti, pettegolezzi e veleni che infestano i corridoi di Palazzo dei Marescialli. Nelle mailing list dei magistrati non si parla d’altro (“chiediamo a Signorini come sono andate le cose”, suggerisce qualcuno), i giornalisti si consultano tra loro, nessuno sa come uscirne, siamo tutti in fibrillazione, dateci il fedifrago, qui e ora. Tuttavia la trama piccante di amori penalmente rilevanti s’infrange contro lo scoglio abruzzese, lui, Giovanni Legnini. Dopo giorni di tam tam ambiguo, di detti e non detti, di nomi sussurrati e frasi mozzate, il vicepresidente del Csm spedisce una lettera ai consiglieri. “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”, chiarisce la nota. Quali sarebbero codesti fatti? Lo scorso 24 giugno Frank Cimini, storico cronista giudiziario, innesca la miccia con un post sul sito Giustiziami.it: “Storia di corna, membro del Csm simula furto iPhone”. Il racconto ha dell’incredibile: un consigliere togato avrebbe indirizzato un messaggio via WhatsApp, “dal contenuto inequivocabile”, all’amante. La moglie non la prende bene, anzi s’infuria, pretende spiegazioni e il magistrato replica che l’apparecchio gli sarebbe stato rubato. Per dare consistenza all’autodifesa sporge denuncia sostenendo che il telefono, per giunta intestato al Csm, gli sarebbe stato sottratto da un ladro. La polizia avvia le indagini e scopre che, colpo di scena, lo smartphone è sempre rimasto nelle disponibilità del consigliere. Preso atto del furto immaginario, i funzionari sono costretti a presentare un esposto alla procura di Roma per simulazione di reato con il risultato che, racconta Cimini, lo stesso si ritroverebbe sotto una duplice inchiesta, penale e disciplinare. Il racconto supera la più fervida fantasia. Dagospia lo rilancia, e la storia di corna, vere o presunte, infiamma le linee telefoniche di cronisti e magistrati. Tra togati e laici non si chiacchiera d’altro, il weekend precede la settimana “bianca” in cui i consiglieri non si riuniscono. E’ tutto un vortice di telefonate, il nome che circola è sempre lo stesso, ma nessuno capisce che cosa ci sia di vero e d’inventato, eppure qualcosa c’è. Il Tempo pubblica un pezzo garbato, senza far nomi; il Giornale non è da meno, e per l’occasione rispolvera il nom de plume Diana Alfieri, già “autrice” della patacca del caso Boffo. Il 28 giugno Legnini spedisce la nota chiarificatrice: “All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento a carico di componenti del Consiglio”, inoltre “alla luce di tali rilievi non può nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti privi di conferma in atti giudiziari”.

Dura quattro giorni l’attesa per una presa di posizione ufficiale, in quel lasso di tempo l’ombra del fedifrago si allunga minacciosa su ciascun componente maschio del Csm. “Per fortuna Legnini ha smentito – commenta il consigliere Pierantonio Zanettin al Foglio – Io sono fuori con la famiglia, mi chiamano decine di suoi colleghi ma io non so nulla di questa storia. Si figuri quanta voglia ho di disquisire di corna altrui”. Ma le corna in questa storia tengono banco. E’ possibile che la trama boccaccesca sia stata inventata di sana pianta? Cimini non ha la reputazione del pataccaro, la sua è la carriera di un uomo di trincea, per venticinque anni al Mattino, inviato al Palazzo di giustizia di Milano; nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolano dietro Antonio di Pietro, è tra i pochi a tenersi fuori dal coro. “La notizia – dichiara Cimini al Foglio – proviene da ambienti giudiziari, non è una patacca e si regge a dispetto della smentita burocratica di Legnini. La nota riferisce che non è pendente alcun procedimento, al tempo presente. La vicenda risale ad alcuni mesi fa, nulla esclude che il togato sia stato iscritto e poi archiviato, o che sia tuttora indagato riservatamente o che possa esserlo in futuro”. M’è dolce naufragar nell’incertezza. “Quella nota è un modo per tamponare e prendere tempo – prosegue Cimini – Che il magistrato abbia mandato per errore alla moglie il messaggio indirizzato all’amica del cuore è un fatto storicamente accaduto. La moglie ha deciso tuttavia di restare al suo fianco”. Il rapporto di coppia è faccenda privata, il punto è se un togato del Csm abbia simulato un furto. “I contorni della vicenda giudiziaria si chiariranno solo tra qualche tempo. Il fatto che la smentita giunga al termine di quattro giorni in cui i magistrati d’Italia hanno sproloquiato di corna e telefoni rubati la dice lunga”. Il vicepresidente Legnini è maestro di prudenza, difficilmente si sarebbe esposto senza un’accurata valutazione dei rischi. “Se tra qualche mese venisse fuori che il tal magistrato era effettivamente sotto indagine, basterebbe spiegare che all’epoca della smentita l’indagine era secretata”, chiosa Cimini. Intanto i pettegolezzi si rincorrono, il nome che circola è sempre lo stesso ma nessun giornale lo riporta. Le notizie sono centellinate perché a bruciarsi le fonti s’impiega un attimo. Ieri la Stampa riporta la smentita del numero due del Csm condita, per la prima volta, dal nome che tutti sanno ma nessuno pronuncia. L’Innominabile si chiama Lucio Aschettino, è lui il protagonista, suo malgrado, del Grande Intrigo. E’ lui a sperimentare sulla propria pelle i guasti di un processo mediatico. Su Facebook, della serie “colleghi serpenti”, il giudice Clementina Forleo traccia l’identikit: “La commissione che presiede è quella che decide gli incarichi direttivi”, la quinta. Nelle mailing list togate c’è chi lo difende (“Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista – termine improprio – e si dà origine alla notizia”) e c’è pure chi lo attacca (“Getta discredito su tutto il consiglio”, “è fonte d’imbarazzo per l’intera magistratura”). Aschettino non è un quisque de populo. Già presidente della Sezione penale del Tribunale di Nola, presiede la quinta commissione del Csm, quella che presenta relazioni e proposte per il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi. Non c’è nomina che non passi da lui. Dopo una carriera di provincia alle prese con la criminalità mafiosa e in perenne sottorganico, Aschettino viene eletto al Csm, due anni or sono, insieme al compagno di corrente Piergiorgio Morosini, entrambi in quota Md, confluiti in Area (il cartello elettorale nato dalla fusione con il Movimento per la giustizia). Lo spiffero di un suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni foschi desta non pochi malumori tra gli avversari interni. Non manca chi solleva una questione di opportunità: può un alto magistrato, con un ruolo di responsabilità e prestigio, restare saldamente dov’è? Chi sa far di conto evidenzia che, se Aschettino si dimettesse, subentrerebbe al suo posto Francesco D’Alessandro, Unicost, presidente di sezione della Corte d’appello di Catania, che alle ultime elezioni del Csm raccolse 454 suffragi (contro i 467 di Nicola Clivio, Area, ultimo degli eletti). D’Alessandro, già presidente della sezione catanese dell’Anm, rappresenta la fazione interna di Unicost che osteggia il gruppo dirigente nazionale. Per questo il suo arrivo a Roma non sarebbe gradito all’area che fa riferimento al consigliere togato Luca Palamara. Inoltre, la fuoriuscita di Aschettino – ragione per cui qualche suo avversario interno potrebbe aver amplificato la portata del piccolo giallo – muterebbe gli equilibri interni alla componente togata del Csm dove attualmente la sinistra giudiziaria detiene la maggioranza. In seguito a un suo eventuale passo indietro i membri di Area passerebbero dagli attuali sette a sei e quelli di Unicost da cinque a sei, siglando un sostanziale pareggio tra le correnti. Com’è noto, i rapporti di forza contano. Che le nomine seguano una meccanica spartitoria e non un principio meritocratico è un fatto assodato. Al di là dei buoni propositi, il nuovo testo unico sulla dirigenza non ha neutralizzato il potere correntizio. La riprova si è avuta attorno alla nomina del procuratore capo di Milano: dopo essersi sapientemente astenuta in occasione della votazione in quinta commissione lo scorso 14 aprile, Unicost è divenuta l’ago della bilancia e in plenum ha votato per Greco soltanto dopo aver ottenuto la nomina di un proprio capocorrente, Giuseppe Amato, al vertice della procura di Bologna. Scambio di toghe e favori, di ciò sembra consapevole pure il numero uno dell’Anm, Piercamillo Davigo, che recentemente ha definito “prassi orribile” quella delle “nomine a pacchetto: uno a me, uno a te, uno a lui”. La questione della spartizione correntizia emerge periodicamente, ogni volta che qualcuno rilascia dichiarazioni choc (vedi Raffaele Cantone) o scoppia il caso eclatante (nel 2012 l’allora consigliere del Csm Francesco Vigorito, Md, rese pubblica, per errore, una email indirizzata ai colleghi in cui lamentava “qualche pressione interna” che li aveva indotti a convergere sulla “giovane candidata napoletana di Area” ai danni del candidato concorrente). Adesso il “caso Aschettino” precipita su piazza dell’Indipendenza. Il magistrato, con una nota interna, ieri ha dichiarato: “non sono stato mai indagato né archiviato, dalla Autorità giudiziaria competente, per simulazione di reato o per ogni altra ipotesi delittuosa o contravvenzionale che anche la più fervida delle fantasie possa immaginare. Rilevo invece, che su di un mio esposto riguardante un accesso abusivo al mio cellulare, mirante a tutelare la funzione che svolgo, si è innestato un totale rovesciamento della realtà con l’effetto di rappresentarmi come l’accusato di un grave reato”. La storia andrà avanti. Per Legnini è l’ennesima matassa da sbrogliare. Per i cittadini, patacca o non patacca che sia, è l’ennesima riprova che qualcosa, nel sistema di autogoverno della magistratura, forse non va. Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016.

E poi ancora. Magistrati: papponi ed evasori?

“Un’alcova nei pressi di Piazza Mazzini a Lecce mascherata per un Bed end Breakfast e trasformata in una casa per appuntamenti. Uno scandalo a luci rosse travolge una coppia di insospettabili professionisti leccesi: lui, Giuseppe Caracciolo, 59 anni, magistrato originario di Lecce e in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione Civile; la compagna, una poliziotta in pensione, in servizio per anni fuori dal Salento”. Così riporta il sito de “Il Corriere Salentino” dell’1 luglio 2016. Unico giornale ad aver avuto il coraggio di dare il nome del magistrato. I colleghi pavidi se fosse stato un povero cristo l’avrebbero messo immediatamente alla gogna.

«Bed & breakfast» di un magistrato trasformato in casa d’appuntamento. Il titolare dell’immobile sapeva e pubblicizzava l’abitazione anche come «casa vacanze» dopo le segnalazioni dei vicini è scattata la trappola dei poliziotti che si sono finti clienti, scrive Antonio Della Rocca l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato ordinario di origini leccesi, ma in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione, e la sua compagna sono indagati dalla Procura della Repubblica di Lecce per favoreggiamento della prostituzione. L’uomo, secondo gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo salentino, coordinati dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco, avrebbe affittato un’abitazione di sua proprietà situata nella zona di piazza Mazzini, nel pieno centro di Lecce, a giovani donne rumene che lì si prostituivano. Lo stesso proprietario avrebbe preteso un canone di locazione ben superiore a quello di mercato, del quale richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilascio di alcuna ricevuta e senza inoltrare le comunicazioni previste all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle scorse ore i poliziotti della Squadra mobile hanno eseguito il sequestro preventivo dell’abitazione, come disposto dal gip Vincenzo Brancato, su richiesta del pm Vallefuoco. Nel corso degli ultimi mesi erano pervenute alla Squadra mobile numerose segnalazioni riguardanti il presunto esercizio della prostituzione all’interno di uno stabile del centro cittadino pubblicizzato su numerosi siti internet come casa vacanze. Gli autori delle denunce lamentavano un continuo viavai di persone di sesso maschile che, a tutte le ore del giorno, dopo avere sostato dinanzi all’immobile e avere fatto alcune telefonate, vi entravano per uscirne dopo poche decine di minuti. La polizia, durante una serie di appostamenti, ha appurato la veridicità delle segnalazioni, rilevando un continuo avvicendarsi di visitatori. Due di questi, bloccati in tempi diversi e sentiti per sommarie informazioni, hanno detto di avere ottenuto una prestazione sessuale a pagamento da una ragazza contattata dopo averne visto la foto e rilevato il numero di telefono sul sito internet «bakekaincontri». Fingendosi clienti, i poliziotti sono riusciti ad entrare nell’appartamento situato al primo piano dell’edificio, dove hanno trovato una ragazza che indossava solo reggiseno e tanga, la quale li ha invitati a seguirla all’interno, dove gli agenti si sono qualificati come ufficiali di polizia giudiziaria. Nell’appartamento sono state identificate tre giovani di nazionalità rumena, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. Quest’ultimo ha riferito di avere contattato la donna attraverso lo stesso sito internet indicato dai clienti sentiti in precedenza. L’appartamento era composto, oltre che da una zona soggiorno, da due camere all’interno delle quali sono stati rinvenuti numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. L’appartamento era, peraltro, collegato attraverso una porta interna all’abitazione del proprietario indagato. Secondo quanto riferito dalle ragazze straniere, il proprietario e la compagna erano soliti accedere liberamente nell’alloggio confinante nel quale veniva esercitata la prostituzione, per raggiungere la terrazza comune dove stendevano i panni. All’interno di una stanza adibita a lavanderia, anche questa comune ai due appartamenti, era presente la collaboratrice domestica del proprietario e della sua convivente. Ciò, secondo la polizia, fa presumere che i due non potessero non essere informati dell’attività di prostituzione. Tale convincimento degli inquirenti sarebbe peraltro corroborato dalle dichiarazioni rese a verbale dalle ragazze ascoltate. Queste ultime, nonostante avessero pagato l’affitto nelle mani del proprietario, non possedevano alcuna ricevuta. L’unico documento in loro possesso era una piantina della città di Lecce che riportava la zona nella quale si trova l’immobile, con l’annotazione a penna dei numeri telefonici del proprietario, della sua convivente e della collaboratrice domestica. Non solo. Sempre secondo gli investigatori, anche il prezzo pagato da ciascuna delle ragazze sarebbe sintomatico della consapevolezza da parte del proprietario dell’attività di prostituzione che veniva svolta. Per una sola stanza, ciascuna di esse pagava dai 300 ai 350 euro. Inoltre, la stanza spesso veniva contemporaneamente affittata a più persone che non si conoscevano e che dormivano nello stesso letto. Grazie alle dichiarazioni rese dalle ragazze straniere, la polizia, ha anche appreso che il proprietario, il giorno precedente a quello della perquisizione, si era recato nell’appartamento per consegnare loro i prodotti per le pulizie, annunciando, nella stessa occasione, che nei giorni successivi avrebbero dovuto condividere la stanza con altre ragazze appena giunte. Una delle ragazze ha riferito ancora che, contattato il proprietario dopo avere trovato su internet il suo numero di telefono quale titolare di un bed and breakfast, e lamentatasi per il prezzo di affitto elevato, l’interlocutore avrebbe risposto alla giovane che «non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra». L’indagato, dopo avere diviso in due l’appartamento di sua proprietà, ricavandone quello poi concesso in locazione, aveva piazzato solo all’esterno di questo, e senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera che ne vigilava l’ingresso. Gli inquilini dell’immobile hanno riferito di avere più volte notato l’indagato accompagnare ragazze in ascensore all’appartamento, portando loro le valigie. Infine, nonostante l’appartamento fosse pubblicizzato sul web come casa vacanze o bed and breakfast, nessuna insegna era stata posta all’esterno dello stabile.

Pagano le intercettazioni coi soldi dei detenuti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Venne stabilito un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione inumane, ma dei 20 milioni stanziati solo 500mila sono stati utilizzati. Sono passati oltre tre anni da quando, nel 2013, l’Italia venne condannata dalla CEDU con l’ormai storica sentenza “Torreggiani” per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, cioè il divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti. La condanna, come si ricorderà, nasceva dal ricorso di alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere stati costretti a vivere in meno di tre metri quadrati a testa, di non aver potuto regolarmente usufruire delle docce e di non aver avuto sufficiente illuminazione nella cella. I giudici di Strasburgo, con quella sentenza, aprirono di fatto una nuova emergenza carceri nel Paese, affermando che il sovraffollamento carcerario rappresentava ormai un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano”. Il governo italiano, costretto a misure d’emergenza per evitare ulteriori conseguenze a livello europeo e, soprattutto, altre condanne, varò una seria di provvedimenti legislativi. Il più celebre fu senza dubbio il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 che, recependo le prescrizioni della Corte di Strasburgo, stabiliva un “risarcimento” per i detenuti reclusi in condizione di sovraffollamento. Tale risarcimento, su domanda dell’interessato, sarebbe consistito in uno sconto di pena di un giorno ogni 10 giorni di carcerazione subita in condizione inumane. I magistrati di sorveglianza vennero incaricati di provvedere al riguardo, valutando le istanze presentate dai detenuti. Per i detenuti già scarcerati, invece, venne stabilito un risarcimento pari ad 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione di sovraffollamento. Sempre a domanda dell’interessato da presentarsi, questa volta, al tribunale civile che avrebbe deciso in composizione collegiale. La norma prevedeva, infine, che questi rimedi risarcitori fossero soggetti a decadenza se non richiesti entro sei mesi dalla data della scarcerazione. Leggendo i dati sui risarcimenti erogati, aggiornati al primo semestre del 2016, sembra che in Italia non ci sia però mai stata alcuna “emergenza carceri”, e che tutto sia stato il frutto di una strumentalizzazione mediatica orchestrata dai radicali, da sempre particolarmente sensibili su questo tema, o dalle associazioni che si occupano dei problemi dei detenuti. In questi anni, degli oltre 20 milioni di euro che il governo aveva stanziato nel 2014 temendo una valanga di ricorsi, ne sono stati erogati per i risarcimenti appena 500 mila. I motivi? Molteplici. In primo luogo le varie sentenze della Cassazione che si sono succedute nel tempo e che hanno ingenerato confusione sul concetto di “attualità” del trattamento inumano e degradante. Nel senso che se al momento della presentazione del ricorso il detenuto non era più ristretto in un loculo, essendo venuta meno l’attualità della domanda, questo veniva dichiarato inammissibile. Poi la difficoltà intrinseca nel ricostruire la “storia” carceraria del detenuto. Nei casi di lunghe carcerazioni, ad esempio, con frequenti spostamenti di cella o, addirittura, di carcere, non è affatto facile risalire al momento preciso della condizione di recluso in un contesto sovraffollato. Ma, ed è questo l’aspetto principale su cui bisogna soffermarsi, e che i più maliziosi dicono sia stato fatto apposta per scoraggiare la presentazione dei ricorsi, la procedura prevista dalla legge per l’ottenere il risarcimento. Cioè la causa civile da predisporre davanti al giudice. Causa che di per se comporta un costo per il detenuto fra contributo unificato da versare direttamente ed onorario dell’avvocato che deve curare il procedimento davanti al tribunale. Il detenuto, infatti, oltre al normale avvocato penalista, in molti casi deve affiancarlo anche da un civilista per la trattazione di questo genere di ricorso. Senza considerare, poi, che molti di questi sono detenuti sono soggetti estremamente fragili. Con problemi di tossicodipendenza o di clandestinità. E quindi portati a rinunciare ad affrontare un nuovo contenzioso. Per far fronte alla complessità della procedura risarcitoria, in questo periodo, si è sopperito con l’aiuto di associazioni di volontariato o con la meritoria attività di avvocati che, senza compenso alcuno, hanno seguito il procedimento civile. Al danno per i mancati risarcimenti, però, a breve potrebbe aggiungersi la beffa. Come ventilato da molti, il governo sarebbe intenzionato a “stornare” dal capitolo di bilancio questi milioni di euro che non sono stati spesi. Soldi che, pare, dovrebbero essere destinati per i pagamenti delle attività di intercettazione telefonica. Da sempre un pozzo senza fondo per il bilancio del ministero della Giustizia. Ci auguriamo di essere smentiti.

Caso Cucchi, un'insostenibile mancanza di giustizia, scrive Giuseppe Anzani il 20 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare «tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente», il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché «caduto dalle scale» piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?

Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. ​Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps. Gli accertamenti riguardano anche la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, con sede in Campania, e le idoneità fisiche ottenute dai candidati, scrive Damiano Aliprandi il 22 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. “Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Allo stesso tempo – continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità”. Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione “Militari in congedo”. In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta – la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari – che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva.

Ritirata la medaglia al partigiano stragista di Schio. Era stato premiato nonostante la condanna a 10 anni di carcere per l'eccidio del luglio 1945, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Valentino Bortoloso, il boia di Schio, dovrà restituire la «medaglia della Liberazione» consegnata in giugno dallo Stato italiano. Il partigiano di 93 anni, nome di battaglia Teppa, partecipò ad un odioso massacro nella notte fra il 6 e 7 luglio 1945. A guerra finita, 54 prigionieri nelle ex carceri di Schio, furono falciati a raffiche di mitra da un commando partigiano della brigata garibaldina «Martiri Valleogra». Per l'eccidio Bortoloso scontò 10 anni di carcere, ma l'Associazione nazionale partigiani lo ha inserito lo stesso in una lista di benemeriti della Resistenza segnalati per la medaglia. «Meglio tardi, che mai» è il commento dei parenti delle vittime, che avevano subito protestato dopo la consegna dell'onorificenza. Il sindaco di Schio ha chiesto la revoca al ministro della Difesa. La decisione di ritirare la medaglia è arrivata in questi giorni. La Difesa ha notificato alla prefettura di Schio la «revoca della medaglia» e l'«espunzione del nominativo di Bortoloso dall'albo» degli insigniti. «Giustizia è fatta! È stata ritirata la medaglia alla vergogna al partigiano colpevole della strage di Schio» ha esultato Elena Donazzan, assessore regionale del Veneto. «Si tratta di una delle pagine più imbarazzanti della storia della Repubblica italiana - aggiunge Donazzan - La superficialità del governo Renzi, che si è rimpallato le responsabilità a mezza voce, si è tradotta nella semplice registrazione di nomi da un elenco fornito dall'Anpi per conferire delle medaglie, senza alcuna verifica». Il diretto interessato non parla e l'Anpi di Vicenza protesta. Il presidente, Danilo Andriollo, ha dichiarato alla stampa locale che «Valentino è stato premiato per la sua attività partigiana certificata. L'eccidio? Lui è stato condannato e ha pagato per quel che ha fatto». Sul sito della sezione di Vicenza nessun comunicato, per ora, ma un secco «No a Via Almirante a Noventa» nel vicentino, dopo la decisione della giunta comunale di ricordare il leader del Movimento sociale italiano. Un fotomontaggio mostra il cartello di Via Almirante «razzista e fucilatore di partigiani». Al contrario l'Anpi sottolinea che Bortoloso, boia di Schio, «nel 1985 ha ricevuto un diploma dal Presidente della Repubblica Pertini e dal Ministro della Difesa Spadolini per aver combattuto per la libertà d'Italia». Durante la polemica i partigiani hanno fatto quadrato attorno a «Teppa»: «Tutte e tutti coloro che hanno ricevuto quella medaglia (della Liberazione nda) e quell'attestato meritano gratitudine, rispetto e riconoscenza per il contributo che hanno dato alla sconfitta del fascismo e del nazismo». Donazzan, alfiere della battaglia per la revoca dell'onorificenza, non ci sta: «Le parole vergognose dell'Anpi tese ad assolvere il buon partigiano, colpevole in fondo solo di avere fatto il proprio dovere compiendo la strage, è incredibile! Credo sia tempo di cancellare l'Anpi per manifesta faziosità e falsità».

Partigiano trucidò 54 innocenti e il governo gli dà una medaglia. La Difesa ha decretato "eroe" della Resistenza Valentino Bortoloso, che partecipò all'eccidio partigiano di Schio, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 17/06/2016, su "Il Giornale". Se da partigiano hai ucciso 54 persone, se sei entrato nelle carceri e hai scaricato l'intero caricatore di mitra su quelle persone inermi, lo Stato italiano ti premia. Ti dà una medaglia. Ti inserisce nel novero degli eroi. Anche se alle spalle hai una condanna a morte a certificare che quella azione "eroica" fu in realtà un eccidio. Non è uno scherzo. Uno dei protagonisti dell'eccidio di Schio del 6-7 luglio del 1945 (la guerra era già finita) è stato insignito della lodevole "medaglia della Liberazione". Il ministero della Difesa, infatti, in onore dei 70 anni della Repubblica italiana ha pensato fosse necessario istituire una nuova onorificenza per chi prese parte alla Resistenza partigiana. E così nel vicentino, il prefetto Eugenio Soldà non ha potuto che eseguire gli ordini ricevuti dal ministro Pinotti e consegnare la medaglia a 84 partigiani vicentini. Peccato che, non si sa se per errore oppure per dolo, tra i premiati ci sia finito anche Valentino Bortoloso. Teppa, questo il suo nome di battaglia, nel curriculum vanta la partecipazione all'eccidio di Schio. Era uno dei componenti del commando della brigata garibaldina "Martiri Valleogra" che penetrò nelle carceri della guerra civile e colpì a suon di mitra 54 persone. Delle quali, ricorda il Gazzettino, 15 erano donne e 7 dei bambini. Bortoloso venne riconosciuto responsabile e condannato a morte dagli alleati. Anche se poi la pena decadde successivamente in altri processi. La consegna della medaglia ha scatenato una nuvola di proteste a Schio, e anche il sindaco della città ha cercato di prendere le distanze da quanto deciso dalla Difesa. "Se l'ex partigiano fosse realmente pentito per quanto fatto nel luglio del '45, avrebbe dovuto, quanto meno, rifiutare il riconoscimento come vero e concreto gesto di riappacificazione - dice Alex Cioni, responsabile del comitato Prima Noi - Invece, accogliendo questa onorificenza, il partigiano Teppa ha premuto nuovamente il grilletto scaricando idealmente una nuova mitragliata di pallottole su uomini e donne inermi".

Fu condannato a morte per l’Eccidio, ora premiato il partigiano Teppa, scrive Venerdì 17 Giugno 2016 Vittorino Bernardi su “Il Gazzettino”. Un protagonista dell’Eccidio di Schio del 6-7 luglio 1945 ha ricevuto dallo Stato l’onorificenza “Medaglia della Liberazione”. Per il 70° della fine della seconda guerra mondiale il ministero della Difesa ha istituito una nuova onorificenza dedicata agli eroi della Resistenza: la “Medaglia della Liberazione”. A palazzo Leoni Montanari il prefetto Eugenio Soldà ha convocato per premiarli 84 vicentini. Tra loro a spiccare è stato Valentino Bortoloso, legato a uno dei fatti più drammatici della storia di Schio: l’eccidio partigiano della notte tra il 6 e 7 luglio 1945 (a guerra finita) nelle allora carceri mandamentali e ora biblioteca civica Renato Bortoli. Quella notte un commando partigiano penetrò arbitrariamente nelle carceri ammazzando con sventagliate di mitra 54 persone (14 donne e 7 minorenni) ree di essere fasciste o collegare al regime. Uno dei protagonisti del commando partigiano, ora unico vivente, è stato Valentino Bortoloso, 93 anni: Teppa il suo nome da partigiano, componente della brigata garibaldina “Martiri Valleogra”. È stata una figura discussa Valentino Bortoloso, condannato a morte dagli alleati per la partecipazione all’Eccidio, pena successivamente decaduta in successivi processi. Valentino Bortoloso ha ricevuto l’onorificenza dalle mani del prefetto Eugenio Soldà e di Anna Donà, assessore allo sviluppo del Comune di Schio in rappresentanza del sindaco Valter Orsi.

2 giugno 1946: monarchia o repubblica? Nord e Sud sempre divisi su tutto. Gli italiani al voto, scrive Giancarlo Restelli. Per decidere se l’Italia sarebbe stata una repubblica o ancora una monarchia gli italiani andarono alle urne il 2 giugno del ’46 con un referendum. Il risultato fu la vittoria della repubblica ma con uno scarto poco ampio di voti: 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia a cui dobbiamo aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. La repubblica ottiene quindi poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi nel referendum è un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Il Nord vota a maggioranza repubblicana mentre il Sud è compattamente monarchico. Vediamo qualche percentuale. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottiene il 57 per cento, in Lombardia il 64 per cento, in Toscana il 71; percentuali simili l’Umbria e le Marche. La regione dove il consenso alla repubblica è più alto è il Trentino con l’85 per cento. Per la monarchia la percentuale più elevata è nella circoscrizione Napoli-Caserta con il 79.9 per cento. I partiti di sinistra (Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione) si espressero decisamente per la repubblica mentre la Dc non diede indicazioni di voto perché nel partito c’era una forte spaccatura sulla questione istituzionale. La chiesa dà indicazioni di voto a favore della monarchia. Gli americani cautamente si esprimono per la repubblica. Churchill per la monarchia, ma Churchill non è più al potere in Gran Bretagna. Perché questa spaccatura tra Nord e Sud? A parte le storiche differenze tra le due parti d’Italia contarono molto le diverse esperienze delle due aree durante la guerra: il Nord conobbe la Resistenza (il “vento del Nord”) e una presa di coscienza politica che invece il Sud non ebbe perché l’avanzata anglo-americana fu relativamente rapida almeno fino a Montecassino e quindi non ebbe tempo di formarsi la resistenza ai nazifascisti. Ma dietro il voto monarchico si celava il timore che le forze di sinistra mutassero l’Italia sulla base dei propri obiettivi. Spaventava molto il legame fortissimo tra il Pci e l’Unione Sovietica e nello stesso tempo il forte radicamento del partito di Togliatti tra gli operai del Nord e i contadini del Centro-Sud. La monarchia era vista quindi come baluardo conservatore di fronte alle incognite del dopoguerra. Dopo aver appoggiato il fascismo per i propri interessi, ora masse di borghesia piccola e media votavano a favore della conservazione politica identificandosi con i Savoia. Vittorio Emanuele III tentò un colpo a sorpresa per “lavare” l’immagine fosca della monarchia in Italia: abdicò a favore del figlio Umberto (molto meno compromesso con il fascismo rispetto al padre), che così divenne Umberto II. Il passaggio di potere avvenne alla vigilia del referendum nel maggio ’46, così Umberto II divenne il “re di maggio”. Nonostante l’estremo e tardivo tentativo di salvare il trono, la monarchia è sconfitta perché ha dato il potere al fascismo al tempo della Marcia su Roma, non ha agito contro Mussolini quando Matteotti fu assassinato, ha accolto con soddisfazione la nascita dell’“Impero”, ha firmato senza battere ciglio le Leggi Razziali, ha voluto la guerra al pari di Mussolini e si è dissociata da Mussolini e dal fascismo solo quando la guerra era compromessa (25 luglio ’43) per conservare il trono. Con l’8 settembre del ‘43 il re, fuggendo vergognosamente da Roma, condannava il Paese al caos dell’armistizio. È una delle tante leggende che continuano a circolare nel nostro Paese: la presenza di brogli che avrebbero favorito la vittoria della repubblica. Oggi non c’è storico serio che dia credito a questa tesi. Furono i monarchici a sostenere l’idea di una vittoria ottenuta manipolando i voti perché in quei giorni ci fu, dopo il voto, una imbarazzante confusione agli alti livelli dello Stato. Basta pensare che i risultati definitivi furono proclamati dalla Cassazione solo il 18 giugno (!), sedici giorni dopo il voto. Altro fatto sconcertante, dopo la conta le schede furono subito bruciate in tutta Italia, quindi fu impossibile il riconteggio. Mentre la Cassazione tardava a fornire i risultati definitivi corsero voci di golpe da parte delle forze monarchiche che cercarono di coinvolgere Umberto II nel rovesciamento del governo retto in quel momento da De Gasperi. Non ci fu nessun tentativo significativo di colpo di Stato probabilmente perché Umberto II si rese conto che l’eventuale azione militare non avrebbe riscosso molto successo nell’esercito e nel mondo economico; anche gli americani non volevano che l’Italia precipitasse di nuovo nella guerra civile. Fu così che il “re di maggio” lasciò l’Italia il 13 giugno per il Portogallo non attendendo neppure il risultato definitivo del referendum. L’entusiamo per la nascita della Repubblica durò pochi giorni perché sempre nel giugno ’46 Togliatti (leader e figura storica del Pci), in quel momento ministro di Grazia e Giustizia, emanò la famosa amnistia grazie alla quale migliaia di fascisti furono scarcerati e tornarono a occupare posti di potere. La reazione di molti partigiani fu prima di incredulità e poi di aperta protesta ma le cose non cambiarono. Fu così che Togliatti diventò “ministro della Grazia ma non della Giustizia”. Altra delusione di quei giorni fu l’elezione a Capo provvisorio dello Stato dell’avvocato Enrico De Nicola, notorio monarchico così come per la monarchia si era espresso il suo partito, il Partito liberale italiano. De Nicola, esponente di quella classe dirigente liberale che con troppa facilità aveva ceduto al fascismo al tempo della Marcia su Roma, è colui che aveva spedito a Benito Mussolini un telegramma di auguri per il Congresso di Napoli dei Fasci che preparò gli avvenimenti del 28 ottobre 1922. Ma De Nicola fu anche colui che elogiò il re Vittorio Emanuele III quando conferì a Mussolini l’incarico di formare il primo governo di fascisti e liberali nei giorni convulsi della Marcia. Insomma un monarchico a capo della repubblica! Contemporaneamente il 2 giugno del ’46 si votò a favore della Costituente, ossia di quella assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta costituzionale (1 gennaio ’48). I risultati sono a favore della Dc che ottiene il 35 per cento mentre il Pci è fermo al 19 e il Psi al 20. Scompare il Pd’A di Parri, Valiani, Bauer, Calamandrei, ossia un partito che nella Resistenza espresse quadri politici e militari di notevole livello e fu a capo di numerose organizzazioni partigiane. Ormai il sistema politico ruota attorno ai tre partiti di massa mentre monarchici, repubblicani, liberali sono ridotti a percentuali irrisorie. L’anno dopo, il 1947, le sinistre sarebbero state escluse dal governo (maggio ’47, quarto governo De Gasperi) e la prima repubblica italiana si preparava a una lunga egemonia democristiana.

“La costituzione più brutta del mondo” di Federico Cartelli. Libro pubblicato nella collana “Fuori dal Coro" de “Il Giornale” il 19 maggio 2016. La Costituzione «nata dalla Resistenza», concepita settant’anni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire qualcosa di sacro e intoccabile. Mettere in discussione la più bella del mondo è un’eresia. Ma una Costituzione non dev’essere bella: dev’essere efficiente. La nostra invece è la radice di ogni male italiano, dal debito pubblico al fisco, dai giochi di palazzo agli eccessi sindacali. La Carta è la pietra angolare del conservatorismo che protegge quello status quo politico ed economico che tutti, a parole, vorrebbero cambiare. 

“Costituzione, Stato e crisi”, intervista a Federico Cartelli di Riccardo Ghezzi del 31 agosto 2015 su "Quelsi”. La Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? Non secondo Federico Cartelli, direttore del sito The Fielder, che nel suo libro “Costituzione, Stato e crisi – Eresie di libertà per un paese di sudditi”, disponibile su Amazon, mette sotto processo uno dei miti della nostra società: la Costituzione “nata dalla Resistenza”. Un libro con la prefazione del filosofo liberale Carlo Lottieri. In questa intervista con l’autore ne approfondiamo le tematiche.

Federico, innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro?

«Stavo preparando un articolo sui difetti della nostra Costituzione e stavo ricercando del materiale. Dopo un po’ mi sono accorto che trovare libri o paper critici nei confronti della Carta era pressoché impossibile. Praticamente tutte le fonti che stavo consultando non osavano metterne in dubbio la sacralità, né muovevano dei rilievi su quelle parti che sono palesemente superate dalla Storia. A quel punto, con un po’ di sana incoscienza e senza prendermi troppo sul serio, ho deciso che mi sarei impegnato personalmente per colmare questa lacuna. Avevo sempre pensato di scrivere un libro, e questa è stata l’occasione giusta».

Non ti sembra azzardato che una persona “qualunque” possa scrivere un libro di critica nei confronti di quella che è pur sempre la nostra Costituzione?

«Senz’altro. È molto azzardato. Però credo che in questo libro, più che altro un manifesto, si possano cogliere sia lo spirito polemico delle mie osservazioni, sia l’intenzione di discostarmi da certi modelli populisti in salsa grillina che non sanno andare oltre il pensiero breve. In verità, “Costituzione, Stato e crisi” è proprio un manifesto contro il pensiero breve, più precisamente quel pensiero breve sessantottino e progressista che da decenni blocca l’Italia e le impedisce di diventare un Paese moderno. È un manifesto contro la retorica collettivista, contro il benecomunismo che si respira in ogni articolo della nostra Carta e che ogni giorno ci viene propinato da certi giornali e da certi politici. Bisogna dirlo forte è chiaro: no, non è la Costituzione più bella del mondo. Anzi, è una delle peggio riuscite».

Credi che i lettori abbiano apprezzato questo messaggio?

«Per adesso, direi proprio di sì. Sono rimasto sorpreso dai molti messaggi ricevuti e dalle valutazioni lasciate su Amazon. Alcuni mi hanno scritto in privato per complimentarsi e hanno apprezzato il fatto di poter leggere, finalmente, una critica alla “più bella del mondo”. Posso già ritenermi soddisfatto, e spero che le mie “eresie” si diffondano in più possibile».

Ma secondo te, perché c’è sempre questa ossessiva retorica adulatoria nei confronti della Costituzione?

«Perché la Costituzione è di fatto il lucchetto che mantiene tutto com’è. È la suprema garanzia dello status quo. In nessun altro Paese europeo c’è questa ossessione nei confronti della Costituzione sacra e intoccabile. Perché sì, è vero che è stata cambiata nel corso degli anni: ma non sono mai state toccate né la parte riguardanti i rapporti economici, né i principi fondamentali (che in ogni caso non posso essere soggetti a modifiche). Non è mai stato toccato quel nucleo che rappresenta, di fatto, l’Italia dell’immediato dopoguerra che vedeva nello Stato un padre-padrone. La parte riguardante i rapporti economici è, di fatto, un imbarazzante manifesto socialista. Servirebbe un’assemblea costituente, perché questa Carta è davvero tutta da rifare».

C’è un capitolo del libro al quale sei più legato?

«Il quinto, senza dubbio, “Il lavoro non è un diritto”. Ed è anche il capitolo che più ha suscitato la curiosità nei lettori. Molti, lasciandosi ingannare dal titolo – evidentemente provocatorio – si sono detti: questo è matto, perché mai il lavoro non dovrebbe essere un diritto? In realtà poi, una volta letto il capitolo, si sono ricreduti».

Nel capitolo 8 fai una lunga critica al cosiddetto “federalismo all’italiana”. Ha ancora senso parlare di federalismo in Italia?

«Sì, e aggiungo che in Italia si deve parlare di federalismo. Ma di vero federalismo, non di quel pasticcio compiuto dal centrosinistra nel 2001 e poi degenerato definitivamente con Monti. Il federalismo all’italiana non è vero federalismo, è solo un altro salasso fiscale ai danni dei contribuenti, che si sono visti aumentare le tasse e moltiplicare i centri di spesa, mentre certe regioni e certi comuni in completo dissesto finanziario continuano a battere cassa a Roma. È per questo che ho dedicato un capitolo al federalismo: perché ho voluto mettere un po’ d’ordine e far capire ai lettori che una rivoluzione federalista è l’unica vera possibilità di cambiare il Paese. Credo che anche in futuro tornerò su questo argomento».

Come vedi l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia?

«Faccio parte di quelli che il nostro magnifico presidente del Consiglio definisce “gufi”. Purtroppo sono affetto da una malattia molto grave: il realismo. E non riesco davvero ad emozionarmi per i tweet del nostro Matteo, che pensa di coprire i fallimenti di questo governo con un modus operandi da bulletto di periferia. I numeri dicono il tanto decantato Jobs Act è in realtà un Flop Act, e nonostante tutti i fattori esterni favorevoli – politiche accomodanti dalla Banca Centrale Europea, costo delle materie prime ai minimi storici solo per citarne alcuni – non c’è stata alcuna reale ripresa, ma solo qualche “zero virgola” che in termine concreti non vuol dire nulla. Dall’altra parte, non c’è alcune reale opposizione. Il cosiddetto “centrodestra” è solo un cumulo di macerie, senza alcun piano maggioritario per governare il Paese a lungo termine. Insomma, di questo passo tra qualche anno l’Italia diventerà l’Argentina dell’Europa».

A proposito di Europa, cosa pensi dell’attuale Unione Europea?

«Dieci anni fa, ai tempi dell’università, ero un convinto sostenitore dell’Unione Europea e della moneta unica. Ma davanti ai fatti – sempre a causa di quella malattia, il realismo – mi sono dovuto ricredere. Quest’Unione non funziona più, è una caricatura di se stessa, persa tra vertici infiniti dagli esiti mai chiari, divisa in politica estera, sempre più lontana dai cittadini. Basta vedere come, in questi giorni, viene gestito il problema dell’immigrazione: ognuno per sé, con l’Italia che rischia – come spesso accade – di pagare il prezzo più alto. Poi è inutile piangersi addosso perché aumenta il consenso ai cosiddetti partiti populisti. Per ciò che concerne l’euro, è evidente che sono necessari aggiustamenti, perché le calende greche dell’estate appena conclusa sono destinate a ripetersi».

La Costituzione italiana: la più brutta del mondo, si legge su “Risveglio nazionale” il 09/05/2015. La costituzione che garantisce l’impunità e la protezione all’eletto che tradisce i suoi elettori!… Ovvero: la costituzione più antipopolare, più immorale, più demagogica, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!…La nostra “sacra costituzione” voluta da Rothschild è davvero la più brutta del mondo. Una costituzione a sovranità limitatissima, che il popolo non può cambiare. I nostri “padri costituzionalisti”, seguendo alla lettera le direttive di Rothschild, ci hanno fatto credere di averci dato in eredità qualcosa di sacro, che se viene cambiato ci farà solo del male. Oggi la Costituzione, oltre ai più che ambigui “principi fondamentali”, presuppone un sistema decisionale lento, se non completamente bloccato e un gioco di pesi e contrappesi a tutti i livelli che non dà una chiara definizione di chi debba decidere cosa e praticamente permette tutto ed il contrario di tutto al soggetto socialmente più forte: Rothschild. E’ ora di riflettere, guardarci in faccia e di ammettere una volta per tutte che l’assetto istituzionale italiano, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, comprese quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese, poiché i tempi sono evidentemente cambiati. Infatti, non dobbiamo più leccarci le ferite morali e materiali aperte dai bombardamenti e incancrenite per la fame e la miseria e avvelenate dalla umiliazione della sconfitta e dalla paura di fronte ai vincitori e per la brutale invasione e la feroce occupazione “alleata”, quindi l’assemblearismo estremo non è mai stato e meno che mai è adesso un valore aggiunto. L’Italia non ha affatto bisogno di superpartiti “assopigliatutto”, con annessi supersindacati, supertraditori e superassociazioni varie che intrallazzano in tutti i modi, che sono sempre in disaccordo fra loro per spartirsi qualche osso. Persone docili e ubbidienti col loro signore e padrone Rothschild per fare le “riforme” contro il popolo più povero per fargli buttare sangue a pagare l’usuraio, enorme, crescente ed eterno “debito pubblico”. E’ necessario avere governi che governino realmente a favore del popolo e non per finta, e di un legislatore controllato veramente dal popolo, e che sia costretto dal popolo a fare leggi giuste per il bene del popolo e non per il bene dei “mercati” di Rothschild. Siamo arrivati al punto da capire sulla nostra pelle e di dire, e di urlare, che la “nostra” costituzione non è affatto “nostra” e non è affatto la “costituzione più bella del mondo”, perché non si salva neanche… uno… dei malignamente ambigui e contraddittori articoli fondamentali, e che quella che gli scagnozzi di Rothschild ci hanno appioppato è “la Costituzione più brutta del mondo”.

Questo volere difendere ad ogni costo questa loro demagogica e truffaldina costituzione serve proprio, e solo, alle alte sfere del potere antipopolare per potere preparare un ritorno forzato all’autoritarismo più biecamente capitalista e schiavista assoluto. E’ bene ricordare che la restaurazione “democratica” rothschildiana, seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale, regalò al povero popolo tedesco la corrotta, tirannica, terribile e mostruosa “Repubblica di Weimar” con il popolo minuto che faceva la fame molto, molto, molto peggio che in seguito gli ebrei ad Auschwitz e con gli avidi, viziosi e debosciati capitalistoni ebraici, vassalli al seguito del satanico Rothschild che debordavano a vista d’occhio in tutto e per tutto, dappertutto nella società come porci da ingrasso scatenati e lasciati liberi in un campo di grano!… Voglio solo ricordare: Art. 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tralasciando il “non sense” del primo comma, fondata sul lavoro, che non vuol dire assolutamente nulla, faccio solo notare che nel secondo con la mano destra dà ciò che con la mano sinistra toglie (nello spazio di una virgola). Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi, la religione cattolica può avere teoricamente norme in contrasto con l’ordinamento italiano. Ergo, non tutte le confessioni sono egualmente libere (vedi a questo proposito anche l’art. 7). Ultimamente abbiamo assistito a polemiche sulle croci e sui presepi e ad attacchi contro la religione cattolica e contro la religione islamica, che vengono spesso vilipese volgarmente, oscenamente e pesantemente in pubblico anche dai mass media. Malgrado questo, si vede chiaramente che la magistratura massonica ebraica rothschildiana, di questo regime coloniale vigente in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, è estremamente tollerante. Una magistratura che non dice nulla, chiude tutti e due gli occhi, non interviene o, se lo fa, interviene addirittura a favore di chi le vilipende, creando le premesse tra le masse popolari di forti contraddizioni ideologiche e religiose, di profondo scontento e di gravi ed anche gravissimi e tragici incidenti. Invece, ecco che dall’altra parte c’è tutto un fiorire di iniziative mediatiche e legislative per conferire uno status privilegiato alla religione ebraica, alla etnia ebraica, al sionismo, allo stato di Israele, a tutta la questione dell’olocausto, della “shoah”, etc. Guai se ci si permette anche solo di dire, di sussurrare o di pensare qualcosa anche solo di costruttivamente critico nei confronti di questi argomenti, perché scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, e sono cavoli amari, condanne pesantissime, discriminazioni addirittura odiosamente razziste e comunque seccature di ogni genere!… Ma da tutto questo movimento di legiferazione e di attività giudiziarie scandalosamente improntate al criterio dei due pesi e delle due misure, anche i più ignoranti, i più ottusi ed i più ipocriti, capiscono e son costretti ad ammettere che a quanto pare, anche se costituzionalmente si afferma formalmente che “tutte le confessioni sono egualmente libere”, invece, gli ordini di scuderia del vigente regime massonico, ebraico, rothschildiano sono prioritariamente orientati a tenere un atteggiamento di estremo riguardo per i soggetti e gli argomenti talmudici sopra accennati. Sembra quindi che questo articolo della costituzione non valga un fico. Art. 13 comma V: la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Il mio diritto alla libertà personale, il mio diritto a non essere privato di essa prima di un regolare processo e di una condanna definitiva è nelle mani di deputati e senatori (la parte migliore del paese, vero?), anziché essere fissati almeno nelle linee guida. Art. 68. I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questo articolo, tanto breve quanto apparentemente “innocente”, è in realtà il nocciolo della truffa rothschildiana sedicente “democratica” e quindi della profonda ed anzi essenziale rothschildianità di questa costituzione truffaldina ed antipopolare. Infatti è ovvio anche per uno sprovveduto che il parlamentare, pur eletto a seguito di suoi solenni giuramenti e grandi promesse ai suoi elettori che farà gli interessi, i loro interessi,… invece, il neo eletto, strafregandosene altamente di giuramenti e promesse ha già voltato gabbana e peggio di Giuda Iscariota si è già venduto al miglior offerente anche per meno di trenta denari d’argento. Ovvero, trattandosi di soldi, chi più di Rothschild, l’uomo più ricco e potente del mondo, potrà comprare chi vuole a qualsiasi prezzo e dominare qualsiasi parlamento corrompendolo come gli pare? In effetti succede sistematicamente ormai dal 1861, cioè da quando, più di un secolo e mezzo fa, Rothschild impose a mano armata, e poi reimpose sempre “manu militari” nel 1943 la sua truffaldina e farsesca “democrazia” massonica, ebraica, antipopolare, proprio congegnata per fregare il popolo, appunto in nome della “libertà di coscienza” di poter tradire impunemente il popolo, ovvero i più poveri; e per poterlo fare a cuor leggero, sancì, beffa delle beffe, che il tradimento potesse essere fatto proprio protetti dalla “sacra ed inviolabile” costituzione e dalle “democraticissime” leggi conseguenti, invocate ed applicate zelantemente da giudici, forze dell’ordine , massmedia, etc. In Italia, ormai, tutti massonicamente condizionati e opportunamente assoggettati con le buone o con le cattive agli ordini del più ricco, ovvero del solito Rothschild, ovvero del più pericoloso associato a delinquere: il capo supremo di tutte le massonerie del mondo!… e cioè sempre e comunque Rothschild. Tutto questo è tanto vero che è famosissima la frase appunto: “datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi”- Mayer Amschel Rothschild 1815. Art.75 comma II: Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio (quelle appunto che riguardano i… soldi… e sono proprio quelle che interessano più di tutte a Rothschild), di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Decisamente il mio articolo preferito. La Costituzione spiega come, per quanto riguarda le cose davvero importanti (proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano sia troppo stupido per esprimere serenamente la propria opinione. Meglio negargli la possibilità solo a chiacchiere e per modo di dire (ma non era una repubblica democratica secondo l’art. 1?). La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale della Repubblica italiana, ovvero il vertice nella gerarchia delle fonti di diritto dello Stato italiano. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio1948.

I Rothschild sono una famiglia europea di origini tedesco-giudaiche. Cinque linee del ramo austriaco della famiglia sono stati elevati alla nobiltà austriaca, avendo ricevuto baronie ereditarie dell'Impero asburgico dall'Imperatore Francesco II nel 1816. Un'altra linea, del ramo inglese della famiglia, fu elevata alla nobiltà britannica su richiesta della regina Vittoria. Nel corso dell'Ottocento, quando era al suo apice, la famiglia si ritiene abbia posseduto di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo. Oggi, i business dei Rothschild sono su scala più ridotta anche se comprendono una vasta gamma di settori, tra cui: gestione dei patrimoni privati, consulenza finanziaria, policoltura.

La Costituzione italiana: ambigua, immorale, demagogica, antipopolare. La costituzione che garantisce l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori!... Ovvero: la costituzione più immorale, più demagogica, più antipopolare, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!...La “sacra” costituzione dell’attuale classe dominante, al di là della messa in scena retorica di facciata, è a limitatissima sovranità popolare, anche se i suoi “padri costituzionalisti” hanno cercato di farci credere, con la complicità del monopolio mediatico del loro regime, di aver scritto la costituzione più bella del mondo. Anche i principi fondamentali in essa contenuti sono talmente ambigui, contraddittori ed indeterminati che la classe dominante può permettersi tutto ed il contrario di tutto a tutti i livelli, con le buone o con le cattive, in modo tale da detenere sempre e comunque la stragrande parte del potere possibile nelle sue mani. Infatti, perfino quando le sue leggi elettorali truffa, i suoi brogli ed imbrogli senza fine, non permettessero ai suoi politicanti di avere la maggioranza in parlamento e senato, le permetterebbero comunque senza particolari difficoltà di ricorrere, di nuovo come in passato, alle maniere forti di un regime apertamente militare con tanto di coprifuoco e di leggi marziali per salvare il suo Stato, ovvero per salvaguardare il primato del suo potere egemone sul popolo e contro il popolo. La nostra costituzione è stata scritta nel 1947, ed è andata in vigore nel 1948. Già l'art. 1 della Costituzione è una vera e propria presa in giro.

Art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tralasciando il primo comma, che è una formula ambigua che si fonda su una idea astratta e indeterminata di lavoro, invece che sulle precise e concrete persone fisiche dei lavoratori o dei cittadini. Nel secondo comma, a proposito della sovranità popolare, si dà con una frase quello che, subito dopo una virgola, si toglie con una frase sostanzialmente opposta.

Art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.” Anche su questo articolo potremmo discutere a lungo. Oltre alle polemiche, alle prevaricazioni e alle ingiustizie che specie in questi ultimi tempi si fanno contro i cristiani e contro gli islamici, avallate dai mass media e dalla magistratura del regime, si assiste anche a tutto un fiorire di leggi e controleggi, che privilegiano, contro la stessa costituzione e contro lo stesso diritto di libertà di pensiero e di parola, la religione ebraica, l'etnia ebraica, la shoah, l'olocausto, ecc... 

Art. 59: “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. In parlamento, in senato ed a capo dello Stato, in rappresentanza del popolo sovrano, dovrebbero stare solo i rappresentanti eletti direttamente dal popolo, e nessun altro.

Art. 67. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Art. 68. ”I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni”. Questi due articoli 67 e 68, tanto brevi quanto apparentemente "innocenti", sono in realtà il nocciolo centrale della truffa e della sedicente "democrazia" rothschildiana. Questi articoli garantiscono l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori, svuotando la vera rappresentatività popolare e democratica di qualsiasi eletto ed annullando il reale e sovrano potere del popolo in qualsiasi e sedicente democrazia.

Art.75 comma II: “Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio.” Ecco un altro articolo truffaldino nei confronti del popolo, a cui viene sottratta la possibilità di esercitare un controllo diretto su questioni economiche, che lo riguardano direttamente e che spesso sono vitali. La Costituzione infatti afferma con detto art. 75 come, per quanto riguarda le questioni economiche concrete e davvero importanti (appunto proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano debba essere di proposito e maliziosamente trattato come se fosse troppo stupido per essere in grado di esprimere saggiamente una giusta opinione. Meglio quindi dargli, solo a chiacchiere e per modo di dire, la possibilità di esprimersi, ma poi, perfidamente, negargliela nei fatti!...(ma non era una repubblica "Democratica"?... che, all’art. 1, spiega che il Popolo è Sovrano?).

Non lasciamoci ingannare dalle parole dolci, suadenti, sentimentali dei lupi travestiti da pecore...e se l'Italia ha la Costituzione più bella del mondo come mai ha generato la classe politica e dirigente più ladra, più corrotta, più criminale, più infame, più delinquente, più mafiosa? La risposta si trova in un passo evangelico: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere». Mt 7, 15-20. Sarebbe il caso di ammettere una volta per sempre che l'assetto costituzionale, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, in particolare quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese. (s. brosal - d. mallamaci).

L’illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare, scrive Ernesto Galli della Loggia il 25 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta – assai più spesso di quanto si creda – ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato. Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare. Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente. Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario. A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione. Da quanto tempo è in questo modo — attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche — che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta «buona borghesia») apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi. Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi.

Editoriale. Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e proprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

SOCIETÀ INCIVILE E RINCOGLIONITA. Scrive Mario Vito Torosantucci su “L’Oservatore d’Italia” il 23/12/2015. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. A volte, sembra di sognare, e poi, quando ti svegli, sei invaso da una strana sensazione di disagio psicofisico che ti fa star male. Ti guardi intorno, e non riesci bene a realizzare se stai veramente nel tuo mondo, in quel mondo dove sei cresciuto, dove hai vissuto momenti indelebili, dove hai imparato dei valori sani della vita, dove si parlava con il prossimo, si discuteva anche animatamente, ci si divertiva e avevamo lo stimolo per ridere, essere ottimisti e credere nel futuro. Giri lo sguardo, sperando di vivere soltanto un brutto sogno, immerso nei pensieri più deprimenti e pessimisti, cercando di convincerti, che quello che vedi non è la tua realtà, e che si dissolverà nell’aria come una nuvola passeggera, dileguandosi, spinta da una folata di vento piena di positività. Quante illusioni! Basta uscire da casa, e ti accorgi subito, che la realtà è un’altra, rievocando la torre di Babele, ti immergi istantaneamente in un caos totale, di ignoranza, maleducazione, cattiveria, inciviltà, aggravata dall’invasione di popoli non per loro colpa, retrogradi, nel quale si ha l’impressione, non di iniziare un nuovo giorno con un certo ottimismo, bensì, con la consapevolezza di andare in guerra, usando un eufemismo appropriato. Salutare il prossimo, è un’opzione remota, del passato, non più di moda, anche se si abita nello stesso palazzo, o occupanti dello stesso parcheggio, però, in compenso ci si guarda in cagnesco, pronti a far esplodere la propria ira al primo indizio negativo. Il menefreghismo, che regna nella maggioranza della gente, oltre naturalmente, una forte dose di maleducazione, induce ad aggravare lo stato di degrado generale che notiamo per le strade. L’ impegno gravoso, per esempio, di pigiare con il piede il cassonetto, per gettare i rifiuti, spinge il cittadino comune, a lasciare il sacchetto per terra, oppure bisognerebbe allargare i fori per la plastica, perché, sempre il cittadino comune, non può perdere tempo a gettare le bottiglie singolarmente, cosicchè è costretto ad incastrare l’intero involucro delle sue bottiglie, lasciando il suo lavoro al prossimo imbecille, che se non vuole accollarsi il lavoro superfluo altrui, lascia il tutto tranquillamente per terra. Camminare sui marciapiedi, è diventato difficile, e per una mamma che spinge il carrozzino, l’impresa è ancora più ardua, perché non c’è lo spazio necessario. Infatti fra escrementi di cani, foglie cadute dagli alberi, particolarmente abbondanti in questo periodo, cespugli che crescono a vista d’occhio, e, dulcis in fundo, le auto parcheggiate con le ruote sui marciapiedi, la gimcana con il complementare pericolo, è d’obbligo per i poveri pedoni. Guai a reclamare con qualcuno, perché il minimo che può capitare è di finire in ospedale, e spesso si è offesi ed umiliati e si è costretti ad andare via, covando dentro di sé quella rabbia, che pian piano ci mangerà il fegato. Osservare le regole nel nostro amabile paese, è diventato un rischio, infatti se per esempio, in auto rispetti i limiti di velocità, fra l’altro, non si sa con quale criteri siano stati stabiliti, puoi essere tamponato e susseguentemente malmenato da chi ti è venuto addosso, per intralcio nel traffico, oppure decidi di accelerare, e così ti prendi una bella multa, per avere superato il limite di velocità. E’ soltanto una questione di scelte soggettive. Discutere con il prossimo, specialmente se è un extracomunitario, è pericolosissimo, perché le armi da taglio abbondano, se non si tira fuori anche qualche pistola, ma le forze dell’ordine, da capire, per una questione di privacy, non possono fermarli e perquisirli, perché li offenderebbero. Gloria ai giudici, che per spirito di giustizia, puniscono i cittadini onesti, che vogliono per forza difendersi, quando capita di essere aggrediti in casa propria, malmenati, e derubati dei propri sacrifici. Onore ai politici, che invece di cambiare un’innumerevole quantità di leggi sbagliate, cosa che potrebbero fare in pochi minuti, si dedicano costantemente ai propri ed esclusivi interessi. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. Una cosa è vera, e bisogna ammetterla; che noi cittadini, abbiamo un fisico veramente bestiale, come diceva una famosa canzone, perché sopravvivere in un mondo inquinato nei generi alimentari, prodotti in campagne che spesso custodiscono scorie chimiche altamente pericolose, medicinali, che dopo tanto tempo usati, si scopre che sono fortemente tossici, è la prova che siamo fatti di ferro. Certo! Qualche volta il ferro si fonde, e, molti sene vanno, ma che importa, il problema si risolve con migliaia di nuovi profughi che continuamente arrivano. In questo caos, la società moderna ha trovato il rimedio. Meglio fare come le tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo, così ci si racchiude in noi stessi, ed il mezzo per farlo è il telefonino. Grandissima invenzione, che ci consente di telefonare, ma ci regala altre cose molto più importanti, quella di estraniarci da tutto ciò che ci circonda, ci fa messaggiare, ci fa fare centinaia di giochini, rendendoci la vita più piacevole, anche se qualche volta, distrattamente si va a sbattere contro qualche palo della luce, oppure addosso alle persone, che non riescono a sparire all’istante. Sui mezzi pubblici il novanta per cento dei passeggeri è assorto nel mondo del proprio cellulare, per la gioia degli scippatori, che al contrario sono molto attenti al prossimo. Conclusione, chi ha una certa età in Italia, oggigiorno, si sente un pesce fuor d’acqua, grazie a questa società incivile e rincoglionita.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.

“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26

La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.

Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti.  In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”,  non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare,  era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e  quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse,  ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD,  è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.

Il "Mein Kampf" ritorna. Ma come oggetto di studio. I diritti sul libro, detenuti dalla Baviera, sono scaduti e la "bibbia del nazionalsocialismo" viene ripubblicata in Germania, e non solo. Senza questo testo è difficile capire l'ascesa di Hitler, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Un oggetto tabù, eppure un documento storico fondamentale. Un libro che fa paura e che si teme sempre possa ispirare nostalgici del totalitarismo, eppure anche un testo senza il quale diventa difficile spiegare la Shoah o l'attacco nazista alla Russia sovietica. Stiamo parlando del Mein Kampf, il manifesto politico che Adolf Hitler iniziò a stendere, con l'aiuto di Rudolf Hess, in carcere, a Landsberg am Lech, dopo il velleitario (e fallito) colpo di Stato di Monaco del 9 novembre 1923. Il primo volume venne pubblicato nel 1925 (il secondo l'anno dopo) dalla casa editrice Franz Eher di Monaco, dopo che il direttore editoriale Max Amann pretese una riscrittura dell'elaborato, roboante e farraginoso, dell'aspirante dittatore (un autodidatta con talento per i discorsi ma scarse doti letterarie). Il testo ebbe, dopo una partenza stentata, un'enorme fortuna editoriale parallela al diffondersi del partito nazista. Giusto per fare un esempio, sino all'ascesa al potere di Hitler nel 1933 erano state vendute circa 241mila copie che superarono rapidamente il milione una volta che Hitler divenne cancelliere. E non solo in Germania. Il testo (la prima edizione italiana abbreviata rispetto all'originale è del 1934 per i tipi di Bompiani), intriso di antisemitismo e razzismo, ebbe enorme diffusione mondiale, sia tra gli ammiratori del dittatore tedesco sia tra chi voleva conoscere il proprio nemico. Charles De Gaulle nel 1939 urlava inascoltato che le difese francesi fossero insufficienti per fermare l'avanzata nazista, ripeteva: "Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf". Nessuno gli diede retta. Dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della "Bibbia del nazionalsocialismo". I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l'edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae. Scopo dichiarato e promosso proprio dalla Baviera: smontare il mito, strumentalizzato dai neonazisti, che aleggia attorno al manifesto del Führer. Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E così la prima edizione legale in Germania dal 1945 (due volumi di 2mila pagine con 3.500 note critiche) ha scatenato una corsa all'acquisto dell'oggetto di "culto": la prima tiratura - 4mila copie - è andata esaurita il primo giorno, l'8 gennaio. I librai tedeschi non hanno fatto neppure in tempo a ricevere i volumi, già tutti prenotati. Anzi, una delle prime copie è stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila euro. Del resto anche il costo del libro, pubblicato e curato dall'Istituto di Storia contemporanea di Monaco, è elevato: 59 euro. Eppure dal giorno di uscita è tra i cento libri più venduti in Germania (anche se la maggior parte dei librai ha deciso di non esporre il testo, vendendolo solo su richiesta). Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato di suscitare polemiche. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ne ha sostenuto l'utilità: "Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler". E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole. Per altro in Germania le edizioni non commentate del Mein Kampf restano vietate. Ma pochi giorni fa un editore di Lipsia, come riportato da Bild, ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell'edizione originale, senza alcun commento a supporto. Si tratta della casa editrice di estrema destra Der Schelm (letteralmente il "briccone"). La procura di Bamberga ha aperto un'inchiesta. Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto.

Il Mein Kampf sabato in edicola con il Giornale. Polemiche in tutta Italia, scrive Antonio Panullo su “Il Secolo D’Italia”, venerdì 10 giugno 2016. Polemiche – prevedibili – dopo che il Giornale ha deciso di regalare una copia del Mein Kampf, da sabato, a chiunque acquisterà una copia del quotidiano. In realtà l’operazione è più complessa, e rientra in operazioni culturali che il quotidiano fondato da Indro Montanelli ha sempre compiuto. Il Giornale, infatti, dopo aver allegato La storia del fascismo di Renzo De Felice, e altre collane storiche, adesso inizia la pubblicazione di una serie di volumi dedicati al Terzo Reich. Il primo titolo è Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo di William Schirer, acquistabile a 11,90 euro. In più ci sarà il Mein Kampf nell’edizione originale, pubblicata in Italia da Bompiani nel 1934, con la prefazione critica di Francesco Perfetti. La comunità ebraica protesta: «Sono molto perplesso. Questo è un libro che non si può regalare con un giornale, come se fosse un romanzo da leggere sotto l’ombrellone, ma è un testo che va maneggiato con molta cura. Se vogliamo leggerlo e studiarlo, facciamolo, ma con i mezzi culturali necessari», ha osservato Ruben Della Rocca, vicepresidente della comunità ebraica romana». Da parte sua il deputato del Pd Emanuele Fiano, che ad Auschwitz ha perso buona parte della sua famiglia, dice: «Penso sia sbagliato, offensivo verso la memoria dei morti e al limite della collaborazione con quell’ideologia. Non è un testo che può essere pubblicato, addirittura regalato, così alla leggera. Che bisogno c’era un’operazione del genere?». Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia Renzo Gattegna sostiene che «la distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani», conclude Gattegna. Il Mein Kampf è tornato nelle librerie dopo 70 anni. Da notare che alla scadenza dei diritti – il 31 dicembre 2015 – in Germania il libro del Fuehrer tornato nelle librerie dopo 70 anni con un’edizione commentata di circa 2000 pagine che ha scalato le classifiche. Il quotidiano milanese da parte sua ha così spiegato la scelta editoriale: «La scelta di allegare il Mein Kampf alla collana di opere sul nazismo in edicola da sabato con il Giornale (otto volumi a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano) fa discutere. Ma il libro-manifesto della follia xenofoba e antisemita di Adolf Hitler è un documento fondamentale per capire l’orrore della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Il politologo Giorgio Galli, esperto dei legami tra nazismo ed esoterismo, spiega le origini del libro più maledetto della storia: “Hitler fu l’ultimo teorico della guerra tra razze. Questo libro non ha nulla di proibito e vietarlo lo ha reso solo più interessante”». Il giorno prima in un altro articolo sul Giornale Matteo Sacchi aveva così concluso il suo articolo Il Mein Kampf ritorna. Ma come oggetto di studio: «Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto». Dall’articolo in questione apprendiamo anche che «dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della “Bibbia del nazionalsocialismo”. I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l’edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae». Adesso probabilmente anche le copie del Giornale andranno a ruba.

Il Giornale regala il Mein Kampf. Esplode la polemica. La comunità ebraica insorge: "Fatto squallido". Sallusti replica: "Non deve essere un tabù, per capire il male bisogna storicizzarlo", scrive “Il Tempo” l’11 giugno 2016. A partire da oggi, sabato 11 giugno, Il Giornale è in edicola una collana dedicata alla storia del Terzo Reich che si articolerà in 8 volumi con uscita settimanale. Il primo titolo in edicola è "Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo". In omaggio con il volume, viene distribuito il testo originale di Mein Kampf di Adolf Hitler, nell'edizione critica a cura del professor Francesco Perfetti.  Tale decisione ha generato scalpore, scatenando l'ira della Comunità Ebraica e del presidente del Consiglio. "Un fatto squallido" ha commentato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. "Non aver paura di storicizzare" replica il direttore del quotidiano, Sallusti. Sul caso è intervenuto anche Renzi su Twitter: "Trovo squallido che un quotidiano italiano regali il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio più affettuoso alla comunità ebraica #maipiù". La polemica "Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah” riferiscono fonti dell’ambasciata d’Israele a Roma. E Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità Ebraiche Italiane, commenta come la distribuzione del testo sia "un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza". Gattegna poi rincara la dose dicendo che: "Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente". Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme gli fa eco: "Che qualcuno abbia pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti e allarmante". Non si stupisce delle reazioni il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Che replica: "Per capire com’è potuto nascere il male assoluto, bisogna andare alla fonte e non aver paura di storicizzare le tragedie del Novecento. Non avrei problemi, per dire, a pubblicare anche il Libretto rosso di Mao".

Il Mein Kampf in edicola: tutto quello che non sapete. Imparare dagli errori del passato è un nostro dovere. Ecco perché pubblichiamo il manifesto di Hitler, scrive "Il Giornale", Sabato 11/06/2016. È un assioma ricorrente nei manuali di strategia: per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo. E così, se si vogliono comprendere i crimini del nazismo, bisogna leggere il Mein Kampf. Poche storie. Il romanziere scozzese Bruce Marshall, tra i migliori a raccontare i drammi e le aberrazioni della Seconda Guerra Mondiale, lo ripete più volte nei suoi libri: molto si sarebbe potuto salvare se i Capi di Stato del Novecento si fossero presi la briga di leggere questo libro. Sia chiaro: quella che esce oggi con Il Giornale non è la prima edizione italiana del libro di Hitler. Le edizioni Kaos lo hanno stampato anni fa e su Amazon si può acquistare per pochi spiccioli. Chiunque può acquistarlo con un clic. Quindi perché adirarsi? Critiche (legittime) sono arrivate dalla comunità ebraica, ma ad esse ha già risposto il direttore di questo quotidiano, Alessandro Sallusti. Ma, dato il can can mediatico che è stato sollevato in queste ore, val la pena fare alcune precisazioni. Il Mein Kampf allegato a Il Giornale non è gratuito. Chi lo vorrà leggere dovrà acquistare il primo volume della collana sull'ascesa e declino del Terzo Reich scritta da William Shirer, e con note critiche e commenti del professor Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea riconosciuto a livello internazionale. La storia sul nazionalsocialismo che uscirà in queste settimane non è certo un'apologia. Anzi...Proprio la lettura di questi libri servirà a dare la giusta lettura al Mein Kampf. Proprio questo mese è uscito in Italia un film interessante, "Lui è tornato", tratto dall'omonimo libro. "Lui" è ovviamente Hitler. Quella tratteggiata nel film è una società distopica, dove il Führer torna e fa il pieno di successo. Per realizzare questa pellicola sono state utilizzate anche scene improvvisate, in cui l'attore che impersona Hitler interagisce con ignari passanti. Chi ha visto il film può confermarlo: molti, ancora oggi, elogiano il dittatore tedesco. I motivi possono essere più disparati, ma sono tutti riconducibili all'ignoranza. Siamo abituati a pensare che Hitler abbia agito così in quanto pazzo: nulla di più falso. Quello del Führer era un piano lucido e criminale. Ottant'anni fa, abbiamo sottovalutato il problema. Non abbiamo letto il Mein Kampf e ci siamo trovati dall'oggi al domani con milioni di morti e una guerra mondiale. Evitiamo di farlo anche oggi.

Capire il Mein Kampf perché non torni più. Con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". C'è un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne. Ed è comprensibile perché gli uomini fanno scattare una legittima difesa contro il male assoluto. Parliamo di Hitler e del nazismo, la più grande tragedia - insieme al comunismo staliniano - del Novecento e tra le più orrende della storia intera del mondo. Milioni di ebrei sterminati nelle camere a gas, milioni di tedeschi mandati a morire per una causa aberrante, milioni di uomini liberi morti per estirpare dall'Europa questo cancro. Tutto ha inizio con un farneticante libro scritto nel 1925 dal futuro Führer e tragicamente noto come Mein Kampf, tradotto «La mia battaglia». Il 31 dicembre 2015 sono scaduti i diritti d'autore sul testo, diritti che erano stati affidati al governatorato della Baviera, che per settant'anni ne aveva vietato la pubblicazione. A gennaio l'Istituto di storia contemporanea di Monaco ha deciso di ripubblicare il testo a fini storici in una edizione commentata con l'avallo del presidente delle comunità ebraiche tedesche. In questi giorni si sta discutendo se adottare questo testo nei piani di studio delle scuole superiori. Abbiamo deciso di ripetere l'operazione per l'Italia, rieditando il testo originale stampato dalla Bompiani nel 1938 che oggi, per chi vorrà, è in edicola insieme al quotidiano e al primo numero di una collana dedicata alla storia del Terzo Reich. Ovviamente si tratta di un'edizione commentata. La guida critica alla lettura è del professore Francesco Perfetti, una delle massime autorità nel campo della storia contemporanea. La sola notizia di questa pubblicazione ha già suscitato polemiche, la maggior parte delle quali legittime e comprensibili, e le preoccupazioni degli amici della comunità ebraica italiana, che ci ha sempre visto e sempre ci vedrà al suo fianco senza se e senza ma, meritano tutto il nostro rispetto. Escludo però che ad alcuno possa anche solo sfiorare l'idea che si tratti di un'operazione apologetica o anche solo furba. Non si gioca su una simile tragedia. Semmai il contrario. Perché, con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale. Cito Perfetti: «Al mondo politico, ma anche a quello intellettuale dell'Europa del tempo, può essere oggi rimproverato il fatto di non avere letto in maniera approfondita l'opera e di non averne quindi compreso appieno la dimensione aberrante destinata, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato, a minare in profondità le fondamenta del mondo civile». Studiare il male per evitare che ritorni, magari sotto nuove e mentite spoglie. Questo è il senso vero e unico di ciò che abbiamo fatto.

Quanta polemica per un libro venduto pure alla Feltrinelli. Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto, scrive Giuseppe Marino, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". C'è uno scandalo nel mondo dei media italiani: una nota società editoriale lucra sul Mein Kampf. È la Feltrinelli. Basta cliccare sul sito della libreria on line e cercare il titolo per veder spuntare bene in evidenza il volume pubblicato da «Edizioni clandestine» con tanto di talloncino della promozione «-15%», autore «Hitler Adolf», disponibile in cinque giorni a soli 10,20 euro. E per giunta, a differenza di quella allegata al Giornale insieme a una collana storica firmata da autori di solida fama come William Shirer, quella venduta dall'editore simbolo della sinistra non è un'edizione critica ma il testo integrale. Ma niente da fare, l'occasione per accendere uno scandalo di plastica era troppo ghiotta. Come poteva non caderci Gad Lerner? E infatti sul suo blog consegna ai posteri un giudizio lapidario: «Alessandro Sallusti che distribuisce in edicola il Mein Kampf di Hitler conferma il suo talento nel fare la caricatura di se stesso». Eppure, nello scorso dicembre, in occasione della prima pubblicazione del testo base del nazismo dopo la decadenza dei diritti d'autore, lo stesso Lerner si dichiarava favorevole: «Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato». Nello stesso articolo del Fatto Quotidiano, si esprimevano anche il politologo Piero Ignazi («Era ora») e lo storico Gian Enrico Rusconi («Un segno di maturità»). Il Mein Kampf del resto non è affatto un pamphlet clandestino. In Italia l'edizione più nota è quella critica curata dal politologo Giorgio Galli per i Tipi della «Kaos», accompagnata da parole sagge: «Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato. Il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di ogni forma di censura. La storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito. La denuncia di rimozioni e mistificazioni all'ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». E ancora: «È opinione diffusa che sia un libro dell'orrore, un compendio di farneticazioni. Si può continuare a ritenerlo tale, ma solo dopo averlo letto». Il libro è tra l'altro accompagnato da una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell'Aned, Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. E che dire del settimanale Focus, che dopo lo scoppio della polemica sull'iniziativa del Giornale, pubblica un vademecum sul «Mein Kampf in pillole» per «non doverlo per forza avere in casa». Lecita iniziativa giornalistica o speculazione? Al di là delle strumentalizzazioni, quelle di chi approfitta di un'iniziativa editoriale per scatenare una polemica da proiettare sul voto alle amministrative, sembra uno scherzo ma davvero nel Pd c'è chi attacca Parisi per questo (e che c'entra?), in tutto il dibattito un punto fermo c'è. Il manifesto hitleriano, comprensibilmente avversato dalle comunità ebraiche, che pure si divisero sul tema della ripubblicazione in Germania, non è mai stato un libro clandestino. Si trova da scaricare on line e, secondo l'associazione hateprevetion.org, ha venduto 70 milioni di copie nel mondo, dal 2008 a oggi. Nonostante questo non trascurabile dato di fatto, la vicenda ha incendiato il dibattito sui social network, con la consueta singolar tenzone parolaia. Quella organizzata (gli account collegati al Pd si sono dati un gran daffare a twittare e ritwittare) e spontanea ironia. Vedi Fulvio Abbate: «La prossima settimana offrirà ai lettori il dissuasore elettrico a bastone». Ma anche tanti che hanno capito il gioco di chi strumentalizza. E replicano in modo altrettanto graffiante. Come «Re Tweet»: «Mi congratulo per la vostra battaglia contro la presenza del #MeinKampf nelle edicole. Khomeini sarebbe fiero di voi».

Veri ipocriti e falsi moralisti. Trovo preoccupante che Renzi non sappia che il Mein Kampf si può acquistare da tempo in libreria, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Matteo Renzi ha definito «squallida» l'iniziativa de Il Giornale di allegare, all'interno di una collana storica, una edizione commentata del Mein Kampf, atto fondativo di quella tragedia che fu il nazismo. Evidentemente il presidente del Consiglio in vita ha letto tanti fumetti - e questo lo si capisce -, ma pochi libri. Certamente non ha letto Se questo è un uomo di Primo Levi, nel quale, a proposito dell'Olocausto, si legge: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Trovo poi preoccupante che Renzi non sappia una cosa nota a tutti, cioè che il Mein Kampf lo si può acquistare già da tempo in molte librerie, quelle della Feltrinelli comprese, e con un clic su Amazon. I negazionisti rimuovono la storia scomoda, gli uomini liberi la affrontano, la studiano, la giudicano con la severità che merita. Potremmo ricordare a Renzi che squallido è non pagare i debiti che lo Stato ha con le imprese o illudere i pensionati che presto avranno 80 euro in più. Ma mischieremmo il sacro con il profano. Non possiamo però tacere, a proposito di storia, su quanto sia stato squallido, oltre che pericoloso, ricevere a Roma pochi mesi fa con tutti gli onori (e oscuramento delle statue marmoree dei Musei Capitolini per non offenderlo) Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, cioè di un Paese che nega il diritto all'esistenza di Israele e che sul popolo ebraico getterebbe volentieri una bomba atomica per arrivare alla soluzione finale alla pari di Hitler. Alla stupidità di Renzi preferisco la coerenza di Stefano Fassina, uno degli ultimi comunisti ancora in circolazione. Dice Fassina: voglio vedere se Il Giornale avrà il coraggio di pubblicare i diari di Anna Frank. Per noi non si tratta di coraggio, questo giornale è dalla parte di Anna nella storia e anche oggi, ma accetto volentieri il suggerimento e, compatibilmente con i problemi di diritti d'autore, farò il possibile perché ciò accada. Dal Mein Kampf al Diario di Anna Frank, dal male assoluto al sogno di libertà. Ma se mi permettono Renzi e Fassina, punterei alla trilogia. Un'ultima uscita con un libro che rivendichi il diritto di Israele a esistere senza essere quotidianamente minacciato e ferito dal terrorismo palestinese e dall'ostile e complice indifferenza di buona parte della sinistra occidentale. Perché altrimenti tutta questa levata di scudi è soltanto l'ennesima presa per i fondelli.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano dell’11 giugno 2016: vi dico perché ora rischia la galera mezza Italia. In Italia si può negare l'esistenza di dio, ma non si può dubitare della versione ufficiale di un fatto storico, anzi, di alcuni fatti storici, anzi, di uno in particolare. È questa l'obiezione insuperabile alla legge sul negazionismo approvata l'altro giorno (237 sì, 5 no, 102 astenuti) che beninteso, è una legge di ornamento, serve a farsi belli e ad accontentare una minoranza: ma siccome le leggi poi gravano sul groppone di tutti, eccoci qui a dimostrare come una norma-bandiera sia destinata a restare disapplicata o a produrre assurdità o, più probabilmente, a essere risvegliata solo quando si parla di Shoah. Nel dettaglio: la norma introduce la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Già qui salta all' occhio il primo pasticcio: si citano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica diversa. Non è un caso che il principale promotore della legge sia stata l'Unione delle Comunità Ebraiche (ben decisa a separare eticamente "l'unicità" dell'Olocausto) e non è un caso neppure che la stessa Unione, nei suoi comunicati, abbia festeggiato la nuova legge citando solo la Shoah e nessun altro genocidio o crimine di guerra o contro l'umanità: e con ragione, perché il significato politico dell'operazione era indirizzato a loro. Il problema è che la legge, letta nero su bianco, poi vale per tutti: e sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) fioccano disaccordi di ogni tipo e a tutti i livelli. È anche per questo che nel suo complicato iter (la norma ha fatto la navetta col Senato per 3 ben volte) gli storici e i politici di ogni schieramento hanno condiviso ogni perplessità per qualcosa che lascerà ai magistrati l'arbitrio di decidere che cosa sia reato e che cosa no; una "verità di Stato" che potrebbe vanificare ogni dibattito controverso. Studiosi di sinistra come Marcello Flores, direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet, per dire, su questo si è trovato d'accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: si rischia, dicono, un pasticcio infernale. Esempi? Centinaia. Dovremmo incriminare, in teoria, Recep Erdogan non appena mettesse piede sul suolo italiano, visto che da sempre si ostina a negare il genocidio degli armeni - riconosciuto dalle massime autorità europee e mondiali - e ha pure promosso delle leggi contro chi ne ammetta l'esistenza. A ruota potremmo mettere sotto indagine il governo Renzi, che nel marzo dell'anno scorso, attraverso il Ministero dei Beni culturali, eliminò la parola "genocidio" da una rassegna dedicata al popolo armeno. Inquisito anche l'ex ministro Franco Frattini, che in passato definì quel genocidio solo «un massacro». In ordine sparso: in galera chiunque metta in dubbio (o apra una discussione) sui crimini di guerra che l'esercito italiano commise tra il 1931 e il 1943 in Cirenaica ed Etiopia; al macero tutti i libri, anche serissimi, che nelle biblioteche negano quei crimini come fece anche Indro Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia. Dentro, poi, chiunque non consideri genocidio i fatti di Srebrenica (alcuni giuristi lo contestano) e incriminati anche quei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione dei militari argentini. Nessun problema, invece, per quei manuali che ancor oggi giustificano o "contestualizzano" i milioni di morti dello Stalinismo: la definizione di genocidio, in quel caso, è ancora ufficiosa. Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956: ci sarebbe da approfondire. Piergiorgio Odifreddi, firma di Repubblica, paragonò l'esercito israeliano e le SS delle Ardeatine: ci sarebbe da approfondire anche qui. Il quotidiano Il Giornale, tra qualche giorno, allegherà una copia del Mein Kampf come documento storico: sarà incitamento? Istigazione? La portavoce del Commissariato Onu per i rifugiati, Carlotta Sami, ma anche Emma Bonino e Gad Lerner, in passato paragonarono lo sterminio pianificato degli ebrei al dramma degli immigrati nel Mediterraneo: fu un buon paragone? Non è che rischiano, ora? Un tempo si rischiava di dire cazzate e basta, ora si rischia che a valutarle sia un giudice. Senza contare l'esperienza di quei Paesi occidentali in cui le leggi anti-negazioniste sono state applicate: la copertura mediatica dei processi che ne sono scaturiti, spesso, ha finito per diventare una tribuna per la propaganda delle tesi che venivano perseguite, e che altrimenti sarebbero state ignorate dall' opinione pubblica. Leggi fallite, in sostanza: l'Italia si è accodata subito.

Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.

Comunali, il Pd milanese punta sull’islamismo politico. Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti: Pierfrancesco Majorino fotografato in questi giorni assieme a Sameh Meligy, legato ai Fratelli Musulmani, scrive Angelo Scarano, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti. Non sono bastati i collegamenti messi in evidenza dai media durante la campagna per le Comunali tra la candidata Sumaya Abdel Qader e i Fratelli Musulmani, non sono bastate le sue dichiarazioni contraddittorie nei confronti dell’organizzazione islamista e nemmeno i post equivoci del marito, Abdallah Kabakebbji, nei confronti di Israele, definita “una truffa” e un “errore storico”. La rete che collega la candidata del PD e “confratelli” a ambienti come CAIM, Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto, Waqf al-Islami, Associazione Donne Musulmane d’Italia (Admi) e Alleanza Islamica, nonché a Fioe, Femyso. Sarà forse un caso che il presidente del Caim, Maher Kabakebbji, nonché suocero di Sumaya, è anche presidente del Caim e del Waqf al-Islami? Sarà un caso che Maher e il figlio Abdallah (marito di Sumaya) venivano ritratti in foto con Rachid Ghannouchi, leader storico dei Fratelli Musulmani tunisini? Sarà una coincidenza che Souhair Katkhouda, moglie di Maher Kabakebbji, è la presidentessa dell’Admi? Entrambi erano inoltre agli eventi organizzati in nord-Italia per inaugurare moschee finanziate dalla Qatar Charity. E che dire della foto che ritrae il padre di Sumaya Abdel Qader, nonché imam di Perugia, a un evento ufficiale mentre stringe la mano dell’ex presidente egiziano ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi? Guarda caso diversi esponenti del Caim erano stati fotografati e filmati a manifestazioni a favore di Morsi, tra cui Omar Jibril, legato al Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto (gruppo molto attivo con iniziative a favore di Morsi). Omar Jibril e Sumaya Abdel Qader venivano recentemente fotografati a una riunione proprio con il candidato sindaco PD, Beppe Sala. Al momento Beppe Sala si è limitato a dire, durante un confronto televisivo con Parisi, che gli elementi in questione non sono dei Fratelli Musulmani, ma non ha ancora fornito chiarimenti riguardo ai collegamenti più che evidenti messi in luce dai media, così come Sumaya Abdel Qader non si è vista granchè sui grandi schermi e non ha chiarito le sue posizioni nei confronti dei matrimoni gay, delle adozioni, della repressione messa in atto dal governo-regime di Erdogan nei confronti di intellettuali, giornalisti, membri dell’opposizione e curdi. Tutti temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla sinistra. Non dimentichiamo inoltre che in piena campagna elettorale il PD si è visto costretto a ritirare la candidatura di Sameh Meligy, pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Le polemiche erano scoppiate in seguito a una sua foto scattata assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l’ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell’area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf. Meligy era inoltre apparso anche lui a manifestazioni pro-Fratelli Musulmani egiziani assieme a membri del Caim. Le posizioni islamiste intransigenti di Meligy sono ben note. Nonostante ciò, l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, è stato fotografato in questi giorni assieme a Meligy durante i volantinaggi del PD a favore di Beppe Sala. Meligy che è inoltre amico di Usama Santawy, predicatore noto non soltanto pro-Fratelli Musulmani, ma legato anche a personaggi come Musa Cerantonio, predicatore italo-australiano apologeta dell’Isis. Tutto ciò mentre i principi del Qatar, paese notoriamente legato ai Fratelli Musulmani e accusato di supportare i jihadisti in Siria, venivano in Italia a incontrare il Papa e a inaugurare centri islamici. Nel frattempo a Milano, dal 3 al 5 giugno, veniva ospitato a una conferenza organizzata dalla European Muslim Network, Tariq Ramadan, esponente dell’Islam “europeo” ma anche nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Non dimentichiamo che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani è stata messa al bando in Russia, Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi mentre in Gran Bretagna Cameron aveva fatto aprire un’inchiesta per avere maggiori informazioni sull’organizzazione. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani è niente meno che Hamas, che pochi giorni fa festeggiava l’attentato di Tel Aviv offrendo pasticcini agli incroci stradali di Gaza. Vista la delicata situazione internazionale, la presenza di elementi legati all’islamismo politico all’interno del PD andrebbe affrontata con le necessarie cautele. Gli elementi emersi non possono non far riflettere. Il PD milanese a questo punto deve fornire delle risposte immediate ed esaustive al riguardo che vadano oltre il “non sono dei Fratelli Musulmani”, visto che la questione è seria. Del resto essere dei Fratelli Musulmani in Italia non comporta reato, dunque, se non c’è nulla da temere, se non ci sono scheletri nell’armadio perché negare? Vale poi la pena considerare un elemento, musulmani e Fratelli Musulmani non sono sinonimi, dunque inglobare nel PD elementi legati a un’ideologia politica significa discriminare la maggior parte dei musulmani che credono e seguono una religione e non un’ideologia.

Nell'islam che noi tuteliamo non c'è spazio per la libertà. La strage in Florida mostra le nostre contraddizioni: difendiamo coloro che sottometteranno i nostri diritti, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale".  Ecco quale sarà la sorte di noi italiani, noi europei, noi occidentali qualora sciaguratamente dovessimo essere sottomessi all'islam. A prescindere dal fatto che Omar Saddiqui Mateen, lo stragista del locale gay Pulse a Orlando, 29 anni, cittadino americano dalla nascita, di origine afghana, fosse o meno organico all'Isis o ad altre sigle del terrorismo islamico, è indubbio che la condanna a morte degli omosessuali corrisponda a ciò che Allah prescrive letteralmente e integralmente nel Corano, a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, alla prassi nel corso di 1400 anni di storia dell'islam. A oggi tutti gli Stati islamici, nonostante abbiano formalmente sottoscritto la «Dichiarazione universale dei diritti umani», sanzionano in un modo o nell'altro l'omosessualità come reato, mentre la condanna a morte degli omosessuali è ufficialmente vigente in Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Nigeria, Sudan, Somalia e Mauritania. Non è affatto casuale che gli omosessuali siano vittime predilette sia dei terroristi islamici, che li lanciano dai tetti di edifici alti e poi vengono lapidati a morte, sia di Stati islamici che noi occidentali consideriamo addirittura «moderati», che li impiccano ostentatamente nelle pubbliche piazze di fronte alle moschee dopo la preghiera collettiva del venerdì. Succede perché tutti i musulmani sono tenuti a sanzionare il rapporto anale definito «liwat», a prescindere dal sesso di chi lo subisce, dove l'omosessuale è indicato come «luti», dal nome di Lot, nipote di Abramo, che per l'islam è un profeta, salvato da Allah dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Nel Corano (27, 55-58) si legge: «V'accosterete voi lussuriosamente agli uomini anziché alle donne? Siete certo un popolo ignorante! Ma la sola risposta del suo popolo fu: Scacciate la famiglia di Lot dalla vostra città, poiché son gente che voglion farsi passare per puri. E noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che stabilimmo dovesse restare fra quelli che rimasero indietro. Su di essi facemmo piovere una pioggia: terribile è la pioggia che piove su chi fu ammonito invano!». Così come a Maometto viene attribuito il detto: «Se scoprite chi commette il peccato del popolo di Lot, uccidete chi lo compie e chi lo subisce». È pertanto paradossale che dentro casa nostra siano proprio i paladini più intransigenti dei diritti dell'uomo e persino gli stessi omosessuali, guarda caso quasi tutti schierati a sinistra, a mobilitarsi per la piena legittimazione dell'islam, per la proliferazione delle moschee e persino per la presenza di tribunali islamici che emettono sentenze sulla base della sharia che, in generale, disconosce i diritti fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà di tutti e, in particolare, condanna a morte gli omosessuali. Un caso emblematico è quello del presidente della Regione della Sicilia Rosario Crocetta, dichiaratamente omosessuale, che sta promuovendo la reislamizzazione della Sicilia, consentendo in particolare all'Arabia Saudita e al Qatar di investire decine di milioni di euro per la costruzione di nuove moschee. All'amico Crocetta ricordo che a oggi può professarsi orgogliosamente omosessuale solo perché per sua fortuna si trova su questa nostra sponda del Mediterraneo, dove vige una civiltà laica e liberale dalle radici cristiane, ma se malauguratamente anche da noi dovesse prevalere l'islam gli omosessuali farebbero la stessa fine delle vittime del locale gay di Orlando. Perché è l'islam che lo prescrive, a prescindere dal fatto se il carnefice è un individuo o uno Stato, un terrorista o un «moderato».

Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola. Io vado a comprarne una copia. Mi serve per capire il Male. Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca, scrive Giampiero Mughini, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Sto per andare alla mia edicola di viale Trastevere dove assieme alla consueta mazzetta di quotidiani comprerò il Mein Kampf di Adolf Hitler di cui Francesco Perfetti (uno dei migliori storici italiani del moderno) ha curato l'edizione per Il Giornale. No, è pericoloso per chi non ha senso critico. Proprio perché sono visceralmente e drammaticamente interessato alla Shoah in ogni sua sfumatura di storia e di personaggi e di tragedia apicale del Novecento, quel libro non può mancare alla mia biblioteca. Lo metterò nello scaffale che ho dedicato a quell'argomento, il più vicino alla sedia su cui lavoro nel mio studio. Gli staranno accanto il libro dello storico inglese Martin Gilbert sulla reticenza degli Alleati a reagire a quel che sapevano stava succedendo nel campo di Auschwitz e altri; il portentoso libro/intervista in cui Gitta Sereny dialogava con l'ex capo nazi di Treblinka; il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann; il libro einaudiano che pubblicava per intero la relazione d'accusa del procuratore generale israeliano contro Eichman; il libro di Robert Faurisson il capo dei «negazionisti» francesi che avevo comprato nella libreria parigina dove negli anni Sessanta aveva comprato una celeberrima rivista trotzchista su cui avevo fatto la tesi di laurea nel 1970. Accanto al libro forse il più sconvolgente di tutti, L'Album d'Auschwitz, il libro dov'erano le foto che un paio di SS di Auschwitz avevano scattato in tutta tranquillità (alla maniera dei selfie nostrani) a donne e uomini che a vagonate erano appena sbarcati ad Auschwitz e che avevano ancora poche ore di vita. Ne potrei elencare cento altri. Il Mein Kampf non lo avevo, e invece cimelio mostruoso com'è non deve mancare da una biblioteca come la mia. All'epoca in cui apparve e fino al momento in cui il popolo tedesco non inondò di voti Hitler, quel libraccio lo avevano letto in pochissimi. Era reputato lo sproloquio di uno squinternato che si stava facendo un po' di galera per avere tentato un (ridicolo) putsch contro la democrazia di Weimar. L'inumana potenza dei carri armati e dei caccia nazi rese quel programma attuabile. Un programma che in tanti avevano sottovalutato. Se una tale porcata a tal punto dilaga e diventa effettuale, come fai a non conoscerne i tratti? Purtroppo non conosco il tedesco e non sono ricco. Fosse dipeso da me avrei volentierissimo comprato l'esemplare della prima edizione che i bouquinistes della Senna hanno venduto una decina d'anni fa. Come non avere un cimelio dell'orrore di tale stazza? E del resto io da ragazzo li avevo comprati i quattro volumi degli Editori Riuniti con le opere complete di Stalin, altro pontefice dell'orrore assoluto. Un paio d'anni fa mi capitò tra le mani la prima edizione italiana del Mein Kampf, un'edizione Bompiani del 1942. Solo che era in cattive condizioni, e la mia anima da bibliofilo si rifiutò. Se la trovo in buone condizioni la compro subito. Un libro uscito quando erano in molti gli italiani anche colti che flirtavano con l'antisemitismo. Ricordatevi di Guido Piovene che aveva fatto un grande elogio del «razzista» all'italiana Telesio Interlandi (personaggio del resto interessantissimo su cui ho scritto 25 anni fa un libro meritorio). Leggere sapere conoscere capire. Più lo fai e meglio è. E poi vi ricordate la gran polemica se sì o no pubblicare i «comunicati» delle Br pur di fare rilasciare un magistrato che loro avevano rapito? Tutti a dire di no, che non bisognava dar loro una vetrina massmediatica. Si distinse in quell'occasione Riccardo Lombardi, uno dei maestri socialisti della mia giovinezza. Ma certo che vanno pubblicati, scrisse, a far vedere a tutti che razza di cretini e delinquenti sono i brigatisti. Quei loro comunicati e «risoluzioni» mi sono messo adesso a cercarli in antiquariato e a leggermeli a uno a uno. Da far accapponare la pelle a pensare che quegli idioti hanno costituito un allarme per la nostra democrazia. Buona lettura.

Forse stiamo diventando tutti nazisti..., scrive Rocco Buttiglione il 10 giugno 2016 su “Il Dubbio”. È di nuovo in circolazione in Italia l’opera fondamentale di A. Hitler Mein Kampf. Non so se essere contento o preoccupato per il fatto che è stato tolto il bando che dalla fine della seconda guerra mondiale gravava su questo libro. Quanto più si progredisce nella lettura tanto più ci si rende conto di quanto tutti noi siamo impregnati dello spirito del nazionalsocialismo, di quanto le categorie culturali del nostro tempo ricalchino quelle che stanno alla base della ideologia nazionalsocialista. Questa può essere l’occasione di un grande esame di coscienza dell’Europa che ci conduca a rivedere profondamente le categorie culturali con le quali pensiamo noi stessi. Oppure può essere l’occasione per accelerare la regressione nella barbarie che caratterizza tanta parte della cultura nella quale siamo immersi. In un certo senso molti di noi potrebbero scoprire con orrore (o con compiacimento?) che eravamo nazisti e non lo sapevamo. Iniziamo con la filosofia di Hitler. Quali sono i presupposti filosofici del nazionalsocialismo? Per prima cosa incontriamo l’evoluzionismo darwiniano elevato a concezione del mondo. Nella Germania di quegli anni queste idee erano nell’aria, soprattutto per opera di E. Haeckel. È appena il caso di osservare che lo scientismo evoluzionistico è anche una componente fondamentale del modo di pensare comune dei nostri giorni. Naturalmente qui la teoria scientifica di Darwin non c’entra, c’entra il fatto che nella mentalità comune essa si trasforma da scienza (che spiega un certo numero di fenomeni propri della biologia) in metafisica che spiega il mistero dell’essere ed in filosofia sociale che spiega il destino dell’uomo. Ma non è proprio in questo modo che essa viene presentata anche oggi alle grandi masse? Il darwinismo popolare genera, allora come adesso, una certa tenerezza verso gli animali ed un certo disprezzo per gli umani. Se siamo tutti parte di una vita cosmica che perennemente si evolve la differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali si perde. Siamo autorizzati a trattare gli uomini come se fossero animali e gli animali come se fossero uomini. Se prendete un filosofo che adesso va molto di moda come Peter Singer ritroverete la stessa tenerezza verso gli animali e la stessa negazione della sacralità della vita umana. Oggi parlar male del darwinismo significa essere additati al pubblico disprezzo come difensori di un creazionismo dogmatico e antiscientifico. Nessuno difende la verità fondamentale contenuta nella vecchia idea di creazione: l’uomo ha una dignità che non è paragonabile a quella degli animali e che nessuno ha il diritto di violare. È proprio l’oblio di questa verità il punto di partenza del pensiero di Hitler. L’altro filosofo di Hitler è Nietzsche. Non voglio negare che Nietzsche sia un pensatore che ha molti lati, anche contraddittori fra di loro, e non voglio rendere Nietzsche responsabile del nazismo. È però indubitabile che Hitler costruisce in larga misura il suo pensiero su di uno dei lati del pensiero di Nietzsche. Non esiste una verità oggettiva a cui l’uomo debba obbedire. L’uomo crea lui stesso l’ordine del mondo a partire dalla propria volontà. Questa volontà, che è volontà di potenza e di vita, abita nell’inconscio della razza ed emerge in un individuo che le dà forma storica: la Guida (il Führer). Non esiste una ragione che conosca una legge morale che precede la volontà ed a cui la volontà si debba piegare. L’unica legge è quella della lotta a morte per l’affermazione di se (del proprio popolo). La ragione non ha il compito di indicare alla volontà i fini che devono guidarla ma quello di organizzare i mezzi che le permettono di sottomettere a se la realtà. I parallelismi con il postmodernismo attuale sono evidenti. Esiste (per il momento) una differenza: il postmodernismo attuale non tematizza il concetto di popolo e di inconscio collettivo ma in qualunque momento potrebbe cominciare a farlo. Comune al nazismo ed al postmodernismo è l’odio della legge che pone un limite alla volontà ed al desiderio. La legge è sempre un inganno che vuole mettere in catene la volontà. L’ebreo è la personificazione della legge mentre la libertà germanica è la sua negazione. Non la legge astratta ma il concreto rapporto di fedeltà che si stabilisce fra il Führer ed i suoi seguaci deve guidare il popolo. Qui c’è posto anche per un cristianesimo deebraicizzato (e deellenizzato) ridotto ad una malcompresa polemica di S. Paolo contro la legge ebraica che ricorda da vicino qualche corrente della teologia contemporanea. Il Cristo germanico abolisce la legge e le oppone il vincolo personale che unisce i discepoli attorno alla sua volontà che dà forma ad un mondo nuovo. Non ci vuole molto per arrivare a vedere nel Führer il continuatore di Gesù che completa la sua opera distruggendo il popolo ebraico. I Cristiani Tedeschi (die Deutschen Christen, corrente teologica protestante) qualche anno dopo la pubblicazione di Mein Kampf, questo passo lo fecero. Dove però emerge tutta la personale (diabolica) genialità di Hitler è nella sua teoria della politica. La teoria politica classica si struttura attorno alla idea di bene comune. Al centro della teoria politica di Hitler c’è l’identificazione del nemico. L’unità del popolo si struttura contro il nemico. Max Scheler (che non era nazista) aveva spiegato in quegli anni che la vita psichica si struttura attorno alle due passioni fondamentali dell’amore e dell’odio ed aveva messo in guardia contro la forza dell’invidia e del risentimento. In ogni società come in ogni individuo singolo esiste un fondo di risentimento che ci si sforza di neutralizzare al fine di rendere possibile un comportamento razionale e civilizzato. Per Hitler l’azione politica deve al contrario mobilitare il risentimento, dargli piena legittimazione, farne la guida dell’azione politica. Per sfruttare in pieno la forza del risentimento bisogna affermare che noi e solo noi siamo il popolo. I nazisti non sono un partito. La parola partito viene per quanto possibile evitata perché evoca la idea di parte e dà l’idea che anche altri partiti possano essere parti legittime del popolo. Meglio usare la parola movimento o, meglio ancora, popolo. I nazisti pretendono di essere la parte sana della nazione. Gli altri, gli oppositori, sono la parte malata che va sradicata e gettata nel fuoco. Con essi non si viene a patti, non si argomenta, non si riconosce loro diritto di parola. Non hanno una dignità umana che vada rispettata. L’unica relazione verso di loro è l’invettiva. Non bisogna preoccuparsi nella polemica politica della verità delle cose. Un’unica fondamentale verità sovrasta tutte le altre e le riassorbe in se stessa: il nemico è il nemico e deve morire. Non so se Grillo abbia letto Mein Kampf. Tendo a pensare di no. Se non lo ha letto allora ne ha riscoperto da solo i principi. Per la politica del risentimento il problema non è realizzare il bene comune ma distruggere l’avversario. Sarebbe ingeneroso però vedere in Grillo l’unico discepolo di Hitler nel nostro tempo. Sempre più il linguaggio e l’argomentazione politica si vanno strutturando intorno all’odio verso il nemico piuttosto che intorno alla proposta in positivo di un bene comune. Il tema è sempre: mandiamo a casa Renzi oppure mandiamo in galera Berlusconi. Per quale motivo, se a torto o a ragione, sulla base di quali argomenti e per fare poi che cosa sono considerazioni alle quali non si attribuisce alcuna importanza. Come libro Mein Kampf funziona. Ricorda l’opera di Wagner. Wagner anche lui ha molti lati e uno di questi lati certamente è stato usato da Hitler. L’opera d Wagner mette in scena archetipi fondamentali dello spirito umano, forze potenti che albergano nell’inconscio di ciascuno di noi. Il criterio di verità dell’opera è interno alla soggettività umana, nei personaggi e nella tensione fra di essi rivediamo noi stessi. Avviene la stessa cosa anche in Shakespeare. Pensate per un attimo al Mercante di Venezia ed al personaggio di Shylock, l’ebreo. Lo sentiamo vero e lo odiamo e lo disprezziamo per la sua crudeltà (e anche lo compiangiamo perché Shakespeare ci fa intuire che la sua malvagità è la conseguenza di sofferenze ed ingiustizie che egli stesso ha subito). Odiamo e disprezziamo in lui parti interne di noi stessi ma... Immaginate se rivolgessimo i sentimenti che il dramma suscita in noi non contro il nostro Shylock interno ma contro gli ebrei realmente esistenti trasformando la verità interna dell’opera d’arte in verità politica. Hitler proietta il male fuori di noi nel nemico e ci invita poi a distruggere il male distruggendo il nemico. La sua narrazione è coinvolgente sul piano della rappresentazione artistica ma diventa demoniaca se proiettata sulla realtà. È stato W. Benjamin a vedere nella “estetizzazione” della politica una delle caratteristiche fondamentali del nazismo. Anche qui è evidente la parentela con quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Gli stili si mescolano, il cabaret diventa politica, non vi sono più limiti all’iperbole, ciò che io sento vero (senza nessuna prova empirica) lo metto in scena come se fosse vero e la gente si perde in questa realtà virtuale fino a smarrire la capacità di valutare la situazione e le proposte politiche sul piano della realtà. Come ultima riflessione vorrei consegnare ai lettori un dubbio: non è che per caso siamo (o stiamo diventando) tutti nazisti senza saperlo?  

Siamo di fronte al libero pensiero unificato.

Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.

Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.

Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito.  “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:

è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)

si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)

ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:

i media lo censurano (oh, por ninin)

le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)

ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,

gli impedisce di lavorare!

Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.

Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:

THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS

INTRODUCES

THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY

President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.

Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.

he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.

today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.

today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.

The President with the degree is unemployed.

His wife is unemployed.

His son with the 2 degrees is unemployed.

His daughter with the diploma is unemployed.

They are unemployed because they fight the Mafia.

The judges do not punish the Mafia.

In Italy the environment is polluted;

In Italy the administrators publics do not respect the law;

In Italy the insurance agencies do not respect the law;

In Italy the lawyers do not respect the law;

In Italy the banks do not respect the law;

In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.

In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.

In Italy the judges do not respect the law;

In Italy the police does not respect the law;

In Italy the authority does not respect the law;

In Italy the authority misuses its power.

In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!

The Italian citizen is silent.

You can translate the complete relation. It is in Italian.

Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.

Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia per qualcuno? non so, può darsi. Suscito invidia? Forse... ma non penso che qualcuno riesca a distruggermi.”

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.

Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)

Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)

Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)

Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)

Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)

L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)

È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)

L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)

Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)

In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)

Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)

Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)

Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)

L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)

Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)

Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)

La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)

Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)

“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)

Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)

Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)

Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)

La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)

L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)

Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).

Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)

Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)

C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)

L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)

Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)

Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)

Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)

Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)

Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)

Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)

Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)

Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)

Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)

Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)

È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)

Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)

Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)

La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)

In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)

La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)

Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)

Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).

Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).

L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)

L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)

L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)

Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)

La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)

Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)

Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)

La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)

Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)

La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)

Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)

Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)

La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)

La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)

Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)

Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)

Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)

L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)

Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)

Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)

Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)

Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)

Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)

Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)

Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)

L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)

I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)

Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)

Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)

Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)

“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)

Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)

Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)

Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)

Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)

Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)

Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)

Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)

Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)

Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)

«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso

che se veduto avesse uomo farsi lieto,

visto m’avresti di livore sparso.

(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)

L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.

 Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui be­ni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.

Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?

Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

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Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...

Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero ), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso , testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande (nella foto), presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Detto questo sembra evidente che si abbisogna di una legge di tutela per i cittadini contro i magistrati che delinquono indisturbati.

L’INVIDIA E L’ODIO DI CLASSE.

Invidia di classe. Citando il dizionario della lingua italiana, alla voce invidia troviamo: sentimento di cruccio astioso per qualità o fortune altrui. Ed alla voce classe: insieme di persone, animali, cose, che hanno qualche proprietà in comune.

Bertold Brecht, Odio di classe:

Quelli che portano via la carne dalle tavole insegnano ad accontentarsi.

Coloro ai quali il dono è destinato esigono spirito di sacrificio.

I ben pasciuti parlano agli affamati dei grandi tempi che verranno.

Quelli che portano all’abisso la nazione affermano che governare è troppo difficile per l’uomo qualsiasi.

Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”. A me sta a cuore un punto. Vedo che oggi si rinuncia a parlare di proletariato. Credo invece che non c’è nulla da vergognarsi a riproporre la questione. E’ il segreto di pulcinella: il proletariato esiste. E’ un male che la coscienza di classe sia lasciata alla destra mentre la sinistra via via si sproletarizza. Bisogna invece restaurare l’odio di classe, perché loro ci odiano e noi dobbiamo ricambiare. Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? Recuperare la coscienza di una classe del proletariato di oggi, è essenziale. E importante riaffermare l’esistenza del proletariato. Oggi i proletari sono pure gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari, i pensionati. Poi c’è il sottoproletariato, che ha problemi di sopravvivenza e al quale la destra propone con successo un libro dei sogni. Edoardo Sanguineti. Genova, 4 gennaio 2007.

Quelli che godono per le auto dei ricchi nel fango. "Evviva. L'alluvione non ha travolto le utilitarie, ma Porsche e Ferrari", scrive Nino Materi, Martedì 6/10/2015, su "Il Giornale". Brutta bestia la lotta di classe. Soprattutto quando maschera un odio - anzi, un'invidia - di cilindrata: precisamente quella delle supercar che ieri l'alluvione in Costa Azzurra ha fatto finire sotto il fango. Le foto che accompagnano la tragedia (perché di tragedia si tratta, visto che sono morte 20 persone) risultano singolari: per una volta le vetture trascinate dalla corrente non sono le solite utilitarie, ma supercar di «supercapitalisti». Un'anomalia, diciamo così social-automobilistica, che ha scatenato i commenti «spiritosi» di quanti, fregandosene delle vittime, hanno «gioito» per i «bolidi extralusso» finiti in malora. Che gente è quella che esulta perché i «ricchi» della Costa Azzurra - oltre a perdere la vita - hanno perso anche le loro Porsche, Ferrari, Lamborghini e via fuoriseriando? Sul Giornale di ieri, in uno «spillo», davamo conto dei commenti cinici mandati in onda da alcune emittenti simbolo del mondo antagonista (tipo Radio Onda d'Urto). Gente che non si è fatta scrupolo di esprimere «compiacimento» per il fatto che una calamità naturale abbia colpito, «una volta tanto», non un «infernale paese del Terzo mondo», bensì un «paradisiaco regno del benessere occidentale». Ci eravamo illusi che il delirio circolasse solo nell'etere dei black bloc radiofonici: sparute jene ridens che in realtà fanno piangere. Ci eravamo sbagliati. Nei del sito del Corriere della Sera (ma messaggi dello stesso tenore sono riscontrabili nelle chat di tutti i maggiori quotidiani italiani) ieri si leggevano post di questo tipo: «dispiace per la Ferrari» (firmato: soccorsorosso); «Non c'è problema quelli hanno la Casko » (magoatem); «Da quelle parti si sono stabiliti da tempo e con la tacita complicità delle autorità di quel paese, perché molto danarosi, alcuni personaggi russi di dubbia matrice, questo spiega la presenza di quelle Ferrari» (AIATTA); «L'invidia fa rodere, eh? Beh, insieme ai Ferrari l'acqua si è portata via anche le auto normali, quindi tutta sta soddisfazione buonista come al solito è pura ipocrisia» ( Lettore 5829120); «Le vostre faccine soddisfatte le trovo piuttosto patetiche» (Lettore 3207079); «Troppo spesso le calamità naturali avvengono nei paesi poveri, questa volta è cambiato il vento, mi dispiace per i proprietari, ma insomma se c'è un po' di giustizia» (Gianni Ponticelli); «Adesso vi preoccupate di un pezzo di ferro assicurato del riccone di turno?» (QuestoPaeseFaSchifo); «Meglio una Ferrari di lusso che non 100 macchine di povera gente» (ciccio401). Ma un tempo i lettori del Corriere non erano la «migliore espressione della borghesia moderata»? Poi è arrivato il web. E addio moderazione.

Briatore: "Troppa invidia sociale. Bisogna lasciare l'Italia". Flavio Briatore prende le difese di Paolo Bonolis, finito nel tritacarne del web per una foto che lo vedeva in viaggio con la famiglia su un aereo privato, scrive Luisa De Montis, Sabato 23/07/2016, su "Il Giornale".  L'unica soluzione? "Lasciare l'Italia, diventata patria dell'invidia sociale". Flavio Briatore, in una intervista al Giorno, prende così le difese di Paolo Bonolis, finito nel tritacarne del web per una foto che lo vedeva in viaggio con la famiglia su un aereo privato. Lo hanno accusato di sfoggiare il lusso sfrenato e la moglie Sonia Bruganelli ha reagito contro quelli che ha definito "frustrati" e "poveracci". "Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali. Non vi capisco più. Io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C'è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera. All'estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo", dice Briatore. Che poi aggiunge che invece da noi il caso, minimo, di Bonolis è diventato il simbolo di una mentalità sbagliata: "Mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l'invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l'idea assurda che tutti dovremmo stare peggio. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito. Potendo, dall'Italia bisogna andarsene".

E' l'invidia il motore del Paese. Sociale, economica, virulenta, sprezzante: il vizio capitale è il male oscuro dominante nel modo contemporaneo. Lo rivela uno studio scientifico dell'Università di Madrid basato sugli algoritmi, scrive Maurizio Di Fazio su "L'Espresso" il 20 settembre 2016. “Sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per colui che invece possiede tale bene o qualità… Non si tollera che altri abbiano doti pari o superiori, o riescano meglio nella loro attività e abbiano maggior fortuna” (Treccani). “L'invidia è una terribile fonte di infelicità per moltissima gente" asseriva il filosofo Bertrand Russell. “È un rospo velenoso” per il suo collega Arthur Schopenhauer. Ed è uno dei sette peccati capitali. Nella Divina Commedia, Dante confinava tutti gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre oscenamente cucite da un pedagogico fil di ferro. Contrappasso atroce a troppo subdolo e sistematico parlar male del prossimo.

C’è l’invidia socio-economica, che si accentua in tempi di guasti irreversibili all’ascensore sociale: i poveri invidiano quelli leggermente più benestanti di loro e i ricchi, quelli veri, rischiano di diventare i nuovi presidenti degli Stati Uniti d’America, come Donald Trump. Oppure sbottano, com’è capitato a Flavio Briatore quest’estate: “Bisogna lasciare l'Italia, diventata patria dell'invidia sociale. Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali. Non vi capisco più. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare… Bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. Io ho preso una decisione ormai vent’anni fa e non mi sono mai pentito. Potendo, dall'Italia bisogna andarsene".

C’è l’invidia più soft del consumatore, foraggiata da retoriche pubblicitarie vecchie e nuove, oggi incentrata soprattutto sulle graduali trasformazioni di feticci d’élite di massa come gli smartphone: si invidia, ma senza rancore, il primo acquirente in assoluto del nuovo iPhone7, che se l’è accaparrato dopo una notte febbrile d’attesa davanti al cancello d’ingresso del centro commerciale. E poi c’è l’invidia sempre più virulenta che scorre sui social network, versata a fiotti mefitici da moltitudini di “haters”, troll, cyberbulli, delatori e calunniatori virtuali, fake, leoni da tastiera, complottisti, dietrologi e tuttologi amatoriali, sprezzanti commentatori in servizio permanente effettivo. Nel mirino in particolare le celebrità dello spettacolo, i politici di governo, i fenomeni Instagram o YouTube del momento, le ex e le ragazze in genere, i giornalisti, gli “influencers”, i cani sciolti e chiunque raccolga troppi più like dei suddetti.

“L’invidia è il vizio che blocca l’Italia. Una vera e propria “sindrome del Palio” la cui regola principale è quella di impedire all’avversario di vincere, prima ancora di impegnarsi a vincere in prima persona. E questo non ci permette di trasformare la nostra potenza in energia – si legge nel rapporto Eurispes 2016 -. L’invidia e la gelosia, se volte in positivo, diventano il propellente indispensabile alla crescita e allo sviluppo. Di fatto, nel nostro Paese ciò non accade. Invidia e gelosia si traducono in rancore e denigrazione. Odiamo e denigriamo il nostro vicino più bravo e, invece di impegnarci per raggiungere risultati migliori e superarlo in creatività, efficienza e capacità, spendiamo le nostre migliori energie per combatterlo, per mortificarne i successi, per ostacolarne o addirittura bloccarne il cammino”.

Ma quale razionalità, o egocentrismo, o altruismo, o mero tornaconto personale o “mano invisibile” di Adam Smith: è l’invidia il motore d’Italia e del mondo. Lo sostiene anche uno studio recente sul comportamento umano dell'Universidad Carlos III di Madrid e di altri atenei spagnoli, basato su alcuni giochi diadici (a coppie variabili) e pubblicato su Science Advances. I ricercatori hanno reclutato 541 persone di diversa età, livello d’istruzione e classe sociale e le hanno sottoposte a un’infinità di “dilemmi sociali”. Il risultato finale, frutto di un algoritmo libero usato fin qui in biologia. Il 90% della popolazione può essere classificato alla stregua di quattro tipi di personalità di base (fenotipi): i pessimisti, gli ottimisti, i fiduciosi e gli invidiosi. E indovinate un po’ qual è la categoria più rappresentata?  Proprio gli invidiosi, pari al 30 per cento del totale; le altre tipologie si fermano al 20, e solo il 10 per cento resta di natura fluida e molteplice. Informazioni utili anche per illuminare le dinamiche primarie che sovrintendono alla gestione delle imprese private e delle organizzazioni pubbliche, e per far evolvere il modo con cui le aziende, le banche e i… partiti interagiscono con i propri clienti (o elettori). Secondo uno degli artefici della ricerca, Yamir Moreno, “i risultati vanno contro alcune teorie molto diffuse, per esempio quella in cui si afferma che le azioni degli esseri umani siano puramente razionali”. Un altro dei ricercatori coinvolti, Anxo Sánchez, ha svelato uno dei “trucchi” adoperati nei test: “Antefatto: due persone possono cacciare cervi se sono insieme, ma se sono da soli possono cacciare soltanto conigli. La persona appartenente al gruppo degli invidiosi sceglierà la caccia ai conigli, perché così sarà quantomeno pari all’altro cacciatore, e forse anche meglio. L’ottimista opterà invece per la caccia ai cervi “perché questa è l’opzione migliore per entrambi i cacciatori”. Il pessimista sposerà la causa dei conigli per essere in tal modo sicuro di riuscire a catturare qualcosa. Il fiducioso dichiarerà guerra ai cervi, senza se e senza ma.

In un altro studio portato avanti da due docenti universitari inglesi, Andrew Oswald e Daniel Zizzo, con un gioco al computer i partecipanti hanno ricevuto somme differenti di denaro con la possibilità di intaccare i guadagni degli altri, rimanendo anonimi ma immolando parte delle proprie vincite. Ebbene, ben il 62% dei giocatori lo ha fatto, dilapidando fino a 25 centesimi per ogni euro bruciato: della serie, come perdere quattrini sicuri pur di mortificare e ridimensionare la ricchezza altrui. I non abbienti hanno colpito i più ricchi; questi ultimi si sono vendicati un po’ con tutti, per rappresaglia trasversale. “Da questo studio è emerso il lato oscuro della natura umana” hanno annotato i professori. Ma non finisce qui. Qualche anno fa ha fatto parlare di sé una ricerca condotta dall'équipe di Hidehiko Takahashi dell'Istituto nazionale di Scienze Radiologiche di Inage-ku, in Giappone. Invidiare sarebbe come sentire un catartico dolore fisico. Equivale alla bruciatura di un dito o alla slogatura di una caviglia. Il dolore degli altri suscita parecchio piacere nell’invidioso matricolato: come e più di un’intensa notte carnale o di qualche tavoletta di cioccolato. Con la risonanza magnetica, l’équipe dello scienziato giapponese ha analizzato le reazioni neuronali all’invidia e alla cosiddetta “schadenfreude", che in tedesco sta per quella letizia inconfessabile che scaturisce dalle disgrazie esterne. Stimolate a colpi di invidia, le cavie hanno fatto registrare un aumento dell'attività nella corteccia cingolata anteriore dorsale, l’area che si aziona quando ci si procura del dolore fisico. Mentre nel caso della schadenfreude si è acceso lo striato ventrale, quel circuito della ricompensa del cervello comunemente associato all'appagamento da sport, sesso e droghe. Che sballo, la sfiga degli altri.

Cos’è l’invidia oggi? Fastidio per il merito e la competenza, scrive il 3 agosto 2017 Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Il successo altrui va ammirato e premiato, non deriso e offeso. Gli attacchi alle cosiddette “élites” nascondono il tentativo di trascinare tutto e tutti verso il basso. Se vogliamo cercare un punto di partenza, nella storia universale dell’invidia, dobbiamo tornare a Caino e Abele. Se volete trovare un punto d’arrivo, ricordate quello che vi è accaduto ieri (in spiaggia, per strada, al bar, in ufficio). Qualcuno non sopportava il vostro vestito, il vostro sorriso, il vostro slancio, il vostro successo. E ve l’ha fatto capire. Non avremmo dedicato la copertina a un sentimento privato, però. L’abbiamo fatto perché l’invidia sta calando, come una nebbia fastidiosa, sulla nostra società: condiziona la vita pubblica, le relazioni di lavoro, i rapporti personali. Lo racconta Nicola Gardini (pagine 16-24). Uno studioso del mondo classico racconta come l’invidia sia sempre esistita, e abbia ispirato capolavori, nell’arte e in letteratura. Ma oggi sia diventata endemica, odiosa e pericolosa. L'invidia contemporanea, scrive Gardini, è un tentativo di “declassamento universale”. Non il desiderio di innalzarci, bensì la speranza che gli altri precipitino. La nuova invidia è irritazione per il successo altrui, fastidio per la competenza, disprezzo per il merito e l’esperienza. L’apologia delle “persone normali” e gli attacchi alle cosiddette “élites”, presenti in tanti discorsi, non sono prove d’amore per la democrazia. Nascondono, invece, il tentativo di trascinare tutto e tutti verso il basso. Una forma di invidia collettiva, se ci pensate. Sia chiaro. Non è invidia quella che spinge molti a dirsi nauseati davanti a certi compensi e ad alcune buonuscite (vero, Flavio Cattaneo?). Non è invidia quella che denuncia la disparità tra chi ha troppo e chi ha troppo poco (la rivoluzione digitale ha accelerato questo processo). Non è invidia la frustrazione della classe media, che vede crollare i propri redditi e il proprio modello di vita. «È venuta a mancare la convinzione nel fatto che siamo tutti nella stessa barca, incluse le élites», scrive Edward Luce in The Retreat of Western Liberalism (La ritirata del liberalismo occidentale, non ancora tradotto in Italia). Ma la storia ci insegna a stare in guardia, quando le diseguaglianze diventano sfacciate. «I perdenti cercano capri espiatori», ammonisce l’autore. Detto questo – e va detto con forza, se non vogliamo buttare otto secoli di illusioni (Magna Carta, 1215) – ripetiamolo: l’aspirazione a una società migliore passa per l’emulazione, non per l’invidia. Il merito, la competenza e il successo vanno ammirati e premiati; non derisi e offesi. L’invidia è uno dei sette vizi capitali; non sta alla base di alcuna dottrina politica. «La tristezza per il bene altrui percepito come male proprio» è una sciagura sociale. Ma guadagna terreno, e ci è sembrato giusto parlarne. Prima di chiudere, una precisazione. L’occhiata di Sophia Loren alla scollatura abissale di Jayne Mansfield, nella foto in copertina, ha sessant’anni. La foto venne scattata nel 1957, durante la cena di benvenuto a Hollywood. Come spiega la nostra Chiara Mariani (pagina 3), l’espressione della bella attrice italiana appare, soprattutto, sbalordita. È innegabile, tuttavia: l’immagine ha finito per rappresentare la rivalità e – in qualche modo – l’invidia. Ma possiamo dirlo? A distanza di tempo, quella della giovane Sophia sembra un’invidia umana, spontanea, quasi ingenua. Non so voi. Ma noi di 7, preparando questo numero, ne avevamo nostalgia.

L’ODIO, L’INVIDIA E IL FASCINO (DI CLASSE), scrive il 25 gennaio 2014 Bortocal.  Lo sfigato costretto dal fondo della scala sociale a sollevare lo sguardo in alto, dove stanno i fortunati che comandano appollaiati come personaggi disneyani su mucchi almeno virtuali di ricchezze migliaia o milioni di volte più grandi di quel che possiede o meglio non possiede lui, ha diverse reazioni psicologiche a disposizione.

La prima è di fregarsene completamente e di ritornare subito ad occuparsi della lotta quotidiana per la sopravvivenza. E' la reazione tipica delle condizioni di povertà avvero estrema: vagabondi, barboni, forse anche zingari, nel nostro mondo, o l’infinito mondo dei poveri di quello che a volte è rimasto come terzo mondo. Qui i disperati economicamente non si lasciano toccare dalla ricchezza, emotivamente: sanno benissimo che non fa parte del loro mondo, non li riguarda e non li riguarderà mai. Per questo restano puri e sereni, assolutamente felici, nella miseria che non garantisce ogni giorno di arrivare con certezza a sera avendo mangiato. Incantevoli nella loro povertà senza macchia, come già avevano scoperto Jeshu, Francesco e Pasolini.

Un poco diversa, forse staccata solamente di un soffio, è la pozione di chi si fa affascinare, invece, dalla ricchezza altrui. Anche costui e più spesso costei appartengono ad un mondo che sanno di non potere raggiungere mai, ma qui la povertà è un poco meno estrema, e consente l’accesso almeno all’apparato propagandistico di massa che celebra i fasti dei potenti. In realtà, occorrerebbe precisare, nel mondo moderno i potenti celebrati sui media non sono i potenti veri, ma dei loro sostituti: divi del cinema, cantanti, calciatori e altri sportivi celebri, a volte anche politici, o qualche commistione di questi generi. E' come se i potenti veri sapessero di essere ributtanti e dunque usassero delle contro-figure più attraenti, per far passare il messaggio della irraggiungibile grazia della ricchezza. Solo a volte, qualche giovane marpione diventato pluri-miliardario ancora giovane entra marginalmente nel mondo dorato dell’apparenza mediatica come protagonista mediatico diretto (Gates, Zuckenberg, Lapo Agnelli, Marchionne), ma per la maggior parte i vecchi che guidano le sorti dell’umanità preferiscono restare dietro le quinte, a meno che non siano morbosamente narcisisti e non “scendano in politica” per esibirsi (Berlusconi). Guardando a loro, un popolo di esclusi si consola della vita grama vivendo, con la sua fantasia limitata ed etero-diretta, gli splendori altrui: amori, fasti, intrighi, bellezza, successo. Tutto quello che manca e mancherà sempre, a portata di mano, a portata di schermo. Se occorre, si aggiunga a questo quadro anche la pornografia, che rende perfino il sesso immaginario e virtuale. E' il mondo di un delirio di massa di seduzione condivisa, dal quale la vita si allontana silenziosamente e dolorosamente.

Poi ci sta l’invidia: sentimento più che legittimo in chi si sente non troppo diversamente dotato delle persone di successo e condannato ad una vita mediocre e piena di preoccupazioni, se non proprio di stenti. Qui il soggetto avverte l’ingiustizia di una condizione umana inspiegabile: il caso che ha trasformato piccole differenze di capacità personali in abissi veri e propri di condizione sociale ed economica non si lascia comprendere razionalmente e rimane soggettivamente ingiusto. L'invidia, che si limita ad un senso di insoddisfazione e riguarda i singoli, è tuttavia tipica degli animi in qualche modo ancora deboli e rassegnati.

Dove la rassegnazione manca, subentra il vero e proprio odio di classe. Il soggetto si sente espropriato di propri precisi diritti ed individua in chi ha questo esagerato successo sociale la causa diretta delle espropriazioni che subisce e del suo ruolo subalterno nel mondo; e non è affatto detto che abbia torto. Qui l’invidia si congiunge a discrete capacità di generalizzazione, diventando odio “di classe”, cioè una vera e propria categoria mentale. Se l’invidia riguarda i singoli, l’odio riguarda una classe tutta intera, che viene mentalmente esclusa dallo stesso consorzio umano: sono i nemici del popolo, coloro che, in quanto tali, creano le diseguaglianze. Non è sbagliata l’analisi; è sbagliato l’odio che l’accompagna.

La diseguaglianza è un meccanismo del mondo naturale e si identifica con la vita stessa: è l’anima della selezione della specie, della lotta per la riproduzione, in ultima analisi della stessa vita sessuale ed emotiva degli esseri umani come specie animale; non può essere cancellata dalla realtà. Ma è anche vero che il progresso tecnico ha trasformato questa naturale ineguaglianza nella proiezione di differenziazioni mostruose. L'enorme accumulo di ricchezze assolutamente spropositate nelle mani di una élite numericamente infima, rende le moderne ineguaglianze socialmente inaccettabili. Si aggiunga che queste ricchezze non vengono oggi destinate se non marginalmente ad opere che abbellivano l’ambiente e il contesto collettivo, come attraverso l’arte nei secoli passati, ma sono principalmente destinate dai loro possessori all’obiettivo paranoico di una crescita illimitata del loro potere. Insomma, ce ne sono di motivi per comprendere lo sviluppo dell’odio di classe nelle menti più vivaci ed aperte, capaci di analizzare il presente della vita sociale.

Eppure ci sono molti motivi per rifiutare l’odio di classe. Che è pur sempre odio, cioè una reazione emotiva capace di peggiorare la vita sociale. Fatemi citare Brecht quando dice che anche l’odio per giuste ragioni, l’odio contro l’ingiustizia, stravolge il viso. Quindi ci sono molti motivi per rifiutare l’odio di classe e per provare a passare ad un livello di astrazione più avanzato: quando dal sentimento dell’invidia, passando attraverso ed oltre l’accecamento emotivo dell’odio di classe, si arriva all’idea della giustizia sociale e ad una dedizione disinteressata alla causa del miglioramento delle condizioni umane presenti. Eppure il principale movimento rivoluzionario degli ultimi quasi due secoli, il marxismo, non si è voluto fondare direttamente sul senso della giustizia sociale (anche se cercava di realizzarla), anzi l’ha irrisa come qualcosa di non scientifico, e ha invece assunto come propria base il vero e proprio odio di classe. Come è possibile che si sia pensato di potere realizzare qualcosa di buono, una società più giusta ed egualitaria, a partire da una passione cieca come tutte le passioni e in se stessa abbastanza disgustosa?  Marx non sarebbe stato possibile senza i guasti provocati da Hegel, e ancora una volta occorre vedere in Hegel e nella sua estraneità ai valori della democrazia l’anima nera che ha stravolto il marxismo. Nella dialettica degli opposti di Hegel l’elemento negativo, in questo caso l’odio di classe, si trasforma attraverso la dinamica della sintesi dialettica, in elemento positivo: la società comunista nasce come espressione del negativo dell’odio di una classe contro un’altra. Ma non chiedete come sia davvero possibile che il bene nasca attraverso il male (anche se già Goethe col suo Mefistofele, aveva detto qualcosa di simile…).

L’operaio era chiamato ad odiare il suo padrone, oggettivamente benestante e sfruttatore, ma allo stesso tempo anche creatore dell’impresa che dava lavoro all’operaio: da questo odio sarebbe nata una società migliore. se l’obiettivo era addirittura trasformare il mondo, non era sorprendente e perfino provvidenziale che questo potesse essere realizzato attraverso la diffusione di un sentimento elementare e perfino vile come l’odio dell’operaio per il padrone della fabbrica i cui lavorava e per tutti i padroni? Un odio che si faceva categoria mentale, cioè ideologia emotivamente vissuta, e si estendeva al singolo, come membro del gruppo, indipendentemente dalle sue caratteristiche individuali. Ahimè, ecco poste le premesse dei fanatismi e degli orrori del Novecento. Eppure, il marxista ortodosso non dubitava che da quell’odio sarebbe nato un mondo migliore.

C’era una volta l’odio di classe Ora c’è il web…, scrive Lanfranco Caminiti il 14 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Lo so che è irriverente accostare uno dei più lucidi filosofi italiani del pensiero marxista a una casalinga di Voghera – e diomifulmini se non me ne rendo conto. Però, seguitemi a me. In un’intervista del 1993, a Antonio Gnoli di «Repubblica» che vaneggiava di ritorno della classe operaia e gli chiedeva conto delle sue teorie tardo anni Sessanta e del suo «odio di classe» come a un maestro zen si chiede conto dell’imperituro e pure ogni volta sorprendente fiorire dei ciliegi, Mario Tronti – è lui uno dei più lucidi filosofi italiani del pensiero marxista – rispondeva: «Nella vita privata sono una persona mite, non riuscirei mai a odiare nessuno personalmente». Che è un po’ la sconcertante scoperta fatta da Paolo Di Paolo, giovane e intelligente scrittore, che in una lettera aperta agli “odiatori del web”, dopo aver intrattenuto con alcuni di loro una sorta di breve epistolario, riporta il proprio sgomento tra la gentilezza privata manifesta e quell’assatanamento da tastiera che fa dire sui social network a alcuni di loro a proposito degli immigrati frasi come «Bisogna riportarli nel deserto e lasciarli senza acqua né cibo» ; oppure: «Ma perché non li prendiamo a sprangate? » ; o ancora: «I nigeriani come razza negra sono i più bastardi e violentano le donne dalla pelle bianca». E queste parole che certificano odio pubblico, in mezzo a foto di prima comunione dei nipotini, o immagini di cani e gatti ben nutriti e amati, di pupi in aule scolastiche dove si insegna o dove si vanno a prendere i propri bambini. Un post con una foto con un sorriso gentile e disarmante e un post subito dietro in cui si chiede che venga evirato un profugo. «La situazione è molto violenta per tutti, mi sono adeguata, o meglio ho usato il linguaggio per smuovere idee e convinzioni, in realtà io sono diversa», dice una, la casalinga di Voghera. Nella vita privata è una persona mite. Forse lo siamo tutti, persone miti nella vita privata. Per quel che conta. È in Operai e capitale, il libro più importante di Tronti, pubblicato nel 1966, per molti versi aurorale di ciò che furono gli anni Sessanta e Settanta in Italia, che si trova il nocciolo della filosofia politica dell’odio di classe: «Sulla base del capitale, il tutto può essere compreso solo dalla parte. La conoscenza è legata alla lotta. Conosce veramente chi veramente odia. Ecco perché la classe operaia può sapere e possedere tutto del capitale: perché è nemica perfino di se stessa in quanto capitale». Siamo nel cuore della teoria marxista: la borghesia odia il proletariato ma non può odiare se stessa, ha impiegato secoli per arrivare al potere, si coccola e si gongola; il proletariato è l’unica classe che può instaurare una società senza classi perché sa d’essere carne del capitale e deve rinnegarsi. Il capitale ha tutto, è il tutto: società, cultura, ideologia, intellettuali, scienza e sapienza; solo la faziosità, solo la scelta unilaterale, del collocarsi in una parte può permettere di capire come stanno le cose. La scelta della faziosità è la scelta di stare dalla parte operaia, e di odiare la società. Classe operaia e società capitalistica, questo è lo schema della lotta di classe. Va detto subito – anche se nel 1970 il libro fu ripubblicato con Poscritti e Avvertenze che ricalibravano e quasi prendevano le distanze da se stesso – che il lavoro di Tronti fu soprattutto una sfida teorica, un’avventura dell’intelletto: «La classe operaia oggi è talmente matura che sul terreno dello scontro materiale non accetta, per principio e di fatto, l’avventura politica. Sul terreno invece della lotta teorica, tutte le condizioni sembrano felicemente imporle uno spirito nuovo di scoperta avventurosa». Tronti è sempre rimasto dentro il Partito comunista – rifuggendo da ogni tentazione radicale e extraparlamentare – e ne ha seguito tutte le evoluzioni e denominazioni, assumendo anche cariche significative (senatore, presidente del Centro Riforma dello Stato) e elaborando tesi e concetti di un continuo “laboratorio politico”. Ricorda Tronti: «Consegnai quel libro per l’abilitazione alla cattedra di Filosofia Morale. In commissione c’era Nicola Abbagnano, il quale a un certo punto se ne venne fuori dicendo: ma insomma come fa a sostenere che conosce solo chi veramente odia? È inammissibile, la verità è che conosce solo chi veramente ama. Mi rimase impressa questa cosa perché era indicativa di due posizioni inconciliabili. La mia la manterrei. Odio ogni forma di umanitarismo, e poi lì si parlava di odii collettivi, di classe». Non è l’amor «che move il sole e l’altre stelle», come recita l’ultimo verso del Paradiso di Dante, perciò, ma l’odio. Forse c’è una eco delle parole di Walter Benjamin in Angelus Novus: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. Questa coscienza è sempre stata ostica alla socialdemocrazia. Essa si compiaceva di assegnare alla classe operaia la parte di redentrice delle generazioni future. E così le spezzava il nerbo migliore della sua forza. La classe disapprese, a questa scuola, sia l’odio che la volontà di sacrificio. Poiché entrambi si alimentano all’immagine degli avi asserviti, e non all’ideale dei liberi nipoti». Benjamin scriveva che la classe operaia è raechende Klasse, la “classe vendicatrice”. E chi potrebbe immaginare un uomo più mite di Benjamin? Quindi, l’odio come una funzione storica, non solo analitica, di conoscenza e coscienza, l’odio come sentimento del conflitto, che è poi motore delle cose. E il conflitto è lì fuori, nelle cose, non è un’interpretazione del mondo. Odiare è il solo modo per interpretare il conflitto. È la classe operaia che deve vendicare e riscattare la storia secolare del suo sfruttamento, «senza lacrime per le rose». Dimenticare questo, affabularlo in una composizione di interessi contrastanti, significherebbe solo condannarsi all’impotenza, alla sconfitta, alla perpetuazione del dolore. Non c’è felicità possibile, certo, ma solo un lavoro storico da compiere. Ecco. Ma ora, ora che la classe operaia non c’è più come soggetto storico – ci sono, certo, gli operai, c’è il lavoro, c’è la produzione, c’è lo sfruttamento – cosa ne rimane di quell’odio? Ora che il lavoro si è polverizzato in mille rivoli, e stenta a riconoscersi come classe, ora che ciascun lavoratore è gettato nel mondo, in cui non sa orientarsi, privo com’è di una conoscenza “di parte”, l’odio si è come disancorato dalla sua “materia”. Galleggia, all’altezza della bocca, ma non arriva all’intelletto. Dalle “astrazioni” legate alla produzione e alla società (la borghesia, le classi, il capitale, il lavoro), di segno collettivo, si è passati alle “differenze” umane ( la razza, il colore della pelle) e alla polverizzazione in termini personali. Puttana, frocio, a ogni piè sospinto; beh, una volta si sarebbe detto, sei un piccolo- borghese, o un clericofascista, e funzionava meglio. Siamo miti privatamente, odiamo pubblicamente, così, a prescindere. Ecco, magari si potrebbero rovesciare le cose: “odiare” privatamente, guardare con occhio lucido e intelletto fino il mondo come propriamente è – non esattamente il migliore dei mondi possibili – e essere miti pubblicamente.

Le radici dell’odio? Cercatele in quell’anno: 1992, scrive Tiziana Maiolo il 13 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Tangentopoli rappresentò l’inizio della deriva giustizialista.

Uno: l’apparenza. Furono due giornalisti, nel 1992, che invitando ad amare Di Pietro e indicandolo come eroe, inconsciamente istigarono all’odio. Il primo, non molto conosciuto, scrisse “Di Pietro facci sognare”, e tutti i muri di Milano in breve rispecchiarono quella scritta, un vero sogno d’amore. Il secondo, facilmente riconoscibile, per giorni e mesi stazionò sul marciapiede di fronte al Palazzo di giustizia di Milano e quando si faceva buio accendeva la telecamera e indicava con il dito la finestra illuminata: vedete, Di Pietro lavora per voi. Un’altra dichiarazione d’amore. Quando iniziarono le fiaccolate, dell’amore non c’era più traccia. Perché amando Di Pietro il giustiziere, non si poteva che odiare gli oggetti del suo “fare giustizia”. Una rabbia ringhiante si impossessò del colto e dell’inclito, dei paciosi padri di famiglia che andavano a puttane, dei commercianti e dei professionisti abituali evasori fiscali, di quelli che facevano la cresta sui rimborsi spesa, degli insegnanti che facevano ripetizioni in nero. Gli italiani “normali” con i loro quotidiani peccatucci veniali, divennero quel giorno veri mostri di virtù. Le scritte d’amore divennero scritte d’odio e di morte. E chi aveva goduto e aveva mangiato al desco del mondo della politica ormai agonizzante per mano dei tanti dipietrini, rinfacciò al Nuovo Nemico di avergli dato piacere e nutrimento. O forse di non essere più in grado di far godere e mangiare. Non ci furono antipatia o disprezzo, ci fu l’odio, puro, diretto. Si comincia con il gridare “ladri”, si arriva a invocare la pena di morte.

Due: la sostanza. La sostanza era dentro il Palazzo di giustizia. Se fuori due giornalisti avevano invocato e suggerito l’amore per i giustizieri, i loro colleghi all’interno fecero ben di peggio. Cominciarono con la goliardia, correndo per il palazzo con indosso le magliette del famoso “Di Pietro facci sognare”, brucando avidamente notizie dal Pm in ciabatte, e raggiunsero l’acme con il brindisi in sala stampa per la morte di Bettino Craxi. Odio allo stato puro. Ma saremmo strabici se vedessimo solo la sostanza del circo mediatico senza guardare quello giudiziario. Non solo per la scompostezza del linguaggio cui non può che corrispondere il retropensiero. Quando un famoso inquirente, commentando il suicidio di un suo imputato, disse “evidentemente aveva ancora il senso dell’onore”, si sta apprezzando il fatto che la persona si sia dato la morte o non si esprime addirittura soddisfazione per la morte medesima? Quando si irride la paura che tutti hanno del carcere, quando si sghignazza auspicando “ma che stiano un po’ in galera quelli lì”, non si sta togliendo un po’ di vita insieme alla libertà? Ma non è stata solo la scompostezza del linguaggio con annesso retro- pensiero di morte. E’ stato anche altro. L’odio è stato coltivato nella sub- cultura di magistrati che hanno predicato e messo in pratica un grande disordine nell’applicazione della legge. Il codice di procedura penale, che contiene le regole delle persone per bene, è diventato carta straccia, insieme a quel senso di umanità che rendeva il giudice pensoso e insonne prima di una sentenza. L’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni e delazioni, la violazione delle competenze territoriali, il ricatto costante ( o parli o uso queste, e si mostravano le manette) sull’indagato e il testimone, la corruzione intellettuale degli avvocati, trasformati in “accompagnatori” verso il ceppo del boia. Tutto ciò che cosa era se non odio violento e pena di morte? Il 1992 può tranquillamente essere inserito nelle date in cui nacquero e si svilupparono le radici dell’odio.

Tangentopoli, così i pm salvarono il Pci, scrive Fabrizio Cicchitto l'1 Marzo 2017 su "Il Dubbio".  Tutti i partiti prendevano finanziamenti “aggiuntivi”, ma, a differenza del Psi, Botteghe Oscure fu salvata. Si distrusse una intera classe politica. Prima vinse Berlusconi, poi fu fatto fuori anche lui. E oggi trionfa il populismo. L’Italia, nel ’ 92-’ 94, fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica.  Qualora il pool di Mani Pulite avesse agito con la stessa determinazione e violenza negli anni 40 e 50 di quella messa in evidenza nel ’ 92-’ 94, allora De Gasperi, Nenni, Togliatti sarebbero stati incriminati e Valletta e Enrico Mattei sarebbero stati arrestati. Il finanziamento irregolare dei partiti e la collusione fra questi, i grandi gruppi pubblici e privati e relative associazioni (primis Fiat, Iri, Eni, Montecatini, Edison, Assolombarda, Cooperative rosse, ecc.) data da allora. In più c’era un fortissimo finanziamento internazionale: la Dc era finanziata anche dalla Cia, e il Pci in modo così massiccio dal Kgb che le risorse ad esso destinate erano più di tutte quelle messe in bilancio per gli altri partiti e movimenti. In una prima fase, la Fiat finanziava tutti i partiti “anticomunisti” poi coinvolse in qualche modo anche il Pci quando realizzò i suoi impianti in Urss. Per Enrico Mattei i partiti erano come dei taxi, per cui finanziava tutti, dall’Msi, alla Dc, al Pci, e perfino la scissione del Psiup dal Psi, e fondò anche una corrente di riferimento nella Dc con Albertino Marcora, partigiano cattolico e grande leader politico: quella corrente fu la sinistra di Base che ha avuto un ruolo assai importante nella Dc e nella storia della Repubblica. Fino agli anni 80 questi sistemi di finanziamento irregolare procedettero “separati” vista la divisione del mondo in due blocchi, poi ebbero dei punti in comune: nell’Enel ( attraverso il consigliere d’amministrazione Giovanni Battista Zorzoli prima titolare di Elettro General), nell’Eni ( la rendita petrolifera di matrice sovietica) e specialmente in Italstat ( dove veniva realizzata la ripartizione degli appalti pubblici con la rotazione “pilotata” fra le grandi imprese edili, pubbliche e private, con una quota fra il 20% e il 30% assegnata alle cooperative rosse). Per molti aspetti quello del Pci era il finanziamento irregolare a più ampio spettro, perché andava dal massiccio finanziamento sovietico al commercio estero con i Paesi dell’est, alle cooperative rosse, al rapporto con gli imprenditori privati realizzato a livello locale. Emblematici di tutto ciò sono le citazioni da tre testi: un brano tratto dal libro di Gianni Cervetti L’oro di Mosca (pp. 126- 134), un altro tratto dal libro di Guido Crainz Il paese reale (Donzelli, p. 33), il terzo estratto è da una sentenza della magistratura di Milano sulla vicenda della metropolitana. Così ha scritto Gianni Cervetti: «Nacque, credo allora, l’espressione “amministrazione straordinaria”, anzi “politica dell’amministrazione straordinaria”, che stava appunto a indicare un’attività concreta (nomina sunt substantia rerum) anche se piuttosto confusa e differenziata. A ben vedere, poteva essere suddivisa in due parti. Una consisteva nel reperire qualche mezzo finanziario per il centro e le organizzazioni periferiche facendo leva su relazioni con ambienti facoltosi nella maniera sostanzialmente occulta cui prima ho accennato. In genere non si compivano atti specifici contro le leggi o che violavano norme amministrative precise, ma si accettavano o ricercavano finanziamenti provenienti da imprenditori non più soltanto vagamente facoltosi, ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica. Tuttavia, in sistemi democratici, o pluripartitici, o a dialettiche reali – siano essi sistemi moderni o antichi, riguardanti tutto il popolo o una sola classe – pare incontestabile che in ogni partito coesistano i due tipi di finanziamento ed esista, dunque, quello aggiuntivo. Naturalmente – lo ripetiamo – di quest’ultimo, come del resto del primo, mutano i caratteri, le forme ed i contenuti a seconda dei partiti e dei periodi: anzi mutano i rapporti quantitativi dell’uno con l’altro, ma appunto quello aggiuntivo esiste in maniera costante. Comunque sia non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fondi per i finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua, o viceversa, insincera e ipocrita. Il problema, ripetiamo, lo abbiamo preso alla larga, e si potrebbe allora obiettare che aggiuntivo non corrisponda esattamente, e ancora, a illecito. Intanto, però, abbiamo dimostrato che il finanziamento aggiuntivo è storicamente dato e oggettivamente ineluttabile». Il fatto che anche il Pci, sviluppando la «politica dell’amministrazione straordinaria», accettava o ricercava finanziamenti provenienti da imprenditori «non più soltanto vagamente facoltosi ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica» mette in evidenza che anche «nel caso del Pci il reato di finanziamento irregolare poteva sfociare in quello di abuso in atti d’ufficio o in corruzione o in concussione». Così ha scritto lo storico Guido Crainz: «È uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974, quando è all’esame del parlamento la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La discussione prende l’avvio dalla “esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo” ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico affiorare di “imbarazzi o compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche”. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi “una duplice autonomia…: autonomia internazionale ma anche da condizionamenti di carattere interno…. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economico e, per giunta, per qualcosa di estremamente meschino” (intervento di Giorgio Napolitano alla riunione della direzione del 3 giugno 1974)». «Nel dibattito non mancano ammissioni di rilievo. “Molte entrate straordinarie”, dice ad esempio il segretario regionale della Lombardia Quercioli, “derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione poi finisce per toccare anche il nostro partito” (intervento di Elio Quercioli nella riunione della direzione del 1° febbraio 1973). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno: di qui la decisione di utilizzare la legge per porre fine a ogni coinvolgimento del partito. Si deve sapere, dice armando Cossutta, “che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente. Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà ma far intendere agli altri che certe operazioni noi non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose assai più di prima” (intervento di Armando Cossutta alla direzione del 3 giugno 1974). È illuminante, questa sofferta discussione del 1974. Rivela rovelli veri e al tempo stesso processi cui il partito non è più interamente estraneo». La sentenza del tribunale di Milano del 1996 sulle tangenti della Metropolitana è molto precisa: «Va subito fissato un primo punto fermo: a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non soltanto alcune sue componenti interne, venne direttamente coinvolto nel sistema degli appalti Mm, quanto meno da circa il 1987». Per il tribunale «risulta dunque pacifico che il Pci- Pds dal 1987 sino al febbraio 1992 ricevette quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti Mm una somma non inferiore ai 3 miliardi» raccolti da Carnevale e da Soave, non solo per la corrente migliorista ma anche per il partito. Carnevale coinvolse anche il segretario della federazione milanese, Cappellini, berlingueriano di stretta osservanza: «Fu Cappellini, segretario cittadino dell’epoca, ad affidarmi per conto del partito l’incarico che in precedenza aveva svolto Soave». La regola interna era quella che «dei tre terzi delle tangenti raccolte (2 miliardi e 100 milioni in quel periodo solo per il sistema Mm), due terzi dovevano andare agli “occhettiani”, cioè a Cappellini, un terzo ai miglioristi di Cervetti». Alla luce di tutto ciò è del tutto evidente che Berlinguer quando aprì la questione morale e parlò del Pci come di un “partito diverso” o non sapeva nulla del finanziamento del Pci oppure, per dirla in modo eufemistico, si espresse in modo mistificato e propagandistico. Orbene questo sistema dal quale ricevevano reciproco vantaggio sia i partiti, sia le imprese, e che coinvolgeva tutto e tutti, risultò antieconomico da quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht e quindi tutti i gruppi imprenditoriali furono costretti a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Esistevano tutti i termini per una grande operazione consociativa, magari accompagnata da un’amnistia che superasse il sistema di Tangentopoli. L’amnistia ci fu nel 1989, ma servì solo a “salvare” il Pci dalle conseguenze giudiziarie del finanziamento sovietico, il più irregolare di tutti, perché proveniva addirittura da un paese contrapposto alle alleanze internazionali dell’Italia. Per altro verso, Achille Occhetto, quando ancora non era chiaro l’orientamento unilaterale della procura di Milano, nel maggio del ’ 92, si recò nuovamente alla Bolognina per “chiedere scusa” agli italiani. Occhetto invece non doveva preoccuparsi eccessivamente. Il circo mediatico- giudiziario composto da due pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali (Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità) mirava contro il Caf, cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro- destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche i quadri intermedi del Pci- Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc. La prova di ciò sta nel modo con cui fu trattato il caso Gardini: è accertato che Gardini portò circa 1 miliardo, d’intesa con Sama e Cusani, alla sede del Pci avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema. Suicidatosi Gardini, Cusani e Sama sono stati condannati per corruzione: il corrotto era dentro la sede di via delle Botteghe Oscure, ma non è mai stato identificato. Ha osservato a questo proposito Di Pietro: «Ecco, questo è l’unico caso in cui io arrivo alla porta di Botteghe oscure. Anzi, arrivo fino all’ascensore che porta ai piani alti… abbiamo provato di certo che Gardini effettivamente un miliardo lo ha dato; abbiamo provato di certo che l’ha portato alla sede di Botteghe oscure; abbiamo provato di certo che in quel periodo aveva motivo di pagare tangenti a tutti i partiti, perché c’era in ballo un decreto sulla defiscalizzazione della compravendita Enimont a cui teneva moltissimo». Di Pietro aggiunse: «Non è che potevo incriminare il signor nome: partito, cognome: comunista». Giustamente l’erede di quel partito, il Pds, lo elesse nel Mugello. Al processo Enimont il presidente del tribunale neanche accettò di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni. Analoga linea fu seguita nei confronti del gruppo dirigente della sinistra Dc: Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra democristiana, e di un circolo che ad essa faceva riferimento, fu condannato, avendo ricevuto soldi Enimont in quanto agiva, recita testualmente, la sentenza «per conto dell’onorevole Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra Dc» ma essi potevano non sapere. Quella fu la grande discriminante attraverso la quale il circo mediatico- giudiziario spezzò il sistema politico, ne distrusse una parte e ne salvò un’altra: Craxi, il centrodestra della Dc (Forlani, Gava, Pomicino e altri), Altissimo, Giorgio la Malfa, Pietro Longo, non potevano non sapere, il gruppo dirigente del Pci- Pds e quello della sinistra Dc potevano non sapere. È evidente che dietro tutto ciò c’era un progetto politico, quello di far sì che, venendo meno la divisione in due blocchi, il gruppo dirigente del Pds, magari con l’aiuto della sinistra Dc, finalmente conquistasse il potere. Il pool di Milano non poteva prevedere che, avendo distrutto tutta l’area di centro e di centro- sinistra del sistema politico, quel vuoto sarebbe stato riempito da quel Silvio Berlusconi che, pur essendo un imprenditore amico di Craxi, era stato risparmiato dal pool di Mani Pulite perché durante gli anni ’ 92-’ 94 aveva messo a disposizione della procura le sue televisioni. Non appena (fino al 1993) il pool di Milano si rese conto che Berlusconi stava “scendendo in politica”, ecco che subito cominciò contro di lui il bombardamento giudiziario che si concluse con la sentenza del 2013. Ma anche il modo con cui fu trattato il rapporto del pool con i grandi gruppi finanziari editoriali Fiat e Cir, fu del tutto atipico e al di fuori di una normale prassi giudiziaria. Per tutta una fase ci fu uno scontro durissimo tra la Fiat e la magistratura, accentuato dal fatto che a Torino il procuratore Maddalena agiva di testa sua. Poi si arrivò alla “pax” realizzata attraverso due “confessioni” circostanziate, attraverso le quali la Fiat e la Cir appunto “confessarono” di aver pagato tangenti perché concussi da quei “malvagi” dei politici. Così il 29 settembre del 1992 Cesare Romiti andò a recitare un mea culpa dal cardinale Martino: «Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato personalmente scosso da questi avvenimenti. No, non ho paura di dirlo. E di fronte al cardinal Martini, la più alta carica religiosa e morale di Milano, non potevo non parlarne». Qui interveniva l’autoassoluzione. Infatti, secondo Romiti, la responsabilità era della classe politica che «ha preteso da cittadini e imprese i pagamenti di “compensi” per atti molto spesso dovuti». Possiamo quindi dire che l’Italia, unico paese dell’Occidente, nel ’ 92-’ 94 fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico- giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica, con una conseguente perdita di consensi. Il fatto che, a 10 anni di distanza, una parte di quei dirigenti fu assolta non servì certo a recuperare i consensi politicoelettorali perduti. La conseguenza di tutto ciò sono state due: una perdita crescente di prestigio di tutti i partiti, anche di quelli che furono “salvati” dal pool, una parcellizzazione della corruzione tramutatasi da sistemica a reticolare ( una miriade di reti composte da singoli imprenditori, singoli burocrati, singoli uomini politici), l’esistenza di un unico sistema di potere sopravvissuto, quello del Pci- Pds, che a sua volta ha prodotto altre vicende, dal tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl, alla crisi del Mps. Di qui la conseguente affermazione di movimenti populisti e di un partito protestatario la cui guida è concentrata nelle mani di due persone, il crescente discredito del parlamento sottoposto a un bombardamento giudiziario realizzato anche da chi (vedi Renzi) pensa in questo modo di poter intercettare a suo vantaggio la deriva dell’antipolitica. Ma è una operazione del tutto velleitaria, perché le persone preferiscono la versione originale del populismo e non le imitazioni. Perdipiù i grillini, cavalcando la guerra alla “casta” – inventata da due giornalisti del Corriere della Sera e sostenuta da un grande battage pubblicitario – cavalcano di fatto la manovra diversiva posta in essere da banchieri e manager, proprietari dei grandi giornali, per deviare l’attenzione dalle loro spropositate retribuzioni e liquidazioni: i circa 100 mila euro annui dei parlamentari servono a far dimenticare i 2- 3 milioni di euro che il più straccione dei banchieri guadagna comunque, anche se porta alla rovina i correntisti della sua banca. Di tutto ciò traiamo la conseguenza che il peggio deve ancora arrivare.

«Vi spiego come funzionava Tangentopoli», scrive Il Dubbio" il 14 Febbraio 2017. A 25 anni dall’inchiesta “Mani pulite” pubblichiamo il Memoriale scritto da Bettino Craxi, l’ex premier e segretario socialista, prima di morire. Un testo in cui descrive i meccanismi del finanziamento illegale della politica e la differenza tra finanziamento illegale e corruzione. "In Italia, il finanziamento illegale della politica non è di certo un fenomeno nato e vissuto solo negli anni ’ 80 e seguenti. Eppure c’è chi, a digiuno di storia e navigando nella mistificazione, ne parla come se di questo si sia trattato. Tutto al contrario questo fenomeno accompagna addirittura la storia nazionale, almeno dall’unità d’Italia in poi. I mezzi finanziari per sostenere le attività politiche, le loro strutture permanenti di sostegno, le campagne di propaganda e le campagne elettorali sono sempre stati ricercati e trovati seguendo sentieri che molto spesso sono andati ben al di là delle regole e dei confini della normalità, della trasparenza e della legalità. Senza scavare in mezzo agli innumerevoli episodi di tempi ormai molto lontani, attraverso il corso della storia italiana prima dello Stato unitario, monarchico, liberale e poi fascista ma limitandoci solo a considerare la vita della Repubblica democratica si può senz’altro dire che sin dalle sue origini e cioè sin dal decorrere del dopoguerra, il finanziamento della politica, tanto nei suoi aspetti interni che in quelli internazionali, ha presentato molti lati oscuri, a tutt’oggi peraltro non tutti chiariti o chiariti solo in parte. All’interno di un fenomeno così diffuso non sono poi naturalmente mancati, nelle varie epoche, episodi molteplici di corruzione, di degenerazione e di malcostume. Era una materia per la quale il concetto di controllo era sempre molto discutibile, la segretezza delle operazioni aveva un suo ruolo così come lo aveva la delicatezza delle implicazioni politiche. I Partiti, le correnti organizzate dei partiti, i clan politici, i singoli esponenti della classe politica, nello scorrere della vita democratica, delle sue contrapposizioni, delle sue alleanze e dei suoi contrasti, si sono comunque sempre alimentati finanziariamente nelle forme più diverse, unendo insieme entrate dichiarate e rese pubbliche ad entrate invece molto più spesso non dichiarate e quindi rimaste sostanzialmente nell’ombra, ignorate persino dai membri stessi delle singole organizzazioni. La storia della democrazia repubblicana potrebbe così essere letta anche attraverso la complessa storia del finanziamento dei soggetti politici che hanno esercitato in essa un ruolo preminente e significativo, partecipando e determinando lo svolgimento e la dialettica propria della vita democratica. Intendiamo riferirci in questo modo soprattutto a sistemi e fonti di finanziamento attorno alle quali si sono mosse le influenze di potere, l’azione dei gruppi economici pubblici e privati e delle organizzazioni sociali, le relazioni, le influenze, le solidarietà e i commerci, con connessioni o meno, a seconda dei casi, con attività di carattere spionistico, eversivo, illegale, internazionali. Anche la corruzione nella Pubblica Amministrazione e la corruzione aziendale non sono di certo caratteristiche specifiche e nuove nate negli anni ’ 80. Si tratta di fenomeni, tanto il primo che il secondo, che hanno come è noto radici antiche anzi antichissime. Esse giungono attraverso vie secolari sino alla moderna società industriale dove hanno avuto una loro diffusione con tratti particolari ma comunque sempre assai ben individuabili. Esse hanno trovato e trovano i loro collegamenti con il finanziamento illegale della politica, senza tuttavia necessariamente identificarsi con esso, trattandosi di fenomeni di portata ben più generale, con responsabilità ed interessi propri e diretti di classi burocratiche, manageriali, imprenditoriali, professionali oltreché naturalmente di soggetti individuali della politica e dell’amministrazione. Di finanziamenti non dichiarati e quindi, dopo l’entrata in vigore di apposite leggi, che regolavano la materia, di finanziamenti illegali, hanno certamente beneficiato sistematicamente tutti i partiti democratici nessuno escluso. Se vi sono delle eccezioni, come da qualche parte si afferma, si tratta di formazioni minori di cui tuttavia non risulta che nessuno mai abbia effettuato controlli sui bilanci, le entrate, le spese. Di finanziamenti non dichiarati ha certamente beneficiato gran parte della classe politica, ivi compresi quindi buona parte di coloro che, in questi anni, si sono messi le maschere e i panni del moralizzatore. Ce ne è in circolazione un numero notevole a rendere ancor più falsa e paradossale l’attuale situazione. Vi sono alcuni tra questi che lo hanno fatto sino a quando non sono stati smascherati. Altri lo continuano a fare, sino a quando, nonostante tutte le protezioni, non finiranno con il subire la stessa sorte di altri, come è possibile e naturalmente auspicabile che avvenga, anche se ormai tanto materiale è finito in cavalleria e per riesumarlo occorrerebbero ricerche molte impegnate. Gli uni e gli altri, Partiti e classe politica, fronteggiavano un bagaglio di spese, che, a parte possibili ma abbastanza poche eccezioni di soggetti ad alto reddito personale, che meriterebbero di essere elencati, non potevano essere affrontate se non con il ricorso ad entrate di tipo straordinario. Questa linea di condotta era propria di tutti i maggiori Partiti del Paese, sia che si trattasse di Partiti di governo che di Partiti di opposizione. Tutti si avvalevano, naturalmente in misura diversa, di strutture burocratiche diversificate, di reti associative, di scopo che esercitavano un’azione permanente di sostegno, di reti di informazione fondata su quotidiani e periodici, di canali radiofonici e televisivi, di attività editoriali, di centri- studi, di scuole di formazione politica. Altre iniziative di rilievo finanziario riguardavano acquisizioni immobiliari per sedi e luoghi di incontro, circoli e quant’altro si proponeva come utile e necessario per favorire ed incrementare la vita associativa e per moltiplicare le iniziative di incontro, i dibattiti, le manifestazioni. I Partiti minori, in forma minore, con esigenze minori, partecipavano tuttavia anch’essi alla ricerca possibile dei mezzi finanziari di cui avevano bisogno. Operavano naturalmente con strutture ridotte, apparati più piccoli, esigenze finanziarie di spesa non paragonabili quindi a quelle dei grandi partiti. E tuttavia, anche quasi tutti i Partiti minori, come appare documentato, contavano su quotidiani, periodici, case editrici, sedi in gran parte dei comuni del paese, e, nell’insieme, affrontavano le campagne elettorali gareggiando spesso per l’ampiezza delle risorse impegnate con la propaganda dei Partiti maggiori e campagne elettorali personali assolutamente competitive per i mezzi di propaganda impegnati. Non sarebbe difficile per questo fare qualche esempio perfettamente documentabile. Piccolo partito, grande candidato, grande campagna elettorale. Per tutti, l’asprezza della lotta politica, l’urto frontale che contrapponeva le forze tra loro, la concorrenza e la contrapposizione sovente esasperata, la lotta tra i candidati per conquistare la elezione, l’organizzazione della raccolta delle preferenze per i singoli, per i clan, le correnti, e le cordate, finivano con il giustificare agli occhi dei responsabili politici, nell’ottica dello scontro e della rivalità, e nella prospettiva del successo o della sconfitta, la ricerca talvolta anche la più spregiudicata dei mezzi finanziari. E, talvolta, così come era spregiudicata la raccolta egualmente ne era spregiudicato l’utilizzo. I Partiti in ogni caso non hanno mai vissuto dei soli mezzi derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni così come essi venivano dichiarando ufficialmente. Il sistema era ben più complesso, articolato e spesso incontrollato e talvolta anche assai contorto e tutti i dirigenti ne erano perfettamente consapevoli. Alla entrate ordinarie e dichiarate si aggiungeva così una parte cospicua costituita da forme di finanziamento non dichiarato proveniente dalle fonti più varie e disparate, ed anche quindi con caratteristiche di provenienza illegittima e comunque in violazioni di leggi dello Stato ed in primo luogo della legge sul finanziamento dei partiti. L’industria di Stato, l’industria privata, i gruppi economici e finanziari, il movimento cooperativo, le associazioni che univano grandi categorie della produzione, della distribuzione e dei servizi, singoli, gruppi e società hanno tutti nell’insieme concorso al finanziamento della politica, e del personale politico, ed a seconda dei casi, in forma stabile, in forma periodica, in occasioni di campagne elettorali in modo diretto ed in modo indiretto. Le loro decisioni si diversificavano per l’entità delle contribuzioni e per la loro destinazione a seconda delle loro differenti opzioni politiche, delle loro convenienze, delle loro preferenze personali. È così capitato che il movimento cooperativo rosso per esempio sia diventato uno dei principali agenti organizzatori e trasmettitori di finanziamenti in forma regolare e costante al Pci. Ciò avveniva soprattutto in certe regioni ma anche su scala nazionale, tanto al Nord che al Centro che al Sud. Il Psi partecipava a questa forma di finanziamento ricevendone vantaggi ma con caratteri e con un ruolo tuttavia assolutamente minore. Tutto questo sistema può naturalmente essere rivisitato e ricostruito, perlomeno nelle sue grandi linee, percorrendo le epoche diverse che sono state attraversate, e analizzando tutti gli aspetti vari, particolari e specifici su cui esso si era venuto strutturando."

L´odio e l´invidia di classe a chi giovano? Scrive Camelot Destra Ideale. Diceva Sébastien Chamfort: “Il peggiore invidioso al mondo è quello che considera ognuno al proprio livello”.

Io non so fare una cosa? E allora non è possibile che tu la sappia fare!

Io non posso permettermi una cosa? E allora tu non te la puoi permettere! E se tu puoi permetterti una cosa che io non posso, al di là del fatto che io mi ti rappresento come un mafioso, perché in qualche modo devo sminuire il tuo successo, io farò in modo, se mi sarà possibile, che tu non possa più permettertelo!

Come? Semplicemente usando lo Stato per scopi di rivalsa!

Io non voglio che lo stato garantisca a me, che ricco non sono, una vita migliore. No!

Io voglio che lo stato garantisca a te, una vita peggiore!

Se io non sono capace di accrescere i miei guadagni, che tu non abbia più guadagni consistenti!

Io non voglio distruggere la povertà, ovunque sia. Io voglio distruggere la tua ricchezza, o peggio: il tuo “modesto” agio.

L´invidia è una piaga. Non a caso la Chiesa la annovera tra i peccati capitali. Non a caso, se Dio esiste, i 9/10 degli esseri umani si sono già ipotecati il proprio futuro ultramondano.

Accade nel Mezzogiorno d´Italia. Chiunque sia ricco per meriti propri, è per forza di cosa un Camorrista o un Mafioso.

L´invidia porta alla manipolazione delle cose. Alle malelingue. Allo sparlare. E´ un classico.

Accade a scuola. Io ho un compagno di classe benestante. Ma io benestante non sono. Lui è uno in gamba. Uno che non se la tira. Uno cui io non posso rimproverare nulla. Ma è benestante. E ciò non va. Non ci riesco proprio a sopportarlo.

E così se lui va bene a scuola, io dirò che è solo merito delle raccomandazioni. Perché sì, è ovvio, lui è ricco. Quindi non è che possa essere “anche” capace e volenteroso. Lui deve avere le raccomandazioni! E io alle sue spalle a spettegolare, a sminuire, a mortificare ogni cosa che lo riguardi.

E´ fidanzato con una bella ragazza? E sì capisce, mi dirò, è pieno di soldi. Lei sta con lui solo per i soldi.

C´è sempre un “però”, c´è sempre un “ma” accanto ad ogni gesto di una persona benestante.

Lo sappiamo tutti, nevvero? Ogni giorno, ognuno di noi fa questo nella sua vita.

E l´odio cresce. Un odio improduttivo, misero ed ignobile. Che monta dentro. Che non ci fa dormire bene: che sonni infami che facciamo!

Non amo i racconti personali. Tengo alla mia privacy più di quanto non tenga alla mia stessa esistenza. Però questa volta faccio un´eccezione.

Io avevo un nonno. Un nonno materno. Nato in una famiglia poverissima. Una di quelle tipiche famiglie napoletane (o meridionali in genere) venute su durante il Fascismo. Non riusciva a mettere assieme il pranzo con la cena, mio nonno. Andò a lavorare. Aveva 9 anni. L´ottava elementare. Iniziò a vendere quaderni in mezzo alla strada. Riusciva a mangiare e a mantenere la famiglia. Non una lacrima. Solo duro e tenace lavoro. Pian piano con costanza e talento, sacrificio e volontà, accrescendo i propri commerci, divenne un imprenditore mica male. Creò posti di lavoro e “sistemò” tutta la famiglia. Uno dei suoi fratelli, di dieci anni più giovane, poté completare gli studi ai massimi livelli: finanche la laurea poté conseguire. Non pianse mai, né si lamentò. Sapeva che il destino ce lo costruiamo noi. Aveva umiltà e semplicità. La mantenne anche quando la Repubblica Italiana lo fece Commendatore. Qualcosina in più che Cavaliere del Lavoro. Quando sento qualcuno lamentarsi del destino beffardo, o delle capacità di reddito altrui, mi viene sempre in mente mio nonno. E penso: perché diamine queste persone non si danno da fare? Perché? Forse perché è bello piangere e lamentarsi. Meglio questo che svegliarsi alle 5 di mattina e farsi il culo! Meglio questo, che magari fare due lavori. Anche non decorosi. Anche umilianti. Vogliamo tutto e subito. E se non possiamo averlo, e allora che nessuno possa! Chiagnere e fottere, diciamo a Napoli. E´ una costante. Banale. Finanche noiosa.

Ma il problema, però, è un altro. Può l´odio e l´invidia, essere la base costitutiva e di operato, di una coalizione di governo? Può essere l´odio e l´invidia, l´ossatura di una coalizione che coltiva il sogno di dare vita al cosiddetto Partito Democratico?

Vediamo che dichiara al Foglio, Filippo Penati. Presidente della Provincia di Milano in quota Ds: “Niente deve sembrare punitivo, i sacrifici devono farli tutti, attenzione allo sviluppo. Nelle regioni del centro-nord le appartenenze politiche non sono più fondate sul censo, tant´è che Lega e Forza Italia prendono molti voti nei quartieri periferici e negli insediamenti delle case popolari. Non è vero che chi è povero vota a sinistra e i ricchi a destra”.

Vediamo adesso cosa pensa a proposito della Finanziaria, l´economista vicino ai Ds Michele Salvati: “C´è un primum vivere che impedisce al Partito democratico di emergere sui grandi temi economici: si chiama Unione e obbliga a tener conto di un´area condizionante, non riformista, che va dalla sinistra Ds fino al Pdci. La futura Finanziaria non potrà essere il simbolo del programma di un Partito democratico. Faccio un esempio semplice. In astratto, e in condizioni di emergenza, non è affatto scandalosa l´idea di alzare al 43 per cento l´aliquota per i redditi più alti. Ma il segnale che i riformisti stanno dando oggi al Nord, qual è? Eccolo: i dipendenti pubblici, che già sono stati privilegiati negli ultimi cinque anni dal governo Berlusconi, resteranno privilegiati. E a nessuno di loro verrà innalzata l´età pensionabile. Nel frattempo il governo alza le tasse. Questo è un messaggio devastante”.

In ultimo, a chi giova l´odio e l´invidia di classe? A chi giovano politiche fondate sull´odio distruttivo verso taluni?

A chi giova una politica solo e soltanto “contro”? L´odio rende migliore la vita dell´uomo, e di una Nazione?

Non è forse l´odio ad aver prodotto milioni di morti nel '900?

I REGIMI TOTALITARI FIGLI DEL SOCIALISMO/COMUNISMO.

I regimi totalitari. (Questa Tesina fa parte delle risorse didattiche della sezione DIDATTICA.ndo di “marcosroom.it”. La nascita e l’evoluzione dei regimi totalitari sono il tratto caratterizzante degli anni tra le due guerre. L’Italia fascista, la Germania nazista e la Russia staliniana, fondano la loro sopravvivenza su un rigido sistema capace di garantire repressione e consenso. In comune hanno anche il culto della personalità che identifica nel capo il dominatore assoluto. Un esasperato richiamo nazionalista e un’idea delle relazioni internazionali fondata sulla forza. L’insieme delle modalità di acquisizione del consenso adottate dai totalitarismi sono ben rappresentate dal concetto di liturgia politica. Carattere principale dei regimi che sono stati definiti totalitari, pur nelle profonde differenze che li distinguono, è la pretesa di dominare in modo "totale" la società. Il regime fascista in Italia, il regime nazista in Germania e il regime, di opposta matrice ideologica e sociale, sovietico in URSS, possiedono alcuni tratti comuni che li allontanano dai regimi autoritari di tipo tradizionale e ne fanno moderne forme di potere assoluto tipiche della "società di massa". Elementi primari di novità sono proprio l'istituzionalizzazione della violenza e della repressione di ogni forma di dissenso, da un lato, e l'organizzazione del consenso, dall'altro. Un potente e diffuso apparato poliziesco, costituito, oltre che dalle polizie ufficiali, da polizie segrete e milizie di partito, e nuovi sistemi di repressione dell'opposizione politica, quali tribunali e legislazioni speciali e campi di concentramento, assicurano ai regimi totalitari l'emarginazione e il soffocamento di ogni voce contraria e insieme attuano una forma di controllo della società basata sull' intimidazione e sulla coartazione delle coscienze. Parallelamente, i regimi totalitari sviluppano un'opera di mobilitazione delle masse in funzione dei propri obiettivi politici, attraverso le più moderne tecniche del consenso. L'uso intensivo dei mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, stampa), lo sfruttamento di canali privilegiati della comunicazione sociale, come la scuola e la produzione culturale , l'inquadramento della società in organizzazioni di massa legate al partito, l'utilizzazione di forme collettive di riconoscimento, come divise,  distintivi, cerimonie e adunate , permettono ai regimi totalitari di guadagnare un tipo di consenso, che, seppure assai diverso da quello dei regimi in cui vigono le libertà democratiche, fa registrare punte elevate di identificazione con il proprio progetto politico. Alla cattura del consenso contribuiscono anche la diffusione di miti e di parole d'ordine che fanno presa sugli istinti irrazionali e utopistici delle masse, soprattutto dei giovani. I regimi totalitari si caratterizzano per la netta predominanza di un capo, nella cui figura finisce per identificarsi, seppure in misura diversa nei differenti regimi, lo Stato stesso. Stalin, Hitler e Mussolini, acquistano progressivamente il ruolo di capi assoluti, di supreme autorità in tutti i campi, e di depositari e garanti della corretta applicazione della dottrina politica che anima i rispettivi regimi. Si diffonde l'idea della loro insostituibilità, infallibilità e onniscienza. Cresce parallelamente il culto e la venerazione delle proprie persone, attraverso un'operazione volta alla sacralizzazione delle figure dei tre dittatori, sino all'assunzione di elementi mistici. Accanto alla diffusione e alla reiterazione delle loro immagini e rappresentazioni, con la complicità delle arti figurative, del cinema e della fotografia, appositamente piegati a celebrare il loro culto, si provvede a dare vita a imponenti e coreografiche manifestazioni, nelle quali si realizza la comunione tra il capo e le masse accorse ad ascoltare la sua parola. Se Stalin si presenta quale padre e guida infallibile del suo popolo e diviene la personificazione stessa della rivoluzione e del comunismo, Mussolini si proclama " duce " degli italiani e interprete delle più vere esigenze della nazione. Hitler, denominato il " führer ", rappresenta agli occhi dei suoi seguaci il “Messia” portatore della nuova salvezza per la Germania e si trasforma in un simbolo vivente, privo, come tale, di una propria vita privata, in quanto esistente unicamente in una dimensione di fruizione pubblica e assoluta. Le conseguenze destabilizzanti dell'affermazione del regime nazista nel cuore dell'Europa non tardano a farsi sentire e aumentano in seguito all'alleanza con il regime fascista italiano. Entrambi i regimi, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, cominciano a mettere in atto le proprie spiccate tendenze belliche ed espansionistiche. In un crescendo che culmina nello scoppio della seconda guerra mondiale, i due regimi, indeboliscono e infine fanno crollare l'equilibrio europeo che era stato costruito con la pace di Versailles, seguita alla guerra del 1914-1918. Il manifestarsi da parte di questi regimi della volontà di revisione del precedente assetto politico dell'Europa, affonda le sue radici non solo in tradizionali motivazioni di carattere economico-politico, ma anche in nuove ragioni di tipo ideologico. Lo slancio espansionistico del regime nazista ai danni di Stati europei abitati da popolazioni di lingua tedesca, dapprima, della Polonia e della Francia, poi, e infine dell'Unione Sovietica, è il risultato di una complessa costruzione ideologica che Hitler aveva esposto già nel Mein Kampf e che si basa su due dottrine: il razzismo e una concezione imperialista della geopolitica. All'interno di un'idea della storia come lotta tra le razze, e della individuazione di una precisa gerarchia tra di esse, egli progetta le linee direttrici dell'espansionismo tedesco, sulla base della necessità di assicurare alla superiore razza germanica l'adeguato " spazio vitale ", a spese delle supposte razze inferiori, nella prospettiva di un dominio del mondo intero. Anche per il regime fascista, all'orientamento imperialistico in politica estera, che si conferma con la conquista dell'Etiopia nel 1935-36, corrisponde l'elaborazione di motivazioni ideologiche. Dal mito della Roma imperiale, alla ripetuta retorica delle nazioni "giovani" e "proletarie", come l'Italia e la Germania, che devono farsi largo a scapito delle nazioni "vecchie" e "plutocratiche", Francia e Inghilterra. Il fascismo italiano non manca di nutrire di mitologie il proprio imperialismo, sbocco necessario di un regime basato sull'esaltazione della guerra e su un esasperato nazionalismo. Nati dalla negazione delle tradizioni della democrazia borghese e dei sistemi parlamentari di rappresentanza, che negli anni tra le due guerre mostrano evidenti segni di crisi, i regimi totalitari affermano un nuovo stile politico, basato sull'assunzione della ideologia come religione politica. I regimi a carattere totalitario non si limitano, come i passati modelli autoritari, ad assicurare un controllo sociale mediante la negazione delle libertà e la sottomissione politica a un despota, bensì interpretano in pieno le nuove richieste della moderna società di massa, elaborando nuove forme di legittimazione del potere e ponendosi il problema della integrazione e della mobilitazione delle masse. La sostituzione di questa moderna politica di massa alla forma di governo pluralistico-parlamentare, avviene attraverso l'elaborazione di una nuova religione laica, che si pone come tramite tra popolo e capi e che si esprime sul piano pubblico attraverso una liturgia politica. Partendo dal presupposto che nell'aggregazione di individui e nella creazione di movimenti di massa operano più facilmente fattori di natura irrazionale, emotiva, religiosa, i regimi totalitari elaborano vasti sistemi di credenze, miti e simboli che vengono messi in scena in feste e cerimonie pubbliche e attraverso il linguaggio dell'arte e dell'architettura. Attraverso l'orchestrazione di spettacolari riti collettivi, la partecipazione politica responsabile e consapevole viene sostituita da una identificazione mitica e istintiva con il capo, che impersona la volontà dello Stato, e dalla sensazione di partecipare a un progetto che trascende la propria volontà individuale. La chiamata in raccolta delle folle oceaniche per ascoltare le parole del capo, rappresenta la massima espressione di questa nuova forma di partecipazione politica, che si configura come una complessa liturgia di massa.

1. Il fascismo. Introduzione. Movimento politico e regime di carattere totalitario. In senso stretto, il fascismo, il cui nome deriva dal “fascio littorio”, simbolo del potere in Roma antica, nacque nel 1919 in Italia, dove conquistò il potere nel 1922 e lo conservò sino al 1943. Il termine è comunemente utilizzato per definire analoghi movimenti e regimi politici nati in molti paesi prima, durante e, anche se in misura minore, dopo la seconda guerra mondiale. Tratti del fascismo. Il fascismo fu caratterizzato dal monopolio della rappresentanza da parte di un unico partito; da un’ideologia fondata sul culto del capo (il “duce”); dal disprezzo per i valori della civiltà liberale , che si concretizzò nella soppressione delle libertà politiche e civili (di pensiero, di stampa, di associazione ecc.); dall’ideale della collaborazione tra le classi, opposto alla teoria socialista e comunista della lotta di classe; dal dirigismo statale ; da un apparato di propaganda che mirò a mobilitare le masse e a inquadrarle in organizzazioni di socializzazione politica funzionali al regime. Le radici del fascismo. Agli inizi, il fascismo fu un movimento privo di una vera e propria ideologia. La stessa parabola di Benito Mussolini, prima socialista, rivoluzionario, anticlericale, antimilitarista, poi interventista e da ultimo profondamente antisocialista, non ci dice molto dei fondamenti teorici e dottrinali del fascismo. Fondamentalmente anti-intellettuale, il fascismo utilizzò quanto tornava utile al suo progetto politico. Fu solo con il Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925) di Giovanni Gentile che venne compiuta una prima sistematizzazione dell’ideologia e della dottrina fascista. Il fascismo italiano. Benito Mussolini aderì al movimento socialista nel 1909. Esponente della corrente rivoluzionaria del partito, nel 1912 fu nominato direttore del quotidiano “Avanti! “, segnalandosi per le sue posizioni anticapitaliste e antimilitariste. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, passò su posizioni interventiste e fu per questo espulso dal Partito socialista. Nel 1919 fondò i Fasci di combattimento, un movimento che si caratterizzò per il suo antisocialismo e che non ottenne subito un grande seguito. In breve però, nel contesto italiano del dopoguerra afflitto da una grossa crisi politica e sociale, ampie parti della società italiana finirono per rivolgersi a Mussolini, in particolare i settori che più avvertivano la minaccia costituita dalle forti lotte operaie in atto tra il 1919 e il 1921. Trasformatosi in Partito nazionale fascista nel 1921, l’anno seguente, dopo una campagna di violenze e la marcia su Roma, giunse al potere con l’appoggio dei ceti medi, degli agrari e di diversi settori della burocrazia e dell’esercito, nonchè di Vittorio Emanuele III, che diede a Mussolini l’incarico di formare un governo sostenuto anche da popolari e liberali. Dopo le elezioni del 1924 (svolte con un nuovo sistema elettorale, la Legge Acerbo, che assegnava al partito di maggioranza relativa i due terzi dei seggi in Parlamento) e l’assassinio di Giacomo Matteotti (rivendicato al regime nel gennaio 1925 dallo stesso Mussolini), vennero sciolte le opposizioni e limitata la libertà di stampa, espulsi dalla Camera i deputati antifascisti, vietato lo sciopero, messi al bando i sindacati, introdotta la pena di morte e istituito il Tribunale speciale per la difesa dello stato, incaricato di reprimere ogni forma di dissenso; nel 1934 il regime adottò infine una forma corporativa. Le interpretazioni del fascismo. Il fascismo, fin dalla sua nascita, è stato oggetto di un intenso dibattito politico e storiografico. Molte sono le interpretazioni sulla sua affermazione, che è stata attribuita alla crisi di valori, alla crisi economica, alla reazione del capitalismo, alle lotte operaie, alla reazione delle classi medie contro il proletariato e la borghesia, ai meccanismi psicologici di massa ecc. Ad esempio, per Benedetto Croce il fascismo fu “una malattia morale, una parentesi della storia senza passato e senza futuro, in totale contraddizione con la naturale evoluzione dei paesi occidentali verso la democrazia.” Il fascismo postbellico e il neofascismo. La sconfitta dell’Asse nella seconda guerra mondiale, la consapevolezza dell’immane tragedia che i totalitarismi avevano provocato e la ripresa economica mondiale, che dissipò il malcontento che nel primo dopoguerra aveva contribuito ad alimentare il fascismo, segnarono il declino dell’ideologia fascista, sostenuta ormai solo da sparuti gruppi legati nostalgicamente al passato. In Italia, ad esempio, alcuni reduci della Repubblica di Salò fondarono il Movimento sociale italiano, che solo dopo cinquant’anni, nel 1995, trasformatosi in partito della destra moderata (Alleanza Nazionale), abbandonò i riferimenti più diretti all’ideologia fascista. Parallelamente si svilupparono diversi movimenti della destra più radicale e, non di rado, terrorista; tra le formazioni della galassia neofascista e neonazista italiana (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero ecc.), diverse fornirono manovalanza nella politica terroristica e destabilizzante della “strategia della tensione negli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Ottanta e Novanta, con la recrudescenza della crisi economica, sono riemerse ideologie filofasciste di matrice razzista, caratterizzate dall’ostilità verso gli immigrati o dall’avversione per i sistemi democratici. In Francia, ad esempio, sono cresciuti i consensi elettorali per il Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen; in Austria, il Partito liberale di destra di Jörg Haider, autoritario e xenofobo, ha continuato a mietere successi elettorali per tutti gli anni Novanta. Anche in Germania si sta verificando una risorgenza di movimenti esplicitamente ispirati al nazismo, anche se questi non riescono ad affermarsi elettoralmente.

2. Il nazismo. Introduzione. Dottrina politica che dava contenuto ideologico al Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP; Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori), improntando la sua azione e, in generale, tutta la politica interna ed estera di Adolf Hitler e del suo governo dal 1933 al 1945. I principi centrali della dottrina nazista, per alcuni aspetti affine al fascismo italiano, erano ispirati alle teorie che sostenevano una presunta superiorità biologica e culturale della razza ariana formulate da Houston Stewart Chamberlain e da Alfred Rosenberg ; ma il successo della formula politica in Germania fu dovuto anche alla sua relazione di continuità con la tradizione nazionalista, militarista ed espansionista prussiana, nonchè al suo radicamento nella cultura irrazionalista di inizio secolo. Il primo dopoguerra. L’ascesa del Partito nazionalsocialista trasse forte impulso dallo scontento diffuso fra i tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Ritenuta la principale responsabile del conflitto, la Germania dovette infatti accettare le pesantissime condizioni del trattato di Versailles, a causa delle quali entrò in un periodo di depressione economica, segnato da un’inarrestabile inflazione e da una vasta disoccupazione. Finanziata dagli ambienti militari, la formazione politica guidata da Adolf Hitler nacque nel 1920 in un paese prostrato dalla guerra e attraversato da violenti conflitti politici e sociali. Parte dei militanti furono organizzati in una sorta di braccio armato, le SA (“sezioni d’assalto”); le SA avevano il compito di intimidire con la violenza gli avversari politici e i sindacalisti. Hitler formulò un programma d’azione antidemocratico, imperniato sul nazionalismo e sull’antisemitismo, e nel 1923 dotò il partito di un efficace strumento di propaganda, il quotidiano “Völkischer Beobachter” (L’osservatore nazionale), e di un simbolo ufficiale, una croce uncinata nera, inscritta in un cerchio bianco su campo rosso: la svastica. Nello stesso anno intensificò la propaganda e le azioni dimostrative contro il Partito comunista tedesco, tentando infine un colpo di stato (il Putsch di Monaco) per rovesciare il governo. L’ideologia nazista. Il tentativo fallì e Hitler fu condannato a cinque anni di carcere. Durante la detenzione, che in realtà durò meno di un anno, scrisse la prima parte di Mein Kampf (“La mia battaglia”), l’opera in cui riassunse i capisaldi dell’ideologia nazista, tracciando il suo progetto di conquista dell’Europa. Le fonti intellettuali di Hitler erano alquanto eterogenee e il nazionalsocialismo si presentava così più come un conglomerato di idee dalle matrici più disparate che come un’ideologia organizzata e strutturata. In Mein Kampf, le istanze nazionaliste e il progetto di una grande Germania che radunasse tutte le genti di lingua tedesca, trovavano una teorizzazione che ben si inseriva nel clima causato dalla disfatta della prima guerra mondiale: Hitler propose infatti un piano di ampliamento del territorio nazionale, giustificandolo con la necessità di allargare lo “spazio vitale” per il popolo tedesco. Le altre nazioni dovevano sottomettersi alla razza ariana, in virtù della sua conclamata superiorità, destinata com’era a regnare sul mondo intero. Nemici degli ariani erano in primo luogo gli ebrei, responsabili del disastro economico e della diffusione delle ideologie marxiste e liberali. Il nazismo al potere. Una volta scarcerato, Hitler riorganizzò il partito, creò il corpo armato delle SS (“squadre di difesa”), diretto da Heinrich Himmler, e l’ufficio di propaganda, che fu affidato a Joseph Goebbels. Nel 1929, l’anno della grande crisi economica mondiale seguita al crollo di Wall Street, buona parte dei grandi imprenditori tedeschi cominciarono a guardare con favore a Hitler e al suo programma, e ingenti somme di denaro presero ad affluire nelle casse del Partito nazista. Appoggiato anche dalle classi medie, dai piccoli proprietari e dai disoccupati colpiti dalla grave depressione economica, il Partito conquistò la maggioranza relativa nelle elezioni del 1932. Un anno dopo Hitler ottenne il cancellierato. Alle successive elezioni politiche il Partito nazionalsocialista ottenne una schiacciante vittoria; a Hitler furono quindi assicurati i pieni poteri, che egli usò per assorbire le competenze del Parlamento ed eliminare con la violenza l’opposizione. Il Partito nazionalsocialista divenne l’unica organizzazione politica legale. Nel 1933, allo scopo di eliminare i dissidenti, fu istituita la “Polizia segreta di stato”, nota come Gestapo, svincolata da ogni controllo legale e soggetta solo al proprio comandante, Himmler. Il “nuovo ordine”. Soppressi gli avversari politici e i diritti costituzionali e civili, il regime affrontò la crisi occupazionale, pianificando una ristrutturazione industriale e agricola dell’intero paese, eludendo le restrizioni del trattato di Versailles, abolendo le cooperative e ponendo le organizzazioni sindacali sotto il controllo dello stato. Grazie al “nuovo ordine”, la Germania hitleriana uscì dalla crisi: le sorti dell’alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente fu assorbita la disoccupazione; ma ciò fu dovuto anche e soprattutto al lavoro creato per la preparazione di una possente macchina da guerra, mentre veniva inaugurata una politica estera estremamente aggressiva e brutale. Fu rimilitarizzata la Renania, si formò l’Asse Roma-Berlino (1936), fu “risolta” la questione dei Sudeti (1938) e l’Austria fu annessa con uno spregiudicato colpo di mano (1938). Infine, l’invasione della Polonia (1° settembre 1939) fu la scintilla che fece scoppiare la seconda guerra mondiale. Nella prima fase del conflitto la Germania sembrò avere la meglio; Hitler e i suoi uomini diedero allora il via alla cosiddetta “soluzione finale”, organizzando la deportazione in campi di concentramento e di sterminio e l’eliminazione di milioni di ebrei, zingari, omosessuali, malati mentali, oppositori politici ecc. (Shoah). Il nazismo dopo la seconda guerra mondiale. Al termine della guerra, un tribunale militare internazionale processò a Norimberga i capi nazisti sopravvissuti, mentre gli Alleati organizzarono il cosiddetto “processo di denazificazione” del paese. La nuova Costituzione democratica sanciva la proibizione di ricostituire il Partito nazionalsocialista; tuttavia nel dopoguerra, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e nuovamente dopo la riunificazione della Germania, il nazismo è tornato alla ribalta. In Germania, in altri paesi europei e anche negli Stati Uniti, sono nate piccole formazioni neonaziste che ancor oggi predicano l’odio razziale e l’antisemitismo, commettono violenze ai danni degli immigrati e organizzano azioni di terrorismo.

3. Lo stalinismo. Introduzione. Epoca e regime politico in cui si affermò in Urss la dispotica dittatura di Stalin e l'ideologia a essa connessa. Iniziò alla fine degli anni venti e terminò con la morte del dittatore nel 1953. Fu in questo periodo che si costituirono i tratti fondamentali del sistema sovietico, segnato dall'ispirazione dello stato-partito ad assumere il controllo totale su tutti gli aspetti della vita del paese (politica, economica, sociale e culturale). Lo stalinismo generò uno degli stati totalitari più feroci del XX secolo. Le vittime del regime di Stalin si contarono a milioni. Nel 1929, dopo la sconfitta dell'opposizione di destra, Stalin assunse il pieno controllo del partito e diede avvio alla " grande svolta " che avrebbe dovuto portare alla rapida edificazione dell'economia socialista, regolata dalla pianificazione statale. Lo statalismo. La dittatura autoritaria dai tratti illuministi tracciata da Lenin, cedette il posto a una dittatura autocratica, fondata sull'esaltazione dello stato e sullo schiacciamento totale della società. Anche se non mancarono elementi di continuità tra Lenin e Stalin, questo cambiamento dei fini del potere, rappresentò un momento di rottura di primaria importanza. L'intervento massiccio dello stato in tutti i settori fu favorito dal fatto che la società degli anni venti era debolmente strutturata, poichè la rivoluzione e la guerra civile avevano spazzato via quei nuclei di "società civile" che si erano costituiti negli ultimi decenni dello zarismo. Questo spiega, almeno in parte, le ragioni di una mancata resistenza organizzata al regime staliniano, che mosse una vera e propria guerra a tutti gli strati della società. Gli anni trenta furono anni di spaventosi sconvolgimenti sociali. La collettivizzazione e l'industrializzazione forzata frantumarono violentemente il tessuto sociale preesistente. Vennero distrutte identità collettive secolari, mentre la società si atomizzava. La Russia si popolò di nomadi e vagabondi, contadini e operai fuggiti da villaggi e città alla ricerca di condizioni di vita almeno sopportabili. Per far fronte alla crisi sociale permanente vennero rafforzati a dismisura gli apparati repressivi dello stato. Con il ristabilimento dell'odioso sistema zarista dei passaporti interni e della propiska (permesso di residenza dato dalla polizia), nel 1932 i contadini vennero di nuovo legati alla terra e gli operai alle fabbriche, mentre il paese si riempiva di campi di concentramento. Nasceva il Gulag. La mobilità sociale altissima provocò un colossale rimescolamento. Interi strati sociali vennero scaraventati dai vertici al fondo della piramide, mentre altri emergevano, prima di essere a loro volta travolti. Una società gerarchizzata. Il Partito comunista dell'Unione sovietica, partito unico, fu il principale canale di promozione sociale: la fedeltà all'ideologia era la “conditio sine qua non” per cambiare la propria posizione. Nacque una nuova struttura sociale fortemente gerarchizzata. I contadini, discriminati dalla legislazione, tornarono in pratica alla condizione del servaggio, abolito da Alessandro II nel 1861; gli operai persero tutti i privilegi di cui avevano goduto negli anni venti e vennero posti alla mercè assoluta dei dirigenti industriali, mentre l'allargarsi del ventaglio salariale e la diffusione del cottimo creavano disparità crescenti. L'impegno diretto dello stato nella produzione provocò la crescita a dismisura dell'apparato burocratico. La cristallizzazione del sistema gerarchico portò con sè un ritorno a valori tradizionali (la famiglia, per esempio) destinati a inculcare nelle masse la disciplina, il conformismo e il rispetto per l'autorità. Si costituì una nuova ideologia tesa a recuperare i valori del nazionalismo imperiale russo inserendoli in un contesto dominato dal culto di Stalin. Il disorientamento di interi strati sociali brutalmente sradicati, fornì il terreno propizio per la nascita di una sorta di religione statale con i suoi nuovi riti (parate-processioni, idolatria dei capi e delle loro immagini, uso di vocaboli di origine religiosa) che si nutrì, trasfigurandole, delle antiche credenze del mondo contadino: il culto di Stalin, dio-padre-padrone onnipotente , fu accompagnato dalla caccia spietata ai "nemici del popolo", moderna versione della demonologia rurale intrisa di paganesimo, che attribuiva alle "oscure forze del male" la responsabilità di tutte le disgrazie. Lo stato di polizia. La potente polizia segreta (Nkvd), sottoposta direttamente a Stalin, aveva diritto di vita e di morte sugli abitanti del paese dei soviet. La macchina repressiva si volse contro le elite politiche. Iniziava il grande Terrore. Tra il 1936 e il 1938, nei processi di Mosca, venne sterminata la vecchia guardia bolscevica; sotto la scure della polizia politica cadde anche l'Armata rossa, che fu gravemente scompaginata dalle purghe, come dimostrò la facilità dell'avanzata nazista al momento dell'aggressione nel 1941. Alla fine degli anni trenta Stalin era ormai padrone assoluto del paese. Capriccioso despota autocratico, fece distruggere anche lo stesso gruppo dirigente a lui fedele che aveva patrocinato la “grande svolta”. 

I PADRI COMUNISTI.

per leninismo si intende quella corrente di pensiero comunista(ma anche una fase storica) secondo cui la direzione del partito comunista(e dunque, il governo del paese)dovesse essere collegiale. Il partito è considerato il propulsore della lotta di classe e delle battaglie sociali. 

Al contrario, sotto Stalin tutto il potere e la direzione della società è nelle mani di un solo uomo e generalmente col termine "stalinismo" si vuole fare riferimento ad un regime dittatoriale o fortemente centralizzato. 

Infine il troskijsmo (Lev Trotsky) si fonda principalmente sull'idea di una rivoluzione permanente, cioè espandere ed esportare il socialismo in tutto il mondo, al contrario di quanto sosteneva Stalin, il quale puntava al rafforzamento di un solo paese(l'Urss).

LA STORIA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO.

Partito Comunista Italiano. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Partito Comunista Italiano (PCI) è stato un partito politico italiano di sinistra. Fu uno dei maggiori partiti politici italiani, nato il 21 gennaio 1921 a Livorno come Partito Comunista d'Italia (sezione italiana della III Internazionale) per la separazione dell'ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, al XVII Congresso socialista. Dopo una storia complessa e travagliata all'interno dell'Internazionale comunista negli anni venti e trenta, assunse durante la seconda guerra mondiale un ruolo di primo piano a livello nazionale, promuovendo e organizzando con l'apporto determinante dei suoi militanti la Resistenza contro la potenza occupante tedesca e il fascismo repubblicano. Il capo del partito, Palmiro Togliatti, attuò una politica di collaborazione con le forze democratiche cattoliche, liberali e socialiste ed ebbe un'importante influenza nella creazione delle istituzioni della Repubblica. Passato all'opposizione nel 1947 dopo la decisione di De Gasperi di estromettere le sinistre dal governo per collocare l'Italia nel blocco internazionale filo-statunitense, il PCI rimase fedele alle direttive politiche generali dell'URSS fino agli anni settanta e ottanta pur sviluppando nel tempo una politica sempre più autonoma e di piena accettazione della democrazia già a partire dalla fine della segreteria Togliatti, e soprattutto sotto la guida di Enrico Berlinguer, che promosse il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e la collaborazione tra i partiti comunisti occidentali con il cosiddetto eurocomunismo. Nel 1976 il PCI toccò il suo massimo storico di consenso, mentre nel 1984, sull'onda emotiva della morte improvvisa del segretario Berlinguer, fu per breve tempo e seppur per pochissimi punti percentuali, il primo partito italiano. Dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e il crollo dei paesi comunisti, il PCI, che fu sempre il più grosso partito comunista dei paesi del blocco occidentale, si è sciolto nel 1991 su iniziativa di Achille Occhetto, dando vita ad una serie di formazioni politiche di sinistra (Partito Democratico della Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, ecc.) che hanno per alcuni periodi governato l'Italia in alleanza con le forze progressiste socialiste e cattoliche. Il Partito Comunista d'Italia inizialmente si poneva come obiettivo l'abbattimento dello Stato borghese e l'instaurazione di una dittatura del proletariato attraverso i Consigli degli operai e dei contadini, sull'esempio dei bolscevichi russi di Lenin. I rapporti con Mosca, la controversa e variegata dialettica rispetto alle politiche dell'URSS, di cui il Pci aveva fatto un mito, e i discussi tentativi di distaccarsene, costituiranno un elemento centrale della storia del partito, che però troverà la sua fonte di maggiore forza e legittimazione nel radicamento costruito nella società italiana, e in particolare tra i lavoratori, già negli anni dell'attività clandestina sotto il regime fascista, ma soprattutto nel secondo dopoguerra, allorché il Pci si trasformerà nel "partito nuovo" voluto da Palmiro Togliatti, un "partito di massa" con una forte presenza territoriale, volto a cercare di proporre soluzioni ai problemi delle masse lavoratrici e del paese nel suo insieme. Il partito, guidato nei suoi primi anni di vita da una maggioritaria corrente di sinistra raccolta attorno a Bordiga, nel III Congresso, svoltosi clandestinamente a Lione nel gennaio del 1926, segnò un deciso cambiamento di politica. Suggellato con l'approvazione delle Tesi di Gramsci e la messa in minoranza della sinistra di Bordiga, la quale, accusata di settarismo, verrà prima emarginata e poi, con l'arresto di Bordiga da parte dei fascisti, si riunirà in Francia editando la rivista Prometeo, e poi nel dopoguerra nel Partito Comunista Internazionalista. Tale risultato verrà poi variamente criticato per supposte ingerenze estere nelle vicende nazionali, specchio della situazione sovietica. Tra gli elementi principali di scontro vi erano i rapporti con l'URSS, che le componenti di ispirazione sinistra comunista, nelle vesti della Sinistra Comunista Italiana di Bordiga, criticavano duramente, e la componente in seguito dominante che si riferiva a Gramsci, decisa a tenere ben saldo il legame con l'Internazionale comunista. Nel 1930 Bordiga fu definitivamente espulso dal Partito con l'accusa di trotskismo. Stessa sorte era già parallelamente toccata ad elementi a destra del gruppo dirigente, quest'ultimo diviso dal 1926 tra chi, come il segretario Gramsci, era stato condannato a misure di carcerazione fascista, e chi, come Palmiro Togliatti, era riuscito ad espatriare continuando l'azione di direzione del partito dall'estero o operando nella clandestinità. Caduto il regime fascista nel 1943, il PCI ricominciò a operare legalmente partecipando immediatamente alla costituzione di formazioni partigiane e, dal 1944 al1947, agli esecutivi antifascisti successivi al governo Badoglio I, dove il nuovo leader Palmiro Togliatti sarà anche, per un breve periodo, vicepresidente del Consiglio dei ministri. Nell'antifascismo il PCI è la forza più popolare e infatti la maggior parte degli aderenti alla Resistenza italiana era membro del partito comunista. Le Brigate Garibaldi, promosse dai comunisti, rappresentarono infatti circa il 60% delle forze partigiane. Nel corso del conflitto, diverse componenti identificarono la lotta antifascista con la lotta di classe, mirando ad attuare una rivoluzione sul modello di quella sovietica. Ma in realtà la maggioranza dei partigiani comunisti, sulla base delle indicazioni provenienti dai loro vertici, e in particolare da Luigi Longo (allora a capo del partito nell'Italia occupata e al tempo stesso delle Brigate Garibaldi), intesero correttamente la lotta partigiana come una lotta volta in primo luogo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, da condursi quindi nel modo più unitario possibile, accantonando le differenze di impostazioni e di obiettivi rispetto alle altre forze che partecipavano alla Resistenza: una linea che culminò nella costituzione del Comando generale unificato del Corpo volontari della libertà (CVL), contribuendo in modo decisivo all'esito vittorioso della lotta di liberazione. Nel 1947, nel nuovo clima internazionale di guerra fredda, il PCI è allontanato dal governo e rimarrà all'opposizione per tutto il resto dei suoi giorni, non entrando mai in nessun governo repubblicano. Durante il XX Congresso del PCUS, Nikita Chruščёv diede avvio, con la denuncia dei crimini del regime staliniano, alla cosiddetta destalinizzazione, la quale ebbe non poche ripercussioni anche sulla sinistra italiana. La linea del PCI diede seguito alla svolta che si tradusse nella volontà di tracciare una propria «via italiana al socialismo» che consisteva nell'accentuare il vecchio obiettivo del raggiungimento di una «democrazia progressiva» applicando integralmente la Costituzione italiana. L'amicizia e la lealtà che legavano il PCI all'Unione Sovietica, nonostante a partire dal 1968 una graduale progressiva critica all'operato del PCUS, fecero sì che l'atteggiamento nei rapporti internazionali non si tradusse mai in una rottura dei rapporti col partito sovietico. Questo portò a crisi e frammentazioni con militanti, intellettuali (molto noto il caso di Italo Calvino), dirigenti (come Antonio Giolitti, che nel 2006 riceverà le scuse e l'attestazione della ragione da Giorgio Napolitano capo dello stato e allora nella dirigenza allineata a Mosca) e componenti di sinistra e libertarie che fuoriuscivano o mettevano in discussione (Manifesto dei 101) la linea politica, prima dopo la Rivoluzione ungherese del 1956 e poi con la Primavera di Praga e gli interventi militari sovietici sulle nazioni dissidenti non sufficientemente o per nulla stigmatizzate dall'allora gruppo dirigente. Molti comunisti, riunti intorno alla rivista il manifesto, tra cui Rossana Rossanda furono espulsi dal partito come già accaduto in altre circostanze. In quegli anni molte sigle di ispirazione comunista si formeranno a sinistra del PCI, contestando l'adesione al realismo sovietico. Il PCI è stato per molti anni, dall'osservazione dei dati elettorali, il partito comunista più grande dell'Europa occidentale. Mentre, infatti, negli altri paesi democratici l'alternativa ai partiti o alle coalizioni democristiane o conservatrici era da sempre rappresentata da forze socialiste (con i partiti comunisti relegati a terza o quarta forza), in Italia rappresentò il secondo partito politico in assoluto dopo la Democrazia Cristiana, con un Partito socialista via via sempre più piccolo e relegato, dal1953 in poi, al rango di terza forza del paese. Nel 1976 il PCI raggiunse l'apice del suo consenso elettorale, col 34,4% dei voti, dopo che, l'anno prima, aveva conquistato le principali città italiane, mentre alle elezioni europee del 1984 avvenne il breve "sorpasso" sulla DC (33,33% dei consensi contro il 32,97%). Il partito si sciolse il 3 febbraio 1991 durante il XX Congresso Nazionale, quando la maggioranza dei delegati approvarono la svolta della Bolognina, del segretario Achille Occhetto, succeduto tre anni prima ad Alessandro Natta, e contestualmente si costituì il Partito Democratico della Sinistra (PDS), aderente all'Internazionale Socialista. Un'area consistente della minoranza di sinistra preferì rilanciare ideali e programmi comunisti e fondò il Movimento per la Rifondazione Comunista, che poi costituì, con la confluenza di Democrazia Proletaria e di altri gruppi, il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). L'organizzazione giovanile del PCI fu la Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). Con milioni di iscritti nella sua storia, raggiungendo i 2.252.446 nel1947, il PCI fu il più grande partito per numero di membri in tutta la storia della politica dell'Europa occidentale.

La scissione dei comunisti dal Partito Socialista Italiano avvenne sui famosi 21 punti di Mosca, che delimitavano in modo netto la differenza delle posizioni politiche dei rivoluzionari da quelle dei riformisti e che costituivano le condizioni per l'ingresso nell'Internazionale Comunista, che aveva come obiettivo principe l'estensione della rivoluzione proletaria su scala mondiale. Il Congresso socialista aveva appena rifiutato, con solo un quarto di voti contrari, come previsto nelle 21 condizioni per l'adesione all'Internazionale Comunista, di espellere i membri della corrente riformista del Partito. La minoranza, che rappresentava 58.783 iscritti su 216.337, e che abbandonò il teatro Goldoni riunendosi al Teatro San Marco, era costituita dal gruppo "astensionista" che faceva capo ad Amadeo Bordiga, che guidò per primo il nuovo Partito, dal gruppo dell'Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, da parte della corrente massimalista di Anselmo Marabini, Antonio Graziadei e Nicola Bombacci e dalla stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista (FGS). Il nuovo Partito era un partito rigorosamente rivoluzionario e la sua linea politica era fondata sulla esclusione di qualsiasi tipo di accordo con i socialisti, e questo provocò, anche a causa della scissione dell'ala riformista del PSI, avvenuta nel 1922, i primi attriti con l'Internazionale comunista, la quale pose con forza il tema della riunificazione con il PSI di Serrati. Nel 1924 Antonio Gramsci, con l'appoggio dell'Internazionale comunista, divenne segretario nazionale e il passaggio della segreteria da Bordiga a Gramsci fu sancito definitivamente nel 1926 con l'approvazione durante il III Congresso nazionale a Lione delle tesi politiche di Antonio Gramsci con oltre il 90% dei voti. Il PCd'I venne soppresso dal regime fascista il 5 novembre 1926 ma continuò la sua esistenza clandestina, i cui militanti in parte rimasero in Italia, dove fu l'unico partito antifascista ad essere presente seppure a livello embrionale, in parte emigrarono all'estero, soprattutto in Francia e in URSS. Con l'arresto di Gramsci, la guida di fatto passò a Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione Sovietica. Questi rapporti si deteriorarono bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Angelo Tasca, che aveva sostituito Togliatti a Mosca, in favore del leader della destra sovietica Nikolaj Bucharin, che si contrapponeva in quel periodo a Stalin. Dopo che tutta la linea del PCd'I, da Lione in poi, fu messa in discussione, Togliatti espulse Tasca e allineò di nuovo il partito sulle posizioni di Stalin, che erano ritornate a essere piuttosto settarie. Infatti il PCd'I fu costretto ad associare ai socialisti italiani e al giovane movimento di Giustizia e Libertà la teoria del socialfascismo, che poneva le sue basi sull'equiparazione tra fascismo e socialdemocrazia, intesi, entrambi, come metodi utilizzati dalla borghesia per conservare il potere. Con la crescita del pericolo nazista l'Internazionale comunista cambiò strategia e tra il 1934 e il 1935 lanciò la linea di riunire in un fronte popolare tutte le forze che si opponevano all'avanzata dei fascismi. Il PCd'I, che aveva faticato molto per accettare la svolta del 1929, ebbe una sofferenza ancora maggiore per uscire dal settarismo a cui quella svolta sembrava averlo destinato, in quanto, nell'Italia fascista, i militanti si erano trovati da soli a fronteggiare la dittatura. Ma un po' per volta il lavoro di Palmiro Togliatti e di Ruggero Grieco, che divenne la seconda personalità del partito dal 1934 al 1938, quando il segretario Togliatti si trovava nell'Urss, diede i suoi frutti, e, nell'agosto del 1934, fu sottoscritto il "patto d'unità d'azione" tra socialisti e comunisti, che, nonostante i distinguo, segnò la riapertura del dialogo tra i due partiti operai. La linea politica del PCd'I andò di nuovo in crisi con il Patto Ribbentrop-Molotov del 1939 in quanto fu impossibile conciliare l'unità antifascista con l'approvazione del patto fra sovietici e nazisti e il PCd'I fu costretto ad appiattirsi sulle posizioni dell'Internazionale che in quel periodo teorizzava per i comunisti l'equidistanza tra i diversi imperialismi. La situazione si aggravò ulteriormente quando, con l'invasione tedesca, il PCd'I si ritrovò in clandestinità anche a Parigi. Togliatti fu arrestato, ma non essendo stato riconosciuto, se la cavò con pochi mesi di carcere e dopo aver riorganizzato un embrione di centro estero del Partito, andò a Mosca dove l'Internazionale, avendo sciolto definitivamente l'Ufficio politico e il Comitato centrale, gli affidò la direzione solitaria del PCd'I. La situazione all'interno del Partito si tranquillizzò grazie alla Dichiarazione di guerra di Benito Mussolini a Francia e Inghilterra del1940, che fece sì che si ricreassero le condizioni per una nuova unità antifascista, suggellata nel 1941 a Tolosa da un accordo tra PCd'I, PSI e GL. In Italia dal 1941 il Partito, anche grazie all'importante lavoro di Umberto Massola, cominciò a riorganizzare la rete clandestina e a fare sentire la propria voce, anche attraverso la diffusione di un bollettino, il Quaderno del lavoratore, per mezzo del quale venivano diffuse le posizioni ufficiali del PCd'I, dettate direttamente da Togliatti attraverso Radio Mosca. Nello stesso tempo ripresero forza numerosi piccoli gruppi che, spesso con linea politica autonoma, continuavano dall'interno del paese la loro lotta al fascismo.

Il 15 maggio 1943 il partito, in seguito allo scioglimento dell'Internazionale Comunista, assunse la denominazione di Partito Comunista Italiano (PCI). Quando, il 25 luglio del 1943, Mussolini fu costretto a dimettersi, l'iniziativa del Partito aumentò sensibilmente sia per i maggiori margini di manovra che per la conseguente uscita dal carcere e il ritorno dall'esilio di numerosi dirigenti comunisti. Il 30 agosto 1943 dieci membri dei Partito costituirono a Roma una direzione centrale in Italia, senza direttive ufficiali da parte di Togliatti; i dieci erano Mauro Scoccimarro, in questa fase il dirigente più autorevole e prestigioso della direzione, Umberto Massola, entrato clandestinamente in Italia fin dal 1941, Antonio Roasio, Agostino Novella, Celeste Negarville, Giorgio Amendola, Luigi Longo, Giovanni Roveda, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi[13]. Il peso del PCI in Italia era divenuto molto importante e furono soprattutto le decisioni politiche prese dai dirigenti del Partito a Roma che ebbero decisiva influenza sulla crescita della Resistenza.

Pietro Secchia, ex operaio biellese, imprigionato e deportato dal regime fascista dal 1931, liberato da Ventotene il 19 agosto 1943, venne incaricato, durante una riunione tenuta a Roma il 10 settembre 1943, di recarsi a Milano, per organizzare la guerra partigiana. Secchia raggiunse Milano in treno il 14 settembre dopo essere passato per Firenze e Bologna ed aver diffuso le direttive del partito tra i militanti provenienti dall'antifascismo attivo. Tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo, già dirigente delle Brigate Internazionali in Spagna, partì per il nord per affiancare Secchia nella organizzazione e direzione del movimento di resistenza. Fin dal novembre 1943 i comunisti poterono quindi costituire a Milano la prima struttura organizzativa unificata: il comando generale delle Brigate Garibaldi con Luigi Longo come responsabile militare e Pietro Secchia come commissario politico; i componenti iniziali del comando furono, oltre a Longo e Secchia, Antonio Roasio, Francesco Scotti, Umberto Massola, Antonio Cicalini e Antonio Carini. I militanti comunisti costituirono il nerbo dei gruppi clandestini della resistenza italiana, organizzati nelle Brigate Garibaldi (se ne contarono fino a 575 gruppi) sulle montagne e nei GAP e nelle SAP nelle città. Oltre alla lotta armata, il PCI continuò il suo lavoro politico continuando nell'organizzazione degli operai e promuovendo scioperi e agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del Governo Badoglio ai danni della Germania pose il PCI dinnanzi ad un bivio: continuare nella linea, richiesta dalla base, di contrapposizione frontale a Badoglio e alla Monarchia o l'assunzione di responsabilità di governo. Nel marzo del 1944 Togliatti, dopo aver avuto un incontro con Stalin, tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la svolta di Salerno con la quale il PCI, anteponendo la lotta antifascista alla deposizione della Monarchia, sancì il proprio ingresso nel Governo. L'ingresso del PCI nei Governi formati da Badoglio e dal socialista riformista Ivanoe Bonomi andava letto, nell'intenzione di Togliatti, come il tentativo di accreditarsi come forza responsabile e fondatrice della democrazia italiana. La decisione politica di Togliatti di abbandonare, almeno per il momento, la volontà di rimanere estranei ad un arco costituzionale democratico, specialmente se monarchico, ebbe delle conseguenze pesanti anche all'interno del PCI e, più in generale, in senso alla sinistra italiana. Nel dopoguerra, infatti, nel dibattito storico inerente ai rapporti (o addirittura all'eventuale fusione, di cui si ebbe molto a parlare) tra i due massimi partiti di sinistra, vale a dire il PCI ed il PSI, non pochi furono gli esponenti sociali che si opposero fermamente ad ogni alleanza, fusione e comunanza con i comunisti del partito togliattiano, reo di aver tradito, sia pur con il benestare di Stalin, la linea internazionalista che, con gradazioni alterne a seconda del periodo storico, impediva ogni sorta di alleanza con le forze democratiche e liberali degli stati borghesi, non di rado definite - insieme ai socialdemocratici - come forze socialfasciste. La scelta di Togliatti, da un punto di vista meno ideologico e più pratico, è invece considerata come di alto profilo politico. Il segretario, così come i dirigenti sovietici, sapeva infatti che il suo partito, per quanto risultasse, sulla carta, come la realtà politica clandestina meglio organizzata nel Paese, se non si fosse schierato con le forze liberatrici, allineate in un supporto anglo-americano, non avrebbe potuto avere un ruolo determinante nella costruzione del nuovo Paese. Per quanto i sovietici stessero, all'epoca, avanzando nella pianura polacca e fossero in procinto di entrare in Germania, dando una svolta decisiva al fronte orientale, non si poteva ragionevolmente credere che essi sarebbero giunti in Italia prima che le forze alleate l'avessero già liberata. Non allinearsi e non scendere a patti con queste ultime, aspettando l'arrivo dei sovietici, avrebbe comportato l'alienarsi del PCI nella lotta per la liberazione d'Italia. Non solo: nel momento in cui la monarchia, le forze democratiche e persino gli anglo-americani, in un'ottica pre-guerra fredda, avessero iniziato a percepire una certa ostilità da parte dei comunisti italiani, questi si sarebbero certamente ritrovati isolati e senza messi per salvaguardarsi, perdendo la partita. In seno alla svolta di Salerno, era necessario dare un volto nuovo al partito, e per ottenere questo era necessario che il PCI ricostruito su basi diverse e diventasse un partito nuovo, ovvero un moderno partito di massa con profonde radici nei luoghi di lavoro e aderente alla società. Il Partito cominciò pertanto una crescita costante data sia dal punto di vista dell'organizzazione, che si sviluppò ormai capillarmente in tutte le città italiane, che in termini di numero di iscritti, passati dai 500.000 del 1944 al 1.700.000 del 1945, che lo portarono a diventare il più importante e grande partito comunista europeo a ovest della cortina di ferro. Nel corso della guerra ebbero luogo alcune delle pagine più controverse della storia del PCI, come l'eccidio di Porzûs, ai danni di formazioni resistenziali "bianche", commesso da un gruppo di partigiani, in massima parte gappisti (i GAP erano formati dal comando generale delle Brigate Garibaldi). Le formazioni partigiane comuniste furono inoltre coinvolte nelle vendette post-belliche contro fascisti (o presunti tali) in varie zone del nord Italia, quali il cosiddetto triangolo della morte. A seguito della Liberazione, Palmiro Togliatti diede vita ad una politica, che tenne insieme l'esigenza di consolidamento della democrazia italiana e il sentimento rivoluzionario e il mito dell'URSS della base del partito, concretizzato nell'adesione, fino al suo scioglimento, al Cominform, l'organizzazione dei partiti comunisti filosovietici. Tuttavia nonostante nel maggio 1947Alcide De Gasperi avesse formato un governo senza il PCI e il PSI, il contributo costruttivo dei comunisti nell'Assemblea costituente non mutò al punto che il 1º gennaio 1948 entrò in vigore, dopo essere stata approvata da tutti i maggiori partiti, la Costituzione italiana.

Secondo alcune fonti e atti ufficiali, il partito avrebbe mantenuto un'organizzazione paramilitare segreta, denominata giornalisticamente, da alcune testate, Gladio Rossa (locuzione in contrapposizione alla coeva e acclarata Organizzazione Gladio nata in chiave anticomunista); lo storico Gianni Donno sostiene che «fino alle elezioni del 18 aprile 1948 un'insurrezione comunista in Italia era possibilità reale, e sarebbe stata sorretta da un apparato militare, incardinato nella struttura organizzativa del PCI»; quest'organizzazione avrebbe seguito la storia del partito estrinsecandosi in due fasi distinte: dal 1948 al 1954 in cui vennero poste le basi dell'organizzazione raccogliendo materiali bellici e creando una rete di contatti e logistica in preparazione di una possibile insurrezione armata; alla seconda fase dal 1955 al suo scioglimento nel 1974 nella quale l'organizzazione avrebbe dovuto costituire un supporto attivo ad una eventuale invasione dell'Italia da parte del Patto di Varsavia. Insieme a questa organizzazione il partito ne mantenne un'altra, destinata alla protezione ed alla fuga dei dirigenti nel caso che il partito stesso venisse dichiarato illegale in Italia. In un rapporto del SIFAR, l'apparato paramilitare del PCI viene descritto come diviso in due gruppi: uno operativo in tempo di pace, con il compito di «sostenere le agitazioni e mantenere l'economia nazionale sotto pressione, affinché la gente appoggi un cambiamento politico attraverso le riforme sociali di cui il Pci si fa promotore»; l'altro, pronto a intervenire in caso di guerra con opere di sabotaggio. Il S.O.I., Servizio Ordine Informazioni Ordine, era la struttura informativa che si affiancava alla struttura paramilitare, e svolgeva attività spionistica nei settori militare, industriale e politico; questa struttura operava in stretto collegamento col Kgb e con il Gru (il servizio informazioni militare sovietico) e aveva tra i suoi compiti anche la "disinformazione", quindi la costruzione di informazioni false o dossier atti a creare scandali nei momenti opportuni[24]. Riguardo alla Gladio Rossa, anche Giovanni Fasanella, giornalista, dichiara: «Del resto, sul versante opposto, un doppio livello si era formato sin dal dopoguerra anche all'ombra del Pci, con la cosiddetta Gladio rossa, una struttura paramilitare clandestina composta da ex partigiani, spesso non del tutto controllata dallo stesso gruppo dirigente del partito e ancora legata al mito della rivoluzione proletaria.» In merito il senatore Giovanni Pellegrino nelle vesti di presidente della commissione parlamentare sulle stragi dichiarò proprio a Fasanella che "[nel dopoguerra] ... mentre gli ex partigiani bianchi tendevano progressivamente a istituzionalizzarsi finendo per confluire nelle strutture di Stay-behind, gli ex partigiani rossi tendevano a riorganizzarsi in una struttura interna del Pci, la cosiddetta Gladio rossa, in cui continuava ad agire una sorta di inerzia rivoluzionaria.[26]" Anche per Pellegrino la struttura si evolse col tempo in chiave di protezione nei confronti dei dirigenti in caso di golpe o che il PCI fosse dichiarato fuori legge. A credito dei dirigenti del PCI dell'epoca Pellegrino ascrive anche il merito "di essere riusciti in qualche modo a imbrigliare all'interno di organizzazioni forze altrimenti centrifughe.". Nel novembre del 1947, dopo la notizia che il prefetto di Milano Ettore Troilo, esponente della Resistenza, era stato destituito dal ministro degli Interni Mario Scelba, Giancarlo Pajetta, capo del partito in Lombardia, prese l'iniziativa di mobilitare le formazioni armate di ex partigiani che bloccarono corso Monforte sede della Prefettura. Si vissero momenti di grande tensione, Pajetta entrò in prefettura, il sindaco socialista Greppi ed altri sindaci di dimisero per protesta contro la rimozione di Troilo e venne organizzato un Comitato di agitazione. Ben presto il governo riprese in mano la situazione; senza azioni violente e dopo trattative condotte da Marrazza, i militanti comunisti evacuarono la prefettura e accettarono la nomina di un nuovo prefetto di Milano. Togliatti ebbe parole di sarcastica critica per l'avventatezza di Pajetta e colse l'occasione per bloccare l'estremismo di una parte del partito. Il 14 luglio 1948 Palmiro Togliatti fu gravemente ferito alla nuca e alla schiena, all'uscita dalla Camera dei Deputati a Roma, da Antonio Pallante, un estremista anticomunista. Le condizioni di Togliatti apparvero subito molto gravi e, nonostante i suoi inviti a mantenere la calma, si diffuse subito grande agitazione tra i militanti comunisti. Il capo del partito venne sottoposto ad un difficile intervento chirurgico che si concluse con successo nel pomeriggio ma nel frattempo in molte regioni d'Italia si era instaurata una situazione pre-insurrezionale. Senza attendere le indicazioni del partito, i militanti comunisti e la base operaia diedero inizio ad un impressionante sciopero generale con occupazione della fabbriche; ricomparvero formazioni di ex partigiani armati nel Biellese, in Valsesia, a Casale Monferrato. I militanti comunisti assaltarono la FIAT e alcuni dirigenti tra cui lo stesso Vittorio Valletta, vennero presi in ostaggio, comparvero le armi all'interno della fabbrica. Ufficialmente il partito non aveva ancora dato alcuna direttiva insurrezionale ma corsero voci che Cino Moscatelli e Pietro Secchia fossero favorevoli ad un'azione rivoluzionaria. A Torino e Milano, in parte presidiate dai militanti comunisti, si svolsero grandi manifestazioni di piazza in cui si parlò di "armi pronte". Scontri armati nel capoluogo lombardo tra comunisti e polizia terminarono con numerosi feriti e l'occupazione di altre fabbriche. A Genova il movimento insurrezionale fu ancora più esteso; si verificarono scontri tra militati e forze dell'ordine con feriti, alcuni carabinieri e poliziotti furono presi prigionieri; nella notte si eressero le barricate; il prefetto decretò lo stato d'assedio. Gli episodi più gravi si verificarono sul Monte Amiata, dove i minatori si asserragliarono sulla vetta, ed a Abbadia San Salvatore dove militanti comunisti, presero la centrale telefonica, assaltarono la sede della Democrazia Cristiana e respinsero il primo attacco della polizia uccidendo due agenti. A Siena, Piombino, Taranto, Ferrara, Modena, Cagliari, La Spezia si verificarono altri scontri, a Venezia vennero occupate le fabbriche, la RAI e i ponti sulla laguna; a Livorno ci furono combattimenti durante i quali un poliziotto fu ucciso e altri quattro feriti, a Bologna gli ex partigiani bloccarono la via Emilia. Roma fu invasa dagli operai e dai militanti della periferia; davanti a Montecitorio furono lanciati sassi contro gli agenti di guardia, durante un grande comizio a Piazza Esedra con la presenza di Luigi Longo e Edoardo D'Onofrio, i manifestanti espressero propositi rivoluzionari nonostante la prudenza ufficiale dei dirigenti. Tra i dirigenti del partito l'attentato a Togliatti provocò grande emozione; dopo le prime notizie confuse, arrivarono le informazioni sullo sciopero e sulle azioni pre-insurrezionali spontanee dei militanti; i capi comunisti nelle loro memorie hanno riferito di una scelta unitaria di controllare il movimento ed evitare di uscire "in modo irreparabile dalla legalità". All'epoca si diffuse la voce che Secchia e Longo avessero avuto contatti segreti con i sovietici durante i quali questi ultimi avrebbero escluso la possibilità di fornire aiuto in caso di insurrezione. In realtà in un primo tempo i dirigenti comunisti preferirono attendere gli eventi senza sostenere esplicitamente l'insurrezione ma polemizzando aspramente contro il governo e il ministro Scelba, la stampa comunista tuttavia non diramò alcuna parola d'ordine rivoluzionaria. Una analisi realistica della situazione rendeva del resto impossibile un'alternativa rivoluzionaria: l'Unione Sovietica era contraria ad avventure insurrezionali, le forze dell'ordine, supportate eventualmente dall'esercito, disponevano di una schiacciante superiorità militare, era prevedibile un intervento diretto americano. Inoltre i comunisti erano forti solo in alcune aree del paese e soprattutto nelle fabbriche e nelle grandi città del nord, ma le campagne e il sud non avevano affatto partecipato al moto insurrezionale. La mattina del 16 luglio i dirigenti comunisti presero la decisione di bloccare l'evoluzione rivoluzionaria e arrestare lo sciopero; il ministro Scelba mostrò grande decisione e le forze dell'ordine intervennero a Livorno, Bologna, Napoli, Castellamare; ci furono scontri a fuoco e morti tra i manifestanti. Le occupazioni delle fabbriche furono progressivamente interrotte e Vittorio Valletta venne liberato. Il 17 luglio il Comitato Centrale del partito approvò ufficialmente la cessazione dello sciopero. Nelle loro memorie i capi comunisti in maggioranza hanno escluso che l'insurrezione potesse avere successo, solo Giancarlo Pajetta ha affermato che al nord l'insurrezione sarebbe stata possibile, Pietro Secchia ha scritto che solo a Torino, Genova e Venezia i militanti comunisti avevano il pieno controllo della situazione, mentre Giorgio Amendola ritiene che l'insurrezione non avrebbe avuto alcuna possibilità di vittoria neppure al nord[32]. Due giorni prima il Senato aveva respinto una mozione di sfiducia presentata da Umberto Terracini al governo De Gasperi con l'accusa di essere moralmente e politicamente responsabile dell'attentato a Togliatti. Gli anni successivi furono caratterizzati da una forte opposizione (che non mancò di veri e propri ostruzionismi)alle politiche del governo De Gasperi, in particolare sull'adesione dell'Italia al Patto Atlantico e sulla legge elettorale truffa. I parlamentari comunisti s'impegnarono anche a presentare proposte di legge in favore dei lavoratori, come quella per la tutela delle lavoratrici madri che ebbe come prima firmataria la deputata Teresa Noce.

Il PCI si consolidò, dopo la scissione socialista del 1947, come la seconda forza della democrazia italiana dopo la Democrazia Cristiana. Da allora e per circa 30 anni il PCI, pur rimanendo sempre all'opposizione, conseguì una crescita elettorale costante che si interruppe solo verso la fine degli anni settanta al termine della stagione della solidarietà nazionale. Negli anni successivi, pur continuando ad appoggiare l'URSS anche nella drammatica crisi d'Ungheria durante la rivoluzione ungherese del 1956, il PCI di Togliatti diede inizio ad una nuova politica di partito nazionale imboccando la via italiana al socialismo, dopo che personaggi significativi, in maggioranza intellettuali, avevano abbandonato il partito protestando contro l'adesione del PCI alla repressione sovietica o avevano espresso dissenso nel cosiddetto Manifesto dei 101. Tra coloro che, in quella situazione, manifestarono una posizione di dissenso, pur senza abbandonare il partito, va ricordato il leader della CGIL Giuseppe Di Vittorio, mentre vari intellettuali tra cui lo storico Renzo De Felice ne uscirono per protesta e in aperto dissenso; soltanto una ventina, tra i firmatari del Manifesto, ritireranno a posteriori la loro adesione mentre altri come Lucio Colletti ne usciranno comunque in seguito. Il manifesto, che doveva inizialmente essere solo una forma di dissenso interno secondo parte dei suoi partecipanti ed essere pubblicato sull'Unità, venne invece integralmente diffuso dall'ANSA quasi immediatamente e provocò fortissimi dissensi tra la base, che si arroccò attorno al suo gruppo dirigente, e una gran parte degli intellettuali, che finirono per uscire dal partito. La principale conseguenza politica degli avvenimenti del 1956 fu il definitivo tramonto del Patto d'unità d'azione tra il PCI e il PSI. Il PSI di Pietro Nenni, che negli anni precedenti aveva pur accettato forme di subordinazione all'Unione Sovietica di Stalin, ripensò, prendendone completamente le distanze, la sua posizione riguardo a quello che i comunisti consideravano il più importante Stato socialista, ma che per i socialisti autonomisti non aveva mai rappresentato una società socialista. Nel cambiamento della linea del PSI ebbe un grande peso la riemersione delle tendenze autonomiste interne, sempre presenti anche nel periodo "frontista", che guardavano con sospetto ai comunisti e ai regimi dittatoriali formatisi nell'Europa dell'Est. Ciò consentì la nascita del centro-sinistra, basato sull'alleanza tra Partito Socialista Italiano e DC. Nel 1960 il PCI partecipò attivamente all'organizzazione delle proteste contro il congresso missino di Genova, giudicato come una provocazione per il fatto di svolgersi in una città medaglia d'oro della guerra di Liberazione. Le proteste si indirizzano contro il governo Tambroni, appoggiato esternamente dallo stesso MSI, tale appoggio provocò anche una frattura interna alla DC. Il governo, di converso, accusò il PCI dell'esistenza di un attivo coinvolgimento sovietico nell'organizzazione degli scioperi, tale ipotesi venne ritenuta non attendibile dalla stessa CIA in un documento dell'8 luglio 1960. Gli eventi legati alle proteste allontanarono ulteriormente Nenni che scrisse nel suo diario, il 3 luglio 1960, che i fatti di Genova vennero usati dai comunisti "in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria di piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919".

Con la fine del centrismo e con l'inizio dei governi di centro-sinistra il PCI di Togliatti non mutò la sua posizione di opposizione al governo. Il 21 agosto del 1964 morì a Jalta Palmiro Togliatti. I suoi funerali, che videro la partecipazione di oltre un milione di persone, costituirono il più imponente momento di partecipazione popolare che la giovane Repubblica Italiana aveva conosciuto fino a quel momento. L'ultimo documento di Togliatti, che ne costituiva il testamento politico e che fu ricordato come il memoriale di Jalta, ribadiva l'originalità e la diversità di vie che avrebbero consentito la costruzione di società socialiste, "unità nella diversità" del movimento comunista internazionale. Il PCI lasciato da Togliatti era un Partito che, pur continuando a rimanere ancorato al "centralismo democratico", cominciava a sentire l'esigenza di rendere visibili quelle che, al suo interno, erano le diverse sensibilità e opzioni politiche. Il primo Congresso dopo la morte di Togliatti, l'XI svoltosi nel gennaio del 1966, fu il teatro del primo scontro svoltosi "alla luce del sole" dalla nascita del Partito nuovo. Le due linee politiche che si fronteggiarono furono quella di "destra" di Giorgio Amendola e quella di "sinistra" di Pietro Ingrao. Sebbene la posizione della sinistra di Ingrao si rivelò in minoranza, in particolare sul tema della "pubblicità del dissenso" (che, si riteneva, avrebbe aperto le porte alla divisione del partito in correnti organizzate), molte delle sue istanze (messa all'ordine del giorno del tema del "modello di sviluppo", necessità di una programmazione economica globale che si contrapponesse alla inefficace programmazione del governo, attenzione al dissenso cattolico e ai movimenti giovanili) furono accolte nelle Tesi congressuali. Il lavoro di sintesi, rivolto al "rinnovamento nella continuità", tra le diverse anime del Partito suggellò la leadership di Luigi Longo, eletto Segretario generale dopo la morte di Togliatti e degno continuatore delle politiche del defunto leader. Nel ruolo di successore di Togliatti i due candidati più forti erano proprio Amendola e Ingrao, ma Longo, per le garanzie di unità e continuità che dava la sua figura, che aveva ricoperto con Togliatti la carica di vicesegretario e aveva sempre con lealtà ed efficacia coadiuvato il Segretario, costituiva la soluzione migliore per la segreteria del Partito. Longo continuò nella definizione di una politica nazionale del PCI e infatti a differenza del 1956, nel 1968 il partito si schierò contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Nel 1972 divenne segretario Enrico Berlinguer, che, sulla suggestione della crisi cilena, propose un compromesso storico tra comunisti e cattolici democratici, che avrebbe dovuto spostare a sinistra l'asse governativo, trovando qualche sponda nella corrente democristiana guidata da Aldo Moro. I rapporti con l'Unione Sovietica si allentarono ulteriormente quando, a opera dello stesso Berlinguer, iniziò la linea euro-comunista, basata su un'alleanza tra i principali partiti comunisti dell'Europa occidentale, il PCI, il PCF - Partito Comunista Francese, guidato da Georges Marchais ed il PCE - Partito Comunista spagnolo, guidato da Santiago Carrillo, che cercò una qualche indipendenza dai sovietici. Questi ultimi, in realtà, mal digerirono la corrente di pensiero berlingueriana che, seguendo la tradizione della via italiana al socialismo già consolidata anni prima da Togliatti, affermava la costruzione di un comunismo non pienamente allineato con quello sovietico, gettando le basi - anche in senno alla nascitura Comunità europea - di un comunismo proprio dei paesi occidentali, non aderenti al Patto di Varsavia. La linea sovietica, infatti, era volta all'affermazione di una sola linea di principio: il comunismo russo come unico e solo punto di riferimento. Il che, nelle varie fasi storiche della Guerra fredda, si tradusse in un continuo e costante contrasto con tutti quei paesi, europei e non, che non ne adottavano pienamente la linea (Cina, Albania, Jugoslavia ed infine anche Italia). Nel momento in cui Enrico Berlinguer ebbe a promuovere una linea di pensiero dottrinale distante da quella di Mosca, le conseguenze non si fecero attendere: oltre a richiami e moniti, ci fu una sostanziosa riduzione dei finanziamenti sovietici alle casse del PCI. L'Eurocomunismo attivo però durò poco a causa del riallineamento del Partito Comunista Francese alla tradizionale dipendenza dalla linea del PCUS, il calo del peso elettorale dei comunisti spagnoli e l'acuirsi delle differenze interne nello stesso PCI. Nonostante le critiche rivolte al PCUS, Berlinguer continuava ad elogiare il regime sovietico, sostenendo nel 1975 che lì esisteva «un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e di valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e di disgregazione», contrapponendo il «forte sviluppo produttivo» dell'URSS alla «crisi del sistema imperialistico e capitalistico mondiale». Ancora nel 1977 Berlinguer parlava di «grandi conquiste» realizzate dai paesi comunisti, ammettendo però l'esistenza di «lati negativi» che «consistono essenzialmente nei loro tratti autoritari o negli ordinamenti limitativi di certe libertà»; aggiungeva tuttavia che «quei paesi rappresentano una grande realtà sociale, una grande realtà nella vita del mondo di oggi». Nel novembre di quell'anno Berlinguer pronunciò a Mosca, dove si era recato per le celebrazioni comuniste dei sessant'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre dei bolscevichi, un discorso che spinse alcuni, come Ugo La Malfa e Eugenio Scalfari, a ritenere ormai prossima la rottura del PCI con l'Unione Sovietica; altri però, in particolare gli intellettuali della rivista socialista Mondoperaio, non vedevano nessuna rottura, se non una generica presa di distanza dallo stalinismo che non conduceva però ad un effettivo ripudio dell'ideologia marxista-leninista, né all'ammissione di come la repressione del dissenso in URSS fosse una diretta conseguenza di quell'ideologia. In occasione della Biennale di Venezia, tra la fine del 1977 e il 1978, quando il suo Presidente, l'allora socialista Carlo Ripa di Meana, intese dar voce al dissenso degli intellettuali perseguitati dall'Unione Sovietica, il PCI reagì duramente all'iniziativa parlando di provocazione, e sollecitando il governo italiano a ritardare il finanziamento della Biennale; diversi artisti e intellettuali vicini al partito comunista, come Vittorio Gregotti e Luca Ronconi, si dimisero in segno di protesta dal Comitato della rassegna. Il tema dei rapporti del PCI con l'URSS sarà al centro di aspri dibattiti e scontri politici, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80, tra Berlinguer e l'emergente leader socialista Bettino Craxi, che rimproverava ai comunisti italiani di mantenere intatti i legami col regime sovietico e di non sposare fino in fondo i valori della socialdemocrazia europea. L'ambiguità dei rapporti del PCI con l'URSS si protrasse per tutti gli anni Ottanta. Se nel 1981, in seguito al golpe polacco di Jaruzelski che si ribellò a Mosca, Berlinguer giunse a dichiarare conclusa la spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre, il PCI tuttavia si oppose duramente all'installazione di una base euromissilistica in Italia come risposta ai missili di nuova generazione puntati dall'URSS contro l'Italia e l'Europa occidentale. Ancora nel 1984, in risposta al documento dell'allora cardinale Ratzinger che condannava le teologie della liberazione, sia per l'ideologia materialista di stampo marxista ad esse sottesa, ritenuta inconciliabile col cristianesimo, sia per il loro carattere totalizzante derivante da quella stessa ideologia, il mensile Rinascita, da sempre strumento di elaborazione e diffusione della politica culturale del PCI, attaccò duramente le posizioni espresse da Ratzinger, sostenendo che i suoi giudizi sul socialismo in generale e sulle sue applicazioni concrete in Unione Sovietica sarebbero stati "schematici", "grossolani", e privi di "considerazione storica". Solidarizzò col futuro pontefice un ex-membro del PCI, Lucio Colletti, fuoriuscito dal partito in seguito ad una profonda revisione delle proprie convinzioni ideologiche: «Il giudizio del Pci sull'Unione Sovietica è il frutto, tuttora, di un avvilente compromesso intellettuale e morale. Decine di milioni di vittime sotto Stalin; il totalitarismo; il Gulag; un sistema che tuttora procede utilizzando il lavoro forzato dei lager; la mortificazione politica dei cittadini; la giustizia asservita al partito unico: tutti questi non sono ancora argomenti sufficienti perché il Pci possa trovarsi d'accordo con l'elementare verità espressa nel documento di Ratzinger: cioè, che in quei paesi, "milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertà fondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari"; che questa è una vergogna del nostro tempo; "che si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell'uomo"; e che a questa vergogna si è giunti, "con la pretesa di portare loro la libertà"». Il KGB sovietico fu spesso tramite di trasferimenti illegali di valuta e finanziamento illecito al PCI durante gli anni sessanta e settanta come sostenuto a seguito della diffusione di vari rapporti detti Impedian, contenuti nel dossier Mitrokhin, secondo il rapporto n. 100 del dossier solo nel 1971 un agente italiano al servizio del KGB,Anelito Barontini (nome in codice "Klaudio") consegnò cifre in contanti per complessivi due milioni seicentomila dollari. Nel rapporto n. 122 del 6 ottobre 1995 segue un elenco dettagliato delle cifre, dal 1970 al 1977, con elencati i nomi dei vari dirigenti coinvolti, tra cui Armando Cossutta. I rapporti tra PCI e KGB non si limitarono al solo inoltro dei finanziamenti, ma anche nell'utilizzo delle competenze del servizio segreto sovietico per rilevare eventuali apparati di ascolto posti nella sede del Comitato Centrale italiano (rapporto n. 131), e nell'addestramento alla cifratura e alle comunicazioni radio di personale del Partito, come ad esempio dell'agente Andrea, noto come Kekkini (traslitterazione del nome Cecchini), membro del Comitato centrale del PCI, inviato con passaporto straniero falso a nome di Ettore Morandi via Australia a Mosca dal giugno all'agosto 1972, anche per prendere accordi sull'instaurazione di una rete di comunicazione bidirezionale, fabbricazione di documenti falsi e altre attività illegali (rapporto n. 197). Nella seconda metà degli anni settanta si acuirono le tensioni sociali e politiche. La crisi economica-energetica, la disoccupazione, gli scioperi, il terrorismo conversero verso quello che molti hanno definito l'annus horribilis delle rivolte: il1977: echi sessantottini vibravano di nuovo fra gli studenti, riverberi della lotta di classe animavano il "confronto", cioè il conflitto, fra i sindacati e le imprese, e molti da molte classi sociali si rivoltavano in armi contro avversari politici e istituzioni. Anche il PCI contestò sempre più fortemente la pregiudiziale che impediva al suo partito di accostarsi alla gestione del Paese. L'iniziativa fu lasciata a Giorgio Amendola, rappresentante prestigioso (anche per tradizione familiare) dell'ala moderata del partito e uomo capace di dialogare con i non comunisti, che proclamò che l'ora era suonata per "far parte a pieno titolo del governo". Nel febbraio del 1977 fu Ugo La Malfa a dichiarare per primo, pubblicamente, la necessità di un governo di emergenza comprendente i comunisti, ma la proposta fallì per il dissenso democristiano e socialdemocratico. Il 1978 fu per il PCI l'anno del destino. Iniziò presto, con un incontro subito dopo Capodanno, fra Berlinguer e Bettino Craxi, al termine del quale fu prodotta una nota indicativa di ufficiale "identità di vedute", espressione tradotta dagli analisti come una sorta di "via libera" (o di "non nocet") del PSI alle manovre del segretario comunista. Delle quali, già cominciate da molti mesi, si poteva ora parlare anche pubblicamente. Dopo una paziente opera di ricerca di possibili strategie di accesso pur parziale al governo, Berlinguer pareva aver individuato in Aldo Moro l'interlocutore più adatto alla costruzione di un progetto concreto. Aldo Moro era il presidente della DC, e condivideva con il segretario del PCI Enrico Berlinguer alcune caratteristiche personali che sembravano predisporre al dialogo: erano entrambi sottili intellettuali, lungimiranti politici e abili nonché pazienti strateghi. Fu Moro a parlare per primo di possibili "convergenze parallele", sebbene non propriamente in relazione ai desiderata del politico sardo, ma fu lo stesso Moro a mobilitare l'apparato democristiano per verificare la possibilità di convertire ad utile accordo la sterile distanza che sino ad allora aveva diviso DC e PCI. Dai clandestini iniziali contatti, sinché possibile per interposta persona, si passò in seguito ad una minima frequentazione diretta nella quale andava assumendo forma e contenuti il progetto del compromesso storico. Moro individuava nell'alleanza col PCI lo strumento che avrebbe consentito di superare il momento di gravissima crisi istituzionale e di credibilità dello stesso apparato democratico repubblicano (screditato anche dalle campagne comuniste sulla questione morale), coinvolgendo l'opposizione nel governo e dunque assicurando il minimo necessario di consenso perché il Paese potesse sopravvivere a sé stesso in simili ambasce. Nella DC, Berlinguer vedeva invece primariamente (ma non solo semplicemente) quel possibile cavallo di Troia grazie al quale avrebbe potuto portare finalmente il suo partito alla responsabilità di governo. Entrambi, è stato sostenuto, potevano aver condiviso il timore che la crisi in cui versava il Paese potesse dar adito a soluzioni di tipo cileno, come già anni prima paventato dallo stesso Berlinguer. Il compromesso storico, in quest'ottica, poteva porre il paese al riparo da eventuali azioni dell'uno e dell'altro fronte. Ad ogni buon conto, Berlinguer fu intanto ammesso, primo comunista italiano, a lavori para-governativi, come le riunioni dei segretari dei partiti della maggioranza, in qualità di esterno interessato. Mentre Moro veniva definitivamente prosciolto dagli addebiti giudiziari in relazione allo scandalo Lockheed, che lo aveva infastidito sin da quando aveva cominciato a guardare ad una possibile intesa coi comunisti[senza fonte], si preparava nel marzo del 1978 una riedizione del governo Andreotti, cui il PCI avrebbe dovuto smettere di fornire appoggio esterno (nel precedente governo detto delle "non sfiducia", dal 1976, aveva garantito l'astensione, per la prima volta rinunciando al voto d'opposizione), offrendo il voto favorevole ad un monocolore DC, in attesa di una fase successiva nella quale ammetterlo definitivamente e a pieno titolo nella compagine governativa. Nasceva, questo governo, con alcuni membri assolutamente sgraditi al PCI, come Antonio Bisaglia, Gaetano Stammati e Carlo Donat-Cattin, la cui inclusione nella compagine ministeriale era stata operata da Andreotti, nonostante le richieste di esclusione da parte del PCI; secondo una versione accreditata molti anni dopo, insieme con Alessandro Natta, capogruppo alla Camera, Berlinguer dovette sveltamente decidere se proporre alla Direzione del partito già convocata per il pomeriggio dello stesso giorno di ritirare l'appoggio al governo. Ma la stessa mattina del 16 marzo, giorno previsto per la presentazione parlamentare del governo tanto faticosamente messo insieme, Moro fu rapito (e sarebbe poi stato ucciso) dalle Brigate Rosse. Berlinguer intuì immediatamente la "calcolata determinazione" di un attacco che pareva studiato per mandare a monte tutto il lavoro occorso per raggiungere la solidarietà nazionale e propose di concedere a questo pur non accetto governo la fiducia nel più breve tempo possibile, per potergli assicurare pienezza di funzioni in un momento cruciale della democrazia italiana. La fiducia fu dunque votata dal PCI insieme a DC, PSI, PSDI e PRI, ma non senza che Berlinguer precisasse che l'espediente di Andreotti, che suonava di repentina modifica unilaterale di accordi lungamente elaborati, costituisse "invece un Governo che, per il modo in cui è stato composto, ha suscitato e suscita, com'è noto (ma io non voglio insistere in questo particolare momento su questo punto), una nostra severa critica e seri interrogativi e riserve".

Se Moro non fosse stato rapito, il PCI avrebbe dato battaglia ad Andreotti, ma "sia pure faticosamente e in modo non pienamente adeguato alla situazione", gli fu risparmiato. Durante il sequestro Moro, il PCI fu tra i più decisi sostenitori del cosiddetto "fronte della fermezza", del tutto contrario a qualsiasi tipo di trattativa con i terroristi, i quali avevano chiesto la liberazione di alcuni detenuti in cambio di quella dello statista democristiano. In questa occasione si acuì la contrapposizione tra il PCI ed il PSI guidato da Bettino Craxi, che tentò di sostenere politicamente gli sforzi di coloro che tentavano di salvare la vita di Moro (la sua famiglia, alcuni esponenti della DC non direttamente impegnati nel governo, il papa Paolo VI), sia per un intento "umanitario" e di ripulsa verso una concezione eccessivamente "statalista" dell'azione politica, tipica del cosiddetto "umanesimo socialista", sia per marcare la distanza dei socialisti dai due maggiori partiti e dalla dottrina del "compromesso storico" che rischiava di confinare definitivamente il PSI in un ruolo marginale nel panorama politico italiano. Dopo il tragico epilogo della vicenda di Moro, l'unico effetto di rilievo sulla DC parvero le dimissioni di Francesco Cossiga, che era ministro dell'interno. Il PCI restava fuori della compagine di governo, Berlinguer non partecipava più alle riunioni insieme ai segretari dell'arco costituzionale (anche se a livello parlamentare i contatti continuavano ad essere tenuti dal capogruppo Ugo Pecchioli), il governo Andreotti restava dov'era, sempre con Bisaglia e Stammati a bordo. Fu nel giugno del 1978, un mese dopo la morte di Moro, che esplose con inaudita virulenza il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, che grazie ad una campagna cui il PCI aveva già dato un contributo fondamentale (e che a questo punto omise di ritirare), fu costretto alle dimissioni. Oltre al rancore verso Andreotti, cui si doveva un governo diverso da quello concordato (e che avrebbe dovuto presentare dimissioni almeno di cortesia, in caso di elezione di un nuovo capo dello Stato), si è supposto che la campagna scandalistica sia stata ulteriormente indurita da Berlinguer per poter far salire al Quirinale qualcuno meno avvinto dalla pregiudiziale anticomunista di quanto non fossero stati i presidenti precedenti. L'elezione di Sandro Pertini, oltre che gradita al PCI, piaceva a molti settori della politica. Da parte dei socialisti, nel cui partito militava, vi era ovviamente la soddisfazione per la nomina di una figura amica, che avrebbe potuto accrescere la capacità di influenza del partito craxiano. Da parte democristiana (dalla quale si era barattata la candidatura con la persistenza al governo), Pertini era ritenuto poco pericoloso, almeno fintantoché fossero proseguiti i buoni rapporti con il partito del Garofano. E anche i repubblicani guardavano a possibili riprese di prestigio (e di influenza politica) con un nuovo scenario che premiava con la carica uno degli storici partiti laici italiani. L'entusiasmo di Berlinguer fu però di breve durata, poiché non solo Andreotti non si dimise, ma addirittura - dopo la caduta determinata dall'opposizione comunista all'ingresso nel primo sistema monetario europeo - successe a sé stesso, con l'Andreotti-quinquies, sul principio dell'anno successivo, per governare le inevitabili elezioni anticipate. Il PCI fu quindi escluso dalle relazioni fra i partiti della maggioranza, e si apprestò a tornare al suo ruolo di opposizione. Il PCI si ritrovò di nuovo all'opposizione: nel decennio successivo si ritrovò completamente isolato in quanto il PSI di Bettino Craxi dopo avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la DC che con il PCI, formulò stabilmente, a livello nazionale, un'alleanza di governo con la DC e con gli altri partiti laici, PSDI, PLI e PRI, denominata pentapartito, facendo pesare sempre di più, nelle richieste di posti di potere, il suo ruolo di partito di confine.

Berlinguer, per uscire dall'isolamento, provò a ricostruire delle alleanze nella base del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento sociale del PCI: la classe operaia. In quest'ottica vanno lette le battaglie contro l'installazione degli Euromissili, per la pace e, soprattutto, nella vertenza degli operai della FIAT del 1980. Il PCI in quella lotta arrivò addirittura a scavalcare il ruolo della CGIL e la sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum sulla scala mobile segnarono in maniera indelebile il Partito. In particolare il referendum del 1985, che era stato fortemente voluto da Berlinguer, per abrogare il cosiddetto decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 del Governo Craxi, con il quale era stato recepito in una norma legislativa valida erga omnes l'accordo delle associazioni imprenditoriali con i soli sindacati Cisl e Uil, con l'opposizione della CGIL, che tagliava 4 punti percentuali dell'indennità di contingenza, segnò il punto massimo dello scontro tra Berlinguer e Craxi. L'opposizione comunista al primo governo a guida socialista della storia della Repubblica toccò punte di parossismo e Craxi venne indicato come un nemico della classe operaia; molti iscritti e sindacalisti socialisti della CGIL furono indotti dal clima di ostracismo determinatosi nei loro confronti ad aderire alla UIL, guidata da Giorgio Benvenuto che divenne di fatto il "sindacato socialista", pur se molti rimasero nella CGIL, grazie anche all'impegno del suo Segretario generale Luciano Lama, che non aveva condiviso fino in fondo la scelta di Berlinguer di raccogliere le firme per l'indizione del referendum. L'11 giugno 1984 il segretario del PCI morì a Padova a causa di un ictus che l'aveva colpito il 7 giugno sul palco mentre stava pronunciando un discorso, trasmesso in diretta televisiva, in vista delle elezioni europee del successivo 17 giugno. La morte di Berlinguer destò un'enorme impressione in tutto il Paese, anche per la casuale presenza a Padova del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che accorse al capezzale del segretario comunista e decise di riportarne la salma a Roma con l'aereo presidenziale. I funerali videro una grandissima partecipazione di popolo, non solo delle migliaia di militanti del PCI provenienti da tutt'Italia, ma di moltissimi cittadini romani, e l'omaggio alla salma di delegazioni di tutti i partiti italiani, compresa quella del MSI, e dei partiti socialisti e comunisti di tutto il mondo. Alle elezioni europee il PCI raggiunse il suo massimo risultato (33,3% dei voti), sorpassando, sia pur di poco e per la prima e ultima volta, la Democrazia Cristiana (33,0% dei voti), per cui i commentatori parlarono di un "effetto Berlinguer". Nell'aprile del 1986 fu tenuto, anticipatamente a causa della disfatta dell'anno precedente nelle elezioni regionali, il XVII Congresso nazionale del PCI. Come risposta alla crisi il gruppo dirigente del Partito tentò, grazie alla decisiva spinta dell'area "migliorista" di Giorgio Napolitano, un riposizionamento internazionale del PCI proponendo il totale distacco dal movimento comunista per entrare a far parte, a tutti gli effetti, del Partito Socialista Europeo. A questa linea si oppose duramente un piccolo gruppo organizzato da Cossutta che, in minoranza all'interno del Partito, aveva dato vita ad una vera e propria corrente stabile sin da quando, in occasione del golpe polacco di Jaruzelski, Berlinguer aveva proclamato esaurita la "spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre". Nel maggio 1988 Natta è colto da un leggero infarto[46]. Non è grave, ma gli vien fatto capire dagli alti dirigenti che non è più gradito come segretario. Natta si dimette e al suo posto viene messo il vice Achille Occhetto. Alessandro Natta viene dimesso dal PCI mentre è ancora convalescente in ospedale nonostante gli fosse stato garantito da Pajetta che avrebbero spostato la direzione del partito ad ottobre. Natta apprende, infatti, la notizia delle sue "dimissioni" dalla radio mentre è ancora in ospedale come dichiarerà la moglie Adele Morelli un mese dopo la scomparsa del marito. Nel marzo 1989 Occhetto lancia il "nuovo PCI" come uscirà dai lavori del XVIII Congresso nazionale, il primo a tesi contrapposte nella storia del partito (sebbene non fu garantita una piena ed effettiva parità di condizioni al documento della minoranza). Il 19 luglio 1989 viene costituito un governo ombra ispirato al modello inglese dello Shadow Cabinet, per meglio esplicitare l'alternativa di governo che il PCI intendeva rappresentare.

Nel 1989 il PCI promosse, con altre forze politiche e gruppi ambientalisti, 3 referendum contro caccia, diritto del cacciatore di accedere al fondo altrui anche senza il consenso del proprietario e uso dei pesticidi nell'agricoltura. Tutti e i 3 referendum, che si svolsero l'anno successivo, videro la vittoria dei "sì", ma il quorum non fu raggiunto, dunque le norme sottoposte ad abrogazione rimasero in vigore.

Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto annunciò "grandi cambiamenti" a Bologna in una riunione di ex partigiani e militanti comunisti della sezione Bolognina. Fu questa la cosiddetta "Svolta della Bolognina" nella quale il leader del Partito propose, prendendo da solo la decisione, di aprire un nuovo corso politico che preludeva al superamento del PCI e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana. Nel Partito si accese una discussione e il dissenso, per la prima volta, fu notevole e coinvolse ampi settori della base. Dirigenti nazionali di primaria importanza quali Pietro Ingrao, Alessandro Natta e Aldo Tortorella, oltre che Armando Cossutta, si opposero in maniera convinta alla svolta. Per decidere sulla proposta di Occhetto fu indetto un Congresso straordinario del Partito, il XIX, che si tenne a Bologna nel marzo del 1990. Tre furono le mozioni che si contrapposero:

la prima mozione, intitolata Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica era quella di Occhetto, che proponeva la costruzione di una nuova formazione politica democratica, riformatrice e aperta a componenti laiche e cattoliche, che superasse il centralismo democratico. Il 67% dei consensi ottenuti dalla mozione permise la rielezione di Occhetto alla carica di Segretario generale e la conferma della sua linea politica.

la seconda mozione, intitolata Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra fu sottoscritta da Ingrao e, tra gli altri, da Angius, Castellina, Chiarante e Tortorella. Il PCI, secondo i sostenitori di questa mozione, doveva sì rinnovarsi, nella politica e nella organizzazione, ma senza smarrire se stesso. Questa mozione uscì sconfitta ottenendo il 30% dei consensi.

la terza mozione, intitolata Per una democrazia socialista in Europa fu presentata dal gruppo di Cossutta. Costruita su un impianto profondamente ortodosso ottenne solo il 3% dei consensi.

Il XX Congresso, tenutosi a Rimini nel febbraio del 1991, fu l'ultimo del PCI. Le mozioni che si contrapposero a questo Congresso furono sempre tre, anche se con schieramenti leggermente diversi:

la mozione di Occhetto, D'Alema e molti altri dirigenti, Per il Partito Democratico della Sinistra, che ottenne il 67,46% dei voti eleggendo 848 delegati.

una mozione intermedia, Per un moderno partito antagonista e riformatore, capeggiata da Bassolino, che ottenne il 5,76% dei voti eleggendo 72 delegati.

la mozione contraria alla nascita del nuovo partito, Rifondazione comunista, nata dall'accorpamento delle mozioni di Ingrao e Cossutta, ottenne il 26,77% dei voti eleggendo 339 delegati, cioè meno rispetto alla somma dei voti delle due mozioni presentate al precedente Congresso.

Il 3 febbraio 1991, il PCI deliberò il proprio scioglimento, promuovendo contestualmente la costituzione del Partito Democratico della Sinistra (PDS) con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti. Il cambiamento del nome intendeva sottolineare la differenziazione politica con il partito originario accentuando l'aspetto Democratico. Una novantina di delegati della mozione Rifondazione comunista non aderì alla nuova formazione e diede vita al Movimento per la Rifondazione Comunista, che poi inglobò Democrazia Proletaria e altre formazioni comuniste minori assumendo la denominazione di Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Fin dall'inizio il PCI non ha mai avuto componenti interne organizzate e riconosciute, peraltro vietate dallo statuto (c.d. "divieto di frazionismo", che proibiva l'organizzazione di minoranze interne) ma piuttosto delle tendenze più o meno individuabili (inizialmente, quelle di Amendola e di Ingrao). Le correnti si sono però via via caratterizzate, fino a divenire più individuabili negli anni ottanta.

Miglioristi: Rappresentavano la destra del partito. Eredi delle posizioni di Giorgio Amendola (sostanzialmente orientato verso una forma di socialismodemocratico e riformista), i miglioristi erano radicati nel suo apparato e nella gestione delle "cooperative rosse". Propensi ad un "miglioramento" riformista del capitalismo, non condividevano la politica sovietica (anche se a più riprese vi si conformarono), contrastarono l'estrema sinistra del '68 e del '77 ma anche le correnti del PCI più movimentiste o "moraliste". Sostenevano il dialogo e l'azione comune con partiti come il PSDI e il PSI, quest'ultimo specialmente durante la segreteria di Craxi, di cui erano interlocutori privilegiati. Furono, con qualche eccezione, grandi sostenitori della svolta di Occhetto nel 1989 (firmando la mozione 1). Il leader tradizionale della corrente era Giorgio Napolitano (divenuto Presidente della Repubblica nel 2006); vi appartenevano inoltre Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Napoleone Colajanni, Guido Fanti, Nilde Iotti, Luciano Lama, Emanuele Macaluso, Antonello Trombadori e altri ancora. L'area ex-diessina del PD raggruppa la maggior parte dei seguaci dei miglioristi.

Berlingueriani: Costituivano il centro del partito, erede delle posizioni di Luigi Longo. Quest'area, formata da ex-amendoliani ed ex-ingraiani, divenne più inquadrabile durante la segreteria di Berlinguer (che la guidava). Anch'essa diffidente nei confronti della Nuova sinistra (seppur meno dei miglioristi), era favorevole al distacco dalla sfera d'influenza dell'URSS per conseguire una via italiana al socialismo, alternativa a stalinismo e socialdemocrazia. Negli anni ottanta i berlingueriani, dopo il fallimento del compromesso storico con la DC, tentarono un'alternativa democratica da perseguire moralizzando il sistema partitico (questione morale), sviluppando al contempo una forte avversione al PSI di Craxi. Il centro del PCI si divise poi nell'ultimo congresso del 1989 tra favorevoli e contrari alla Svolta di Occhetto (mozioni 1 e 2), anche se poi in stragrande maggioranza confluì nel PDS. Berlingueriani erano, oltre a Natta e Occhetto (proveniente dalla sinistra), Gavino Angius, Tom Benetollo, Giovanni Berlinguer, Giuseppe Chiarante, Pio La Torre, Adalberto Minucci, Fabio Mussi,Diego Novelli, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli, Alfredo Reichlin, Franco Rodano, Tonino Tatò, Aldo Tortorella, Renato Zangheri e altri; provenienti dalla FGCIerano Massimo D'Alema, Piero Fassino, Pietro Folena, Renzo Imbeni, Walter Veltroni. Oggi, a date le divisioni all'ultimo congresso, l'ex corrente berlingueriana è divisa tra Partito Democratico (mozione 1), Rifondazione Comunista e Sinistra Ecologia Libertà (mozione 2, l'ex fronte del no): Minucci e Nicola Tranfaglia hanno aderito al Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), Folena è stato eletto in Parlamento da Rifondazione in quota Sinistra europea, mentre Angius ha lasciato SD per il Partito Socialista. Sia Angius che Folena hanno aderito successivamente al Partito Democratico[47]. Alcuni sono usciti dalla politica attiva (prima Natta, poi Tortorella e Chiarante che hanno costituito l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra).

Ingraiani: Guidati da Pietro Ingrao, tenace avversario di Giorgio Amendola nel partito, erano per definizione gli esponenti della sinistra movimentista del PCI, molto ben radicati nella FGCI e anche nella CGIL. Questa corrente era contraria a manovre politiche considerate "di destra" e sosteneva posizioni che erano definite - non sempre in modo coerente - marxiste-leniniste. Era poco avvezza ad alleanze con la DC (per questo motivo molti furono gli ex-ingraiani passati con Berlinguer). Molto meno diffidente di berlingueriani e miglioristi nei confronti dei movimenti del dopo '68, riuscì ad attrarre svariati giovani proprio tra questi ultimi, spesso contrapponendoli a quelli più "ortodossi" che militavano in Democrazia Proletaria o in altre formazioni di estrema sinistra. Nel 1969 la corrente perse la componente critica legata alla rivista Il manifesto, espulsa - anche con l'appoggio di Ingrao - dal partito e poi rientratavi nell '84. I valori principali degli ingraiani erano quelli dell'ambientalismo, del femminismo, del pacifismo. Si opposero in larga parte alla Svolta della Bolognina, costituendo il nucleo principale del 'Fronte del No', cioè la mozione di minoranza più consistente (la 2). Ingraiani erano Alberto Asor Rosa, Antonio Baldassarre, Antonio Bassolino, Fausto Bertinotti, Bianca Bracci Torsi, Lucio Colletti, Aniello Coppola, Sandro Curzi, Lucio Libertini, Bruno Ferrero, Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Rino Serri e altri; dalla FGCI provenivano Ferdinando Adornato, Massimo Brutti, Franco Giordano, Nichi Vendola. Di origine ingraiana erano, oltre agli ex-Manifesto-PdUP, anche berlingueriani come Angius, D'Alema, Fassino, Occhetto, Reichlin e altri. Oggi gli ex-ingraiani sono divisi tra sinistra PD, PRC e Sinistra Ecologia Libertà.

Cossuttiani: Forse l'unica vera e propria corrente del PCI, presente perlopiù nell'apparato partitico, comprensiva però di alcuni ex-operaisti. L'area guidata da Cossutta non voleva rompere il legame internazionalista con l'Unione Sovietica, causa di uno "strappo" lacerante che avrebbe investito anche i connotati politico-ideali in favore di una pericolosa "mutazione genetica" del partito. Erano inoltre assertori di un legame da conservare e sviluppare con tutti gli altri paesi socialisti (come quello cubano). Nel partito, giunsero a criticare con asprezza l'azione politica intrapresa da Berlinguer durante la sua segreteria, combattendo al contempo sia contro l'allontanamento progressivo dall'URSS che i tentativi di compromesso con la DC. Nel congresso della "svolta" riuscirono a conquistare solo il 3% dei voti, con una mozione (la 3), sebbene più piccola, maggiormente organizzata e meno eterogenea della seconda. Cossuttiani erano, tra gli altri, Guido Cappelloni, Gian Mario Cazzaniga, Giulietto Chiesa, Aurelio Crippa, Oliviero Diliberto, Claudio Grassi, Marco Rizzo, Fausto Sorini, Graziella Mascia. Attualmente i cossuttiani, che vengono connotati come ex-cossuttiani per la divergente strada politica intrapresa dallo stesso Cossutta (tranne Chiesa che ha seguito un diverso percorso politico-culturale) sono presenti in larga parte nel PdCI (che Cossutta ha presieduto fino alle dimissioni avvenute nel 2006) ma anche in consistenti componenti interne del Prc ("Essere Comunisti" di Claudio Grassi e Alberto Burgio, "L'Ernesto" (dal nome dell'omonima rivista) di Fosco Giannini e Andrea Catone).

il manifesto: Componente di origine ingraiana nata attorno alla rivista omonima, fu espulsa dal PCI nel 1969. Esponenti più significati e fondatori poi del quotidiano avente il medesimo nome furono Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Luciana Castellina, Eliseo Milani, Valentino Parlato e Lidia Menapace. La sua dura critica alla politica dell'URSS (culminata con la condanna nel 1969 all'invasione sovietica della Cecoslovacchia) le costò la radiazione del PCI. Costituitasi come soggetto politico autonomo di Nuova sinistra, nel 1974 si unificò con il Partito di Unità Proletaria (costituito da socialisti provenienti daPSIUP e aclisti del MPL) per fondare il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, con Magri segretario. L'unione durò poco: nel '77 l'area PSIUP-MPL uscì per confluire in Democrazia Proletaria, mentre gli ex-Manifesto inglobarono la minoranza di Avanguardia Operaia (per poco tempo) e infine il Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS), mantenendo il nome di Partito di Unità Proletaria per il Comunismo. Nel 1983 il partito presentò propri candidati nelle liste comuniste; nel 1984 confluì definitivamente nel PCI, con gli ex-militanti del MLS. Quando si tenne il congresso alla Bolognina, la maggior parte dei militanti dell'ex-PdUP per il Comunismo aderì al 'Fronte del No'. Magri e altri rimasero nel PDS per breve tempo, dopodiché aderirono a Rifondazione nel 1991. Nel 1995 lasciarono però il PRC con Garavini, dando vita al Movimento dei Comunisti Unitari che, tranne Magri e Castellina, confluì nei DS nel 1998. Oggi dirigenti ed esponenti del PdUP-MLS si ritrovano, con ruoli diversi in tutti i partiti della Sinistra. Vincenzo Vita, Famiano Crucianelli e Davide Ferrari sono nel PD, Luciano Pettinari in SD, mentre Franco Grillini ha aderito al PS e in seguito all'Italia dei Valori. Del MLS, Luca Cafiero ha lasciato la politica attiva, Alfonso Gianni era in SEL (l'ha abbandonata nel 2013) e Ramon Mantovani in Rifondazione. I fondatori veri e propri del Manifesto sono oggi fuori dalle organizzazioni di partito.

ORIGINI E CARATTERISTICHE COMUNI DI NAZISMO E COMUNISMO. Entrambe provenienti dal ceppo socialista, sono ideologie gemelle: un documentario ne svela la vera storia, scrive Roberto Marchesini su BastaBugie n.298 del 24 maggio 2013. In Italia - e non solo - si utilizza la scorciatoia mentale di identificare come "di destra" i totalitarismi fascista e nazionalsocialista e come "di sinistra" quello comunista; in questo modo i due tipi di regime (quelli sconfitti dalla Seconda Guerra Mondiale e quello vincitore) sembrano essere in contrapposizione, fino a indurre molti a pensare che il comunismo, alleato con Stati Uniti ed Inghilterra, abbia liberato l'Europa dal totalitarismo. Tutte le colpe sono addossate al totalitarismo "di destra" e a tutte le "destre" precedenti (anche se nulla avevano a che fare con la "destra" fascista e nazionalsocialista), mentre quello "di sinistra" assume (con tutte le "sinistre", anche quelle successive) una connotazione positiva, ed il merito particolare di aver affrontato e sconfitto il totalitarismo europeo. Si è scritto parecchie volte che "chi vince scrive la storia", e va bene; ma ribaltarla è una faccenda completamente diversa. Accettare che Mussolini ed Hitler siano "di destra" significa accettare l'autoattribuzione di un patentino di superiorità morale ed ontologica da parte delle sinistre. Ci si dimentica spesso, infatti, che Mussolini era stato socialista, direttore dell'Avanti, e che anche il fascismo si caratterizzò per una ipertrofia dello Stato in ogni campo della vita dei cittadini ("dalla culla alla bara"); che il termine "nazismo" è semplicemente la (fuorviante) centrazione del termine "nazional-socialismo", e che Hitler fu il fondatore del Partito Socialista Nazionale dei Lavoratori Tedeschi, ossia il partito socialista tedesco. Sia il fascismo italiano che il nazionalsocialismo tedesco avevano fatto propria la dottrina secondo la quale lo Stato ha il compito di guidare la nazione verso un futuro radioso, anche attraverso il controllo dell'economia. Uno storico come Renzo De Felice (1929-1996) ha magistralmente spiegato come il fascismo sia stato un fenomeno rivoluzionario di sinistra: la tesi gli è costata l'odio e la persecuzione anche violenta nell'ultimo quarto del secolo scorso, ma ha aperto una strada storiografica importante, seguita da numerosi altri studiosi, che ha finalmente collocato il fascismo fra le ideologie rivoluzionarie del "secolo breve" (1914-1989). La differenza tra il socialismo nazionalista e quello marxista sta nel fatto che l'ostacolo (da eliminare fisicamente) alla nascita dell'«uomo nuovo» era individuato dal primo nelle nazioni inferiori (polacchi, ebrei, zingari...), dal secondo nelle classi economiche inferiori (borghesi, intellettuali, contadini...). Ma le similitudini tra i due tipi di socialismo non riguardano solo l'ideologia propugnata. Nel 2008 lo studioso di storia politica lettone Edvins Snore ha scritto e diretto un documentario intitolato The Soviet Story e finanziato dal gruppo UEN (Unione per l'Europa delle Nazioni) del Parlamento Europeo. Nel filmato compaiono, oltre a numerosi testimoni, lo storico Norman Davies e il dissidente Vladimir Bukovski. Il documentario, trasmesso e proiettato in diversi paesi, è inedito in Italia, sebbene sia disponibile una versione nella nostra lingua. E, soprattutto, mette in evidenza una serie impressionante di collegamenti tra il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico. Viene mostrato, ad esempio, un articolo di giornale del New York Times nel quale si dà il resoconto della fondazione del Partito Socialista Nazionale in Germania; in esso sono riportate le parole di Joseph Goebbels che afferma: «Lenin è stato l'uomo più grande, secondo solo ad Hitler; e le differenze tra il comunismo e le idee di Hitler sono molto sottili». Viene ricordato il patto Ribbentrop-Molotov, dal nome dei due ministri degli esteri della Germania nazionalsocialista e dell'Urss che nel 1939, a Mosca, firmarono un patto di non aggressione fra le due potenze; viene ricordato come la Luftwaffe sia stata guidata, nei bombardamenti sulle città polacche, dalla radiotrasmittente sovietica a Minsk; si documenta come - mentre il popolo russo moriva letteralmente di fame - Stalin inviasse grano, ferro e materiale da costruzione all'esercito tedesco, sostenendolo nelle sue campagne; e come lo stesso Stalin avesse dichiarato che combattere l'ideologia nazista fosse da considerare alla stregua di un crimine, e avesse invitato i partiti comunisti europei a boicottare la resistenza antinazista. Nel documentario si afferma che i nazionalsocialisti inviarono in Russia delle commissioni allo scopo di studiare il modello dei campi di sterminio sovietici per applicarlo ai lager; e che i lager nazisti liberati dai sovietici non vennero smantellati, ma divennero parte dell'«arcipelago Gulag» descritto da Solgenitsin. All'inizio della persecuzione hitleriana contro gli ebrei, molti di loro fuggirono in Russia; Stalin li riconsegnò al Fuhrer in segno di amicizia. Secondo gli autori intervistati da Snore, la strategia di Stalin era quella di aiutare Hitler a devastare la società europea e a eliminare tutti gli oppositori al totalitarismo; in un secondo tempo avrebbe attaccato il Reich indebolito dalla guerra e, sconfittolo, avrebbe diffuso il socialismo sovietico a tutto il continente ormai ripulito da Hitler da ogni possibile resistenza, presentandosi all'opinione pubblica mondiale come il liberatore del mondo dal nazionalsocialismo. Il documentario mostra anche una parata comune delle forze sovietiche e nazionalsocialiste nel paese di Brzesc, il luogo dove le due armate si incontrarono dopo aver occupato l'intero territorio polacco. Come afferma la storica Francoise Thom, docente di storia moderna alla Sorbona, intervistata nel documentario, «entrambe le ideologie hanno l'ambizione di creare l'uomo nuovo. I due sistemi non sono d'accordo con la natura umana per come essa è veramente. Sono in guerra con la natura e con la natura umana, e questo è la base del totalitarismo». Nazionalsocialismo e socialismo sovietico sono in tal modo le due facce della stessa medaglia fin dalla loro origine, ossia la ribellione dell'orgoglio umano contro la natura umana. Entrambe queste ideologie sono state sconfitte, ma la tracotanza umana tenta ancora di creare l'uomo nuovo. Fonte: Il Timone, Gennaio 2010 (n.89) Pubblicato su BastaBugie n. 298

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani, Domenica 07/12/2014 su "Il Giornale".  La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Il fascismo? Può sdoganarlo solo un politico di sinistra. A Predappio fa bene il sindaco del Pd a proporre un museo sul Ventennio. Servirebbe a capire le vere radici del Duce..., scrive Nicholas Farrell, Martedì 22/04/2014 su "Il Giornale". Il sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti, è un personaggio per quanto mi risulta unico: un «comunista» simpatico. Lo conosco da anni, è furbo e politicamente scorrettissimo. In nome della verità e della libertà, va controcorrente, if necessary. Fuma e beve, addirittura, roba da galera, al giorno di oggi... Da quando Frassineti (Pd) è stato eletto sindaco, nel 2009, si è impegnato per realizzare una cosa che nessun politico di sinistra (e non solo) prima di lui, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, aveva né voluto né osato fare: sdoganare il Ventennio fascista. Molte le sue iniziative. Ma attenzione. Con ciò che ha cercato di fare il «compagno» Frassineti durante il suo mandato non c'entra l'apologia del fascismo. Come ha sottolineato a Luigi Mascheroni: «Basta con la Predappio del turismo in camicia nera. La città non deve celebrare, né sopportare il fascismo. Lo deve conoscere, in modo completo. E per farlo, deve sapere cosa è stato il fascismo, come è nato e come è caduto: occorre raccontarlo, senza paure. Occorre un museo». Frassineti vorrebbe mettere il suo museo del fascismo proprio dentro la Casa del Fascio, un edificio imponente di 2.400 mq, che domina il centro del Paese ma che dal '45 in poi, è stato chiuso e lasciato in stato d'abbandono, come quasi tutti gli altri edifici del regime nel paese del Duce. Chiaro, un «ex» comunista che fa così rischia grosso. Rischia di perdere dei voti, e lui si è ricandidato, e tra un mese si torna alle urne. Ma dov'è il problema? Io, da inglese, presente in Romagna dal 1998 a oggi, che ha vissuto cinque anni a Predappio, pongo una domanda ai predappiesi: ma voi volete lasciare la vostra città ai pullman di nostalgici e ai negozio souvenir e alla loro versione della storia, storta pure quella? Non sarebbe meglio, più degno, più «economico» fare di Predappio anche un centro di studi serio sul Ventennio? Sono venuto da Londra in macchina a Predappio (dopo una sosta a Parigi durata un anno) nell'estate del 1998 per scrivere una biografia di Mussolini. Volevo capire una volta per tutte: ma che cosa significa - veramente - questa parola «fascismo», parola così diffusa ma così opaca? Pure il grande George Orwell si era chiesto in un saggio degli anni '40: «Che cos'è il fascismo?». Orwell, uomo di sinistra che odiava il comunismo perché «nazionalista», aveva notato una cosa negata dalla sinistra comunista: il fascismo piaceva al popolo. Predappio, un paesino sperduto nella bellezza incantevole dell'appennino tosco-romagnolo, mi piacque subito. Ho notato che sulla stemma del Comune c'è un grappolo d'uva: il mitico Sangiovese. Sono stati i comunisti, a guerra finita - me l'hanno spiegato dopo - a mettere il grappolo al posto del fascio! Beh, diciamolo, i compagni non hanno sempre torto. Predappio per me è stato un paradiso: la Toscana ma senza inglesi. Chiunque vuole «conoscere in modo completo» il fascismo «senza paure» si trova subito nei guai. Personalmente non sono fascista, sono inglese. Un inglese anarchico thatcheriano. Ma quello che sono non cambia quello che dicono e scrivono di me. Per ciò che scrivo di Mussolini e del fascismo, mi danno del fascista... Più difficile dare del fascista al comunista Frassineti: così come solo un uomo di sinistra può fare certe cose (tagli al welfare eccetera), solo un uomo di sinistra può provare a «museificare» il fascismo. La storia è scritta dai vincitori e nel caso del Ventennio i vincitori furono un'alleanza tanto bizzarra quanto potente come quella tra il capitalismo democratico e il comunismo dittatoriale. Per gli angloamericani Mussolini fu un buffone grottesco; per i comunisti una marionetta della borghesia. Innanzitutto, c'è da dire che fascismo e comunismo avevano in comune molto di più l'uno con l'altro di quanto ciascuno di loro aveva in comune sia col capitalismo che con la democrazia. Ecco perché il Patto fra Hitler e Stalin del 1939 fu molto più normale che non l'alleanza successiva fra Stalin e Roosevelt/Churchill. E Mussolini non era affatto la marionetta della borghesia, perché per lui la lotta di classe era tra produttori e parassiti (di qualunque classe), e gran parte della borghesia secondo lui era parassitaria. Conoscere il fascismo senza paura vuol dire accettare tante cose scomodissime, e fra queste una fondamentale: il fascismo non fu imposto, ma voluto dal popolo italiano; e una vera resistenza al fascismo in Italia non ci fu fino al 1944; e nella liberazione d'Italia, la resistenza fu «minoritaria» dal punto di vista militare. Il mio nuovo libro (scritto con Giancarlo Mazzuca e edito da Rubbettino), s'intitola Il compagno Mussolini e racconta il percorso di Mussolini da socialista rivoluzionario internazionalista a socialista rivoluzionario nazionalista nella Prima guerra mondiale. Mussolini si era reso conto - a causa della guerra - che la gente è più fedele alla patria che alla propria classe sociale. Per conoscere in modo completo il fascismo bisogna dunque riconoscere una verità negata: il fascismo, sotto la camicia nera, era di sinistra. Mussolini appoggiò la guerra (in sintonia con i socialisti francesi e tedeschi ma non quelli italiani) non come vuole la vulgata per sete di potere, o perché corrotto dalla borghesia, ma da fedele socialista rivoluzionario. Spero che l'amico Giorgio Frassineti resti sindaco dopo le elezioni del 22 maggio. E spero possa fare il «suo» museo dentro la Casa del Fascio. Mandando a quel paese tutti quei volatili che l'hanno trasformata in una gigantesca piccionaia.

Mussolini era comunista, ma non Stalinista. Alla vigilia dell'inaugurazione della legislatura, Mussolini dichiarò alla stampa che i fascisti non avrebbero presenziato alla seduta inaugurale. Tratto dal sito “Mussolini Benito”. Ciò "perchè il fascismo, pur non avendo una pregiudiziale contro la monarchia, era tendenzialmente repubblicano". Questa sua dichiarazione suscitò vivo risentimento tra numerosi membri del suo movimento-partito. Molti dirigenti d'esso erano di sentimenti monarchici e quindi si opposero alla decisione di Mussolini. Questi allora presentò un ordine del giorno sulla partecipazione o meno dei fascisti alla seduta inaugurale; ma la sua proposta fu respinta, sicchè i fascisti, escluso Mussolini e qualche altro deputato fascista, parteciparono alla stessa. Il 13 giugno i fascisti compirono la loro prima azione violenta nella stessa sede della Camera. Essi misero alla berlina, e poi cacciarono a viva forza fuori dall'aula, il deputato comunista Francesco Misiano, disertore nel corso della Grande Guerra. Tutti i gruppi parlamentari protestarono per i metodi violenti dei fascisti e per l'offesa arrecata alla Camera, tuttavia quando il Misiano si presentò in aula, abbandonarono in blocco la stessa, in segno di protesta per "l'indegno" collega. Ma ciò che maggiormente preoccupava Mussolini era il fatto che ormai il movimento fascista stava per sfuggirgli di mano. Egli non ne aveva più il pieno controllo; ciascuna sezione agiva in modo del tutto autonomo, compiendo azioni spesso non condivise dalla direzione. Egli si rese conto allora dell'assoluta esigenza di riconquistare l'effettivo controllo del suo movimento. Ma perchè ciò potesse realizzarsi era necessario avviare il partito verso la strada della pacificazione, cioè occorreva che cessasse la sua azione violenta, accettando quindi il gioco parlamentare. Ma per comprendere appieno le idee di Mussolini in questo particolare momento, è molto utile analizzare il suo primo discorso alla Camera, discorso ch'egli pronunciò in risposta al discorso della Corona. Egli iniziò con il criticare la politica di Sforza in fatto di politica estera; non condivideva né la politica italiana in Alto Adige, né quella italiana con la Jugoslavia. Non a caso si erano verificate numerose spedizioni punitive delle squadre fasciste, proprio contro le comunità slovene a Trieste e contro quelle di lingua tedesca in Alto Adige. Ma ciò che maggiormente interessa è l'atteggiamento di Mussolini nei confronti della politica interna e particolarmente nei confronti degli altri partiti. Mussolini affermò la vocazione anticomunista dei fascisti. "Finchè i comunisti parleranno di dittatura proletaria, - affermò Mussolini di repubbliche, di più o meno oziose assurdità, fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. La nostra posizione varia, quando ci troviamo di fronte al partito socialista. Anzitutto ci teniamo bene a distinguere quello che è movimento operaio da quello che è partito politico... Noi, e qui ci sono testimoni che possono dichiararlo, non abbiamo mai preso aprioristicamente un atteggiamento di opposizione contro la Confederazione generale del lavoro. Aggiungo che il nostro atteggiamento verso la Confederazione generale del lavoro potrebbe modificarsi in seguito, se la Confederazione stessa, ed i suoi dirigenti lo meditano da un pezzo, si distaccasse dal partito politico socialista... Ascoltate, del resto, quello che sto per dire. Quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore. Non ci opporremo e voteremo a favore di tutte le misure e dei provvedimenti, che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione. Non ci opporremo nemmeno ad esperimenti di cooperativismo: però vi dico subito che ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione! Ne abbiamo abbastanza del socialismo di stato! E non desisteremo nemmeno dalla lotta, che vorrei chiamare dottrinale, contro il complesso delle vostre dottrine, alle quali neghiamo il carattere di verità e soprattutto di fatalità. Neghiamo che esistano due classi, perchè ne esistono molte di più; neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico. Neghiamo il vostro internazionalismo, perchè è una merce di lusso che solo nelle alte classi può essere praticato, mentre il popolo è disperatamente legato alla sua terra nativa..." Quindi il discorso di Mussolini si occupò del partito popolare: "Ricordo ai popolari che nella storia del fascismo non vi sono invasioni di chiese, e non c'è nemmeno l'assassinio di quel frate Angelico Grassi, finito a revolverate ai piedi di un altare. Vi confesso che c'è qualche legnata e che c'è un incendio sacrosanto di un giornale, che aveva definito il fascismo una associazione a delinquere. Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo... Qui è stato accennato al problema del divorzio. Io, in fondo in fondo, non sono divorzista, perchè ritengo che i problemi di ordine sentimentale non si possono risolvere con formule giuridiche; ma prego i popolari di riflettere se sia giusto che i ricchi possano divorziare andando in Ungheria, e che i poveri diavoli siano costretti qualche volta a portare una catena per tutta la vita. Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini per quel che riguarda il problema agrario... Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo... l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano... Sono all'ultima parte del mio discorso, - disse ancora Mussolini - e voglio toccare un argomento molto difficile, e che, dati i tempi, è destinato a richiamare l'attenzione della Camera. Parlo della lotta, della guerra civile in Italia... E' inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l'autorità dello Stato. Il compito è enormemente difficile, perchè ci sono già tre o quattro Stati in Italia, che si contendono il probabile, possibile esercizio del potere... La guerra civile si aggrava anche per questo fatto: che tutti i partiti tendono a formarsi, a inquadrarsi in eserciti; quindi l'urto, che se non era pericoloso quando si trattava di partiti allo stato di nebulosa, è molto più pericoloso oggi che gli uomini sono nettamente inquadrati, comandati e controllati. D'altra parte è pacifico, oramai, che sul terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baldesi, ma non ne diceva la ragione profonda; ed è questa: che le masse operaie sono naturalmente, oserei dire santamente, pacifondaie, perchè rappresentano sempre le riserve statiche della società umana, mentre il rischio, il pericolo, il gusto dell'avventura sono stati sempre il compito, il privilegio delle piccole aristocrazie. E allora, o socialisti, se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo, allora dovete concludere che avete sbagliato strada. La violenza non è per noi un sistema, non è un estetismo, e meno ancora uno sport, è dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare, se voi disarmate a vostra volta, soprattutto gli spiriti. Nell'Avanti! del 18 giugno, edizione milanese, è detto: "Noi non predichiamo la vendetta come fanno i nostri avversari. Pensiamo all'ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili, anzi necessarie, lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista, o signori, sta a voi illuminare gl'incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola, abbiamo già compiuto la nostra opera". Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gl'incoscienti, che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo, degli agenti del Governo; dovete disarmare i criminali, perché abbiamo nel nostro martiro- logio 176 morti. Se voi farete questo, allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia... Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco, si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo, perché, andando avanti di questo passo, la Nazione corre serio pericolo di precipitare nell'abisso. Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà, prima di deporre le nostre armi, disarmate i vostri spiriti." Con questo discorso Mussolini avviò quel tentativo di conciliazione, che rispondeva a due ordini di necessità: da un canto l'esigenza di riprendere il controllo del partito, che ormai sfuggiva dalle sue mani e che organizzava spedizioni punitive a carattere locale, senza tener conto di una strategia politica complessiva; in secondo luogo la necessità di abituare il partito a entrare nel gioco parlamentare, ottenendo in cambio la collaborazione di forze politiche, presenti in modo massiccio alla Camera.

IL FASCISMO E' DI SINISTRA!

Il Comunista Benito Mussolini ucciso dai comunisti. Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti. Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra. La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente nel panorama internazionale; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica.

Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo. Castro doveva scegliere: o di qua o di là. L'hanno costretto a scegliere l'Unione Sovietica.

Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016).  Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Casapound "celebra" Che Guevara e Castro? Insorgono i Giovani Comunisti. CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due "miti" dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti che lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento, scrive il 4 giugno 2014 "Forlì Today". CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due “miti” dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti di Forlì, con una nota in cui lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento. Scrivono i Giovani Comunisti nel comunicato: “Come reso noto tramite la pagina Facebook dello “Spazio Barbanera”, l'associazione neofascista CasaPound Italia di Forlì ha organizzato, nella giornata del 7 giugno, l’ennesimo evento da inserire nel novero del mimetismo politico che quest’organizzazione suole utilizzare per le sue iniziative. Questa volta si tratta della celebrazione delle figure di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro, tramite la presentazione di un libro che collega tali personalità ad una cosiddetta “origine del nazionalismo rivoluzionario”. Come Giovani Comunisti di Forlì non possiamo esimerci dal contestare categoricamente tale evento e tali iniziative, dove spesso e incoerentemente si espropriano personalità appartenenti alla sinistra radicale e rivoluzionaria, le stesse che per tutta la vita hanno combattuto strenuamente il fascismo, in tutte le sue forme”. Precisano i Giovani Comunisti: “Ciò detto, riteniamo che questa nostra contestazione non sia strettamente vincolata e dovuta al senso di appartenenza che noi sentiamo nei confronti di Castro e Guevara, ma sia più urgentemente collegata al dovere di smascherare la vera natura di un’associazione dichiaratamente neofascista che, attraverso la promozione di eventi di questo tipo, produce disinformazione tra la società civile e permette un’ulteriore violazione della nostra cultura e della nostra identità. CasaPound, così come le altre forze xenofobe e reazionarie dell’estrema destra europea, critica il sistema finanziario che i poteri forti impongono alla nostra sovranità, utilizzando questi argomenti come strumento per catalizzare il malcontento della popolazione, cavalcando l’onda del disagio sociale per spostare a destra gli equilibri politici fino ad arrivare ad una vera e propria involuzione in senso autoritario delle istituzioni dello Stato. CasaPound e le destre sopracitate, ritengono di dover rovesciare questo sistema mediante le forme che, come ben sappiamo, hanno soppresso ogni libertà e pluralismo nel nostro continente e nel mondo intero”. Quindi tornano su Castro e Che Guevara: “In relazione ad esigenze di coerenza intellettuale e storica, risulta necessario chiarire pubblicamente l'inesattezza della presente espropriazione delle figure di Guevara e Castro. La Rivoluzione Cubana, così come anche altri tentativi rivoluzionari nei paesi dell'America Latina, non ha niente a che vedere con le nozioni tipiche di “nazionalismo” da cui derivano, invece, i regimi fascisti e nazisti del Novecento. Va precisato, inoltre, che per i rivoluzionari comunisti e socialisti del Sud del mondo, le parole “patria” oppure “indipendenza”, hanno assunto un significato non in senso ideologicamente nazionalistico - dove si concepisce la propria nazione come ente superiore alle altre nazioni e superiore a qualsiasi altro valore esistente - ma, al contrario, come viatici per i percorsi di indipendenza dei paesi colonizzati, che equivalgono proporzionalmente ai processi di liberazione delle nazioni del Sud del mondo dall'imperialismo, sia economico che politico, sistematicamente applicato da parte delle nazioni più avanzate su quei territori. Ed è proprio su questo versante che il fascismo è ulteriormente vulnerabile. Non a caso, l'imperialismo applicato a questi Paesi ha trovato nel fascismo uno strumento di forza per il consolidamento e la perpetuazione di questo sistema. Perciò, riteniamo che l'incoerenza logica che presenta l'esistenza stessa di CasaPound e, conseguentemente, l'irrazionalità assoluta degli eventi organizzati come quello del 7 giugno, trovino la loro spiegazione sempre nelle parole di Palmiro Togliatti che affermava che “non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce cosa sia in realtà l'imperialismo”. Sempre nell’ambito dell’imperialismo, lo stesso Guevara affermava che “tutta la nostra azione è un grido di guerra contro l’imperialismo”, e sia la Storia italiana che la circostanza cubana pre-rivoluzionaria si configurano come esempi chiari e funzionali a questa specifica analisi. Quindi l'invito a non partecipare: “Ecco perché come Giovani Comunisti di Forlì invitiamo le cittadine e i cittadini tutti non solo a non partecipare a tali eventi. Inoltre, lanciamo nuovamente un appello alle autorità locali e alla popolazione per tentare di combattere queste associazioni facendo chiudere immediatamente le loro sedi. Giù le mani dalla Storia e dalla Rivoluzione Cubana”.

I neo comunisti? Poveri illusi ed ignoranti della storia.

Fidel, comunista miliardario che ha fatto ricchi i parenti. Svelata l'eredità del Lìder maximo: 900 milioni di dollari. Il prossimo aprile il voto per eleggere il nuovo presidente, scrive Paolo Manzo, Venerdì 22/12/2017, su "Il Giornale".  Il 2018 sarà un anno decisivo per Cuba visto che, per la prima volta da 59 anni, l'isola caraibica simbolo del comunismo non sarà più governata dalla famiglia Castro. Da quando la rivoluzione dei barbudos estromise il dittatore dell'epoca, Fulgencio Batista, si sono infatti succeduti alla presidenza del regime autoritario cubano solo il líder máximo Fidel Castro - dal 1° gennaio del 1958 sino al 2008 - e, d'allora sino ad oggi, suo fratello Raúl. Ora, se il primo è morto da oltre un anno, l'attuale 86enne presidente cubano lascerà sicuramente il potere nel 2018 «a qualcuno più giovane» per sua stessa ammissione. A decidere chi sarà il primo non Castro al potere all'Avana saranno i parlamentari tutti comunisti, visto che le candidature di altri partiti sono proibite - eletti il prossimo 24 di febbraio. Grande favorito è il 57enne Miguel Díaz-Canel, attuale vice di Raúl ma, soprattutto, un ingegnere che per motivi anagrafici non ha preso parte né alle «gesta rivoluzionarie» della Sierra Maestra né alle guerre africane degli anni Sessanta. Cambierà però qualcosa, al di là del cognome? Poco probabile se si guarda il video di una festa del Partito Comunista cubano filtrato di recente e pubblicato dal Miami Herald in cui lo stesso Díaz-Canel difende a spada tratta il partito unico ed espone i suoi progetti per reprimere la stampa indipendente, le imprese ed i gruppi d'opposizione: «Stiamo prendendo tutte le misure necessarie per screditarli», chiarisce il probabile successore, a dimostrazione che non cambierà affatto il modus operandi della dittatura più antica dell'America Latina. L'ennesima illusione, dunque, quella della transizione democratica di Cuba in cui aveva finto di credere Barack Obama il 17 dicembre 2014, quando aprì a Raúl Castro. O una bugia bella e buona come, ad esempio, la presunta onestà (intellettuale ma non solo) di uno come Fidel Castro simbolo iconico del comunismo mondiale che, pur predicando l'eguaglianza di tutti i cubani, è riuscito ad accumulare una ricchezza tale che, quando morì il 25 novembre dello scorso anno, lasciò 900 milioni di dollari Usa in eredità ai suoi parenti. La stima della massa ereditaria lasciata dal líder máximo fatta dalla rivista Forbes, che sin dal 2006 lo aveva inserito tra i dieci uomini politici più ricchi del globo terracqueo, implica un'enorme incoerenza tra quanto affermato e quanto praticato dal dittatore cubano durante i suoi 50 anni di potere assoluto. E, dopo decenni di panegirici scritti dai vari intellettuali sinistrorsi nostrani alla Ignacio Ramonet che ce lo hanno descritto come austero e dedito a «lavorare instancabilmente per la rivoluzione», oltre a Forbes un'altra conferma arriva da Juan Reinaldo Sánchez, per 17 anni una delle guardie del corpo più fedeli di Fidel e che, dopo essere caduto in disgrazia e poco prima di morire a Miami nel 2016, scrisse La Vita Nascosta di Fidel Castro. Un capolavoro di realismo da cui si evince come, in realtà, Fidel abbia sempre goduto di comodità più consone a un «lupo di Wall Street» che a ex guerrigliero dedito al benessere del suo popolo. Come spiegare ai difensori del comunismo nostrani, ma soprattutto ai giovani che ancora oggi all'Avana guadagnano 30 euro al mese, che Fidel passava molte delle sue giornate sul suo yacht superlusso Aquarama II, con chiglia fatta di legname pregiato dell'Angola, o sulla sua isola privata di Cayo Piedra, con tanto di delfini, allevamenti di tartarughe caraibiche e ogni genere di comfort? Quando Fidel partiva sul suo yacht sedeva sempre in un'enorme poltrona di pelle nera, con in mano un bicchiere di Chivas Regal on the rocks, il suo drink preferito. E che dire della corte di donne che gli hanno dato 9 figli o dell'immenso immobile di sua proprietà all'Avana, con tanto di campo da bowling sul tetto, un altro da pallacanestro ai piani inferiori e un centro medico dotato di ogni equipaggiamento all'avanguardia? Senza parlare del bungalow con molo privato extra-lusso sulla costa o dei diamanti angolani che Fidel conservava gelosamente nelle casse dei suoi sigari Cohiba. Chissà che cosa ne pensano i compagni anche se, più che a loro, forse una risposta la possiamo ottenere dallo storico recentemente scomparso Hugh Thomas nel suo impareggiabile libro Cuba or the pursuit of freedom che ci descrive come nel 1957, ovvero a meno di due anni dalla conquista del potere, Fidel Castro ricevette l'appoggio dei principali imprenditori cubani, compresi i Bacardi, stanchi dell'instabilità politica della dittatura di Batista. «Il movimento di simpatia verso Castro scrive Thomas aumentava anche tra la classe opulenta a tal punto che persino il principale barone dello zucchero cubano dell'epoca, Julio Lobo, lo finanziò con 50mila dollari», una mezza fortuna all'epoca. Per non dire di quanto scrisse lo stesso Fidel, il 3 luglio del 1956 sulla rivista universitaria Bohemia in cui, quello che poi sarebbe diventato il dittatore comunista più longevo del XX secolo, accusava Batista di essere lui sì un comunista! «Qual è il diritto morale che ha Batista per parlare di comunismo quando lui stesso era il candidato presidenziale del Partito Comunista nelle elezioni del 1940 scriveva Fidel Castro che all'epoca negava ogni tendenza sinistrorsa - quando i suoi slogan elettorali si nascondevano dietro la falce e il martello e quando mezza dozzina dei suoi attuali ministri e collaboratori più intimi sono membri del Partito Comunista?». Insomma, se queste sono le fondamenta ideologiche libri di storia alla mano - di chi negli ultimi 50 anni è stato un modello per la ricerca dell'uomo nuovo e della società egualitaria fondata sul marxismo, allora non stupisca che Fidel Castro abbia vissuto da nababbo lasciando quasi un miliardo di dollari in eredità alla sua progenie. Così come non deve stupire nessuno l'annuncio fatto da suo fratello Raúl che, dopo quasi 60 anni, dal prossimo 24 di febbraio, Cuba non sarà più governata da un membro della famiglia. Tranquilli, non cambierà proprio nulla.

Cuba, il viaggio delle ceneri di Fidel in un'isola bella e sciupata. Il reportage. Il corteo funebre e trionfale ha raggiunto la Santa Clara del "Che". La meta è Santiago, in un percorso inverso a quello dei "barbudos" nel 1959. La gente lungo la strada recita gli slogan del castrismo come un rosario, scrive Bernardo Valli il 2 dicembre 2016 su "La Repubblica". Le ceneri viaggiano da due giorni. Sono dirette a Santiago, a quasi mille chilometri di distanza, all'altra estremità dell'isola, dove saranno sepolte. È un corteo funebre e trionfale. L'urna, coperta da una bandiera cubana, è posata su un rimorchio piccolo e basso, agganciato a un'auto militare scoperta, ed è ben visibile. La folla assiepata in città e villaggi, ma anche nelle pianure su cui si stendono piantagioni di canna da zucchero e di tabacco, o dove il paesaggio è ondulato o montagnoso, la vede passare a pochi metri. All'altezza dello sguardo. E scandisce il nome di Fidel. Recita come un rosario gli slogan della Revólucion. Ci sono volute più di dodici ore per percorrere la prima tappa, circa trecentocinquanta chilometri, tra L'Avana e Santa Clara. L'urna sul rimorchio spesso traballante, per la Carretera Central non priva di crepe e buche, non corre nell'attraversare luoghi dove sono evidenti i segni delle difficoltà economiche dell'ultimo mezzo secolo. Il Paese è bello e sciupato. Le difficoltà hanno a volte sconfitto lo zelo della resistenza. E il disordine nelle decisioni vi ha contribuito. La Revolución si è spesso impegnata altrove, non solo nell'America Latina, ma anche in Africa. Il Che andò persino a chiedere aiuto alla Cina e, da solo, si avventurò nel Congo. Senza fortuna. La piccola Cuba pensava in grande. Al passaggio della "Carovana della Libertà" che ripercorre a ritroso il cammino dei "barbudos" e va verso Santiago, la gente ha il tempo di osservare la scatola posata su un tappeto di fiori, in cui sono rinchiuse le ceneri di Fidel. È una folla in bianco e nero. Molti sono gli uomini e le donne di origine africana, mischiati agli uomini e le donne di origine europea, com'era Fidel, la cui famiglia veniva dalla Galizia. La Revolución del '59 ha subito abolito ufficialmente la discriminazione razziale così come ha emancipato i lavoratori delle piantagioni di canna da zucchero. Nel '61 un'amica cubana della grande borghesia che aveva aderito al castrismo (era una segretaria di Raúl Castro) mi portò nel club sul mare riservato ai bianchi il giorno in cui veniva aperto alla popolazione di origine africana. Lei apprezzava l'avvenimento, ne era orgogliosa, ma pianse nel vedere la sua spiaggia invasa dai neri. L'emancipazione risale ormai a parecchi decenni fa. I sentimenti contrastanti della mia amica di allora non sono stati forse cancellati del tutto. Non ce n'era comunque traccia nella folla che, spontanea e unita, invocava Fidel morto. Le possibili ferite subite, le altrettanto possibili delusioni e rancori erano o sembravano sepolti sotto il cordoglio collettivo. Il decretato rimpianto nazionale prevaleva. E pareva avesse la sincerità delle grandi manifestazioni popolari. Il passaggio del corteo annunciava anche la fine di un'epoca nell'isola. Chi l'aveva dominata, con il potere e le prepotenze annesse, invadendola con la sua passione, se ne è andato. Le ceneri di Fidel hanno passato la notte a Santa Clara. Nel dicembre '58 la città fu il teatro della battaglia che segnò la fine della dittatura di Fulgencio Batista e il trionfo della Revolución. Batista interruppe le feste di fine d'anno e fuggì in aereo insieme ai tanti uomini della mafia, proprietari di casinò, di alberghi e night club (freddi come frigoriferi per consentire alle turiste nordamericane di sfoggiare visoni ai tropici). Ad aprire la strada per l'Avana furono i barbudos comandati da "Che" Guevara e Camilo Cienfuegos. I muri dell'albergo Santa Clara Libre, nella piazza centrale, il Parque Vidal, sono ancora crivellati dalle pallottole dell'inverno '58. Oggi è dipinto di un verde acceso, ma i graffi restano lì, come reliquie. Dall'alto dell'albergo, un piccolo grattacielo dominante la città di poco più di duecentomila abitanti, una donna che ha vissuto bambina quei giorni ci indica i luoghi in cui la battaglia fu intensa. Dal Parque Vidal si diramano strade dritte e case basse, come in molte città latinoamericane sulle quali pesa la tradizione ispanica. A ricordare la battaglia c'è il mausoleo dominato da una statua in bronzo del "Che". È davanti a quel monumento che le ceneri di Fidel si sono fermate arrivando dall'Avana. Là, nel mausoleo, ci sarebbero i resti di Guevara, della guerrigliera Tania, sua compagna di allora, e di alcuni compagni caduti in Bolivia. Ci sono anche quelli di quattordici combattenti uccisi in Guatemala. Il "Che" raffigurato è il guerrigliero in azione, con il mitra, ma in un'altra parte del mausoleo viene ricordato anche come medico durante lo sbarco dei barbudos a Cuba nel '56. Il lungo viaggio delle ceneri di Fidel può essere interpretato come un segno della stabilità del regime, nonostante la distensione con la vicina superpotenza avviata da Barack Obama sia seriamente minacciata dall'arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. E nuove nubi si addensino sull'isola. Oltre all'inevitabile omaggio al "comandante" e al desiderio di mobilitare il Paese con il ricordo di chi ha incarnato mezzo secolo di vita nazionale, il successore Raúl Castro ha voluto dare un'impronta solenne ai funerali del fratello per manifestare la volontà di non venir meno alla Revolución. Accettando, com'era inevitabile e ragionevole, l'apertura americana egli ha forzato la mano a Fidel che pur essendo gravemente malato non ha esitato a esprimere la sua reticenza a un abbraccio con i gringos. Raúl ha anche avviato o confermato riforme: piccole iniziative private, limitate proprietà della terra ai coltivatori diretti, acquisto di case, viaggi all'estero, limitata estensione del turismo (che ha i noti risvolti sessuali) agli americani. Ma non ha cambiato l'essenziale natura del regime. Ha rafforzato il ruolo fondamentale dei militari presenti, oltre che nella sicurezza, in tanti settori della vita economica. Su questa base il fratello minore, presidente di rincalzo, dovrebbe poter garantire una certa stabilità al regime nei due anni da governare che gli restano, stando al mandato che si è assegnato. Potrebbe succedergli il figlio Alejandro. Roberto Vega di Cuba Posible, organizzazione per il dialogo politico, è di questo parere: crede nella stabilità. Non è d'accordo Enrique Lòpez Oliva, storico della Chiesa, il quale, nella morte di Fidel, vede piuttosto il forte segno di un cambio. Determinato anche dalla svolta americana, che potrebbe rinviare sine die l'approvazione del Congresso all'abolizione dell embargo contro Cuba, e dall'indebolimento o addirittura la fine dell'aiuto del Venezuela di Maduro in grande crisi. Figlio di un proprietario terriero di Biran, nella parte orientale dell'isola, Fidel è sempre stato un appassionato di agricoltura. Chi l'accompagna nell'ultimo viaggio, mentre le sue ceneri attraversano le belle pianure cubane, lo pensa impegnato nella riforma agraria che realizza subito nel 1959 limitando a 400 ettari la superficie massima delle proprietà agricole, poi ridotta a 67 ettari nel '63. Salda così un primo debito con i campesinos che l'hanno aiutato, protetto, nutrito, negli anni della guerriglia sulla Sierra Maestra e riforma un sistema di sfruttamento che rende schiavi o miserabili i lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero. Sotto forma di fattorie del popolo o di cooperative la Revolución arriva così a controllare il 70 per cento delle terre. I piccoli proprietari sopravvissuti sono costretti a vendere allo Stato, che fissa i prezzi, la quasi totalità dei loro prodotti. Il 90 per cento. E poi, col tempo, dovranno cedere anche gli orti che avevano potuto conservare per i consumi familiari. Fidel non ha mai rinunciato a imporre non solo la sua politica agricola, ma anche la sua abilità di tecnico dell'agricoltura. E in questa veste venne descritto come presente ovunque, ostinato, collerico e sempre pronto a pontificare sulla coltivazione della canna da zucchero come sull'allevamento del bestiame. Le pianure coltivate che, in questi giorni, l'urna con le sue ceneri attraversa non hanno mai migliorato la loro produzione. In molti casi l'hanno peggiorata. Nei campi assolati la rivoluzione non è riuscita. Sotto la guida di Fidel non hanno mai assicurato all'isola orgogliosa un'autonomia alimentare, economica.

Vi racconto com’è nato il mito fasullo di Fidel Castro, scrive Stefano Cingolani il 26 novembre 2016 su "Formiche". Mito o ragione? Il dilemma che si ripete ogni volta quando si tratta di giudicare un personaggio che ha lasciato il segno, si ripropone ancor più netto nel giudicare Fidel Castro. La risposta nel suo caso è che il mito ha preso il sopravvento. E l’ironia della storia è che il suo mito è stato costruito da un altro mito, quello di John Fitzgerald Kennedy, il più sopravvalutato presidenti a stelle e strisce. Fidel era un rivoluzionario latino-americano fatto con lo stampo e destinato a diventare una sorta di caudillo più o meno benevolente. La sua rivolta contro il regime corrotto e mafioso di Fulgencio Batista, nel 1959, aveva una chiara impronta libertario-nazionalista. Nessuno poteva immaginare che il gigante barbuto dei Caraibi sarebbe diventato un nuovo Simon Bolivar o addirittura un nuovo Mao dalla cui ombra si stagliava un altro Lin Biao (Ernesto Che Guevara) ispiratore della rivoluzione permanente che dalle campagne del Terzo Mondo marciava verso le metropoli dell’imperialismo. Se non ci fosse stato lo sciagurato e disastroso tentativo di invasione americana sulla Baia dei Porci nell’aprile 1961, se Kennedy, a tre mesi dal suo insediamento, avesse scelto di seguire non gli amici del padre alla Sam Giancana, i quali facevano loschi e ricchi affari con Batista, ma la wilsoniana esportazione della democrazia nemica dei dittatori e degli autocrati di ogni risma, ci saremmo risparmiati tutta questa melassa pseudo-marxista (il barbuto di Treviri sarebbe inorridito di fronte alle campagne della zafra o alle presunte teorie economiche del Che) e chissà quante t-shirt, quanti baschi stellati, quanti “viaggi della speranza” di una sinistra europea orfana di Stalin e della rivoluzione culturale, in cerca a sua volta di un nuovo mito. La storia non si fa con i se? Calma con questo determinismo, la storia è l’insieme delle scelte concrete, degli atti compiuti dagli uomini. Gli errori di Kennedy hanno gettato Fidel nelle braccia dell’Unione Sovietica dove un uomo rozzo e spregiudicato come Nikita Sergeevič Chruščëv, già cocco di Stalin, sterminatore di contadini in Ucraina, ha cercato di usarlo alla stregua di una colorita e logorroica marionetta, per mettere gli Stati Uniti con le spalle al muro, rischiando l’olocausto nucleare. Sia lui sia Kennedy portarono il mondo sull’orlo della distruzione in quei tredici giorni dell’ottobre 1962, poi la ragione si risvegliò dal suo sonno e mise a tacere il mito. JFK alla fine reagì con realismo e lo stesso fece Nikita. Non sembri ingeneroso concentrare il coccodrillo su Fidel attorno a quei primi anni cruciali. Intanto può servire a ricordare ai giovani i quali sostengono di vivere in tempi oscuri, quanto fossero davvero bui, molto più bui, i tempi in cui sono vissuti i loro padri. Ma soprattutto è ora di ammettere che dopo quel primo triennio, di Fidel non resta che la propaganda costruita da agit-prop in cerca di identità. Lo stesso, in fondo, vale per JFK, il primo ad entrare in quel circuito mediatico-politico che ci porta, sia pur nelle forme perverse assunte dai social media, fino a Donald Trump. Castro ha tenuto Cuba in un limbo di povertà e oppressione. In un mio viaggio nei primi anni ’80 fui colpito dalla processione di grigi burocrati est europei che ogni mattina uscivano dagli alberghi per andare a dirigere gli zuccherifici, unica industria di un paese schiacciato da una monocultura tipica dell’imperialismo sovietico (e anche della Russia di oggi dipendente in modo pressoché totale dal gas). Che stridente contraddizione con le file di giovani creoli davanti ai chioschi di gelato o con la processione di vecchie e gigantesche auto americane degli anni ’50, curate in ogni particolare conservate e lucidate con orgoglio, di fronte alle quali sparivano le tristi Lada uscite da Togliattigrad il cui motore fondeva al caldo dei tropici. Mi fu chiaro senza dubbio, nonostante fossi anch’io confuso dal mito tardo-marxista, che i libri scritti da sofisticati intellettuali europei, dai Saverio Tutino, dai K.S. Karol, erano romanzi non analisi basate sui fatti. Di nuovo il mito contro la ragione. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno seguito una politica estera miope nel Centro America anche dopo la fine della guerra fredda: l’embargo nei confronti di Cuba è stato inutile ed era diventato persino ridicolo. Fidel muore mentre il castrismo sopravvive a se stesso con suo fratello Raul meno carismatico, ma non meno brutale nella gestione del potere. Non durerà più a lungo anche grazie all’apertura decisa da Barack Obama e preparata lungamente e accuratamente dal Vaticano. Cuba non rappresenta in nessun modo, e da almeno un quarto di secolo, un pericolo. Ma gli Stati Uniti, nonostante tutto quel che è accaduto dopo l’implosione dell’Unione sovietica, non hanno mai saputo costruire una politica positiva nei confronti dell’America Latina. Lo farà Trump con il suo muro anti-messicani e con il suo America First che non assomiglia minimamente a quella “America agli americani” del presidente Monroe, grido liberatorio nei confronti delle potenze coloniali europee? Non sembra proprio. Peccato. Perché la scomparsa di Castro potrebbe davvero aprire una pagina nuova. Stefano Cingolani

Castro che per il suo successo deve dire grazie alla propaganda dei media degli Stati Uniti che ne decretarono il mito.

Cuba, 60 anni fa lo sbarco di Fidel e la Sierra Maestra, scrive "L'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba". La Sierra Maestra, bastione ribelle. Tra le montagne più alte di Cuba, nella zona meridionale della vecchia provincia di Oriente, poté trionfare la tesi di Fidel Castro – esposta ai tempi dell'assalto al Moncada - di mettere in funzione un motore piccolo per farne andare uno più grande che trascinasse con sé le potenzialità rivoluzionarie del popolo. L'incipiente guerriglia degli inizi del 1957, due anni dopo entrava trionfante a La Habana trasformata in Esercito Ribelle, sostenuto e acclamato dalla maggior parte della popolazione; prima però dovette sopravvivere, sfuggire all’incalzamento delle forze batistiane e sconfiggere la sanguinaria tirannia che uccise 20.000 cubani. La mobilità costante caratterizzò i primi mesi. Nelle lunghe marce sulla Sierra Maestra, le reclute combattenti si prendevano gioco del nemico; conoscevano bene il terreno ed erano preparate fisicamente. Le fila dei ribelli venivano nutrite, selezionate e consolidate, così come i contatti con la pianura e con i contadini. Questi sarebbero stati i loro naturali alleati e il grosso delle future incorporazioni alla guerriglia. Dopo l'attacco alla caserma di La Plata, il 17 gennaio, e dello scontro di Arroyo del Infierno – il giorno 22 - tutti e due riusciti, la delazione di una guida mise in pericolo la guerriglia. Il giorno 30 patì un violento bombardamento al Pico Caracas, riuscì a sfuggire alla trappola tesa il 9 febbraio ad Altos de Espinosa, dove perse la vita un combattente contadino. In un'altra occasione ancora i soldati poterono seguire le loro tracce, ma alla fine il traditore Eutimio Guerra venne catturato, processato e fucilato dalle forze ribelli. Poco prima, i capi della guerriglia scesero dalle montagne per incontrarsi in una località vicina a El Jibaro con Frank País e con altri dirigenti del Movimento 26 Luglio (coordinamento tra la Sierra e la pianura), e ricevettero la visita di un giornalista nordamericano. Il 17 febbraio, Herbert L. Matthews, del quotidiano New York Times, intervistò Fidel Castro; ciò contribuì a confermare il fatto che il leader cubano era ancora vivo e che la fiamma della ribellione seguiva incessante il suo corso. La rivista Bohemia, che godeva di un'ampia diffusione a livello nazionale, il 17 marzo pubblicò pure due pagine con le foto di Fidel e dei suoi compagni sulla Sierra Maestra, e queste furono le prime a essere conosciute nel paese. I rinforzi promessi da Frank País arrivarono il 16 marzo, con circa 50 uomini e armamento per una trentina. La settimana seguente servì per una generale risistemazione e di apprendistato. Il 23 aprile ricevettero la visita del giornalista statunitense Robert Taber e del cameraman Wendeil Hoffman, che giunsero assieme a Celia Sánchez e a Haydée Santamaría e ad altri due uomini inviati dal Movimento 26 Luglio. Per questo reportage salirono sul Pico Turquino (1.974 metri sul livello del mare, il più alto di Cuba), e le loro immagini fecero il giro del mondo. Batista non poteva continuare a negare l'esistenza della guerriglia dopo questa e altre successive pubblicazioni. Il 28 maggio 1957 ci fu l'attacco alla caserma di El Uvero, sulla costa sud; un'importante vittoria che contrassegnò la maturità raggiunta dalla guerriglia, secondo quanto avrebbe narrato Ernesto Che Guevara, che rimase con i feriti mentre Fidel andava organizzando un'imboscata alle truppe batistiane. Il 16 giugno il Che si riunì al gruppo assieme ai feriti che si erano ristabiliti e ad altri nuovi adepti. Poco a poco si vennero a creare le condizioni che avrebbero permesso di estendere le azioni di lotta su un più vasto raggio. In luglio venne costituita la Colonna n° 4 - in realtà la seconda dell'Esercito Ribelle, ma questo nome le fu dato per confondere la dittatura - agli ordini di Guevara, asceso al grado di comandante il 21 luglio, e formata da tre plotoni. La sua missione era quella di operare a est del Pico Turquino. Nel frattempo, a ovest, la Colonna n° 1 faceva altrettanto, comandata da Fidel Castro alla guida di cinque plotoni. Ambedue formavano il 1º Fronte "José Martí". La guerriglia concludeva la sua fase nomade. A partire da allora cominciarono diverse azioni ripetute (luglio, agosto e settembre) contro le caserme e le colonne dell'esercito inviate sulla Sierra Maestra. Mentre inviava le sue truppe sulle colline, il Governo di Batista cercò in tutti i modi di eliminare la base di appoggio dei ribelli attraverso il bombardamento e il cannoneggiamento delle montagne e gli assassini degli abitanti dei villaggi della Sierra. L'evacuazione di migliaia di contadini verso aree di concentramento in luoghi sorvegliati dall'esercito governativo, ricordavano i tempi del Capitano Generale spagnolo Valeriano Weyler, quando gli uomini venivano stipati sulle navi senza le più elementari condizioni di vita. I piani offensivi (R-1, R-2, R-3 e R-4), tra ottobre 1957 e gennaio 1958, avevano l'obiettivo specifico di isolare i rivoluzionari, di accerchiarli e di ridurre progressivamente lo spazio circostante fino al loro annientamento. Era anche prevista la sorveglianza della raccolta della canna da zucchero, messa in pericolo dai continui sabotaggi. Sul finire del 1957 - primo anno della guerriglia ribelle - esisteva già un consolidamento del territorio insorto sulla Sierra Maestra che comprendeva - prendendo come punto di riferimento il Pico Turquino - la zona compresa tra Pico Caracas, a ovest, e Pino del Agua, a est. A sud della cordigliera si estendeva il mare, mentre il nord era costellato da piccoli villaggi stretti tra le roccaforti occupate dai soldati del regime. Questi potevano azzardarsi a penetrare nella zona soltanto in grandi colonne che si muovevano con difficoltà e che potevano essere attaccate con più facilità dai guerriglieri che sconfissero le ripetute offensive batistiane. Allora la linea di posizione dell'esercito arretrò; i centri di comando si trovavano a Yara, Estrada Palma, Manzanillo e Buey Arriba, mentre le riserve centrali erano a Bayamo; da questi dipendevano le caserme di Pino del Agua, Guisa, El Oro, San Pablo del Yao, Niquero e Media Luna, tra le altre. Assieme ai distaccamenti armati, i ribelli stabilirono tribunali, ospedali, scuole di preparazione militare, politica e di alfabetizzazione. Il secondo attacco a Pino del Agua (16-17 febbraio 1958) ebbe risonanza nazionale (la censura era stata tolta in tutto il paese meno nella provincia di Oriente) e con le armi catturate fu possibile aprire nuovi fronti di combattimento. Era il 2 dicembre 1956: i Castro esuli in Messico sbarcarono con 82 uomini ma furono annientati dall'esercito di Batista. Con loro il "Che".

Cuba, 60 anni fa lo sbarco di Fidel e la Sierra Maestra, scrive Edoardo Frittoli l'1 dicembre 2016 "Panorama". Il 15 maggio 1955 Fidel Castro e suo fratello Raùluscirono di prigione all'Avana. Erano stati incarcerati per un primo tentativo di rovesciamento del declinante regime di Fulgencio Batista due anni prima, in seguito rilasciati in virtù dell'amnistia che il dittatore cubano aveva dovuto concedere per le forti pressioni internazionali. I due futuri leader fuggirono in Messico, da dove cercarono di ricomporre a fatica la forza rivoluzionaria tra le tante incursioni delle autorità messicane e degli agenti di Batista. A Città del Messico Fidel Castro incontra per la prima volta Ernesto "Che" Guevara che si unisce come medico ufficiale dell'esercito rivoluzionario. I progetti di una imminente spedizione a Cuba si fanno concreti alla metà del 1956, quando il futuro "lìder maximo" riesce a raccogliere un'ottantina di uomini e un vecchio yacht da diporto, la "Grandma". L'imbarcazione, omologata per 12 passeggeri, salpò lenta e stracarica la notte del 25 novembre 1956 dalle coste messicane. A bordo c'erano 82 guerriglieri e con i fratelli Castro i comandanti Faustino Perez, Cienfuegos e Guevara. Con la radio fuori uso ed il sovraccarico, la navigazione durò più del previsto. L'incontro prestabilito con le forze rivoluzionarie sull'isola fu mancato e i guerriglieri di Castro, stremati ed affamati dalla traversata, sbarcarono il 2 dicembre 1956 sulla Playa de Los Colorados, una zona paludosa e inospitale della costa occidentale di Cuba. Intercettati poco prima da un velivolo dell'esercito di Batista, gli uomini di Castro finirono in trappola. L'esito della spedizione e dei futuri sviluppi della revoluciòn furono sul punto di essere annientati dagli scontri che seguirono lo sbarco contro le forze del dittatore accorse nella zona dello sbarco. Degli 82 guerriglieri, soltanto 12 furono risparmiati dal fuoco di Batista tra cui i fratelli Castro e Che Guevara che rimase ferito negli scontri. I superstiti si riuniranno poco dopo sulle alture boschive della Sierra Maestra, dove i capi della rivolta organizzeranno la guerriglia alla quale prenderà parte un crescente numero di militari cubani passati dalla parte dei ribelli, (anche grazie alla propaganda dei media degli Stati Uniti, che facevano apparire una forza militare rivoluzionaria che nei fatti non esisteva: da 12 effettivi ne dimostravano con filmati artefatti molti di più) mentre il regime di Fulgencio Batista, sempre più inviso agli stessi americani che lo avevano sostenuto, andava rapidamente disgregandosi.

SULLA SIERRA CON FIDEL. PICCOLA STORIA POPOLARE DELLA RIVOLUZIONE CUBANA, scrive a giugno 2000 Giorgio Amico su "Ecn.org".

CUBA AGLI INIZI DEGLI ANNI CINQUANTA. Considerata un paradiso dai ricchi turisti nordamericani in cerca di avventure, celebrata soprattutto per le sue spiagge meravigliose e per le grandi case da gioco, agli inizi degli anni cinquanta Cuba, la "perla delle Antille", celava dietro un apparenza di relativa prosperità contraddizioni laceranti. Nel 1950 la World Bank descriveva così la realtà contraddittoria dell'isola caraibica: "L'economia cubana soffre di un alto grado di instabilità. Ogni anno c'è una lunga stagione morta in cui la maggior parte dei lavoratori dello zucchero sono disoccupati e il più grande equipaggiamento di capitale del paese resta inutilizzato... un'economia stagnante ed instabile con un elevato livello di insicurezza...". L'anno successivo la missione Truslow, inviata dal Dipartimento di Stato USA per analizzare le ragioni dell'arretratezza dell'isola, denunciò in un lungo rapporto le profonde contraddizioni di un sistema economico che, nonostante l'apparente ricchezza, manteneva ancora tutti gli elementi tipici della dipendenza economica: la mancanza di spirito imprenditoriale di una borghesia quasi interamente dedita ad attività speculative, l'insufficienza degli investimenti, la carenza cronica delle infrastrutture sociali ed amministrative. Anche da questa indagine emergeva soprattutto l'elemento della stagnazione, reso drammaticamente evidente dal fatto che, nonostante l'isola a causa dell'andamento favorevole del prezzo dello zucchero sui mercati internazionali stesse in quel momento attraversando un eccezionale periodo di prosperità e le riserve auree fossero le più elevate dell'America Latina, il reddito pro-capite si manteneva di poco superiore a quello del 1920. Per le statistiche poco più di trecento dollari l'anno, cioè meno di un dollaro il giorno in media a persona; nella realtà, considerato il fortissimo divario esistente fra strati ricchi e poveri della popolazione, la stragrande maggioranza dei cubani disponeva di un reddito assai inferiore. E ciò era particolarmente vero per la popolazione delle campagne, dove si concentrava ancora oltre il settanta per cento degli abitanti dell'isola. I contadini, considerati alla stregua di vere e proprie bestie da soma, erano totalmente abbandonati a se stessi e lasciati privi di ogni assistenza. Nessuno si occupava di loro, essi erano i grandi dimenticati della società cubana. Colpisce il fatto che in un paese che si diceva cattolicissimo, dove restava fortissimo il peso politico ed economico di una gerarchia ecclesiastica che dopo la rivoluzione accuserà il poder popular di voler scristianizzare la società, non esistessero quasi chiese nelle campagne. Le malattie infettive infierivano per la scarsissima igiene e per la malnutrizione, colpendo soprattutto i bambini. Il passo che segue, tratto da un libro inchiesta pubblicato negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta, basta a far comprendere quali fossero le reali condizioni di vita per milioni di persone nella Cuba prerivoluzionaria: "I parassiti crescono e si moltiplicano nel corpo dei bambini. Alcuni di questi vermi, delle dimensioni di una matita, si raccolgono in grovigli o gomitoli, ostruiscono il sistema intestinale e bloccano la defecazione provocando morti strazianti. Questi parassiti s'introducono nel corpo attraverso la pianta dei piedi dei bambini che camminano scalzi sul terreno infestato. Quando un bambino è morto, i vermi possono uscire strisciando dalla sua bocca o dalle sue narici, in cerca di un altro organismo vivente". La malnutrizione era generalizzata. Le famiglie contadine vivevano di farinacei e legumi. Nelle città per le classi popolari le cose non erano poi tanto migliori. Il 25 % della popolazione era disoccupata, ma nelle campagne la grande maggioranza dei contadini non lavorava più di tre o quattro mesi all'anno, nel periodo della zafra, il raccolto della canna da zucchero. Di contro un piccolo gruppo di latifondisti dominava incontrastato. Meno dello 0,1% del numero totale delle aziende controllava più del 20% delle terre coltivabili; l'8% del totale ne controllava più del 70%. Quanto alla classe operaia, questa era numericamente debole, impiegata in forme di produzione di scarso livello tecnico, inquadrata da sindacati diretti da leaders spesso corrotti, legati alla dittatura o alle organizzazioni gangsteristiche nordamericane che sull'isola gestivano traffici rilevanti connessi alle case da gioco e alla prostituzione. Agli occhi di un osservatore attento Cuba appariva come un paese neocoloniale, caratterizzato da una struttura economica profondamente distorta, con tassi di sviluppo molto bassi, una totale dipendenza dagli Stati Uniti e un debolissimo livello di industrializzazione. Una società arretrata, segnata da vistose ingiustizie, ancora basata su un'agricoltura connotata dallo strapotere del latifondo e dall'estrema povertà delle grandi masse contadine. Proprio quello che con passione nell'ottobre 1953 un giovane avvocato, Fidel Castro, accusato di insurrezione contro i poteri dello Stato, denunciava nella sua autodifesa davanti al Tribunale straordinario di Santiago: "L'85% dei piccoli agricoltori cubani paga un affitto e vive sotto la minaccia perenne della cacciata dalle sue parcelle di terra. Più della metà delle migliori terre coltivate è in mano straniere. In Oriente, che è la provincia più estesa, le terre della United Fruit Company e della West Indian Company vanno dalla costa nord alla costa sud. Ci sono duecentomila famiglie contadine che non hanno neanche un metro di terra su cui seminare ortaggi per i loro figli affamati, mentre restano incolte nelle mani di interessi poderosi, quasi trecentomila caballerías di terre produttive. Se Cuba è un paese prevalentemente agricolo, se la sua popolazione è in gran parte contadina, se è stata la campagna a fare l'indipendenza, se la grandezza e la prosperità della nostra nazione dipendono da una popolazione agricola sana e vigorosa che ami e sappia coltivare la terra, da uno Stato che la protegga e la guidi, come è possibile che continui questo stato di cose...?".

LA DITTATURA DI FULGENZIO BATISTA. La corruzione diffusa e la concezione della politica come mezzo di arricchimento personale, tristi eredità del dominio spagnolo, restavano le caratteristiche più visibili del sistema politico cubano, al di là del variare dei regimi e dei partiti. Dopo la prima dittatura Batista, dal 1944 era al governo il Partito Rivoluzionario Autentico, caratterizzato da un timido e incoerente liberalismo incapace di affrontare i gravi problemi del paese. Nel 1947 Eduardo Chibás fondò il Partito del Popolo Cubano (o Partito Ortodosso) che si richiamava all'eredità di José Martí e adottava un programma nazionalista e moralizzatore non privo di contraddizioni e di incoerenze sul piano della denuncia dello sfruttamento imperialistico da parte delle grandi multinazionali nordamericane. Tuttavia, secondo la testimonianza di Fidel Castro, in quegli anni dirigente della organizzazione studentesca del Partito: "Molta gente in gamba militava in quel partito. Si batteva soprattutto contro la corruzione, il furto, gli abusi, l'ingiustizia e denunciava continuamente gli abusi della prima dittatura di Batista. Nell'università il partito si rifaceva a tutta una tradizione di lotta, ai martiri della facoltà di medicina, massacrati nel 1871, e alla lotta contro Machado e Batista." Nel 1952 dovevano svolgersi le elezioni presidenziali e il partito ortodosso sembrava favorito. Ma, pochi giorni prima delle elezioni, il 10 marzo 1952, quando la vittoria degli ortodossi appariva ormai certa, un colpo di stato militare pilotato da Washington, dove si temeva che il cambiamento di regime potesse in qualche modo danneggiare gli interessi americani, riportò al potere il generale Fulgenzio Batista, che godeva del sostegno incondizionato del governo degli Stati Uniti e del Pentagono e nei fatti era l'uomo dei monopoli americani, dei grandi latifondisti e della Chiesa. Proclamatosi dittatore, Batista appena due anni dopo si fece eleggere presidente con elezioni farsa e subito adottò una politica di stampo autoritario: la Costituzione venne sospesa, le relazioni diplomatiche con l'Unione Sovietica interrotte, il Partito Comunista messo fuorilegge. Verso il movimento operaio e la stessa opposizione borghese del Partito Ortodosso il regime sviluppò una azione violentemente repressiva che andò via via assumendo aspetti sempre più apertamente terroristici. Venendo a interrompere bruscamente una fase di ascesa delle lotte popolari, il golpe di Batista segnò la fine di un'epoca e il crollo definitivo delle speranze in una pacifica evoluzione democratica del quadro politico cubano. La nuova situazione venutasi a creare all'Avana, contribuì a fare emergere nuove figure politiche. Tra queste fin da subito la più significativa apparve essere quella di Fidel Castro, già leader studentesco e ora avvocato radicale.

IL GIOVANE FIDEL. Figlio di un piantatore di canna da zucchero della provincia di Oriente, laureatosi in legge all'Università della Avana, dove si era messo in mostra come il principale leader della organizzazione degli studenti democratici, sul finire degli anni Quaranta Fidel Castro aveva intrapreso la libera professione, assumendo, spesso gratuitamente, il patrocinio legale di operai, contadini e prigionieri politici. Il coraggio e l'assoluto disinteresse personale dimostrato in un mondo politico caratterizzato dalla più bieca viltà e corruzione, lo avevano in breve tempo imposto all'ammirazione degli elementi più avanzati della gioventù democratica e nazionalista. Attorno a lui si era così venuta creando una rete di compagni e di cellule che, pur non avendo ancora un programma politico ne una forma organizzata, aveva tuttavia assunto le caratteristiche tipiche di un movimento cospirativo. E in effetti Fidel Castro fu il primo a comprendere che l'intero quadro politico era ormai radicalmente cambiato e che nella nuova fase aperta dal colpo di stato militare occorreva far fare al movimento democratico un salto di qualità. Se fino al marzo 1952 si trattava di restaurare pienamente la democrazia parlamentare, ora diveniva necessario rovesciare con le armi la dittatura militare. Sentiamo la sua testimonianza: " Cominciai a pensare a restaurare la situazione anteriore e a unire tutti per liquidare quella cosa infame e reazionaria che era il golpe di Batista. Cominciai a organizzare personalmente i militanti poveri e battaglieri della gioventù ortodossa ed entrai in contatto con alcuni leaders di quel partito che si dicevano favorevoli alla lotta armata. Ero convinto della necessità di sconfiggere Batista con le armi per poter tornare alla situazione anteriore, al regime costituzionale (...) In poche settimane organizzai i primi combattenti e le prime cellule. Installammo stazioni radio clandestine e diffondemmo un piccolo giornale ciclostilato. Avemmo dei problemi con la polizia, che in seguito ci servirono da esperienza; da allora in poi, infatti, adottammo metodi estremamente cauti nella selezione e nell'organizzazione settoriale dei compagni". Dopo un anno di intensa attività cospirativa, l'organizzazione di Fidel poteva contare su circa duecento giovani militanti, in prevalenza studenti ed operai, pronti a mettere in gioco la propria vita in un'impresa quasi disperata: la presa della Caserma Moncada, alla periferia di Santiago.

L'ASSALTO ALLA CASERMA MONCADA. La presa del Cuartel Moncada, per importanza strategica la seconda base militare dell'isola, avrebbe dato il segnale d'avvio dell'insurrezione destinata a spazzare via la tirannia di Batista. Il piano, accuratamente predisposto da Fidel, che stava per compiere 27 anni, da suo fratello Raúl di 22, da Abel Santamaría e Jesús Montané Oropesa, prevedeva l'attacco di sorpresa alla caserma, la cattura dei mille uomini della guarnigione, l'occupazione delle stazioni radio e il lancio di un appello al popolo cubano perchè si unisse agli insorti. Mentre il grosso dei ribelli avrebbe attaccato il Moncada, un secondo gruppo di una trentina di uomini sarebbe andato all'assalto del presidio di Bayamo, importante nodo strategico sulla strada che collega Santiago con il resto dell'isola. Nonostante il grande divario di forze, l'impresa poteva avere buone possibilità di riuscita a condizione però di poter contare sul fattore sorpresa. Alle cinque della mattina del 26 luglio 1953 i rivoltosi partirono alla volta degli obiettivi assegnati. Prima ascoltarono un breve discorso di Fidel: "Fra poco - egli disse - sapremo se saremo vincitori o vinti. Se saremo vincitori, avremo realizzato le aspirazioni di José Martí. Se saremo vinti, la nostra azione servirà da esempio al popolo di Cuba e sarà ripresa da altri. In ogni modo il movimento trionferà". L'attacco, pur condotto con grande eroismo, si rivelò fin dalle prime battute un disastro. Dei tre gruppi che dovevano impadronirsi della caserma di Bayamo, due furono subito quasi interamente sterminati. Il terzo riuscì a entrare nella caserma, ma fu sopraffatto dalla guarnigione. Anche a Santiago l'effetto sorpresa andò subito perduto. Per difficoltà intercorse nell'attraversamento della città solo la metà dei novantacinque uomini che dovevano impadronirsi della caserma, si trovarono sul posto al momento dell'attacco. Così Fidel ricostruisce l'azione: "Eravamo circa 120 uomini. Un gruppo occupò alcuni edifici, come quello del Tribunale che dominava un angolo della caserma; altri occuparono le case sul retro della caserma e il nostro gruppo puntò verso l'ingresso principale per fare irruzione sul davanti. Io mi trovavo nella seconda macchina. La sparatoria cominciò al mio fianco, quando incrociammo una pattuglia di ronda (...) Avendo incontrato quella pattuglia, la battaglia si sviluppò fuori della caserma e non dentro, come era stato previsto. I soldati furono messi in guardia, erano oltre mille uomini, e noi perdemmo il fattore sorpresa e il nostro piano fallì". Fallita la sorpresa, gli insorti, costretti a battersi contro un nemico soverchiante, dovettero ritirarsi. I soldati circondarono l'ospedale, occupato dal gruppo di Abel Santamaría e dopo un aspro combattimento catturarono tutti i 21 combattenti, fra cui due donne. Quasi tutti furono assassinati subito dopo feroci torture. A Abel, prima di ucciderlo, strapparono gli occhi. In tutta l'isola venne scatenata una gigantesca caccia all'uomo per catturare Fidel e gli altri superstiti dell'attacco. Uno dopo l'altro gran parte dei ribelli vennero catturati. Molti di essi furono assassinati sul posto. In tutto i caduti furono settanta. Il 29 luglio venne arrestato Raúl Castro, il 1 agosto fu la volta di Fidel, catturato mentre con alcuni compagni tentava di raggiungere le montagne della Sierra Maestra. La pressione di un'opinione pubblica disgustata dalla brutalità dell'esercito e l'intervento dell'arcivescovo di Santiago valsero a fermare la carneficina. Fidel e i suoi compagni furono sottratti alla ferocia della soldataglia e affidati alle autorità civili. Rinchiuso nel carcere di Boniato, in attesa di processo di fronte al tribunale di Santiago per aver organizzato e diretto l'assalto alla caserma Moncada, Fidel divenne famoso in tutta Cuba e il leader riconosciuto dell'opposizione alla odiata tirannia di Batista. Grande impressione destò nell'opinione pubblica cubana, anche nella componente più moderata, il coraggioso atteggiamento tenuto dal giovane avvocato durante il processo. Nonostante fosse in pericolo di vita, si seppe poi che lo stesso Batista aveva ordinato il suo assassinio in carcere, Fidel Castro trasformò il processo in una tribuna da cui accusare la dittatura per i crimini commessi contro il popolo cubano e i patrioti insorti.

LA STORIA MI ASSOLVERA'. Il 21 settembre 1953 presso la Corte di giustizia di Santiago si aprì il processo contro 122 imputati, accusati di insurrezione contro i poteri dello Stato. Orgogliosamente Fidel, che in quanto avvocato aveva rifiutato il patrocinio legale per difendersi da solo, rivendicò la legittimità dell'attacco, affermando che i ribelli avevano il diritto di tentare di rovesciare Batista proprio in nome della Patria e della Costituzione. Invitato a rivelare i nomi degli ispiratori della rivolta, con estrema dignità dichiarò ai giudici: "Il solo autore morale di questa rivoluzione è José Martí, l'apostolo della nostra indipendenza". Di fronte a questo atteggiamento irriducibile che trasformava il dibattimento in un processo alla dittatura e all'imperialismo, il governo cercò in ogni modo di impedirgli di prendere la parola. Fidel, costretto ad un regime di rigido isolamento carcerario, fu fisicamente impedito di partecipare al processo. La sua posizione fu stralciata e il nuovo dibattimento si tenne il 16 ottobre. Il processo si svolse a porte chiuse e fu consentita solo la presenza di alcuni giornalisti che non poterono pubblicare nulla a causa della censura. Fidel Castro fu condannato a quindici anni di carcere. In quell'occasione egli parlò per due ore a sua difesa, pronunciando un discorso destinato a diventare il manifesto della rivoluzione cubana. Pacatamente, quasi a bassa voce, Fidel Castro espose le ragioni politiche e sociali che rendevano storicamente irreversibile la via rivoluzionaria: "...Caso insolito, quello che si stava verificando, signori magistrati: un regime che aveva paura di presentare un imputato davanti ai tribunali; un regime di terrore e di sangue che si spaventava davanti alla convinzione morale di un uomo indifeso, disarmato, isolato e calunniato. Così, dopo avermi privato di tutto, mi si privava infine del processo nel quale ero il principale imputato...Vi ricordo che le vostre leggi di procedura stabiliscono che il processo è "orale e pubblico"; nonostante questo, si è completamente impedito al popolo di assistere a questa udienza. Si sono lasciati passare solo due legali e sei giornalisti sui cui giornali la censura non permetterà di pubblicare una sola parola. Noto che quale unico pubblico, nelle sale e nei corridoi, ho un centinaio fra soldati e ufficiali. Grazie per la seria e cortese attenzione che mi si sta prestando! Magari avessi davanti a me tutto l'Esercito! Io so che un giorno brucerà dal desiderio di lavare la macchia terribile di vergogna e di sangue che hanno gettato sull'uniforme militare le ambizioni di un gruppetto senza coscienza... Da parte del governo si è ripetuto con molta enfasi che il popolo non assecondò il movimento. Non avevo mai sentito un'affermazione così ingenua e, nello stesso tempo, così piena di malafede. Si vuole in questo modo evidenziare la sottomissione e la pusillanimità del popolo; manca poco a che si dica che esso appoggia la dittatura... Non è mai stata nostra intenzione combattere contro i soldati della caserma: contavamo piuttosto, approfittando della sorpresa, di impossessarci del suo controllo e di quello delle armi, di lanciare un appello al popolo, quindi riunire i militari e invitarli ad abbandonare l'odiosa bandiera della tirannia e ad abbracciare quella della libertà; a difendere i grandi interessi della nazione e non i meschini interessi di una cricca di persone; a girare le armi e a sparare contro i nemici del popolo e non contro il popolo in cui si trovano i loro figli e i loro genitori... Le nostre possibilità di successo si fondavano su ragioni di ordine tecnico e militare e di ordine sociale. Si è voluto creare il mito delle armi moderne quale presupposto di qualsiasi impossibilità di lotta aperta e frontale del popolo contro la tirannia... Nessuna arma, nessuna forza è capace di vincere su un popolo che si decida a lottare per i propri diritti...Ho detto che la seconda ragione sulla quale si basava la nostra possibilità di successo era di ordine sociale. Perchè avevamo la sicurezza di poter contare sul popolo? Quando parliamo di popolo non consideriamo tale quei settori agiati e conservatori della nazione ai quali sta bene qualsiasi regime di oppressione, qualsiasi dittatura, qualsiasi dispotismo, i quali si prostrano davanti al padrone di turno fino a spaccarsi la fronte al suolo. Consideriamo popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta cui tutti promettono e che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela a una patria migliore, più degna e più giusta; quella che è mossa da ansie ancestrali di giustizia per aver sofferto l'ingiustizia e lo scherno generazione dopo generazione; quella che aspira a grandi e sagge trasformazioni in ogni ordine e che per riuscirci è disposta, allorquando crede a qualcosa e in qualcuno, soprattutto quando crede in se stessa, a dare fino all'ultima goccia di sangue. La condizione primaria della sincerità e della buona fede in un proposito è di fare, appunto, quello che nessuno fa, vale a dire, di parlare con tutta franchezza e senza paura... I rivoluzionari devono proclamare le loro idee coraggiosamente, definire i loro principi ed esprimere le loro intenzioni perché non si inganni nessuno, né amici né nemici. Noi chiamiamo popolo, quando si parla di lotta, quei seicentomila cubani che sono senza lavoro e che desiderano guadagnarsi il pane onestamente senza dover emigrare dalla propria patria alla ricerca di sostentamento; quei cinquecentomila braccianti che vivono nei miseri bohios, che lavorano quattro mesi all'anno e che per il resto soffrono la fame e spartiscono la miseria con i figli, che non hanno neanche un fazzoletto di terra su cui seminare... quei quattrocentomila lavoratori dell'industria e quei manovali le cui pensioni, tutte, vengono defalcate, le cui conquiste vengono strappate, le cui abitazioni sono le stanze infernali delle cuarterias, i cui salari passano dalle mani del padrone a quelle dello strozzino e il cui futuro è la riduzione del salario e il licenziamento, la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la tomba; quei centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro... che devono pagare i loro appezzamenti, come servi della gleba, con una parte del loro prodotto, che coltivano una terra che non possono amare, né migliorare, né abbellire... perchè non sanno qual è il giorno in cui verrà l'ufficiale giudiziario con la guardia rurale a dire loro che devono andarsene... Questo è il popolo, quello che patisce tutte le avversità ed è pertanto capace di combattere con estremo coraggio... Il problema della terra, il problema dell'industrializzazione, il problema della casa, il problema della disoccupazione, il problema dell'educazione e il problema della salute del popolo; ecco in concreto i sei punti alla cui soluzione sarebbero stati indirizzati risolutamente i nostri sforzi, unitamente alla conquista delle libertà civili e della democrazia politica... Il futuro della nazione e la soluzione dei suoi problemi non possono continuare a dipendere dall'interesse egoista di una decina di finanzieri, dai freddi calcoli sui profitti che dieci o dodici magnati progettano nei loro uffici con l'aria condizionata... I problemi della repubblica troveranno una soluzione solo se ci dedichiamo a lottare per essa con la stessa energia, rettitudine e patriottismo che le dedicarono i nostri liberatori per crearla... Un governo rivoluzionario con l'appoggio del popolo e la stima della nazione, dopo aver ripulito le istituzioni dai funzionari venali e corrotti, procederebbe immediatamente all'industrializzazione del paese... dopo aver sistemato sulle loro parcelle di terra nella veste di padroni i centomila piccoli agricoltori che oggi pagano i canoni, procederebbe a risolvere definitivamente il problema della terra...Un governo rivoluzionario risolverebbe il problema della casa riducendo drasticamente i canoni del cinquanta per cento, esentando da ogni tributo le case abitate dai loro proprietari, triplicando le imposte sulle case affittate, demolendo le infernali cuarterias per innalzare al loro posto edifici moderni e finanziando la costruzione di abitazioni in tutta l'isola....Infine, un governo rivoluzionario procederebbe alla riforma integrale dell'istruzione... "Un popolo istruito sarà sempre forte e libero"... No, questo non è inconcepibile. Quello che è inconcepibile è che ci siano uomini che vanno a dormire con fame mentre c'è anche un solo metro di terra incolta; quello che è inconcepibile è che il trenta per cento dei nostri contadini non sappia firmare... A coloro che per queste cose mi chiamano sognatore, dico come Martí: "Il vero uomo non guarda da quale parte si vive meglio, ma da quale parte si trova il dovere... ed è questo l'unico uomo pratico il cui sogno di oggi sarà la legge di domani"... Concludo la mia difesa, ma non lo farò come fanno sempre tutti gli avvocati chiedendo la libertà del patrocinato; non posso chiederla quando i miei compagni stanno patendo un'ignominiosa prigionia nell'Isola dei Pini. Mandatemi assieme a loro a condividere la loro sorte; è più concepibile che gli uomini onorati vengano uccisi o fatti prigionieri in una repubblica dove come presidente c'è un ladro criminale... In quanto a me, so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, gravido di minacce, di vile e codardo accanimento, ma non lo temo, come con temo la furia del tiranno miserabile che strappò la vita a settanta fratelli miei. Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà".

IL PRIGIONIERO DELL'ISOLA DEI PINI. Per l'assalto al Moncada Fidel fu condannato a quindici anni di reclusione, suo fratello Raúl a tredici, tutti gli altri imputati a pene minori. Tutti furono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza dell'Isola dei Pini dove, dopo sette mesi di isolamento, a Fidel fu permesso di organizzare per i suoi compagni dei corsi di formazione politica. Intanto cresceva nel paese anche in conseguenza ai fatti del Moncada una diffusa opposizione al regime batistiano. Il Partito Socialista Popolare, che pure si era dissociato dall'azione di Castro considerata un'avventura priva di prospettive, tentava di incanalare la protesta operaia per il peggioramento delle condizioni di vita organizzando una lunga serie di scioperi e di manifestazioni. Anche l'università, dove la popolarità di Fidel era altissima, era in fermento. La stessa Chiesa cattolica, di fatto favorevole al regime, di fronte agli eccessi della repressione si era sentita in dovere di intervenire raccomandando il ritorno ad un clima di maggiore concordia nazionale. Il 1 novembre 1954 Fulgenzio Batista venne eletto, dopo elezioni farsa senza candidati d'opposizione, presidente della repubblica. Nel febbraio dell'anno successivo il vicepresidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, si recò all'Avana a portare le congratulazioni del governo americano, imitato poco dopo dal direttore della CIA, Allen W. Dulles, che aveva appena organizzato il rovesciamento del governo Arbenz in Guatemala. Intanto in carcere Fidel rifletteva sul fallimento dell'azione del Moncada e sulla necessità di garantire un'efficace guida politica al movimento rivoluzionario, giungendo a conclusioni nei fatti pienamente leniniste: "Credo fondamentalmente - scrive il 14 agosto 1954 in una lettera ad un amico - che uno dei principali ostacoli che impediscono la creazione dell'opposizione...sia l'eccesso di personalismi e di ambizioni dei gruppi e ... dei caudillos...La situazione...mi ricorda gli sforzi di Martí per unire tutti i cubani degni nella lotta per l'indipendenza... Devo innanzitutto organizzare gli uomini del 26 Luglio e unire in un fascio indissolubile tutti i combattenti, quelli in esilio, quelli in prigione, quelli liberi... L'importanza di un simile nucleo perfettamente disciplinato darà una forza incalcolabile alla... formazione di quadri di lotta per l'organizzazione civile o insurrezionale. Da quel momento... un grande movimento civile politico deve contare sulla forza necessaria per prendere il potere, con mezzi pacifici o rivoluzionari, oppure correre il rischio di essere sconfitto due soli mesi prima delle elezioni, come l'ortodossia... Condizioni indispensabili per la creazione di un vero movimento civile sono: ideologia, disciplina, comando... Non si può organizzare un movimento in cui tutti credono di avere il diritto di fare dichiarazioni pubbliche, e non si può neanche sperare niente da un'organizzazione piena di gente anarchica che alla prima difficoltà se ne va per la strada che gli sembra migliore... L'apparato d'organizzazione e di propaganda deve essere così potente da distruggere implacabilmente chiunque tenti di creare frazioni, camarille, scissioni... Il programma deve contenere un'esposizione piena, concreta e valida dei problemi sociali ed economici che il paese deve affrontare, in modo che si possa inviare alle masse un messaggio veramente nuovo e progressivo... Soprattutto... le nostre energie non devono essere impiegate senza costrutto...". All'inizio del 1955 un comitato di madri di detenuti politici lanciò una campagna per un'amnistia generale. Batista, desideroso di migliorare l'immagine del regime, finì per accondiscendere, sperando in tal modo di recuperare parte dell'opposizione. Il governo fece sapere che tutti i prigionieri politici sarebbero stati liberati in cambio della promessa di non tentare nuove azioni armate contro il regime. Immediata e fiera fu la risposta di Fidel: il movimento di liberazione non avrebbe sottoscritto patti con la tirannia. La liberazione dei detenuti politici non poteva che essere incondizionata. "Noi non siamo perturbatori di professione, ne ciechi fautori della violenza, se la patria migliore che desideriamo può realizzarsi con le armi della ragione e dell'intelligenza (...) La nazione cubana non ci vedrà mai promotori di una guerra civile che si potrebbe evitare; e allo stesso tempo ripeto che tutte le volte che a Cuba si presenteranno le circostanze ignominiose che seguirono al colpo di stato del 10 marzo, sarà un delitto rinunciare a promuovere l'inevitabile ribellione. Se noi considerassimo che un mutamento di circostanze e un clima di positive garanzie costituzionali esigesse un mutamento di tattica nella lotta, opereremmo questo mutamento per rispetto agli interessi e al desiderio della nazione, mai però in virtù di un compromesso con il governo, che sarebbe vile e vergognoso". Il 3 maggio, il Congresso approvò il progetto di amnistia che venne tre giorni più tardi controfirmato da Batista. Il 15 maggio Fidel e tutti i suoi compagni vennero scarcerati. L'arrivo di Fidel all'Avana fu trionfale. I principali esponenti dell'opposizione assieme ai dirigenti del Partito Ortodosso, della Federazione Universitaria e del movimento degli studenti vennero alla stazione ad accogliere l'eroe del Moncada. Nonostante dal carcere avesse richiesto lo svolgimento di libere elezioni nel più breve tempo possibile quale condizione fondamentale per il ristabilimento delle più elementari garanzie costituzionali, Fidel non credeva che il regime di Batista fosse riformabile per via parlamentare, tanto meno che il soggetto politico adatto fosse l'ormai compromesso partito ortodosso. Tornato in libertà, egli si dedicò pertanto a organizzare clandestinamente, una nuova forza politica, anche nel nome erede diretta dell'esperienza del Moncada: il Movimento 26 Luglio. Fidel, consapevole della necessità di dover presto lasciare Cuba dove per la repressione che aveva ripreso a infuriare si trovava quotidianamente in pericolo di vita, sapeva bene che, prima di partire per l'esilio, era necessario costruire una salda rete organizzativa che preparasse il terreno per un nuovo tentativo insurrezionale che non ripetesse più gli errori del Moncada. Utilizzando in gran parte veterani del Moncada, ma anche forze nuove venute al movimento dalla classe operaia e dall'università, a tempo di record fu costituito un Direttorio nazionale di undici membri. A questo punto Fidel decise che era il momento di lasciare definitivamente Cuba e il 7 luglio partì per il Messico, dove già dal 24 giugno si era rifugiato suo fratello Raúl. Prima di partire, il leader rivoluzionario affidò alla rivista "Bohemia" un ultimo messaggio al popolo cubano: "Lascio Cuba perché mi sono state chiuse tutte le porte per una lotta pacifica. Sei settimane dopo essere stato scarcerato mi sono più che mai convinto dell'intenzione del dittatore di restare al potere per vent'anni, a qualsiasi costo, governando come ora attraverso il terrore e il crimine, e ignorando la pazienza del popolo cubano, pazienza che ha i suoi limiti. Come seguace di Martí, credo sia giunta l'ora di appropriarci dei nostri diritti e non più di chiederli, di combattere invece che di implorare. Andrò a vivere da qualche parte nei Caraibi. Da viaggi come questo non si torna o si torna dopo la decapitazione della tirannia".

L'ESILIO MESSICANO. Giunto in Messico, Fidel si mise alacremente all'opera per riorganizzare le fila del Movimento, sia a livello legale, collegando fra di loro i gruppi di esiliati dispersi fra il paese centramericano, gli Stati Uniti, il Costarica con lo scopo di raccogliere fondi, organizzare campagne di solidarietà, diffondere materiale di propaganda, fare opera di proselitismo nell'emigrazione antibatistiana; sia a livello clandestino, raccogliendo armi e munizioni e pianificando l'addestramento militare di un gruppo selezionato di combattenti per il ritorno armato in patria. Il 2 agosto egli inviò a Faustino Pérez con l'ordine di diffonderlo in decine di migliaia di esemplari il "Manifesto n.1 al popolo cubano". Il programma, articolato su quindici punti, riprendeva radicalizzandole le tesi contenute ne "La storia mi assolverà". Il manifesto prevedeva la eliminazione del latifondismo, la distribuzione della terra ai contadini, la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, una drastica diminuzione degli affitti, la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali, la riforma del sistema fiscale, eliminazione di ogni forma di discriminazione "di razza e di sesso", la riorganizzazione del sistema giudiziario, la confisca dei beni dei notabili del regime. In quei giorni Fidel incontrò un altro esule, destinato a diventare il suo più fedele compagno di lotta: il giovane medico argentino Ernesto Guevara, riparato in Messico dopo il fallimento dell'esperienza rivoluzionaria di Arbenz in Guatemala. "Lo conobbi - ha scritto il Che - in una di quelle fredde notti messicane e ricordo che la nostra prima discussione riguardò problemi di politica internazionale. Dopo poche ore di quella stessa notte, verso il mattino, ero già diventato uno dei membri della futura spedizione". Nel mese di ottobre, grazie a un visto dell'ambasciata americana in Messico, Castro partì per un giro di conferenze negli Stati Uniti al fine di incontrare altri dirigenti dell'opposizione e di raccogliere fondi per la spedizione che stava preparando. Dopo alcuni discorsi a New York e in Florida, il governo cubano protestò e le autorità del servizio immigrazione statunitense interruppero il soggiorno di Fidel e gli ritirarono il visto per ulteriori viaggi. Prima di tornare in Messico, dalle isole Bahamas Fidel inviò in patria un secondo manifesto al popolo cubano in cui si affermava che la crisi crescente dell'economia cubana, l'infuriare della repressione, i massacri di operai, gli scontri quotidiani tra studenti e polizia, dimostravano all'intero paese che la salvezza della patria non poteva che passare per una rivoluzione non solo politica, ma anche sociale. Coerente con queste premesse, Castro recise ogni rapporto con il vecchio partito ortodosso e con i rappresentanti dell'opposizione moderata, rendendo pubblica la costituzione di un nuovo movimento rivoluzionario, deciso a portare fino alle estreme conseguenze la lotta contro la tirannide. " Il Movimento 26 Luglio - dichiarò il 19 marzo 1956 - è l'organizzazione rivoluzionaria di tutti gli uomini umili e che agisce in favore degli umili. Se una speranza di riscatto esiste per la classe operaia cubana, cui nulla possono offrire le varie camarille politiche, essa è rappresentata da questo movimento, che è anche una speranza di terra per i contadini che vivono come paria in quella patria che i loro avi hanno liberato, una speranza di ritorno per quegli emigrati che hanno dovuto abbandonare una terra che era la loro, ma che non offriva né lavoro né vita, una speranza di pane per gli affamati e di giustizia per gli oppressi (...) Il Movimento 26 Luglio lancia un invito caloroso a serrare le fila e è pronto a accogliere tutti i sinceri rivoluzionari di Cuba, senza riserva alcuna, da qualunque partito provengano, quali che possano essere state le divergenze passate. Il Movimento 26 Luglio rappresenta l'avvenire migliore e più giusto per la patria e quest'impegno d'onore, solennemente preso di fronte al popolo, sarà mantenuto".

SI PREPARA LA GUERRIGLIA. L'addestramento militare vero e proprio di quello che doveva essere il primo nucleo del futuro esercito ribelle iniziò solo all'inizio del 1956 quando dal Direttorio nazionale del Movimento 26 Luglio arrivarono a Fidel per mezzo di Faustino Pérez e di Pedro Miret i primi finanziamenti. Circa diecimila dollari raccolti a Cuba. All'inizio i futuri guerriglieri, circa una sessantina, vennero alloggiati in sei appartamenti la cui dislocazione era nota solo a Castro e al generale Bayo, un vecchio combattente della repubblica spagnola al quale era stato affidato il compito di curare l'addestramento militare degli esuli. La segretezza era totale, poiché era noto a tutti che in Messico operavano numerose spie e agenti di Batista e che l'ambasciata cubana pagava un considerevole numero di militari e poliziotti messicani da utilizzare contro gli oppositori. Per garantire meglio la sicurezza delle operazioni nella primavera venne affittato il ranch Santa Rosa, vicino alla città di Chalco a una quarantina di chilometri da Città del Messico. Il ranch si estendeva per duecentocinquanta chilometri quadrati di terreno deserto e montagnoso, dove i guerriglieri avrebbero potuto addestrarsi al riparo da occhi indiscreti. Castro puntava molto sulla preparazione fisica dei combattenti che, alloggiati in due campi allestiti sulle montagne attorno al ranch, dovevano addestrarsi al combattimento e alla sopravvivenza in un terreno inospitale con poca acqua e viveri ridotti. Le armi, in gran parte acquistate negli Stati Uniti, consistevano in venti fucili automatici Johnson, parecchie mitragliette Thompson, venti fucili da caccia con mirino telescopico, due fucili anticarro calibro 50, una mitragliatrice leggera Mauser e numerose rivoltelle. Ma la polizia segreta di Batista e il servizio segreto militare (SIM) non erano restati con le mani in mano. In Messico operava il capo della sezione investigativa della polizia, colonnello Orlando Piedra, inviato da Batista per organizzare l'assassinio di Fidel. La sera del 20 giugno su richiesta di Piedra, la polizia messicana arrestò Fidel Castro e con lui Universo Sánchez e Ramiro Valdés. Nella notte altri dodici cubani vennero arrestati nelle loro abitazioni. Dai documenti rinvenuti nel corso dell'operazione, la polizia messicana scoprì l'esistenza del ranch Santa Rosa e il pomeriggio del 24 giugno vi fece irruzione catturando Ernesto Che Guevara e altri dodici combattenti. Immediatamente il governo cubano richiese l'estradizione dei prigionieri. Juan Manuel Márquez, uno dei principali dirigenti del Movimento 26 Luglio, tornò immediatamente dagli Stati Uniti, dove stava raccogliendo fondi per acquistare armi, e insieme a Raúl Castro riuscì a ingaggiare due dei più importanti avvocati messicani. Venne lanciata una grandiosa campagna di solidarietà con Fidel e i suoi compagni al fine di evitarne l'estradizione. Decisivo fu l'intervento dell'ex presidente Lázaro Cárdenas, eroe della rivoluzione messicana. Il 9 luglio vennero liberati ventun ribelli e altri quattro la settimana seguente. Fidel fu rilasciato il 24 luglio, il Che una settimana più tardi. Come scrisse Guevara, i poliziotti messicani, nonostante fossero pagati dall'ambasciata cubana, avevano "commesso l'errore assurdo di non uccidere Fidel mentre era loro prigioniero". Anche in Messico Castro era ormai agli occhi di molti una figura leggendaria. Racconta una protagonista di quei giorni: "Alto e ben rasato, i capelli castano corti, vestito sobriamente e correttamente...si distingueva tra tutti gli altri per il suo sguardo ed il suo portamento... Ti dava l'impressione di essere nobile, sicuro, deciso,,, estremamente sereno... La sua voce era pacata, l'espressione grave, i modi calmi, gentili... La sua idea fondamentale, la sua stella polare, era il "popolo"...". La preparazione militare riprese immediatamente in tre campi di addestramento situati nello Yucatan e sulla costa sud-orientale del Messico. Fidel dal canto suo rimase nella capitale per curare la preparazione dello sbarco. Mentre in Messico la spedizione rischiava di abortire sul nascere, al Cotorro, nei pressi dell'Avana, si era svolta una riunione la direzione nazionale del Movimento 26 Luglio, alla quale aveva preso parte anche Frank País, responsabile per la provincia d'Oriente. Nel corso dell'incontro era emersa la necessità di recuperare altre armi. Dopo questa riunione, nel corso dell'estate Frank País si recò due volte in Messico per coordinare il piano dell'invasione con l'azione clandestina all'interno dell'isola. Il progetto deliberato consisteva prevedeva lo sbarco a Cuba entro l'anno, contemporaneamente in tutta la provincia d'Oriente dovevano scoppiare rivolte armate per tenere impegnate il maggior numero possibile di unità militari. Di ritorno a Cuba, Frank País assieme a Celia Sánchez ispezionò la costa orientale per scegliere il punto più adatto per lo sbarco. Dopo un'accurata ricognizione venne scelta la zona di Niquero, da dove a bordo di alcuni autocarri predisposti dal Movimento, Fidel e gli altri combattenti potevano essere facilmente trasportati sulla Sierra Maestra. Dopo di che fu inviato in Messico Manuel Echevarría perchè servisse da guida alla spedizione. Alla fine di settembre Fidel Castro acquistò per quarantamila dollari da Robert B. Erickson, un americano che viveva a Città del Messico, uno yacht di dodici metri, il Granma, ormeggiato nel porto di Tuxpán. Il motoscafo, un'imbarcazione di una dozzina d'anni in buono stato di manutenzione, poteva trasportare venticinque persone a pieno carico. Era dotato di due motori diesel e di serbatoi della capacità di settemilacinquecento litri di carburante, il minimo indispensabile per compiere la traversata fino a Cuba.

LA SPEDIZIONE DEL GRANMA. Il 19 novembre il capo di Stato Maggiore dell'esercito dichiarava alla stampa de l'Avana che non esistevano le condizioni per un ritorno clandestino degli esuli considerato che "da un punto di vista tecnico, lo sbarco di un gruppo di persone esaltate e indisciplinate, senza esperienza militare, non poteva che rivelarsi un fallimento". Contemporaneamente, però, veniva intensificato il pattugliamento aereo e navale delle coste e poste in allerta le guarnigioni della regione d'Oriente. Ciò rese a tutti evidente che il progetto di spedizione non era più un segreto per il nemico e che occorreva accelerare al massimo i tempi. La sera del 23 novembre ai comandanti dei campi di addestramento giunse l'ordine di raggiungere immediatamente con tutti gli uomini e l'equipaggiamento il porto di Tuxpán. All'1,30 del mattino del 25 novembre 1956 il Granma salpò a luci spente diretto a Cuba con 82 combattenti a bordo. Il tempo era pessimo e la traversata assunse ben presto aspetti drammatici. Salvo quattro o cinque membri della spedizione, il resto delle persone imbarcate soffrì il mal di mare. Le terribili condizioni atmosferiche, aggravate dal forte vento che spirava sul Golfo del Messico, rallentarono il viaggio dell'imbarcazione che navigava già sovraccarica, avendo a bordo ottantadue uomini con armi pesanti ed equipaggiamento da campagna invece dei venticinque per i quali era stata costruita. La rotta scelta prevedeva un gran giro a sud di Cuba, costeggiando la Giamaica e le isole del Gran Caimano, per sbarcare poi vicino alla località di Niquero. A causa del maltempo e degli imprevisti la traversata, che doveva durare cinque giorni, si protrasse per sette giorni e quattro ore. All'alba di venerdì 30 novembre, data convenuta per lo sbarco, il Granma si trovava solo a tre quarti del percorso. Ma Frank País e gli altri responsabili dei gruppi armati del Movimento 26 Luglio, ritenendo che Castro e i suoi avessero già preso terra, lanciarono come convenuto il piano insurrezionale che doveva servire da diversivo e distogliere l'attenzione delle forze repressive batistiane dallo sbarco. Il piano degli insorti era di attaccare a colpi di mortaio la caserma Moncada, contemporaneamente altri due gruppi avrebbero preso d'assalto il comando della polizia marittima e la sede della polizia nazionale, mentre alla radio sarebbe stato letto un proclama alla popolazione. Nonostante l'insurrezione fosse stata accuratamente programmata, le cose si misero subito al peggio. Il gruppo che doveva bombardare il Moncada venne intercettato dalla polizia e catturato senza che potesse sparare un solo colpo. Nonostante non si potesse più fare conto sul fattore sorpresa, alle 7 del mattino come convenuto Frank País al comando di ventotto uomini attaccò il quartier generale della polizia nazionale e della polizia marittima. Per la prima volta gli insorti indossavano la divisa verde olivo con il bracciale rosso-nero del Movimento 26 Luglio. Nella vicina Guantanamo, dove il Movimento aveva operato in profondità tra gli operai, uno sciopero generale paralizzò le fabbriche e il traffico ferroviario. Alle undici della mattina, dopo cinque ore di combattimento, i rivoltosi dovettero disperdersi lasciando sul terreno dodici caduti. Il giorno stesso il governo per avere le mani libere nella repressione, decretò una sospensione di quarantacinque giorni delle garanzie costituzionali e lanciò un'ondata di arresti che decapitò il movimento nelle principali città. Intanto il Granma procedeva con molta lentezza verso la costa. Finalmente alle due del mattino del due dicembre, quando ormai viveri, acqua e riserve di carburante erano esaurite, apparve in lontananza la luce del faro di Capo Cruz. Era ormai giorno fatto quando avvenne lo sbarco sulla spiaggia detta di Las Coloradas. Come commentò in seguito il Che più che di uno sbarco si trattò di un naufragio. Il battello, appesantito dall'eccessivo carico, finì per incagliarsi nel fango a causa della bassa marea. Fu ordinato agli uomini di raggiungere la terraferma portando con se solo le armi individuali. Il resto dell'equipaggiamento, le armi pesanti e le scorte di munizioni andarono irrimediabilmente perdute. Raggiunta la riva, gli uomini si trovarono in una palude di mangrovie, senza punti di riferimento precisi e intralciati nei movimenti dalle armi e dagli zaini. Di quei primi terribili giorni ha scritto il Che: " Tardammo varie ore a uscire dalla palude, dove ci aveva spinto l'imperizia e l'irresponsabilità di un nostro compagno che si era detto esperto conoscitore del luogo. Proseguimmo in terraferma, alla deriva, inciampando continuamente; eravamo un esercito di ombre, di fantasmi, che camminavano come seguendo l'impulso di un qualche oscuro meccanismo psichico. Ai sette giorni di fame e di mal di mare continuo della traversata, si sommarono altri tre terribili giorni a terra. Al decimo giorno dalla partenza dal Messico, il 5 di dicembre, nelle prime ore del mattino, dopo una marcia notturna interrotta più volte per svenimenti, per crisi di stanchezza e per fare riposare la truppa, raggiungemmo una località nota, paradossalmente, con il nome di Alegría de Pío".

IL COMBATTIMENTO DI ALEGRIA DE PIO. Purtroppo lo sbarco non era passato inosservato. Una imbarcazione di passaggio aveva assistito all'incagliamento del Granma e aveva prontamente segnalato il fatto alle autorità. Da Manzanillo unità della Guardia rurale e un battaglione di fanteria erano stati inviati nella zona di Niquero per intercettare gli invasori. Mercoledì cinque dicembre, dopo appena quattro giorni che Castro e i suoi compagni erano sbarcati a Cuba, la Guardia rurale, messa sulle tracce dei guerriglieri dalla delazione di un contadino, tese un'imboscata e quasi annientò il piccolo esercito rivoluzionario. Fidel e i suoi compagni furono sorpresi in un radura ai bordi di un canneto e mitragliati dagli aerei che sorvolavano i campi a bassa quota. Presi di sorpresa gli uomini si sbandarono, qualcuno propose di arrendersi. In mezzo al crepitare delle pallottole si udì allora la voce di Camilo Cienfuegos gridare: "Qui non si arrende nessuno...cazzo!". Accerchiati dalle guardie batistiane, i guerriglieri si difesero disperatamente, cercando scampo nella boscaglia e nei canneti. Tre partecipanti alla spedizione furono uccisi, i restanti settantanove si divisero in piccoli gruppi e si dispersero per la campagna nel tentativo disperato di raggiungere la Sierra Maestra. L'esercito di Batista scatenò una gigantesca caccia all'uomo; molti combattenti presi prigionieri vennero trucidati sul posto, spesso dopo atroci sevizie. Nel giro di pochi giorni ventidue patrioti vennero uccisi, altri ventitré catturati, mentre di diciannove non si seppe più nulla. Degli ottantadue sbarcati dal Granma solo sedici riuscirono a raggiungere i contrafforti boscosi della Sierra Maestra. Nei momenti più difficili, mentre i ribelli tentavano disperatamente di rompere l'accerchiamento e di sottrarsi alla cattura, Fidel continuò a mostrare grande sicurezza e fiducia nelle possibilità di un'impresa che sembrava ormai definitivamente compromessa. Come ricorda Faustino Pérez: "Fu una grande lezione di fiducia e di ottimismo - oltre che di realismo - quella che Fidel ci insegnò in quei giorni". Dopo il combattimento di Alegría de Pío, Batista e i suoi generali erano ormai certi che Castro fosse morto e il suo movimento annientato. Il 13 dicembre le operazioni militari nella zona di Naquero vennero definitivamente sospese e le unità da combattimento ritirate, mentre veniva revocata l'attività di ricognizione aerea. Un comunicato ufficiale dell'alto comando dell'esercito dichiarava che il movimento insurrezionale era terminato e che erano stati identificati i corpi dei ribelli uccisi fra i quali Fidel Castro e suo fratello Raúl. Divisi in piccoli gruppi, senza sapere nulla gli uni degli altri, i superstiti raggiunsero tra peripezie di ogni genere la Sierra Maestra, accolti con simpatia dai contadini che vennero in loro aiuto, ospitandoli nelle loro povere capanne. Tra il 13 e il 16 dicembre i combattenti dispersi andarono via via raggruppandosi. Impresa che sarebbe stata impossibile senza il disinteressato aiuto dei contadini, alcuni dei quali addirittura batterono per giorni i sentieri della Sierra alla ricerca di qualche altro superstite. Con il loro istintivo senso di classe i contadini della Sierra avevano compreso che Fidel e i suoi compagni, per quanto pochi e scarsamente armati, rappresentavano l'unica loro reale speranza di riscatto. Argeo Gonzáles, all'epoca un povero venditore ambulante della Sierra e fra i primi a unirsi ai ribelli, spiega che la "ragione per cui tutti i contadini li aiutavano era perché avevano compreso la lotta contro la tirannia...I proprietari terrieri non permettevano che altri lavorassero la terra, era tutta loro...I contadini non avevano nessuna possibilità senza la rivoluzione". Fidel aveva saputo guadagnarsi la loro fiducia, difendendoli con le armi e rispettandoli sempre a differenza delle truppe di Batista. Quando un soldato entrava in una casa, ricorda Argeo, "si prendeva il pane e mangiava il pollo se c'era, si portava via una ragazza se ne trovava una...ma i ribelli erano diversi; rispettavano tutto e era così che si guadagnavano la fiducia". Il 18 settembre Raul Castro, Ciro Redondo, Efigenio Amejeiras, Armando Rodriguez e René Rodriguez, si riunirono con il gruppo composto da Fidel Castro, Faustino Perez e Universo Sanchez e con un terzo gruppo composto da Ernesto Guevara, Juan Almeida, Camilo Cienfuegos e Ramiro Valdés. In tutto dodici uomini a cui nei giorni successivi si aggiunsero Calixto Garcia, Julio Diaz, Luis Crespo, Pancho Gonzales, Gustavo Aguilera e pochi altri. Il 20 dicembre Fidel inviò Mongo Perez, un piccolo proprietario terriero membro del Movimento 26 luglio, a Manzanillo e a Santiago per informare i capi del Movimento che era ancora vivo e in grado di combattere. In risposta dalla città arrivarono otto fucili, un mitragliatore Thompson, nove candelotti di dinamite e trecento proiettili. Alcuni giorni dopo Faustino Perez fu incaricato di stabilire contatti regolari con Frank País e Armando Hart, rispettivamente responsabili dell'organizzazione di Santiago e dell'Avana. Mentre il piccolo esercito ribelle si consolidava sulle montagne, in pianura la repressione si faceva sempre più feroce. Il giorno di Natale ventisei giovani operai, quasi tutti iscritti al Partito comunista, sospettati di simpatizzare per la guerriglia, venivano strappati dalle loro case e brutalmente assassinati.

SULLA SIERRA MAESTRA. Installatosi sulla Sierra per prima cosa Fidel riannodò i legami con l'apparato clandestino del Movimento 26 Luglio; poi, per dimostrare che il movimento guerrigliero non era stato annientato, ma che godeva di buona salute e era disposto a lottare fino alla vittoria, decise di attaccare una piccola caserma che si trovava all'imbocco del Río de la Plata, dove la Sierra Maestra toccava il mare. In quel momento la guerriglia disponeva di una trentina di combattenti, ma di solo ventitré armi efficienti: nove fucili col mirino telescopico, cinque semiautomatici, quattro automatici, due mitragliatori Thompson, due pistole automatiche e un fucile calibro 16. Dopo una marcia di avvicinamento durata tre giorni, all'alba del 16 gennaio la caserma di La Plata veniva attaccata di sorpresa e, dopo un breve ma furioso combattimento, conquistata. Dei quindici soldati della guarnigione due vennero uccisi, cinque feriti e altri tre presi prigionieri. Gli altri riuscirono a darsi alla fuga. Dalla parte dei guerriglieri non ci furono perdite. Nonostante l'esercito avesse dimostrato nelle settimane precedenti di non voler fare prigionieri, Fidel ordinò che i soldati catturati fossero liberati e che venissero consegnate loro le poche medicine disponibili in modo che i feriti potessero essere curati. Questo, nonostante il parere contrario di Guevara che, come medico della spedizione, aveva sostenuto la necessità di mantenere una riserva di farmaci per la colonna. In questa occasione venne catturato anche un civile, un certo Chico Osorio, sovrintendente della famiglia Laviti, proprietaria di un enorme latifondo nella regione. A differenza dei soldati, considerati uno strumento inconsapevole nelle mani della dittatura, Osorio, noto per le violenze sistematiche esercitate nei confronti dei contadini, venne giustiziato affinché fosse a tutti chiaro che l'epoca del potere incontrastato dei latifondisti e dei loro tirapiedi stava per finire e che per i traditori e gli sfruttatori del popolo non ci sarebbe stata pietà. Incendiata la caserma e le baracche dei soldati, il piccolo esercito guerrigliero si ritirò in tutta fretta dal luogo dello scontro per rifugiarsi nel cuore dell'impervia Sierra Maestra. I guerriglieri risalirono il corso de l'Arroyo del Infierno, un modesto corso d'acqua che si addentrava nell'interno, fino a giungere a un piccolo spiazzo nella boscaglia invisibile per la ricognizione aerea. Sei giorni più tardi, all'alba del 22 gennaio, l'accampamento fu bruscamente risvegliato dall'eco di una sparatoria proveniente dalla pianura. Era il segnale che le guardie batistiane erano in arrivo. Fidel decise di tendere un'imboscata ai soldati per rallentarne l'avanzata, poi la colonna si sarebbe divisa in tanti piccoli nuclei, composti da uno o due guerriglieri, per sfuggire all'accerchiamento. Appena le guardie rurali apparvero sul sentiero che portava al campo, Fidel diede il segnale di aprire il fuoco. Lo scontro fu breve, ma cruentissimo e si trasformò in un selvaggio corpo a corpo. Bloccata l'avanguardia nemica, Fidel e i suoi compagni si diedero ad una precipitosa fuga, ciascuno in una direzione diversa, con l'obiettivo di ritrovarsi appena terminato il rastrellamento. I guerriglieri avevano misurato le loro forze con l'esercito e avevano superato la prova. Ora, mentre a tappe forzate risalivano la Sierra, sapevano che la dittatura non era invincibile. "Pochi giorni prima - annotò il Che nel suo diario - avevamo sconfitto un gruppo inferiore di numero, trincerato in una caserma; adesso avevamo sconfitto una colonna in marcia superiore per numero alle nostre forze e avevamo potuto sperimentare l'importanza che ha in questo tipo di guerra la liquidazione delle avanguardie, poichè un esercito non può muoversi senza avanguardie". Il combattimento di La Plata rappresentò un punto di svolta decisivo. Per Alvares Tabío, autore di una storia della guerriglia sulla Sierra Maestra, quel piccolo fatto di armi "dimostrò per la prima volta l'assioma che Fidel avrebbe applicato durante tutta la guerra: l'esercito guerrigliero doveva vivere delle armi e dei rifornimenti catturati al nemico...quella sarebbe stata la situazione per tutta la guerra".

LA GUERRIGLIA SI CONSOLIDA. Due settimane più tardi, la colonna guerrigliera sfuggì a stento ad un'incursione aerea Solo dopo tre giorni i combattenti riuscirono a raggrupparsi di nuovo. Come si seppe più tardi, gli aerei erano stati guidati sul bersaglio da un traditore, un contadino di nome Eutimio Guerra che, arruolatosi fra i ribelli come guida, aveva saputo conquistarsi la fiducia di Fidel. Durante una delle sue missioni in cerca di rifornimenti, Eutimio era stato catturato dai soldati e, per non essere fucilato, aveva accettato di lavorare come spia. Il traditore aveva anche acconsentito, in cambio della promessa di una grossa somma di denaro e della nomina a capitano, di assassinare Fidel. Scoperto e arrestato, Eutimio Guerra, fu condannato a morte e passato per le armi. Prima dell'esecuzione Fidel gli promise che, nonostante tutto, la rivoluzione vittoriosa si sarebbe fatta carico dei suoi figli. In un articolo scritto anni più tardi per "Verde Olivo", l'organo delle Forze Armate Rivoluzionarie di Cuba, il Che rivelò che la rivoluzione aveva adempiuto al suo impegno verso i figli del traditore: "Essi oggi frequentano sotto altro nome una delle tante scuole e ricevono il trattamento di tutti i figli del popolo, preparandosi per una vita migliore...". Nei primi giorni di febbraio, per sfuggire ai raid sempre più insistenti dell'aviazione di Batista, il piccolo esercito guerrigliero abbandonò la regione di El Lomón dove aveva trovato rifugio per dirigersi verso zone considerate più sicure. Come nuova sede del campo fu scelta una località vicino al villaggio di La Montería, nella proprietà di un simpatizzante del movimento, Epifanio Díaz, i cui figli militavano fra i partigiani. Il 16 febbraio giunsero sulla Sierra Celia Sánchez, Frank País e gli altri membri del direttorio nazionale del Movimento 26 Luglio, per discutere con Fidel la riorganizzazione dell'intero sistema di supporto logistico alla guerriglia e per stabilire contatti più regolari tra montagna e rete cospirativa operante nelle città. Figlia di un medico di Manzanillo, Celia, aveva collaborato con Armando Hart all'organizzazione della spedizione del Granma, costruendo una rete di collegamento fra i contadini della provincia di Oriente e della Sierra che si era rivelata preziosa dopo l'infausta giornata di Alegría de Pío. Conquistato dalle grandi doti di coraggio e dalle capacità organizzative di Celia, che fino a quel momento conosceva solo col nome in codice di "Norma", Fidel le affidò il difficile e rischioso compito di organizzare il rifornimento di armi e il reclutamento di combattenti per la Sierra. Da tutta l'isola le armi e gli uomini sarebbero giunte alla città di Manzanillo e da lì sarebbero state inviate sulle montagne a Los Chorros, la fattoria di Epifanio Díaz. La riunione del direttorio nazionale risultò accesissima. Fidel sostenne con grande energia l'assoluta preminenza del fronte guerrigliero sulle montagne rispetto al movimento nelle città. Per la prima volta veniva sottolineata una differenza di priorità fra Sierra e Llano, fra montagna e pianura. Ogni sacrificio andava fatto per rafforzare la guerriglia. Il movimento nella pianura non doveva aspirare ad un ruolo di direzione politico-militare della lotta. Il comando andava potenziato e unificato proprio a partire dalla montagna. In base a queste motivazioni Fidel si scontrò aspramente con Faustino Pérez che aveva proposto l'apertura di un secondo fronte sulla Sierra dell'Escambray, nella provincia di Las Villas, allo scopo di ridurre la pressione dell'esercito sulla Sierra Maestra. Secondo Pérez, considerata la maggiore vicinanza dell'Escambray dall'Avana, sarebbe stato più agevole rifornire questo secondo fronte guerrigliero di armi e di uomini provenienti dalla capitale. Fidel si oppose fermamente alla proposta perchè riteneva, e ben presto i fatti gli avrebbero dato ragione, che la guerriglia era ancora troppo debole per poter sopportare una frammentazione come quella proposta dai dirigenti della pianura. Al termine dei lavori del Direttorio fu redatto un "Appello al popolo cubano" a firma di Fidel nel quale si invitava il popolo a sollevarsi e a organizzare azioni violente in tutta l'isola a supporto della guerriglia. Orgogliosamente si affermava la disponibilità dei combattenti a restare sulla Sierra anche "per dieci anni" se ciò si fosse rivelato necessario per il trionfo della rivoluzione. Nel programma in sei punti che chiudeva l'appello Castro invitava il popolo a intensificare gli incendi delle piantagioni di canna da zucchero "per privare la tirannia delle entrate con cui paga i soldati che manda a morire e compra gli aerei e le bombe con le quali assassina dozzine di famiglie contadine della Sierra Maestra", il sabotaggio generale di tutti i servizi pubblici, l'esecuzione sommaria e diretta "dei criminali che torturano e assassinano i rivoluzionari...e di tutti coloro che ostacolano il Movimento rivoluzionario", l'organizzazione di una resistenza civica di massa e di uno sciopero generale "quale punto culminante e finale della lotta".

L'AMERICA SCOPRE CASTRO. In quello stesso giorno Castro incontrò un inviato del "New York Times", Herbert L. Matthews, specializzato in questioni latinoamericane. Il servizio che Matthews inviò al suo giornale e che fece scoprire alla distratta opinione pubblica americana l'esistenza di una rivoluzione alle porte di casa, fece più danni al regime di Batista di cento battaglie perse. Nell'articolo la guerriglia veniva descritta in termini romantici, come l'eroica lotta di un pugno di giovani Robin Hood contro una spietata tirannia. In chiusura Matthews affermava con grande sicurezza: "Da come la situazione si presenta, il generale Batista non può sperare di soffocare la rivolta di Castro; la sua sola speranza è che un reparto dell'esercito possa sorprendere il giovane capo ribelle e i suoi immediati collaboratori ed annientarli. Ma è piuttosto improbabile una eventualità del genere ed è tanto meno probabile che possa verificarsi entro il primo marzo, data in cui dovrebbe scadere l'attuale periodo di sospensione delle garanzie costituzionali". Quello che Matthews, nonostante tutto il suo acume giornalistico, non era riuscito a scoprire era il fatto che in quel preciso momento la guerriglia non contava più di diciotto combattenti. Fidel aveva fatto in modo che, prima di giungere da lui, il giornalista fosse condotto in giro per la Sierra in modo da dargli l'impressione che il movimento disponesse di svariati accampamenti e del controllo militare delle montagne. Il servizio apparve con grande rilievo sul "New York Times" del 24, 25 e 26 dello stesso mese, suscitando una vasta eco negli Stati Uniti. Il governo di Batista negò l'autenticità dell'intervista. Le autorità militari dichiararono che a causa dell'accerchiamento militare a cui era sottoposta la Sierra nessuno, tantomeno un giornalista straniero, avrebbe potuto raggiungere le montagne. Dal canto suo il Ministro della Difesa, Santiago Verdeja Neyra, dichiarò: "Herbert Matthews ha rilasciato la patente democratica a un feroce strumento della guerra rossa in America... Soltanto un giornalista ammalato di sensazionalismo poteva inventarsi la fandonia della Sierra Maestra. L'intervista è immaginaria...". Pochi giorni più tardi il New York Times replicava, pubblicando una fotografia di Matthews e di Fidel Castro ritratti insieme durante l'intervista sullo sfondo dell'inconfondibile scenario naturale della Sierra.

DIFFICOLTA' DELLA GUERRA POPOLARE. Nonostante gli innegabili successi ottenuti contro le forze di Batista, la situazione restava difficile. La colonna, ancora priva di un adeguato spirito combattivo e senza una chiara coscienza politica, non riusciva a consolidarsi. La condizione dei combattenti era ancora molto fluida. Molti non reggevano e se ne andavano. Altri chiedevano di svolgere funzioni in città, a volte in condizioni molto più rischiose, ma tutto andava bene pur di sfuggire alle dure condizioni di vita della montagna. Pesava su tutti soprattutto l'isolamento e la durissima disciplina. Di conseguenza l'esercito ribelle cresceva lentamente. Nuovi elementi si incorporavano nella guerriglia, ma molti altri se ne andavano. Come ha scritto il Che: "le condizioni fisiche della lotta erano durissime, ma le condizioni morali lo erano molto di più e si viveva sotto l'impressione di essere continuamente assediati". Tuttavia, anche se con estrema lentezza e in modo non privo di contraddizioni, il focolaio guerrigliero andava via via allargandosi. Il giorno 13 marzo la radio nazionale trasmise la notizia che era stato commesso un attentato alla vita del dittatore. Nonostante la censura il popolo cubano venne così a conoscenza di un tentativo di sommossa nel cuore stesso della capitale e di come il regime avesse approfittato della situazione per assassinare molti dissidenti, alcuni addirittura già detenuti, i cui corpi erano stati abbandonati per le strade dell'Avana al fine di incutere terrore nella popolazione. L'azione era stata compiuta dal Direttorio studentesco, un'organizzazione rivoluzionaria da tempo operante clandestinamente nell'Università. Alcune squadre di giovani armati, comandate dal Presidente della FEU (Federazione Studenti Universitari), José Antonio Echeverría, erano riuscite a penetrare all'interno del palazzo presidenziale e a giungere fino all'ufficio di Batista con l'obiettivo di uccidere il tiranno. Ma il dittatore in quel momento si trovava in un'altra parte del palazzo. Molti assalitori, tra cui lo stesso Echeverría, caddero sotto il fuoco delle guardie, altri furono catturati. Il tragico evento mostrò che non esistevano scorciatoie alla strategia della guerra di popolo di Castro e che la politica degli atti esemplari serviva solo alla dittatura alla quale forniva un prezioso alibi per la repressione. Il fallimento dell'assalto al palazzo presidenziale dell'Avana servì da pretesto al Partito Socialista Popolare per prendere le distanze da Castro e rilanciare la proposta di libere elezioni democratiche quale soluzione della crisi cubana. "La nostra posizione nei confronti del movimento del 26 luglio - scrisse in quell'occasione uno dei dirigenti del PSP - è basata su questi criteri. Noi pensiamo che questo gruppo si proponga dei nobili scopi, ma che, in generale, esso stia seguendo tattiche sbagliate. Pertanto noi non approviamo le sue azioni, ma facciamo appello tuttavia a tutti i partiti e a tutti i settori della popolazione affinché lo difendano dai colpi della tirannide, non dimenticando che i membri di questo Movimento combattono contro un governo odiato dall'intero popolo cubano". Il 16 marzo all'alba giunsero sulla Sierra i primi rinforzi inviati dal responsabile di Santiago Frank País. Si trattava di un gruppo di una cinquantina di uomini, di cui soltanto trenta armati, ma che portavano in dote due fucili mitragliatori e ventotto fucili. Dopo una vivace discussione con Guevara, che proponeva di provare subito in combattimento i nuovi arrivati attaccando qualche casermetta isolata, Fidel decise più conveniente sottoporre la nuova truppa ad un addestramento intensivo, facendola marciare a tappe forzate sulla montagna al fine di abituarla ai rigori della vita alla macchia. Fu così che si decise di abbandonare l'accampamento e di dirigersi verso est per tenere una elementare scuola di guerriglia. I mesi di marzo e aprile furono dedicati alla ristrutturazione dell'Esercito Ribelle, ormai composto da un'ottantina di uomini suddivisi tra un'avanguardia con compiti di esplorazione del terreno, comandata da Camilo Cienfuegos, tre plotoni al comando rispettivamente di Raúl Castro, Juan Almeida e Jorge Sotus, uno Stato Maggiore e da una retroguardia agli ordini di Efigenio Ameijeras con funzioni di copertura. Fu anche avviata la costruzione di una funzionale rete logistica, con depositi di munizioni e di generi alimentari e accampamenti permanenti da utilizzarsi durante gli spostamenti. Fu organizzato un efficiente servizio di staffette e il primo abbozzo di un apparato di sicurezza al fine di scoprire e neutralizzare delatori e spie. Determinante si andò rivelando ogni giorno di più l'appoggio della popolazione contadina. Colonne di muli, cariche di rifornimenti per i partigiani, risalivano la Sierra, mentre centinaia di occhi attenti vigilavano sullo spostamento delle unità militari. Ogni movimento delle truppe batistiane veniva segnalato a Fidel in tempi rapidissimi, vanificando ogni effetto sorpresa. Ormai i guerriglieri si muovevano tra i contadini come pesci nel mare, in quello che orgogliosamente avevano iniziato a chiamare "Territorio libero". In ogni paese dove arrivavano i guerriglieri distribuivano viveri e medicinali e si prendevano cura dei malati. Toccava a Ernesto Che Guevara, in quanto medico, prendersi cura dei contadini, generalmente bambini affetti da parassitismo, rachitismo, avitaminosi, le malattie della miseria. A contatto quotidiano con le sofferenze dei contadini cresceva così fra i combattenti la consapevolezza che la lotta non poteva fermarsi solo alla conquista delle libertà politiche, ma che occorreva andare oltre per aggredire alle radici le cause strutturali del sottosviluppo e che tutto ciò aveva un nome: imperialismo. E' ancora il Che a ricordare: "Lì, facendo queste cose, cominciava a prendere corpo in noi la coscienza della necessità di un cambiamento definitivo nella vita del popolo. L'idea della riforma agraria divenne chiara e la comunione col popolo cessò di essere teoria per diventare parte integrante del nostro essere. La guerriglia e i contadini si andavano fondendo in una sola massa, senza che nessuno possa dire in quale momento del lungo cammino si verificò questa fusione; in quale momento divennero intimamente vere le nostre affermazioni e in quale momento diventammo parte della gente delle campagne (...) quei sofferenti e leali abitanti della Sierra Maestra non hanno mai sospettato il ruolo da essi giocato nella formazione della nostra ideologia rivoluzionaria". Da quel momento non vi furono più tentennamenti. Con pazienza Fidel andava forgiando il nuovo Esercito Ribelle, trasformando in combattenti determinati e coscienti, giovani operai e studenti provenienti da tutta l'isola. Non senza qualche atteggiamento di superiorità da vecchio combattente i veterani del Granma insegnavano alle nuove reclute i segreti della cucina di bivacco, l'arte di fare lo zaino selezionando solo lo stretto indispensabile per la sopravvivenza, il modo di marciare tra le forre e i dirupi della Sierra. A metà del mese di aprile 1957 i guerriglieri tornarono nella zona di Palma Mocha, nelle vicinanze del Monte Turquino che con i suoi 1974 metri rappresenta il più alto monte dell'isola. Nel frattempo pattuglie contadine al comando di Guillermo García e Ciro Frías percorrevano l'intera Sierra Maestra per raccogliere rifornimenti e informazioni in vista di una nuova grande offensiva contro i militari. Il 23 aprile raggiunsero i partigiani altri due giornalisti nordamericani, l'inviato Bob Taber e un operatore cinematografico, insieme a loro c'erano Celia Sánchez e Haydée Santamaria e gli inviati del Movimento in pianura, Carlos Iglesias e Marcelo Fernández. In quel momento militavano nei ranghi dell'Esercito Ribelle tre ragazzi statunitensi, figli di militari americani della base di Guantanamo, per spirito d'avventura fuggiti da casa e incorporatisi nella guerriglia. Fidel li consegnò solennemente a Bob Taber, perché li riaccompagnasse negli Stati Uniti. Inutile dire che il fatto suscitò grande scalpore e contribuì a creare un genuino movimento di simpatia attorno a Castro e ai suoi "barbudos". A dare maggiore solennità all'evento la consegna avvenne sulla sommità del Pico Turquino che tutta la colonna aveva scalato e lassù Bob Taber terminò il suo servizio sulla guerriglia, girando un film che fu trasmesso integralmente dalla televisione americana. Grazie all'arrivo di altri rinforzi dall'Avana la forza guerrigliera era intanto salita a centoventisette uomini, il che permetteva a Castro di ordinare rapide incursioni sui villaggi dell'interno, dove si stabiliva una specie di potere rivoluzionario, nominando dei fiduciari incaricati di amministrare la giustizia in nome del "Poder Popular" e di informare la guerriglia degli spostamenti delle guardie rurali batistiane. Ma questo avveniva solo di notte, di giorno i partigiani restavano sempre al riparo della boscaglia al sicuro dalle incursioni aeree. Secondo il Che: "si era prodotto un cambiamento qualitativo: c'era tutta una zona in cui l'esercito nemico cercava di non capitare per non scontrarsi con noi, anche se è indubbio che neanche noi dimostravamo molto interesse ad andare a sbattere contro di loro". Il 18 maggio giunse sulla Sierra il primo importante rifornimento di armi organizzato dai compagni del fronte della pianura: tre mitragliatrici pesanti, tre mitragliatori Madzen, nove carabine M-1, dieci fucili automatici Johnson e seimila proiettili andarono a rimpolpare le magre riserve della guerriglia. Il 25 maggio la radio diffuse la notizia che a Mayarí, nel nord della provincia di Oriente, un gruppo di esuli, appartenenti al Partido autentico e comandati da Calixto Sánchez aveva tentato uno sbarco, ma era stato facilmente sopraffatto e annientato dalle truppe. Il gruppo, partito dalla Florida a bordo del panfilo "Corynthia", intendeva aprire un fronte guerrigliero sulla Sierra Cristal, un massiccio montagnoso della regione di Oriente. Lo sbarco era effettivamente avvenuto il 23 maggio, ma i guerriglieri, probabilmente traditi prima della partenza, avevano trovato l'esercito ad attenderli e in cinque giorni di combattimenti erano stati quasi tutti massacrati. Nonostante non riponesse alcuna fiducia nel Partito autentico e nel suo capo, lo screditato Prío Socarrás, Fidel decise di attaccare le forze nemiche per creare un diversivo e fare in modo che i superstiti della spedizione potessero trovare scampo sui monti. Fu così che venne deciso l'attacco alla caserma di Uvero, una delle più importanti postazioni sulla costa della Guardia rurale. L'attacco, minuziosamente pianificato, durò tre ore, al termine delle quali la postazione venne conquistata e data alle fiamme. Dei cinquantatré soldati del presidio, quattordici erano stati uccisi, diciannove feriti e altri quattordici catturati. I guerriglieri contarono sei morti e nove feriti. L'azione di Uvero segnò una svolta importante nell'andamento della guerriglia. Lo Stato Maggiore batistiano, impressionato dalla potenza di fuoco e dalle capacità operative mostrate dai partigiani, decise infatti di smantellare tutte le piccole guarnigioni isolate e di concentrare le truppe in località più sicure. Il che significava praticamente abbandonare alla guerriglia il controllo dell'intera Sierra dal Pico Caracas al Pico Turquino.

IL MANIFESTO DELLA SIERRA MAESTRA. Le vittorie della guerriglia, unite all'interesse per Fidel Castro e i suoi barbudos che i servizi di Matthews e di Taber avevano suscitato nell'opinione pubblica degli Stati Uniti, convinsero l'opposizione borghese a Batista a schierarsi anche se con molte titubanze a fianco della lotta armata. A giugno il presidente della compagnia Bacardi, José Bosch, il presidente della Camera di commercio di Santiago, Daniel Bacardi, il capo del Movimento della gioventù cattolica, padre Chabebe, assieme a Fernando Ojeda, uno dei maggiori esportatori di caffè dell'isola, e ai presidenti del Rotary e del Lyon's Club di Santiago avevano dichiarato al giornalista americano Jules Dubois, ben noto per i suoi rapporti con il Dipartimento di Stato e la CIA, che Castro era impegnato in "una storica missione" per il riscatto di Cuba e il ripristino della democrazia. Ai primi di luglio salirono sulla Sierra l'ex presidente della Banca Nazionale, Felipe Pazos e il presidente del partito ortodosso, Raúl Chibás con lo scopo di proporre al leader guerrigliero la stipula di un patto di azione comune contro la dittatura. Nonostante l'opposizione aperta di una parte dei combattenti, timorosi che il peso politico che la guerriglia aveva saputo conquistarsi sul campo venisse ora utilizzato per squallide lotte di potere tra l'Avana e Washington, Fidel Castro decise di cogliere l'opportunità e di evitare ogni rottura con la borghesia. Quello che sfuggiva ai più era che l'appoggio dei gruppi borghesi più avanzati era prezioso per la stessa lotta armata, alla quale forniva piena legittimazione internazionale. Il 12 luglio 1957, al termine dei colloqui, Castro, Pazos e Chibás siglarono insieme un manifesto destinato a essere conosciuto come "Manifesto della Sierra Maestra". Il Manifesto insisteva soprattutto sulla costituzione di "un grande fronte civico rivoluzionario che comprendesse tutti i partiti politici d'opposizione, tutte le civiche istituzioni e tutte le forze rivoluzionarie". Il fronte non avrebbe tollerato l'ingerenza di potenze straniere negli affari interni cubani, nemmeno sotto forma di mediazione di pace. Scopo del fronte era l'abbattimento della tirannia di Batista, il ripristino delle libertà democratiche e l'indizione entro un anno di libere elezioni. Nel manifesto si lanciava un velato avvertimento al Dipartimento di Stato: il fronte non avrebbe mai accettato un mero cambiamento di facciata sotto forma di un governo provvisorio o di una giunta militare. Il programma enunciava poi una serie di richieste democratiche quali la liberazione immediata di tutti i detenuti politici, la garanzia assoluta della libertà di informazione per la stampa e la radiotelevisione, il ripristino di tutti i diritti garantiti dalla Costituzione, la nomina di sindaci provvisori in tutti i comuni, la democratizzazione della politica sindacale mediante libere consultazioni da tenersi in tutti i sindacati e in tutte le federazioni dell'industria. Primo compito del governo provvisorio sarebbe stata la modernizzazione del Paese da attuare attraverso un programma di riforme, tra cui l'inizio immediato di una campagna contro l'analfabetismo, l'accelerazione del processo di industrializzazione e una riforma agraria "tendente a distribuire le terre incolte...previo indennizzo dei precedenti proprietari". Il Manifesto parlava, poi, della guerriglia sulla Sierra, in termini elogiativi: "Nessuno si lasci ingannare dalla propaganda governativa circa la situazione della Sierra. La Sierra Maestra è ormai un baluardo indistruttibile della libertà che è fiorita nel cuore dei nostri compatrioti, e qui noi sapremo fare onore alla fede e alla fiducia del nostro popolo". Il Manifesto della Sierra segnò un punto importante per Fidel: alcuni tra i rappresentanti più in vista della borghesia cubana si erano recati sulla Sierra, avevano firmato una dichiarazione insieme al capo della guerriglia e ora partivano per Miami per ottenere un appoggio internazionale alla lotta contro la dittatura di Batista. Certo, il documento risultava tanto magniloquente nelle affermazioni di principio quanto moderato nei suoi contenuti concreti. E ciò nonostante Fidel avesse tentato di fare in modo che la parte relativa al programma agrario fosse più esplicita. Tuttavia, seppure con diverse argomentazioni, tutti i leader guerriglieri erano consapevoli che in quel momento dalle montagne della Sierra non era realisticamente possibile strappare di più. Certo, si trattava di un programma minimo, di un compromesso non del tutto soddisfacente, ma comunque si girasse la questione, era un passo necessario, un progresso per la guerriglia che si vedeva definitivamente promossa a soggetto politico degno di considerazione. Guevara commentò così l'episodio: "Quel compromesso non ci soddisfaceva in pieno, ma era stato necessario, poiché in quel momento si trattava di un documento già progressista. Sapevamo che non poteva andare oltre il momento in cui avrebbe significato un freno allo sviluppo rivoluzionario, ma eravamo disposti a rispettarlo... Noi sapevamo, insomma, che si trattava di un programma di minima, un programma limitativo dei nostri sforzi, ma sapevamo altresì che non era possibile imporre la nostra volontà dall'alto della Sierra Maestra e che, per un lungo periodo di tempo, avremmo dovuto fare i conti con tutta una serie di "amici" che speravano di poter sfruttare la nostra forza militare e la grande fiducia che il popolo nutriva in Fidel Castro, per i loro macabri maneggi e, soprattutto, per conservare a Cuba, attraverso la borghesia importadora, strettamente vincolata ai padroni del nord, il dominio dell'imperialismo... Per noi questa dichiarazione non era che una piccola sosta durante la marcia, poiché si doveva assolvere urgentemente il compito fondamentale, che era la disfatta dell'esercito oppressore sul campo di battaglia".

L'ASSASSINIO DI FRANK PAIS. In quegli stessi giorni l'Esercito Ribelle, che poteva ormai contare su circa duecento combattenti, si divise in due. Venne costituita ufficialmente una seconda colonna al comando del Che, destinata ad operare nella parte di Sierra a Est del Pico Turquino. La colonna, che prese il numero quattro per disorientare il nemico sulla reale consistenza numerica della guerriglia, era costituita da settantacinque uomini quasi tutti di origine contadina, inquadrati su tre plotoni. Per celebrare l'anniversario del 26 Luglio, la colonna numero uno con alla testa Guillermo Garcia attaccò Estrada Palma, un grosso centro abitato al limitare della Sierra e lo occupò. La colonna numero quattro attaccò invece Buyecito. Nello stesso periodo, tuttavia, la guerriglia dovette subire due pesanti colpi. Le armi destinate ad aprire il secondo fronte nella pianura caddero nelle mani della polizia che arrestò anche molti dirigenti della rete clandestina. Lo stesso Faustino Perez sfuggì a stento alla cattura. Fidel, che come si è visto, non aveva mai condiviso l'idea di Perez di aprire un nuovo fronte guerrigliero in pianura, riuscì a far passare la sua linea della necessità di dedicare ogni risorsa disponibile al rafforzamento della Sierra Maestra come primo passo indispensabile per l'espansione dell'esercito guerrigliero. A confermare la giustezza di questa linea il 30 luglio giunse la notizia dell'assassinio a Santiago di Frank País. Tradito da un delatore, Frank País era stato individuato dalla polizia segreta batistiana e era stato ucciso a freddo dai poliziotti che avevano fatto irruzione nella sua abitazione. L'assassinio di Frank País suscitò una grandissima impressione nella popolazione di Santiago. I suoi funerali si trasformarono in una vera e propria manifestazione di massa contro il regime. La polizia, intervenuta in forze, aprì il fuoco sulla folla inerme, uccidendo alcune donne. La risposta popolare fu immediata. Per tre giorni uno sciopero generale spontaneo paralizzò l'intera città. Lo sciopero fu l'occasione per la nascita del Frente Obrero Nacional (FON), l'organizzazione sindacale clandestina del Movimento 26 Luglio. La caduta del responsabile del Movimento per la provincia di Oriente dimostrò, se ce ne fosse stato ancora bisogno, la fragilità dell'azione cospirativa nelle città. D'altro canto era stato proprio lo stesso País, insieme con Armando Hart, a inviare ai primi di giugno una lunga lettera a Fidel per informarlo della confusione regnante nel Movimento che andava, così si sosteneva, "integralmente" riorganizzato.

LA RIVOLTA DI CIENFUEGOS. Un'ulteriore conferma che la "linea della Sierra", da sempre sostenuta da Fidel contro ogni tentazione di tipo terroristico o putschista era quella giusta, venne dal tragico fallimento del tentativo di golpe compiuto da un pugno di giovani ufficiali di marina nel mese di settembre. Nel corso dell'estate il Movimento 26 Luglio era riuscito a costruire una sua cellula all'interno della base navale di Cienfuegos, la più importante dell'isola. Capeggiati dal tenente Dionisio San Román, i cospiratori puntavano a prendere il controllo della base e dell'incrociatore "Cuba", la più potente unità della marina cubana e da lì scatenare un'insurrezione generale contro il regime. Il 5 settembre il piano scattò e in poche ore i rivoltosi presero il controllo della base navale e della città di Cienfuegos, poi si fermarono ad attendere che la rivolta dilagasse in tutta l'isola. Invitati a raggiungere la vicina Sierra Escambray per aprire un nuovo fronte guerrigliero, i capi della rivolta rifiutarono decisamente considerando la proposta poco meno che una fuga e dunque non in sintonia con il loro onore di ufficiali. La scelta dello scontro in campo aperto si rivelò loro fatale. Bombardieri B 26, forniti dagli Stati Uniti nell'ambito del programma di collaborazione militare cubano-americano, mitragliarono e bombardarono la città che venne attaccata dalle truppe corazzate. Gli insorti, a cui si erano uniti numerosi civili, resistettero eroicamente per tutta la giornata e la notte successiva, poi dovettero arrendersi. La repressione fu selvaggia. I prigionieri furono immediatamente passati per le armi. Il tenente San Román, individuato come capo della rivolta, fu torturato per mesi e infine assassinato senza processo. L'intera città fu rastrellata casa per casa e tutti i sospettati di aver partecipato alla sommossa fucilati sul posto. I morti si contarono a centinaia. I fatti di Cienfuegos scavarono un solco definitivo tra il popolo di Cuba e gli Stati Uniti. Il fatto che i generali batistiani avessero usato armi pesanti, aerei e mezzi corazzati, che secondo il trattato cubano-americano potevano essere utilizzati solo per la difesa dell'isola da un attacco esterno, senza che il governo americano avanzasse la minima protesta aprì gli occhi anche a chi non voleva vedere. Così come era risaputo che le truppe di elite usate per la riconquista di Cienfuegos erano addestrate e inquadrate da consiglieri appartenenti alla missione militare statunitense operante presso l'alto comando delle forze armate cubane. Ma un'ondata di indignazione scosse l'isola alla notizia nel mese di novembre che il governo degli Stati Uniti aveva decorato con la prestigiosa Legione al Merito uno dei più feroci boia della dittatura, il generale Tabernilla, l'ufficiale che aveva diretto la repressione del moto di Cienfuegos. In questa occasione si rivelò tutta la cecità dei governanti americani, incapaci di comprendere cosa realmente stesse accadendo sull'isola. Convinto che tutto fosse riconducibile allo schema tanto caro alla destra americana del complotto comunista diretto da Mosca, l'ambasciatore Earl Smith raccomandò al capo della CIA, Allen Dulles, di infiltrare degli agenti sulla Sierra per "scoprire la portata del controllo dei comunisti" sul Movimento 26 Luglio e in caso affermativo assassinare Castro. Atteggiamento condiviso dall'amministrazione Eisenhower, come dimostra la risposta che il responsabile della sezione caraibica del Dipartimento di Stato, William Wieland, diede a chi sosteneva che il governo americano non poteva più fingere di ignorare le atrocità della dittatura di Batista: "So bene che molti considerano Batista un figlio di puttana... ma gli interessi americani vengono prima di tutto... per lo meno Batista è il nostro figlio di puttana e non tresca con i comunisti... Dall'altra parte Castro è attorniato da rossi. Non so se lui personalmente è comunista... ma sono certo che è soggetto all'influenza comunista".

IL PATTO DI MIAMI. Se anche appoggiavano apertamente Batista, gli americani tuttavia non trascuravano di flirtare con l'opposizione, tentando di isolare Fidel e di riportare il movimento guerrigliero sotto il controllo politico degli esponenti della borghesia liberale. Il 1 novembre, su pressione di ambienti politici americani vicini al Dipartimento di Stato e alla CIA, si tenne a Miami un congresso generale di sette gruppi d'opposizione. Fu costituita una Giunta di Liberazione Nazionale allo scopo di portare a compimento la lotta per la restaurazione della democrazia a Cuba. Si chiedeva l'aiuto degli Stati Uniti, garantendo l'esclusione dei comunisti e si riduceva l'intero programma sociale del futuro governo democratico alla vaga promessa di creare "nuove fonti di occupazione, così come più elevati standard di vita". Al Congresso partecipò anche Felipe Pazos, uno dei firmatari del Manifesto della Sierra Maestra, che portò l'adesione del Movimento 26 Luglio. La notizia del patto di Miami giunse a Castro attraverso il "New York Times" che definì l'accaduto come uno scandaloso tentativo politico di riciclare alcuni screditati esponenti dell'opposizione liberale. In una lettera in data 14 dicembre Castro denunciò vigorosamente la mancanza nel patto di ogni dichiarazione contro l'intervento straniero e il servilismo verso gli Stati Uniti, "chiara riprova di uno scarso patriottismo e di una vigliaccheria che si denunciano da soli". Veniva inoltre sconfessato l'operato di Pazos, che a nessun titolo poteva rappresentare la guerriglia, e si rifiutava ogni rapporto con la Giunta, del tutto priva di seguito a Cuba. "Non ho autorizzato o designato alcuna delegazione per discutere queste dichiarazioni - dichiarò Fidel - mentre i dirigenti delle altre organizzazioni che sottoscrivono il patto stanno in esilio facendo una rivoluzione immaginaria, i dirigenti del Movimento 26 Luglio stanno a Cuba facendo una rivoluzione reale". La mossa era rischiosa, il movimento castrista rischiava di perdere il consenso accumulato in un anno di lotta presso l'opinione pubblica moderata e di giustificare le accuse di estremismo avanzate dagli americani e dall'opposizione borghese. Con un'abile mossa tattica Fidel rovesciò la situazione, neutralizzando l'insidioso tentativo del Dipartimento di stato di isolarlo e screditarlo. Nella lettera si dichiarava che presidente provvisorio della nuova Cuba democratica sarebbe stato il giudice Urrutia, il magistrato costretto a dimettersi per aver assolto i compagni di Fidel arrestati dopo lo sbarco del Granma. La decisione si rivelò azzeccata. Urrutia era noto per le sue idee moderate e ciò bloccò sul nascere il tentativo americano di presentare Castro come un sanguinario avventuriero contrario per principio ad una soluzione politica del conflitto. Il 23 dicembre Urrutia giunse a Miami in rappresentanza di un governo cubano in esilio espressione del Movimento 26 Luglio. Liberale e anticomunista, il giudice Urrutia era l'uomo adatto a trattare con il governo americano per convincere Washington a sospendere le forniture d'armi a Batista. Il 14 marzo 1958 l'amministrazione Eisenhower annunziò ufficialmente la sospensione dell'invio di armi alle forze armate cubane.

VERSO LA VITTORIA. All'inizio del 1958 la guerriglia aveva ormai assunto il pieno controllo della Sierra, un territorio di quasi tremila chilometri quadrati all'interno del quale si era di fatto costituito un vero e proprio apparato logistico molto sofisticato. Nascoste alla ricognizione aerea dalla rigogliosa vegetazione tropicale funzionavano a pieno ritmo una officina per la riparazione delle armi, una calzoleria, una fabbrica di bombe e munizioni, una macelleria e perfino una piccola manifattura di sigari! I feriti e gli ammalati venivano curati in una serie di piccoli ospedali da campo che fungevano anche da ambulatori per la popolazione civile. Dovunque si aprivano scuole. Per Fidel e il Che l'analfabetismo e la miseria erano nemici che andavano combattuti fin da subito con lo stesso accanimento con cui si lottava contro le truppe di Batista. Il 10 ottobre, intanto, Fidel aveva promulgato sulla Sierra la legge di riforma agraria. Nel territorio liberato i guerriglieri procedevano ad assegnare la terra ai contadini. Il sogno di José Martí si stava avverando. Sotto gli occhi impotenti dell'imperialismo yanqui nasceva una nuova Cuba. Come riconobbe il giornalista americano Matthews, che ne fu conquistato: "Ciò che io vidi per primo... era che i migliori elementi della società cubana e tutti i giovani si stavano finalmente unendo insieme per creare una nuova, onesta e democratica Cuba". La guerriglia disponeva inoltre di un suo giornale "El Cubano Libre", stampato con un vecchio ciclostile datato 1903 e di una stazione radio che il 24 febbraio iniziò le sue trasmissioni dalla Sierra con lo storico annuncio: "Aquí Radio Rebelde ! Aquí Radio Rebelde que transmite desde la Sierra Maestra en el Territorio Libre de Cuba!". "El Cubano libre" riprendeva la testata dell'organo della lotta di liberazione contro la Spagna. Il Che nell'editoriale del primo numero spiegava le ragioni della continuità della guerriglia sulla Sierra con la lotta di liberazione nazionale: la lotta per l'indipendenza nazionale non era terminata, al dominio spagnolo si era sostituito l'imperialismo yanqui. Lotta per la democrazia e impegno antimperialista non potevano essere disgiunte nella difficile battaglia per l'affermazione di una società più giusta e libera.

I GIOVANI CONTRO LA DITTATURA. Trascinata dall'esempio della Sierra, anche nelle città si intensificava la lotta contro la dittatura. Agli inizi dell'anno i presidenti delle tre grandi federazioni studentesche dell'Avana, di Santiago e di Las Villas dichiararono uno sciopero generale a tempo indeterminato dell'università. Nessun studente avrebbe più seguito le lezioni finchè non fossero state ristabilite le garanzie democratiche previste dalla costituzione del 1940. Il sabotaggio delle vie di comunicazione raggiunse livelli tali da costringere le autorità a mantenere segreto l'orario ferroviario nella provincia d'Oriente e a far scortare i convogli da reparti dell'esercito. Il 23 febbraio il campione del mondo di automobilismo Manuel Fangio venne rapito all'Avana mentre si accingeva a disputare il Gran Premio e rilasciato dopo che la notizia ebbe fatto il giro del mondo. Messa in allarme dal rapido radicalizzarsi della situazione anche la Chiesa cattolica decise alla fine di febbraio di intervenire nella situazione politica cubana. Rompendo con l'atteggiamento di grande prudenza tenuto fino ad allora, il 10 marzo i vescovi cubani invitarono le parti alla formazione di un governo di unità nazionale e ad una politica di riconciliazione. Ma la base era andata già oltre. Molti giovani cattolici fra cui numerosi sacerdoti militavano nel Movimento 26 Luglio. Dello Stato Maggiore guerrigliero della Sierra Maestra faceva parte con il grado di comandante un giovane sacerdote, padre Sardiñas, di cui ha scritto Castro:

" Il lavoro che svolgeva tra i contadini non era di tipo politico ma religioso. Poichè da quelle parti non veniva mai un prete, la sua presenza e il fatto che svolgesse la sua attività sacerdotale, battezzando molti bambini, era un modo per legare ancor più quelle famiglie alla Rivoluzione, alla guerriglia, rafforzando i vincoli tra la popolazione e il comando guerrigliero. Direi che egli svolgeva la sua predicazione e il suo lavoro politico in modo indiretto... Da noi non esisteva la figura vera e propria del cappellano, ma gli fu riconosciuto il titolo di comandante, in riconoscimento del suo grado e dei suoi meriti". Nuovi focolai guerriglieri si andavano intanto accendendo sulle montagne, soprattutto nella selvaggia regione dell'Escambray. Alcuni facevano riferimento all'opposizione borghese che tentava in questo modo di inserirsi nella guerriglia e di contrastare la leadership castrista del movimento di liberazione nazionale. Altri dipendevano dal Partito comunista che, dopo lunghi tentennamenti, nel febbraio del 1958 era giunto infine alla decisione di appoggiare apertamente la lotta armata, invitando i membri del partito ad unirsi a Castro o, come nel caso della colonna Máximo Gómez, a costruire proprie unità guerrigliere. Altri infine non rappresentavano nulla di più di bande di avventurieri e sbandati, dediti più al brigantaggio che alla lotta rivoluzionaria. I contadini li chiamavano "comevacas" (mangiavacche), perchè l'unica loro attività era la requisizione del bestiame e il taglieggiamento sistematico della popolazione civile. La banda più nota di comevacas era comandata da un americano, William A. Morgan, ex ufficiale dei paracadutisti, fucilato dopo la vittoria della rivoluzione in quanto riconosciuto colpevole di aver operato come agente provocatore al soldo della CIA per allontanare i contadini dal movimento guerrigliero. La situazione si caratterizzava sempre più come prerivoluzionaria con un governo incapace di riprendere il controllo del paese ed un movimento rivoluzionario non ancora in grado di lanciare la spallata finale. Di conseguenza Fidel Castro decise che era giunto il momento di allargare il raggio d'azione della lotta armata. Il 10 marzo 1958 Raúl Castro alla testa di sessantacinque uomini lasciò la Sierra Maestra per andare ad aprire un nuovo fronte guerrigliero sulla Sierra Cristal, lungo la costa settentrionale della provincia di Oriente. Denominata "Frank Pais" la nuova colonna n.6 a bordo di jeeps e camion con un'audace spedizione durata venti ore raggiunse la zona di operazioni prescelta nonostante gli incessanti attacchi del nemico. Contemporaneamente Juan Almeida venne inviato con un'altra colonna ad aprire un "Terzo Fronte" nella parte più orientale della Sierra Maestra, immediatamente a ridosso della città di Santiago. Il mese successivo Camilo Cienfuegos si spostò a nord, nella zona di Bayamo, mentre il Che con la colonna n.4 continuava ad operare sulla Sierra Maestra centrale.

IL FALLIMENTO DELLO SCIOPERO GENERALE. Nonostante i successi della guerriglia, i dirigenti del fronte cittadino manifestavano una crescente insofferenza nei confronti di una tattica che secondo loro sottovalutava il ruolo delle città per puntare tutto sulla guerra rivoluzionaria sulle montagne. Alcuni addirittura tacciavano di "militarismo" i capi dei fronti guerriglieri e non risparmiavano neppure lo stesso Fidel, accusato a mezza bocca di "caudillismo". A febbraio la tendenza del "Llano" ritornò prepotentemente alla carica, tentando di imporre la propria direzione strategica al Movimento. Esponenti del Direttorato nazionale de l'Avana, attaccarono Fidel, accusandolo di non conoscere la reale situazione dei rapporti di forza nelle città e proponendo con estrema determinazione l'organizzazione in tempi brevi di un grande sciopero generale insurrezionale destinato ad assestare la spallata decisiva al regime, considerato ormai agonizzante. Nonostante non concordasse con tali analisi e ritenesse il momento ancora prematuro per l'insurrezione, Castro si ritrovò in minoranza, costretto a cedere al fine di evitare una pericolosa frattura fra il Comando generale della Sierra e il Direttorio nazionale del movimento. Nella veste di delegato del Direttorio Faustino Perez si recò ai primi di marzo sulla Sierra e, dopo varie discussioni con Castro e gli altri comandanti militari, firmò assieme a Fidel un nuovo manifesto intitolato "Guerra totale contro la tirannia". Il manifesto, articolato su ventidue punti, asseriva trionfalmente che "la lotta contro Batista è entrata nella sua fase finale" e che "per sferrare il colpo finale è basilare uno sciopero generale, appoggiato da azioni militari". Secondo le direttive impartite alle organizzazioni rivoluzionarie nel corso del mese di marzo i comitati d'azione che operavano clandestinamente nelle città dovevano scatenare una vera e propria guerra totale. In ogni luogo di lavoro di una qualche dimensione andava costituito un "fronte unito dei lavoratori" che riunisse gli operai indipendentemente dall'appartenenza politica intorno alla parole d'ordine dello sciopero insurrezionale. Se la parte militare dell'azione fu svolta con indubbia perizia, nella sola capitale nel mese di marzo si verificarono centinaia di atti di sabotaggio e di attentati contro le installazioni nemiche, l'azione politica, segnò il passo. Nonostante le indicazioni di Fidel di aprirsi a tutti i gruppi di opposizione presenti nelle fabbriche con particolare attenzione ai comunisti, emersero nei dirigenti del fronte sindacale atteggiamenti di grande settarismo. Così, nonostante l'apparato clandestino del Partito Socialista Popolare avesse espresso l'intenzione di aderire allo sciopero, i comitati d'azione rifiutarono di aprirsi ai comunisti. L'organizzazione dello sciopero fu assunta in pieno dal Movimento 26 Luglio, privo di reale radicamento nelle organizzazioni dei lavoratori. Emblematico il caso de l'Avana dove il comitato d'azione era diretto da un gruppo di intellettuali, in gran parte espressione della borghesia radicale, del tutto sconosciuti ai lavoratori. A complicare ulteriormente le cose giunsero le dichiarazioni di Faustino Pérez, improntate ad un moderatismo che non poteva di certo riscuotere grandi consensi nella classe operaia: "L'attuale movimento rivoluzionario è ben lontano dall'essere comunista...il nostro leader Castro non farà parte del governo provvisorio... creeremo un clima di fiducia e di sicurezza per l'investimento del capitale nazionale e straniero necessario per il nostro sviluppo industriale". Anche il Frente Obrero Nacional, l'organizzazione sindacale del Movimento 26 Luglio, diretto da David Salvador prese un atteggiamento di estrema chiusura nei confronti dei lavoratori comunisti, sottovalutando del tutto il problema della costruzione delle alleanze nel movimento di classe. Male organizzato e diretto in modo settario, lo sciopero generale si risolse in un fallimento. Le masse operaie risposero in modo limitato al proclama del Movimento 26 Luglio e l'esercito e la polizia di Batista non ebbero difficoltà a reprimere i pochi focolai di lotta. Il 9 aprile, giorno dello sciopero, in tutta l'isola oltre cento militanti operai furono assassinati e diverse altre centinaia arrestati. Il prestigio del movimento rivoluzionario ne uscì a pezzi. Batista trasse la conclusione che la situazione stesse cambiando a favore del regime e che, dopo il clamoroso fallimento dello sciopero, fosse possibile porre all'ordine del giorno la liquidazione dello stesso movimento guerrigliero, organizzando una massiccia operazione militare contro la Sierra Maestra. Opinione condivisa dall'intera stampa internazionale che dava ormai per finita la guerriglia castrista. Significativamente il New York Times, il giornale che fino ad allora più si era espresso a favore di Castro, titolava un articolo del 16 aprile dedicato alla situazione di Cuba: "Fidel Castro ha ormai i giorni contati". Come annotò il Che nei suoi ricordi: "A partire da febbraio l'insurrezione aveva continuato a gonfiarsi, fino a minacciare di trasformarsi in una valanga incontenibile. Il popolo si levava contro la dittatura in tutto il paese, soprattutto nell'Oriente. Dopo il fallimento dello sciopero generale decretato dal Movimento, l'ondata decrebbe fino a raggiungere il suo minimo in giugno...". Il morale fra i rivoluzionari era talmente basso che l'esercito lanciò una massiccia campagna propagandistica, invitando gli insorti alla resa. A migliaia di copie un volantino dello Stato Maggiore fu distribuito nelle zone di guerra. Nel testo si prometteva l'incolumità e l'amnistia per chi avesse abbandonato la guerriglia e consegnato le armi. "Compatriota: Se per il fatto di esserti trovato coinvolto in complotti insurrezionali ti trovi ancora in campagna o in montagna, hai ora l'occasione di rimediare e di tornare in seno alla tua famiglia. il Governo ha ordinato che si rispetti la tua vita e che tu sia inviato al tuo focolare se deporrai le armi e tornerai al rispetto della Legge... presentati al posto militare, di Marina o di Polizia più vicino... Se ti trovi in una zona disabitata, porta con te la tua arma appesa a una spalla e presentati con le mani in alto. Se ti presenti in zona urbana, lascia il tuo armamento nascosto in luogo sicuro, per comunicarne poi l'ubicazione in modo che sia recuperato immediatamente. Non perdere tempo, perchè le operazioni per la pacificazione totale continueranno con maggiore intensità nella zona dove tu ti trovi".

LA RETTIFICA DELLA LINEA. Il 3 maggio 1958 si tenne sulla Sierra, in un luogo chiamato Los Altos de Monpié, una riunione straordinaria della Direzione nazionale del Movimento 26 Luglio, per analizzare il perchè del fallimento dello sciopero e definire una volta per tutte i rapporti tra montagna e pianura. Alla riunione, che si rivelò di "un'importanza eccezionale" per la prosecuzione della strategia rivoluzionaria, fu invitato anche il Che, il quale, pur non facendo parte della direzione politica del Movimento, era ormai unanimemente considerato il capo militare più rappresentativo dopo Castro. La discussione fu aspra a causa dell'atteggiamento rigidamente settario di David Salvador e dei rappresentanti del FON che difendevano a spada tratta il loro netto rifiuto di qualunque collaborazione con le organizzazioni del partito comunista. Alla fine si impose l'autorità morale di Fidel, il suo indiscutibile prestigio e la consapevolezza nella maggioranza dei presenti che si erano compiuti gravi errori di valutazione nell'analisi della situazione da parte dei dirigenti della pianura. Lo sciopero era servito a mostrare nei fatti l'inaffidabilità dell'ala liberale e moderata del Movimento. Dopo un giorno e una notte di acceso dibattito, la Direzione deliberò un documento in cui si definivano le posizioni di Salvador "impregnate di soggettivismo e di putschismo", si criticava severamente l'avventurismo e il settarismo dei dirigenti della pianura e si riorganizzava radicalmente lo Stato Maggiore del Movimento. Fidel Castro fu nominato segretario generale del movimento e comandante in capo di tutte le forze, comprese le unità della milizia urbana che fino a quel momento erano state sotto il comando dei dirigenti delle città. Faustino Pérez e David Salvador vennero rimossi dai loro incarichi. Come ha scritto il Che nei suoi ricordi: " Ci dividevano differenze di visione strategica. La Sierra era ormai sicura di poter portare avanti la lotta di guerriglia: e cioè di estenderla ad altre zone e accerchiare così dalle campagne le città della tirannia, per arrivare poi a far esplodere tutto l'apparato del regime mediante una tattica di strangolamento e di logoramento. Il Llano aveva una posizione apparentemente più rivoluzionaria, e cioè quella della lotta armata in tutte le città che avrebbe dovuto convergere in uno sciopero generale che avrebbe fatto cadere Batista e avrebbe reso possibile la presa del potere in un tempo abbastanza ravvicinato. Questa posizione era solo apparentemente più rivoluzionaria perchè a quell'epoca l'evoluzione politica dei compagni della pianura era molto incompleta... la loro origine politica, che non era stata gran che influenzata dal processo di maturazione rivoluzionaria, li faceva inclinare piuttosto a una azione "civile" e a una certa opposizione contro il caudillo che si temeva in Fidel e alla frazione "militarista" che rappresentavamo noi della Sierra". Per ovviare ai metodi settari seguiti dai dirigenti del FON e ricucire lo strappo con il Partito Socialista Popolare, la Direzione nazionale del 26 Luglio redasse anche una circolare sul lavoro nelle fabbriche: "Continuiamo a considerare - si legge nel documento - lo sciopero generale come strategia finale corretta, ma intendiamo incrementare l'azione armata che ci consentirà di innalzare il morale rivoluzionario. Già la provincia di Oriente è in nostro potere. Il FON è stato creato come un organismo che unificasse tutti i settori. In realtà siamo stati troppo rigidi quando si è trattato di farvi entrare altri gruppi, il che ha creato certe riserve in altre forze sindacali. Ribadiamo quanto ha detto Fidel il 26 marzo: tutti gli operai hanno diritto di far parte dei comitati di sciopero. La direzione nazionale è disposta a parlare a Cuba con qualsiasi organizzazione dell'opposizione per coordinare piani specifici e compiere azioni concrete che tendano ad abbattere la tirannia". Un segnale chiaro di disgelo tra il Movimento guerrigliero e i comunisti del Partito Socialista Popolare venne dall'incontro l'11 aprile tra il dirigente contadino Pepe Ramirez e Raúl Castro. Raúl era stato inviato ad aprire un secondo fronte di lotta in una regione dove tradizionalmente il partito comunista godeva di forte influenza tra i contadini. In un primo momento il fratello di Fidel si dedicò a riportare ordine nella regione, dove bande armate operavano al di fuori di ogni controllo politico. In poche settimane, usando se necessario metodi durissimi, Raúl sradicò il fenomeno dello spontaneismo armato, unificando sotto il suo comando le bande attive sulla Sierra Cristal e liquidando senza pietà ogni forma di banditismo. Ristabilito un minimo di ordine rivoluzionario nella zona, Raúl affrontò con decisione il problema dei rapporti con il PSP. Dall'incontro con Ramirez la guerriglia ottenne l'assicurazione che i quadri del PC si sarebbero messi a disposizione della lotta armata e questo senza porre particolari condizioni politiche. Immediatamente Ramirez e i suoi compagni iniziarono un'intensa attività di chiarificazione politica, radunando i contadini e spiegando loro la necessità di fornire un concreto aiuto alla guerriglia. Sempre più i guerriglieri avvicinavano il loro raggio d'azione alla base aeronavale degli Stati uniti sulla baia di Guantánamo, da dove, nonostante le dichiarazioni formali del governo americano, continuavano a giungere rifornimenti militari per Batista. In particolare a Guantánamo si rifornivano gli aerei che andavano poi a bombardare la popolazione civile della zona del secondo fronte nella Sierra Cristal, dove Raúl Castro aveva creato un vero e proprio territorio liberato. Per far cessare i bombardamenti alla fine di giugno Raúl ordinò un'audace colpo di mano nell'area di Guantánamo, sequestrando una cinquantina di militari e tecnici statunitensi. In cambio della liberazione degli ostaggi il console americano a Santiago fu costretto a negoziare la cessazione effettiva degli aiuti militari all'aviazione cubana.

L'OFFENSIVA DI BATISTA. Il 24 maggio l'esercito di Batista sferrò una massiccia offensiva contro la Sierra Maestra allo scopo di accerchiare e distruggere il movimento guerrigliero. Nella zona vennero concentrate le unità d'elite dell'esercito, diciassette battaglioni, ciascuno appoggiato da una compagnia corazzata, con una massiccia copertura aerea. L'offensiva, denominata "Operacíon Verano" puntava a tagliare le linee di rifornimento di Castro, rioccupare gran parte della Sierra e chiudere i guerriglieri in una sacca da ripulire, poi, sistematicamente con l'ausilio della Guardia Rurale. Dodicimila uomini, un terzo dell'intero esercito cubano, accerchiarono la Sierra, poi lentamente, partendo dalla pianura, iniziarono le operazioni di rastrellamento. Ai primi di giugno, di fronte ad un'offensiva che per le sue dimensioni appariva decisiva, Fidel impartì a tutti i comandi partigiani l'ordine di resistere in modo elastico, senza incaponirsi a difendere a tutti i costi le posizioni. Occorreva soprattutto rallentare l'avanzata del nemico, riducendo al minimo le perdite in uomini e materiali e poi ripiegare verso punti strategici di più agevole difesa. "Dopo il fallimento di questa offensiva - diceva l'ordine di Castro - Batista sarà irrimediabilmente perduto ed egli lo sa e per questo compirà il suo massimo sforzo. Questa è la battaglia decisiva... Stiamo dirigendo le cose in modo da trasformare questa offensiva in un disastro per la dittatura". Per alcune settimane l'esercito avanzò nella Sierra senza incontrare grande resistenza. I ribelli sembravano svaniti nel nulla. Due battaglioni al comando del colonnello Sánchez Mosquera, uno dei più feroci ufficiali batistiani, raggiunsero il 19 giugno la zona di Santo Domingo nel cuore delle montagne. E proprio lì, in una delle più aspre e impervie regioni della Sierra Maestra scattò la controffensiva dei guerriglieri. Un diluvio di fuoco si scatenò su truppe esauste, non abituate al clima umido della foresta, annichilite dalla fatica e dal caldo. In tre giorni di feroce combattimento le truppe di Mosquera furono annientate, molti furono presi prigionieri, pochissimi riuscirono a fare ritorno alle basi di partenza. Lo stesso Mosquera, fu ferito e a stento riuscì a mettersi in salvo. Nelle mani dei partigiani caddero ingenti quantitativi di armi e munizioni, oltre ad un'intera stazione radio con tanto di codici cifrati. La vittoria di Santo Domingo si rivelò subito decisiva. L'esercito ribelle passò alla controffensiva ovunque, mentre migliaia di contadini insorti attaccavano pattuglie isolate, facevano saltare ponti, minavano strade e sentieri alle spalle delle truppe. Accerchiati, isolati in una regione sconosciuta e ostile, senza più rifornimenti, i battaglioni batistiani iniziarono a sbandarsi. Le diserzioni si contarono a centinaia, reparti interi passarono, dopo aver fucilato i comandanti, dalla parte dei ribelli. Alla fine di luglio non si contava più un solo soldato regolare sulla Sierra. L'esercito aveva perso tra morti e feriti oltre mille uomini, 443 erano i prigionieri. In mano ai ribelli erano caduti due carri armati, 2 mortai da 81 mm, 2 bazooka, 12 mitragliatrici pesanti, centinaia di armi leggere, 100 mila pallottole e tonnellate di munizioni e di rifornimenti. Dal canto loro i partigiani avevano avuto ventisette morti e una cinquantina di feriti. Le dimensioni della vittoria erano veramente straordinarie. Poco meno di trecento uomini male armati avevano fermato e messo in fuga oltre dodicimila soldati, il fior fiore dell'esercito di Batista. Dalla Sierra Maestra Fidel lanciò la parola d'ordine dell'insurrezione generale. Occorreva dare il colpo decisivo alla dittatura, prima che con l'aiuto nordamericano potesse riorganizzare le sue forze. Tutta Cuba diventava terreno di battaglia, tutto il popolo doveva insorgere. Nessuna tregua, nessuna pietà per il nemico. Ai soldati della dittatura veniva lasciata una sola possibilità: o arrendersi o morire. "Le colonne ribelli - annunciava Fidel da Radio Rebelde - avanzeranno in tutte le direzioni verso il resto del territorio nazionale senza che nulla e nessuno possa fermarle. Se un comandante cade, un altro occuperà il suo posto. Il popolo di Cuba deve prepararsi ad aiutare i nostri combattenti. Ogni villaggio... può diventare campo di battaglia. La popolazione civile deve essere avvertita perchè possa sopportare valorosamente le privazioni della guerra... ".

LA BATTAGLIA FINALE. Alla fine dell'estate, rafforzato dalla straordinaria vittoria ottenuta contro le truppe batistiane mandate all'attacco della Sierra Maestra, Fidel Castro poteva contare su circa ottocento combattenti, per la prima volta ben forniti di armi e munizioni. Tre colonne, al comando di Almeida, dovevano completare l'accerchiamento della capitale della provincia di Oriente, Santiago. Un'altra, agli ordini di Camilo Cienfuegos doveva portarsi all'altro capo dell'isola, nell'estrema provincia occidentale di Pinar del Río, mentre il Che, alla testa della colonna n. 8, doveva impadronirsi della provincia di Las Villas, secondo un foglio di ordini che riportiamo integralmente: "Si affida al comandante Ernesto Guevara la missione di condurre dalla Sierra Maestra fino alla provincia di Las Villas una colonna ribelle e di operare in detto territorio d'accordo con il piano strategico dell'Esercito Ribelle. La colonna 8 destinata a tale obiettivo, porterà il nome di Ciro Redondo e partirà da Las Mercedes tra il 24 e il 30 agosto. Si nomina il comandante Ernesto Guevara capo di tutte le unità ribelli del Movimento 26 Luglio che operino nella provincia di Las Villas, tanto nelle zone rurali come nelle zone urbane e gli si concede facoltà di raccogliere e di disporre per le spese di guerra i contributi fissati dai nostri provvedimenti militari, di applicare il codice penale e le leggi agrarie dell'Esercito Ribelle nel territorio in cui opereranno le sue forze, di coordinare operazioni, piani, provvedimenti di carattere amministrativo e organizzativo militare con altre forze armate che operino nella provincia e che dovrebbero essere invitate a integrarsi in un solo esercito per strutturare e unificare lo sforzo militare della rivoluzione; inoltre di organizzare unità locali di combattimento e di nominare ufficiali dell'Esercito Ribelle fino al grado di comandante di colonna. La colonna 8 avrà come obiettivo strategico quello di battere incessantemente il nemico nel territorio centrale di Cuba e di intercettare, fino a paralizzarli totalmente, i movimenti di truppe nemiche via terra da occidente a oriente, più altri che gli verranno opportunamente ordinati. F.to Il comandante in capo, Fidel Castro Ruz, Sierra Maestra, 21 agosto 1958, ore 9 p.m.". La guerriglia, rotto l'accerchiamento della Sierra Maestra, si trasforma da questo momento in vera e propria guerra di movimento. Il rapporto di forze volge ormai decisamente a favore della rivoluzione. Le colonne di Camilo e del Che, forti di appena ottanta e centoquaranta combattenti, in un mese e mezzo di marce forzate attraversano la provincia centrale di Camagüey e, nonostante la pressione di migliaia di soldati nemici, iniziano a realizzare l'obiettivo di tagliare in due l'isola per impedire ogni collegamento fra l'Avana e la provincia di Oriente, ormai quasi totalmente in mano all'Esercito Ribelle. A posteriori sembra incredibile che due colonne così piccole, senza comunicazioni con il grosso delle forze ribelli, abbiano potuto impiantarsi in un territorio controllato dal nemico e in pochi mesi ribaltare il rapporto di forze e vincere. La risposta ancora una volta si trova negli scritti del Che: "Il soldato nemico... è il socio minore del dittatore, l'uomo che riceve l'ultima delle briciole lasciategli dal penultimo dei profittatori, di una lunga catena che ha inizio in Wall Street e finisce con lui. E' disposto a difendere i suoi privilegi, ma nella misura in cui sono importanti. Il suo stipendio e le sue prebende valgono qualche sofferenza e qualche pericolo, ma non valgono mai la sua vita: se è al prezzo di essa che può conservarli, preferisce lasciar perdere, cioè ritirarsi di fronte al pericolo guerrigliero...(I guerriglieri, invece) ... sotto la bandiera della riforma agraria, la cui realizzazione incomincia nella Sierra Maestra... arrivano a scontrarsi con l'imperialismo; sanno che la riforma agraria è la base sulla quale edificare la nuova Cuba; sanno anche che la riforma agraria darà la terra a tutti gli espropriati, ma esproprierà coloro che la possiedono ingiustamente...; hanno imparato a superare le difficoltà con coraggio, con audacia e, soprattutto, con l'appoggio del popolo e hanno ormai visto il futuro di liberazione che li aspetta oltre le sofferenze". Il 7 novembre Fidel lasciò il suo quartier generale sulle montagne e alla testa di trecento uomini iniziò la marcia verso la capitale della provincia d'Oriente, Santiago di Cuba. Dalla Sierra Cristal anche Raúl Castro iniziò l'avvicinamento a Santiago. Uno dopo l'altro i centri abitati della pianura cadevano nelle mani dei ribelli. Impotente ad arrestare l'avanzata dei partigiani, Batista scatenò le sue ultime forze contro la popolazione civile. L'aviazione prese a bombardare selvaggiamente le zone liberate, causando migliaia di vittime innocenti fra la popolazione civile. Erano bombe americane quelle che seminavano la morte fra i cubani. Era il segnale chiaro per tutti che dopo la vittoria la rivoluzione non sarebbe stata indolore, che una guerra ben più aspra sarebbe iniziata contro l'imperialismo. In un biglietto a Celia Sánchez, Fidel confessava con rabbia: "Celia, vedendo le bombe-razzo che hanno lanciato contro la casa di Mario ho giurato a me stesso che gli americani pagheranno ben caro quello che stanno facendo. Quando questa guerra finirà, ne comincerà un'altra, per me, molto più lunga e grande: sarà la guerra che farò contro di loro. Mi rendo conto che questo sarà il mio vero destino".

LO SCIOPERO GENERALE INSURREZIONALE. A dicembre le principali basi dell'esercito erano ormai circondate, mentre Santiago era sul punto di cadere nelle mani dei ribelli. La demoralizzazione regnava ormai fra i generali. Lo stesso generale Tabernilla dovette comunicare a Batista che fantasticava di nuove offensive che " I soldati sono stanchi e gli ufficiali non vogliono combattere. Non c'è più nulla da fare". Le sorti della guerra si decisero fra Natale e Capodanno. Il 31 dicembre, dopo un lungo assedio, Camilo Cienfuegos occupò l'importante piazzaforte di Yagujay. Il 29 dicembre la colonna del Che attaccò la città di Santa Clara, capitale della provincia di Las Villas e punto nodale per l'avanzata verso l'Avana. Dopo quattro giorni di intensi combattimenti, il pomeriggio del 1° gennaio Santa Clara cadeva nelle mani del Che. Intanto il 28 dicembre il comandante della guarnigione di Santiago, generale Eulogio Cantillo, aveva incontrato segretamente Castro per negoziare il cessate il fuoco. Cantillo ottenne di poter lasciare in aereo Santiago per raggiungere l'Avana e convincere gli altri generali a deporre Batista e a cedere le armi ai ribelli. In realtà il generale si mise a disposizione degli americani che sul punto di scaricare l'ormai bruciato Batista intendevano impedire ad ogni costo la vittoria della guerriglia. In una concitata riunione con l'ambasciatore americano Smith, i generali decisero la formazione di una giunta militare che sarebbe stata immediatamente riconosciuta da Washington e dall'opposizione cubana di Miami come governo di transizione verso la democrazia. Alle due e dieci del mattino del 1° gennaio, mentre all'Avana, la gente festeggiava il Capodanno, Fulgenzio Batista abbandonava precipitosamente Cuba con destinazione Santo Domingo. Informato dell'accaduto, Fidel Castro dai microfoni di Radio Rebelde lanciava un appello al popolo cubano perchè insorgesse in armi contro i generali: " Una Giunta Militare in complicità col tiranno ha assunto il potere per garantire la sua fuga e quella dei principali assassini e per cercare di frenare la spinta rivoluzionaria, privandoci della vittoria. L'Esercito Ribelle continuerà la sua irrefrenabile campagna e accetterà solo la resa incondizionata delle guarnigioni militari. Il popolo di Cuba e i lavoratori devono immediatamente prepararsi per iniziare il 2 gennaio in tutto il paese uno sciopero generale che appoggi le armi rivoluzionarie, garantendo in tal modo la vittoria totale della rivoluzione. Sette anni di eroica lotta, migliaia di martiri che hanno versato il loro sangue in ogni luogo di Cuba, non verranno messi al servizio di coloro che fino a ieri furono complici e responsabili della tirannia e dei suoi crimini, perchè continuino a comandare a Cuba. I lavoratori, seguendo le direttive del FON del Movimento 26 Luglio, devono, oggi stesso, occupare tutti i sindacati mujalisti e organizzarsi nelle fabbriche e nei centri di lavoro per iniziare all'alba di domani la paralizzazione completa del paese. Batista e Mujal sono fuggiti, ma i loro complici sono rimasti al comando dell'esercito e dei sindacati. Colpo di stato per tradire il popolo: NO! Equivarrebbe a prolungare la guerra. Fin quando Columbia non si sarà arresa, la guerra non potrà terminare. Questa volta niente e nessuno potrà impedire il trionfo della rivoluzione. Lavoratori, questo è il momento in cui tocca a voi assicurare il trionfo della rivoluzione. Sciopero generale rivoluzionario in tutti i territori liberati!". Il 2 gennaio l'intera isola era paralizzata dallo sciopero, mentre nelle principali città squadre di operai armati, organizzate dal PSP e dal FON, prendevano il controllo degli edifici pubblici. Di fronte al precipitare della situazione, una parte dell'esercito si schierò con Fidel. I prigionieri politici vennero liberati, mentre i soldati distribuivano le armi agli insorti. Da Santiago Fidel ordinò a Camilo Cienfuegos e al Che di raggiungere alla testa delle loro truppe l'Avana, che fu occupata senza colpo ferire. L'8 gennaio, mentre lo sciopero generale durava ancora, Fidel raggiunse la capitale accolto da una popolazione festante. La guerra di liberazione era terminata. Dopo quasi un secolo di lotte, Cuba era finalmente libera. Iniziava ora la parte più difficile della rivoluzione, la costruzione di una nuova Cuba, democratica e socialista. Una lotta che si sarebbe rivelata ben più dura e ingrata della guerra sulle montagne.

Quel lusso privato (e ben nascosto) del Compañero Fidel. Austero rivoluzionario in pubblico, ma il líder máximo era un gaudente, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 02/12/2016, su "Il Giornale". Lusso, yacht, isola privata, milionario secondo Forbes, il compagno Fidel amava la bella vita, che il suo popolo non poteva permettersi, e le belle donne. In pubblico rivoluzionario duro e puro, in privato era un po' come Tito, il dittatore jugoslavo più monarca che proletario. Il velo su questo aspetto poco conosciuto del lìder màximo è stato alzato dal tenente colonnello Juan Reinaldo Sanchez, uno dei suoi pretoriani, che gli ha coperto le spalle per 17 anni. «Lasciava intendere che la rivoluzione non gli dava tregua, nessun piacere, che ignorava e disprezzava il concetto borghese di vacanza. Ha mentito», si legge nel libro di Sanchez «Doppia vita di Fidel Castro». L'autore, rifugiato a Miami, è morto lo scorso anno, quando il libro era in stampa. Gli anticastristi sospettano che sia stato avvelenato dagli agenti di Cuba. Il regime aveva bollato le sue memorie come «propaganda della Cia». Sanchez rivela di aver scortato più volte Fidel a Cayo Piedra, un isolotto a sud della Baia dei Porci trasformato in un «paradiso terrestre», ma off limits per i cubani. Una specie di isola di Brioni, che il maresciallo Tito aveva di fronte alla cosa istriana. Castro ospitava gli ospiti come Gabriel García Márquez e amava salpare per l'isola con lo yacht Aquarama II, in raro legno angolano, che gli era stato regalato dal boss comunista sovietico Leonid Breznev. Cayo Piedra, oltre ad un eliporto e residenze di lusso, ospita delfini e tartarughe per intrattenere gli ospiti come il fondatore delle Cnn, Ted Turner, e l'ultimo leader della Germania Est, Erich Honecker. Il lìder màximo sorseggiava whisky Chivas regal invecchiato di 12 anni e amava il film Guerra e pace, ma in versione sovietica lunga e pesante. Sull'isola ribelle aveva a disposizione una ventina di case ed il suo pseudonimo guerrigliero era Alejandro, come Alessandro il Grande. «Era convinto che Cuba fosse di sua proprietà» ha scritto Sanchez, che è rimasto al suo fianco fino al 1994. La residenza più nota di Fidel era l'Unità 160 o Punto Cero, una specie di compound-fortezza. Nelle residenze all'Avana non si faceva mancare nulla, compresa una pista da bowling, un campo di pallacanestro, piscine, Jacuzzi, sauna e un piccolo ospedale personale. Sanchez rivela che per timore di venir assassinato dalla Cia girava sempre con un paio di donatori del suo sangue A negativo. La rivista Forbes ha inserito Castro nella famosa lista mondiale dei milionari definendolo «uno dei più ricchi fra re, regine e dittatori». L'accostamento fece infuriare il lìder màximo. Fidel si scagliò per ore in tv contro queste rivelazioni sostenendo sempre che viveva con una manciata di pesos al mese come gran parte dei cubani. In realtà le stime della fortuna personale di Castro si aggirano attorno ai 900 milioni di dollari. Osservatori occidentali sospettavano che controllasse non solo numerose imprese di Stato, ma anche una piccola miniera d'oro. Manuel de Beunza, che è fuggito dall'isola, ma aveva lavorato nel settore finanze del ministero dell'Interno, sostiene che le cifre di Forbes siano solo una parte del tesoro. Castro avrebbe controllato addirittura una banca in Inghilterra e fatto mettere in piedi 270 società in giro per il mondo. Oltre agli agi della vita «capitalistica» Fidel amava le belle donne e ha avuto diverse mogli, amanti e almeno otto figli. Sanchez, l'ex guardia del corpo, sostiene che «mentre il suo popolo soffriva Fidel Castro ha vissuto in tutta comodità. E lo stesso valeva per i suoi otto figli, le molte amanti e le mogli. Il tutto avvolto dal segreto».

È morto Fidel Castro. Fidel Castro era nato il 13 agosto 1926. Dopo gli studi dai Gesuiti si avvicinò al marxismo. Laureato in legge, divenne avvocato e, in seguito, dedicò la sua vita alla lotta politica. A partire dal 1956 creò le basi per la rivoluzione cubana, conclusasi con la cacciata del generale Batista nel 1959, scrive Orlando Sacchelli, Sabato 26/11/2016, su "Il Giornale". Le notizie sulla sua morte si rincorrevano da anni, poi puntualmente smentite. Ma stavolta è arrivata la conferma: Fidel Castro non c'è più. Il líder maximo si è spento a 90 anni, dopo una lunga malattia. A dare l'annuncio è stato suo fratello, Raul, presidente cubano: "Caro popolo di Cuba, è con profondo dolore che compaio per informare il nostro popolo, gli amici della nostra America e del mondo, che oggi 25 novembre del 2016, alle 10.29, ore della notte, è deceduto il comandante in capo della Rivoluzione Cubana Fidel Castro Ruz". A trentatre anni guidò la rivoluzione che mandò a casa il generale Fulgencio Batista e, dopo aver promesso di riportare la libertà, instaurò un sistema in tutto e per tutto simile a quello sovietico, definito “democrazia popolare”. Nei fatti una dittatura che ha resistito per decenni e resiste ancora oggi, sia pure con qualche apertura, con le redini ben salde in mano a Raul Castro. Sopravvissuta al collasso economico dovuto al rigido embargo americano grazie agli aiuti dell'Unione sovietica prima e del Venezuela poi, Cuba non ha mai ammesso il dissenso, sbattendo gli oppositori in carcere e schiacciando ogni minima forma di ribellione. I difensori nostrani di Cuba hanno sempre preferito sorvolare sul fatto che all'Avana si negassero i principali diritti dell'uomo: preferivano ricordare scuole e ospedali di buon livello, quasi che la libertà fosse un dettaglio insignificante. Quella di Fidel è stata una vita dedicata al sogno rivoluzionario. Una scelta maturata dopo una giovinezza borghese. Dopo aver studiato per diventare avvocato, il giovane Fidel fece la pratica in un piccolo studio. Sognava di diventare parlamentare, ma non potè neanche candidarsi a causa del colpo di Stato di Batista. Arrestato a seguito del fallito assalto alla “caserma Moncada” (1953), fu condannato a quindici anni. Rilasciato grazie a un'amnistia, andò in esilio in Messico e negli Stati Uniti, dove cominciò a mettere insieme le tessere per il suo secondo tentativo, quello buono, teso a disarcionare Batista. A bordo della Granma, una piccola imbarcazione di 18 metri, guidò 82 rivoluzionari che, partiti dal Messico il 25 novembre alla volta di Cuba, diedero inizio alla rivoluzione. Di quel manipolo rimasero in vita solo in dodici, tra cui Ernesto “Che” Guevara e Raul Castro. Si rifugiarono sulle montagne e da lì, dopo essersi riorganizzati (arrivarono a circa 800 unità), diedero inizio a una lunga guerriglia contro il governo. Batista si arrese il capodanno del 1959, lasciando il campo alle forze di Castro che poterono entrare all'Avana. Il primo governo fu affidato a un professore di legge, José Mirò Cardona, ma nel giro di un mese e mezzo Castro, già comandante in capo delle forze armate, assunse anche il ruolo di primo ministro. Iniziava, così, il dominio di Castro, che nel 1976 assunse anche la carica di presidente della Repubblica. Un potere, quello di Castro, che è andato avanti senza limiti fino al 2006, quando subì un ricovero ospedaliero e lasciò la guida del Paese, temporaneamente, al fratello. Due anni dopo, invece, si fece definitivamente da parte, anche se continuò, di tanto in tanto, a mostrarsi in pubblico, a scrivere articoli su Granma e a incontrare personaggi politici (Chavez e le delegazioni comuniste e cinesi) e alcuni vip suoi amici (Maradona). Alcune timide liberalizzazioni Cuba le ha conosciute solo grazie a Raul, pur restando, il Paese caraibico, ben saldo nelle mani del Partito comunista. La morte di Fidel è la fine di un simbolo vivente. Un pezzo del Novecento che viene archiviato e consegnato alla storia. Non muore con lui, però, quel regime che da troppi anni imprigiona Cuba. Non si vedono ancora, all'orizzonte, i segnali di una rinascita democratica del Paese. Siamo ancora lontani dalla Primavera dell'Avana. I dissidenti in esilio ci sperano, ma dovranno aspettare e lottare ancora molto. Il rischio è che all'Avana si instauri una forma riveduta e corretta del “modello cinese”, con un capitalismo innestato in un sistema politico illiberale. L'ultimo saluto. "Forse questa sarà l'ultima volta in cui parlo in questa stanza - disse lo scorso aprile rivolgendosi agli oltre mille delegati a chiusura del settimo congresso del partito comunista -. Presto compirò 90 anni. Non mi aveva mai sfiorato una tale idea e non è stato il frutto di uno sforzo, è stato il caso. Presto sarò come tutti gli altri, il turno arriva per tutti. Il tempo arriva per tutti noi, ma le idee dei comunisti cubani rimarranno come prova che su questo pianeta, se sono attuate con molto lavoro e con dignità possono produrre i beni materiali e culturali di cui gli esseri umani hanno bisogno", aveva aggiunto Fidel, con indosso la casacca di una tuta (Adidas blu elettrico) che da tempo aveva ormai sostituito la divisa verde militare da "lìder" con cui aveva rovesciato il generale Batista.

È morto Fidel Castro, il líder máximo che portò la rivoluzione a Cuba, scrive Lanfranco Caminiti il 26 novembre 2016 su "Il Dubbio". L'annuncio commosso del fratello Raul, che ha ricordato lo storico slogan "Hasta la victoria siempre". Per più di cinquant’anni al comando, Fidel ha sfidato dieci presidenti Usa. È morto Fidel Castro, aveva 90 anni. La notizia della scomparsa del leader cubano è stata data in tv dal fratello Raul. Castro aveva lasciato il potere nel 2006 a causa di una malattia, i cui dettagli non sono mai stati rivelati. «Il comandante in capo della Rivoluzione cubana è deceduto stasera alle 22.29 (le 4.29 italiane)», ha annunciato Raul con voce tremante. «Il corpo di Fidel sarà cremato nelle prossime ore», ha aggiunto, concludendo con lo slogan tanto amato dal fratello maggiore che gli aveva trasferito tutti i poteri nel 2008: «Hasta la victoria, siempre». Conquistò il potere sull’isola nel 1959, rovesciando la dittatura di Fulgencio Batista. Per più di cinquant’anni al comando, ha sfidato dieci presidenti Usa, da Eisenhower a Obama. Su questo tempo, dalla metà del secolo scorso, l’avvocato Castro, nato il 13 agosto 1926 a Biràn, provincia di Holguìn, parte meridionale di Cuba, ha giganteggiato. Dall’alto del suo metro e novanta. «La historia me absolverá» – concluse così la propria arringa difensiva, vero atto d’accusa contro il golpe del 10 marzo 1952 e la dittatura a Cuba, il giovane Fidel, citando Tommaso d’Aquino, John Locke e Martin Lutero, non certo Marx o Lenin, dopo il disastroso attacco alla caserma Moncada il 26 luglio 1953 in cui morirono ottanta uomini, armati per lo più di fucili da caccia, dopo di che erano fuggiti sulla Sierra e erano stati poi catturati, e che pure divenne l’atto fondativo della rivoluzione cubana. Raccontò al processo: «Abel Santamaria con ventuno uomini aveva occupato l’Ospedale Civile; con lui c’erano un medico e due nostre compagne per accudire i feriti. Raul Castro, con dieci uomini, occupò il Palazzo di Giustizia; e a me toccò attaccare l’accampamento con il resto, novantacinque uomini. Arrivai con un primo gruppo di quarantacinque, preceduto da un’avanguardia di otto…». Ah, come invidio gli scrittori sudamericani – è già tutto magicamente raccontato dalle cose, che ci vuole a metterle assieme. La storia lo assolverà? Se non fosse stato per quella tuta sportiva della Adidas, che ha indossato per anni, Fidel avrebbe assunto le sembianze di una mummia sovietica, una di quelle che si trovavano sul palco della Piazza rossa a Mosca a veder sfilare missili e carri armati, e che salutavano con la mano o con gesto militare, e poi si abbracciavano e si baciavano congratulandosi l’uno con l’altro per la potenza sfoggiata del comunismo. Ma, come dice l’Ecclesiaste, c’è un tempo per la divisa e un tempo per la tuta, un tempo per la guerriglia e un tempo per la pensione. E Fidel lo capì. Lui che comunista lo è stato – per la verità aveva cominciato militando nel Partito ortodosso cubano, un miscuglio di riformismo e nazionalismo. I comunisti cubani sono una razza strana: quando lo arrestano in Messico nel 1956 nel campo di Santa Rosa, insieme al Che e altri compagni che si andavano preparando per lo sbarco a Cuba, Batista, il dittatore cubano, ne vuole l’estradizione, perché teme “un complotto comunista”. Fidel scriverà allora una lunga lettera al settimanale «Bohemia», per spiegare perché lui non sarà mai comunista, ricordando che era stato proprio Batista, nel 1940, il candidato ufficiale del Partito comunista cubano, e che in quel momento al governo ci sono ministri comunisti. Il fatto è che una razza strana erano i comunisti sudamericani: rigidi come soldatini di piombo, obbedienti a Mosca perinde ac cadaver, guarderanno sempre con malcelato fastidio alla rivoluzione cubana, quando non con ostilità. E Fidel poi si rimangerà tutto. E che poteva fare se il mondo era diviso a metà e o stavi di qua o stavi di là, e se quelli con la bandiera a stelle e strisce, gli americani, ti organizzano con la peggiore feccia della terra lo sbarco alla Baia dei Porci per rovesciarti e provano mille modi per farti fuori, allora non ti restano che quelli con la bandiera rossa, i russi, per sopravvivere? Canna da zucchero in cambio di petrolio. Diventerà una condanna – la monocultura sarà sempre la tragedia di ogni tentativo di riscatto sudamericano, anche quando assumerà il colore nero del petrolio come in Venezuela. L’avvocato Castro e il dottore Guevara ne erano consapevoli e immaginavano tutta una fioritura di imprese e attività. Ma come fai se tutto intorno hai l’embargo e l’unica cosa che vogliono i russi – i tuoi alleati, figli di puttana, ma sono gli unici alleati che hai – è la canna da zucchero? Così, comunista, Fidel, c’è diventato per conseguenza. Per via della canna da zucchero, si potrebbe dire. Rossana Rossanda non l’aveva capito: quando andò a Cuba con il suo compagno Karol gli spiegava, a lui, a Fidel, tutto il quadro internazionale del comunismo, e gli ortodossi, e gli eretici, e gli stalinisti e i trotskisti, e lui, il Fidel, le chiese: «Chi è Trotsky?» Ah, la lunga coda degli intellettuali europei per incontrarlo, sembrava di stare non al Malecon ma sulla Rive Gauche. Altro che il Subcomandante Marcos: con tutto il rispetto per il Sup, se lo sognava quel fiore fiore di intellettuali europei che volteggiavano intorno a Fidel. Avevano cominciato Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, febbraio 1960 – tristi, tristissimi orfani del comunismo russo virato nell’orrore dello stalinismo e che ora finalmente avevano trovato il rivoluzionario capace di tenere testa all’imperialismo americano. Sartre scrisse: «È la luna di miele della Rivoluzione». La storia lo assolverà? La luna di miele era finita da un pezzo. «Cuba me duele», ha scritto il grande Eduardo Galeano. Il regime per un lungo periodo è diventato paranoico, vedeva nemici ovunque e l’unica risposta che trovava era stringere ancora di più diritti e libertà e sbattere in prigione qualunque voce di dissenso e di opposizione, come fossero tutti mafiosi della Florida prezzolati per rovesciare Castro. Ma qualcuno può pensare che cinquantasei anni di embargo, invasioni mercenarie, attacchi terroristi e trame d’ogni tipo possono aver dato qualche ragione alla leadership cubana per diventare paranoica. Assediata per cinquantasei anni dall’ingombrante vicino del nord, Cuba ha comunque raggiunto nel campo della scuola e della sanità standard da primo mondo pur stando nel terzo mondo. La mortalità infantile e l’alfabetizzazione hanno tassi identici a quelli americani, e il numero di alunni per classe è un terzo di quelli della Gran Bretagna, mentre, per dire, a Haiti, supportata per anni dagli Stati uniti, l’analfabetismo e la mortalità infantile registrano tassi dieci volte più alti. Cuba ha sviluppato un sistema sanitario, una ricerca biotecnologica e farmaceutica, considerata dagli stessi americani ai primi livelli dell’America latina. Fino a non molto tempo fa, cinquantamila medici cubani lavoravano gratuitamente in novantatré paesi del mondo e ogni anno circa mille studenti del terzo mondo ricevevano una gratuita formazione universitaria. Qualcuno può credere che questi numeri migliorerebbero se l’isola tornasse nelle mani dell’opposizione sostenuta dai nostalgici di Miami, dagli eredi e parenti delle aziende agricole, delle fabbriche e dei bordelli che Castro e il Che e Camilo Cienfuegos (ah, che nomi, i rivoluzionari sudamericani, sembrano storie inventate da Hugo Pratt) e i loro compagni espropriarono, che dalla Florida hanno tramato per anni per potersi riprendere le loro cose? «A todos nos llega nuestro turno / Per tutti arriva il proprio turno» – aveva detto così il Comandante il 13 aprile scorso, durante il VII Congresso del Partito comunista cubano. «Por inexorable ley de la vida, aveva aggiunto il fratello Raul, el último Congreso dirigido por la generación histórica». Il settanta percento dei cubani è nato sotto il segno di Fidel. Magari, California dreaming, chissà. E questa è l’inesorabile legge della vita. Non li fanno più di quello stampo. Comunque la si voglia considerare, questa è una cosa che mette tanta tristezza.

Fidel Castro e il '900 muoiono insieme. Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola comunista, dove Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista. E con l’ossessione di farla sopravvivere intatta, scrive Ezio Mauro il 27 novembre 2016 su "La Repubblica". Incredibilmente, nell’aprile dell’anno in cui tutto stava crollando e ogni cosa diventava possibile — il 1989 — Fidel si alzò davanti al mondo per proporre il modello cubano come l’unica esperienza ortodossa del socialismo di fine secolo. I deputati, i capi del partito, il popolo cubano lo avevano visto celebrare gli onori massimi a Mikhail Gorbaciov, portato in trionfo sulla “ciajka” presidenziale nei 25 chilometri dall’aeroporto all’Avana, con Castro in piedi accanto a lui che gli alzava il braccio in segno di vittoria, procedendo in mezzo a un milione di cittadini plaudenti. Ma quando il segretario del Pcus, con la disperazione istintiva di chi avverte i morsi della fine, invitò Cuba a riformare il suo comunismo per poterlo salvare (come avrebbe fatto poco dopo a Berlino davanti ai gerarchi impassibili della Ddr) Fidel si alzò in piedi e consumò il suo personale strappo dall’eresia morente gorbacioviana. «L’Urss non può decidere da sola, l’unico suo privilegio è essere grande. E Cuba non ha mai avuto uno Stalin, dunque non ha bisogno di avere oggi una perestrojka». Gorbaciov si guardò intorno smarrito, poi controllò l’orologio misurando il fallimento del suo tentativo di inserire L’Avana nel processo di distensione mondiale tra Est e Ovest e si trovò improvvisamente solo e straniero nell’isola del socialismo uguale a se stesso. Così il comunismo tropicale, difeso e sostenuto per decenni dal Cremlino, si ribellava al suo protettore, rifiutando di cambiare. Fidel si presentava al mondo come l’Ortodosso, trent’anni dopo il “discorso delle colombe” con cui entrò trionfalmente nella capitale con la rivoluzione, mentre due colombe si posavano sulle spalline della sua divisa verde, in segno di benedizione di Nostra Signora della Mercede. L’ultima perfidia fu un fuorionda serale sulla tv cubana, coperto dalla voce monotona dello speaker, con Gorbaciov che in un angolo dell’Assemblea Nacional tirava fuori un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava prima di entrare in scena, in un gesto post-imperiale e privato che rompeva da solo tutta l’iconografia monumentale dei Segretari Generali comunisti, vissuta sempre in pubblico. La Cuba castrista doveva tutto all’Urss, seguita e omaggiata dal Comandante nelle sue visite ad limina a Mosca, fino allo scarto finale. Per Fidel era inconcepibile che uno Stato socialista, capace di sconfiggere il fascismo e soprattutto di uguagliare in peso e influenza la superpotenza capitalistica degli Usa avesse accettato di distruggersi. Perché questa è stata la sua diagnosi davanti al tentativo riformista gorbacioviano: invece di correggersi mantenendo la sua natura, l’Unione Sovietica ha commesso il grande errore storico di imboccare la strada di una riforma di sistema, nella convinzione di poter costruire il socialismo — o mantenerlo — attraverso «metodi capitalistici», come li disprezzava Castro. Ma regolati i conti con la deriva sovietica, costretto a rimodulare pesantemente l’economia dell’isola senza gli aiuti “fraterni” di Mosca, Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista del secolo, con l’ossessione di farla fuoriuscire intatta. L’epopea, d’altra parte, non era mai stata mutuata da Mosca insieme con i finanziamenti, ma era ostinatamente indigena e autonoma. Il ricordo nostalgico e ripetuto dei “Tre Comandanti”, Raul, Camilo Cienfuegos e soprattutto il “Che”, l’eroe che fino agli ultimi anni secondo il racconto del líder maximo lo andava a visitare di notte, in sogno, e continuavano a discutere come avevano sempre fatto, quando avevano la mitraglia in mano. Il dissenso liquidato con l’etichetta dei «traditori». La convinzione negli anni più difficili di poter vivere «del capitale umano». La venerazione per José Martí ricordando il suo ammonimento: «Essere colti è l’unico modo di essere liberi». Lo scambio epico di dialogo con Cienfuegos, inciso in plaza de la Revolucion: “Voy bien, Camilo”? “Vas bien, Fidel”. La “prima generazione” della rivoluzione, tenuta insieme con il pugno di ferro del dittatore, si va esaurendo, ma ormai altre tre sono nate e cresciute nell’isola sotto il segno di Fidel. La quarta, l’ultima, è la più aperta al contagio. Ha visto salire al potere Raúl, appena quattro anni più giovane del fratello, in una deriva dinastica dove il carisma appassisce e cresce il bisogno di auto-tutela di una nomenklatura spaventata. Ha visto soprattutto Fidel passare dalla tuta mimetica con gli scarponi alla tuta sportiva rossa, bianca e blu con il marchio dell’Adidas, soprattutto l’ha visto smagrito e divorato dalla malattia, nei discorsi radiofonici sempre più rari. Il regime si trova oggi davanti alla sua massima torsione, perché finisce il legame mitologico e storico con le sue origini, l’eroica fonte di legittimazione, la personificazione populista nel leader che finiva sulle copertine di Time, nelle televisioni di tutto il mondo mentre stringeva la mano di Allende, Mandela, Juan Carlos, Garcia Marquez, Saramago, Agnelli, Arafat, Tito, Indira Gandhi, Giovanni Paolo II attraversando con loro la storia da protagonista. «Dobbiamo dimostrare di essere in grado di sopravvivere», è il comandamento degli ultimi anni di Fidel a Raúl, nella convinzione che sia più facile teorizzare come si costruisce il socialismo che capire come conservarlo e preservarlo in futuro. Il Comandante in jefe ha regolato la successione in vita, tentativo onnipotente di garantire il futuro alla sua costruzione politica. Ma il castrismo senza Fidel è fragile e il sentimento di fine d’epoca dominava Cuba già a marzo, quando Barack Obama è sbarcato nell’isola come ambasciatore di un mondo nuovo, ottantotto anni dopo la visita dell’ultimo presidente americano, Calvin Coolidge. Il vuoto lasciato da Fidel riempiva già allora la scena, rimpicciolita dai timori di Raúl che non poteva fare a meno di normalizzare i rapporti con gli Usa per dare ossigeno all’economia cubana, ma cercava di cancellare ogni valenza storica ad una visita che simbolicamente segnava un passaggio d’epoca. Così non è andato ad accogliere l’ospite all’aeroporto ma ha mandato il suo ministro degli Esteri, non ha voluto nessun corteo d’onore, ha lasciato il presidente americano da solo nella passeggiata nella Città Vecchia, nella cattedrale, nell’incontro con il vescovo, poi con i “cuentapropistas”, quell’embrione di società civile e di economia gestita in proprio che si sta affacciando nelle maglie strette del regime. I cubani osservavano la scena nelle vecchie televisioni dai colori incerti, appese sui trespoli coi fili volanti nei bar del centro senza niente da servire ai clienti. Al mattino, 68 “damas de blanco” si erano radunate nella chiesa della Quinta Avenida, la strada delle ambasciate, per chiedere davanti alle telecamere di tutto il mondo a Santa Rita, (“abogada de lo imposible”) di far scarcerare mariti, figli, padri dissidenti politici e prigionieri nelle carceri cubane: ma soprattutto di aiutarli a conquistare il vero traguardo, “una Cuba senza Castro”, finalmente con la libertà politica, di parola, d’impresa. Spente le telecamere, la polizia nel pomeriggio era passata nelle case delle “damas”, per arrestarle in gruppo. Come un apriscatole della storia, la visita di Obama in poche ore aveva certificato l’esistenza del dissenso, la conferma della repressione poliziesca e la speranza di un cambiamento di regime. Oggi si guarda la vecchia “ceiba”, l’albero sacro dell’Isola, che proprio sulla Plaza de Armas è morto rinsecchito accanto al Templete. Il regime lo ha sostituito in fretta, di notte, ma la gente ricorda la vecchia superstizione caraibica secondo cui sotto l’ “arbol del misterio” si svolgeva il rito sacro del passaggio di potere tra un Capo e un altro, perché sotto la ceiba “si muovono e parlano gli dei”. Il dio del comunismo, intanto, contempla da oggi il tabernacolo vuoto del castrismo. Riuscirà a sopravvivere, fuoriuscendo da se stesso nell’ultima metamorfosi che Fidel aveva sempre esorcizzato? Più probabile che il sistema crolli per estenuazione, senza più l’anima fondatrice del vecchio dittatore. Che muore — singolare destino — insieme con il Novecento che era durato fin qui con le sue guerre ideologiche, ed è venuto a finire proprio nell’isola comunista, in questo tramonto tropicale dell’autunno 2016: altro che secolo breve.

Fidel Castro: «Io sono la rivoluzione». Quell'ultima intervista concessa a Oliver Stone. Ripubblichiamo questo colloquio straordinario uscito il 2 ottobre del 2003 sull'Espresso, in cui il regista americano incontrava il leader cubano. Una confessione a tutto campo.  Sull'America, l'11 settembre, i diritti civili, l'embargo, il comunismo. E sul suo destino, scrive Oliver Stone il 26 novembre 2016 su “L’Espresso”. Il soggetto Castro non è stata una mia scelta, è venuto fuori quando un produttore argentino, Fernando Sulichin, me lo ha proposto. Siamo andati con una piccola troupe spagnola e con il cineasta messicano, Rodrigo Prieto e di fatto abbiamo girato uno speciale tenendo a mente l'idea di un uomo che guarda indietro alla sua vita passata. Avevo già avuto modo di incontrare Castro nel 1986 all'Havana Film Festival dove "Salvador" venne proiettato con enorme successo. In quell'occasione Castro mi era sembrato un uomo cordiale ed esuberante, una persona interessata alla cultura e alla vita. Pensai che questo incontro, a 16 anni di distanza dal primo, mi avrebbe dato la possibilità di approfondire, di capire meglio ciò che la vita aveva significato per un uomo vissuto come un guerriero e un ribelle di successo, un uomo che porta con orgoglio le sue cicatrici, che è ancora alla guida del suo paese e che è stato il padre della rivoluzione. Un uomo forte che si è guadagnato quello che i francesi potrebbero definire un certo rispetto. Si può non condividerlo, lo si può odiare, ma di certo è impossibile ignorarlo. È una forza della storia. Per alcuni si tratta ormai di storia datata, sorpassata, per coloro che si sono fatti beffe degli anni '60, di Che Guevara, della rivoluzione comunista, ma non capiscono che l'influsso segreto della storia è molto più forte delle loro profezie e delle loro accuse. È l'influsso segreto della storia la vera forza del cambiamento. È la voce che viene dalla gente del mondo. Possono parlare sottovoce ai banchieri che gestiscono il mondo occidentale e cercare di gestire così anche quello orientale, ma marginali come sono, stanno diventando una forza che può scrivere la parola fine sul sistema bancario occidentale che ha intrappolato gran parte del Secondo e del Terzo Mondo e sembra ora in procinto di portare al fallimento il Primo. Ho potuto rivolgere a Castro tutte le domande che volevo, ho spaziato dalla filosofia alla politica e ho trovato un Fidel Castro particolarmente intuitivo, perspicace, preciso sulla crisi missilistica cubana (Cuban Missile Crisis) e molto lucido su tutti gli argomenti politici dal momento che legge ed è bene informato. Abbiamo parlato di tutto: dall'Angola alle armi nucleari in Sudafrica, dall'embargo di Cuba alle trame e alle macchinazioni del Pentagono, di Kennedy, e soprattutto della politica di Nixon contro Cuba. Abbiamo parlato della nascita del terrorismo contro Cuba fomentato dalla Cia. Castro mi ha ricordato che i primi aerei a essere mai stati dirottati o fatti esplodere, furono proprio aerei cubani attaccati dalla Cia che appoggiava la mafia cubana. Personalmente ritengo che l'embargo americano contro Cuba sia stato e continui ad essere una tragedia. Rispecchia la politica di vendetta verso il Vietnam del Nord e le sanzioni illegali imposte all'Iraq dopo la guerra del golfo del 1991. È veramente triste che l'America senta di dover sferrar calci contro nemici esterni quando è ormai piuttosto chiaro ed evidente che il nemico si trova all'interno degli Stati Uniti e deve essere combattuto dall'interno come un cancro. Stiamo soltanto indebolendo il "corpus sanctus" facendo convogliare le nostre energie contro gli altri. Da quando è iniziata la guerra in Iraq, Cuba è di nuovo in prima pagina. In meno di una settimana, si sono verificati contemporaneamente tre dirottamenti aerei, poi il dirottamento di un traghetto e alla fine dei processi molto duri.

«I pirati di quel traghetto sono stati arrestati dalle autorità cubane».

C'è stato un rapido processo al termine del quale i dirottatori sono stati dichiarati colpevoli e quindi condannati alla pena di morte. Meno di otto giorni dopo, sono stati giustiziati.

«Sì, esatto».

Secondo le leggi del diritto internazionale, si tratta di un periodo di tempo eccessivamente breve, soprattutto dopo un processo senza possibilità d'appello.

«È vero, ma praticamente siamo in una situazione di guerra».

L'emozione era grande, l'America si apprestava ad invadere l'Iraq e improvvisamente, dopo anni di calma, a Cuba c'è stata un'esplosione di azioni terroristiche.

«È strano. Il primo dirottamento ha avuto luogo due ore prima dell'inizio della guerra, dopo 19 anni durante i quali non c'era stato un solo dirottamento. Alle 7,05 della sera abbiamo appreso che un aereo passeggeri in viaggio da Nueva-Gerona all'Avana, era stato preso in ostaggio da sei uomini armati di coltelli. Non ne abbiamo saputo più nulla dal momento che sono stati arrestati in territorio americano dove hanno automaticamente ottenuto il diritto di asilo».

Secondo lei esiste un collegamento fra la guerra in Iraq e la ripresa dei dirottamenti aerei a Cuba?

«Sono semplicemente estremamente sospettoso... Il secondo apparecchio è stato dirottato il 31 marzo, il primo era stato dirottato il 19. Fra queste due date i giudici di Miami hanno sollevato i pirati cubani da tutte le accuse di terrorismo e li hanno liberati».

Per quale motivo?

«Perché lo Stato della Florida è governato da una mafia. È lì che si trovano gli estremisti che vogliono creare un conflitto con Cuba. Ora vogliono provocare una crisi come quella del '94, un massiccio esodo».

Io non ci capisco nulla. L' America ha dichiarato guerra al terrorismo e poi rilascia i terroristi!

«È una delle conseguenze della legge "Cuban Adjustment Act" che dà automaticamente diritto agli emigrati cubani di stabilirsi negli Stati Uniti. Inoltre, il giudice in questione era Lawrence King, lo stesso che non voleva che il piccolo Elian Gonzales tornasse a Cuba, la sua patria natale».

L'80 per cento degli americani sostenne il governo cubano in quella faccenda. In compenso perché avete ordinato così rapidamente l'esecuzione degli autori del dirottamento navale?

«Per arrestare l'ondata di azioni terroristiche, bisognava tagliare il male alla radice. Effettivamente a Cuba ci sono persone che sono state condannate alla pena capitale che aspettano da due a tre anni, ma in questo momento non viviamo certo nel migliore dei mondi!».

Cosa temete, un attacco su una raffineria, sulla televisione?

«Abbiamo perso l'abitudine di avere paura. Siamo stati minacciati anche con armi nucleari».

Torniamo alla rapidità dell'esecuzione dei pirati dell'aria. Perché?

«Non sono spietato, né inaccessibile alle domande di grazia, ma il nostro primo dovere è di difendere il nostro popolo. Per questo non possiamo esitare. Anche se i condannati a morte non sono così colpevoli come coloro che li hanno spinti a compiere l'atto».

Ovvero?

«Il governo americano, è chiaro. Bush è circondato da estremisti come Otto Reich che il Senato americano rifiuta di accreditare come assistente del segretario di Stato per via del suo passato di orrore e menzogna in America centrale. Mi ha fatto male mandare a morire quella gente, ma era necessario. Oggi, un mese e 10 giorni dopo quei sinistri avvenimenti, non c'è più stato un solo dirottamento aereo o navale».

Come mai allora fa una distinzione fra i pirati dell'aria, che lei definisce criminali, e i dissidenti? Di recente ne ha mandati in prigione 75 e per periodi di tempo piuttosto lunghi.

«Quella gente vuole distruggere la rivoluzione cubana e per questo riceve molti soldi dagli Stati Uniti».

Cos'è un dissidente? Avete condannato a 28 anni di prigione un giornalista!

«È la propaganda internazionale che li ha fatti diventare giornalisti. In verità dei 34 dissidenti presentati come personaggi della stampa, solo quattro erano in possesso di un diploma da giornalista. Per anni siamo stati tolleranti, abbiamo persino perdonato i 1.500 aggressori americani della Baia dei Porci, che sono stati liberati dopo due anni di prigionia, in cambio - è vero - di un'importante consegna di derrate alimentari. Ma oggi viviamo sotto la minaccia di una superpotenza come mai ne sono esistite fino a ora, una superpotenza che annuncia raid preventivi contro oltre 60 paesi del mondo. Non bisogna dimenticare che Cuba fa parte di quella maledetta lista e che ciò è il risultato della mafia cubana a Washington!».

Reagendo troppo duramente non rischia di cadere nella trappola di Bush?

«Il mondo è guidato dalla legge della giungla. Se navigando incrociate un barracuda e questo vi raggiunge, se avete paura e tentate di riguadagnare la riva, siete spacciato. Al contrario, se lo fissate dritto negli occhi, l'uccisore se ne va. Un po' come accade con i cani. Ben inteso, non faccio alcun paragone con il presidente degli Stati Uniti. Ma è il principio di tutti i cubani: mai girare le spalle all'aggressore. Da molto tempo difendiamo con dignità questa minuscola isola. Se le sanzioni sono così pesanti è dovuto alle circostanze. Da notare che non si parla mai dei cubani che sono in carcere in Florida. Erano degli agenti incaricati di lottare contro i terroristi che preparavano delle azioni contro Cuba. Vengono trattati in modo piuttosto crudele».

Mai prima d'ora, eccetto durante la presidenza di Nixon e quella di Kennedy, la rivoluzione cubana è stata tanto minacciata. Le elezioni presidenziali americane sono previste per il 2004, e i falchi che sono intorno a Bush faranno di tutto per vincerle, compreso scatenare una guerra se necessario. Provocare Castro, portarlo a sbagliare, scatenare una vasta campagna d'opinione contro il regime castrista, fa parte dei loro piani.

«Consiglierei a Bush di non fare mai l'errore di attaccare Cuba. Non abbiamo né armi nucleari, chimiche o biologiche, né super bombardieri, tuttavia abbiamo il nostro popolo, uno dei meglio educati al mondo, e il suo senso di patriottismo. Se i nemici di Cuba intraprendessero questa via, sono sicuro che l'intelligenza trionferebbe sulla forza».

Dimentichiamo la guerra, parliamo delle tappe che potrebbero condurci a una guerra. Bush ha appena vietato ai cubani di Miami di inviare denaro ai loro parenti sull'isola, nel frattempo la situazione in Venezuela ha causato un serio taglio al vostro approvvigionamento di petrolio. L'economia cubana riuscirà a resistere?

«Prima di tutto una correzione: contrariamente a quanto si racconta, il Venezuela non ci fornisce greggio gratuitamente. Ora, è vero che le seccature e le preoccupazioni di Chavez ci hanno obbligato ad acquistare petrolio a prezzi più elevati, ma noi stiamo incentivando e sviluppando la produzione locale, quest'anno ne abbiamo prodotto 700 mila tonnellate in più. Da un punto di vista energetico siamo molto meno dipendenti oggi di quanto lo fossimo all'epoca del crollo dell'Unione Sovietica».

E i versamenti di Miami?

«A Miami non c'è che una minoranza di estremisti che vogliono la morte di Cuba, nella maggior parte dei casi, gli esuli sono dispiaciuti di non poter aiutare le loro famiglie che vivono ancora sull'isola».

Cuba riesce a resistere senza il denaro proveniente dagli Stati Uniti?

«Abbiamo attraversato situazioni ancora più dure. Prima, potevamo rischiare di rimanere completamente isolati, oggi, con le mail, siamo costantemente in contatto col mondo».

La vostra risposta allo scatenamento anti-cubano al momento dell'esecuzione dei pirati e del processo dei dissidenti, è stata pubblicata su due colonne in basso a pagina 5 del "New York Times". È un po' poco.

«Non bisogna essere paranoici, né scoraggiarsi. Per un giornale che mente, ce n'è un altro che ristabilisce la verità. Su Internet si trova tutto».

Il primo aereo al mondo ad essere dirottato è stato un aereo cubano. Il dirottamento fu eseguito da agenti della mafia di Miami.

«L'epidemia del terrorismo che colpisce il mondo dagli anni '70 risale direttamente ai rimaneggiamenti mafiosi della Cia alla fine degli anni '50, giusto dopo la Rivoluzione. E questo continuerà a lungo. Pensate all'esplosione in volo di un aereo cubano con a bordo 75 passeggeri; era il 1975. Fra settembre '68 e dicembre '84, sono avvenuti 71 dirottamenti di aerei cubani. In un primo momento, i 69 pirati dell'aria sono stati condannati a pene da tre a cinque anni, poi dopo l'accordo di estradizione con gli americani nel '73, le sanzioni sono salite fino a 10 anni. Risultato, dopo 19 anni i dirottamenti aerei sono praticamente cessati».

Una domanda un po' bizzarra: lei è stato un guerrigliero, non è mai stato indotto in tentazione da azioni di questo genere?

«Sì, una volta, quando eravamo in esilio in Messico. Abbiamo comprato un battello, il Gramma. Il seguito della storia lo conoscete già. A ogni modo, noi non pensavamo a un dirottamento aereo come a un'arma, ma semplicemente come a un mezzo per raggiungere Cuba».

Anche lei ha un sosia come Saddam?

«Mi piacerebbe molto. Ci si potrebbe dividere il lavoro!».

Cosa pensa della situazione in Iraq? Una guerra di 23 giorni, con poche perdite.

«La difficoltà sarà governare il paese. Guardate gli algerini, voglio dire l'esercito francese... ha perso».

Avete inviato truppe in Algeria?

«Sì, abbiamo aiutato coloro che lottavano per l'indipendenza. Abbiamo inviato delle armi affinché i marocchini scortassero le mine di ferro algerine. Fino a quel momento il Marocco aveva intrattenuto buoni rapporti con Cuba. Ciononostante il Marocco aggredì la giovane Repubblica algerina. Allora abbiamo inviato qualche carro armato».

Il vostro più grande impegno in Africa resta l'Angola? Quanti uomini avete perso?

«Sì, l'Angola e l'Etiopia. Circa 2 mila, contando quelli che sono morti con il Che, gli operai di Granada, i nostri consiglieri in Nicaragua. In Africa, la nostra vittoria sui sudafricani è stata determinante per la fine dell'apartheid».

In che modo?

«Avevano veramente paura che li invadessimo. Gli americani erano molto annoiati, e anche i russi».

Vuole dire che i sudafricani si sentivano molto vulnerabili?

«Sì, psicologicamente erano sconfitti».

È un interessante punto di vista storico. È per questo che siete vicino a Mandela?

«Sì».

A Cuba ci sono veterani dell'Angola?

«Sì. E dei monumenti alla memoria in ogni comune».

In un certo senso le vostre guerre africane sono il vostro piccolo Vietnam. A lieto fine però.

«La cosa più straordinaria è di essersi battuti, così lontano da Cuba come da Mosca, contro uno Stato che possedeva l'arma nucleare».

È vero che Kissinger vi ha offerto la fine dell'embargo in cambio di un vostro ritiro dall'Angola?

«Gli americani ce l'hanno proposto molte volte, anche nei conflitti dell'America centrale in cui siamo presenti. Sapete, gli americani non sopportano che ci si arrenda. Come hanno fatto i sovietici. Tutto o niente. Chi sono quelli che sono stati salvati dagli americani? Gli haitiani?». 

Chi sono coloro che vogliono lasciare Cuba?

«Il 95 per cento della gente che vuole emigrare lo fa per motivi prima di tutto economici, come nel caso dei messicani, perché sperano di guadagnare 50 volte di più facendo lo stesso mestiere. Sognano di avere un'automobile e tutta una serie di beni materiali. Non si preoccupano né della salute, né dell'educazione. E quelli che non riescono ad ottenere un visto tentano di uscire illegalmente».

Lo fanno perché gli americani accordano i visti più difficilmente, o perché temono, presentandosi come candidati ufficiali all'emigrazione, di essere tacciati come contro-rivoluzionari?

«Gli americani non hanno mai veramente rispettato i nostri mutui accordi. In questo periodo ne avrebbero dovuti dare 10 mila, ne hanno dati 700, cioè meno del 10 per cento.

Cos'è questo Progetto Varela che è stato riconosciuto dalla Ue e ha ricevuto il premio Sakarov, dal nome del famoso dissidente russo?

«Niente più di una delle numerose macchinazioni per creare a Cuba un'opposizione con una parvenza di legalità. Ciò fa parte dei nuovi metodi americani per abbattere la rivoluzione».

Dov'è la novità?

«Gli anni '60 erano gli anni dei piani di invasione, basta ricordare la Baia dei Porci, la crisi dei missili. Voglio dire, è la stessa politica portata avanti con altri metodi. Klausewitz diceva che la guerra è la politica con altri metodi, qui è il contrario: la politica è la guerra con altri metodi».

Senta, 75 dei 95 dissidenti recentemente arrestati sono sempre in prigione. Sono stati tutti condannati a pesanti pene in seguito a processi estremamente rapidi. Si tratta di giornalisti, librai...

«Ed ecco che il signor Stone distorce i fatti! Dove avete pescato simili menzogne?».

È scritto ovunque.

«Goebbels ha fatto lo stesso, ripetere e ancora ripetere, in questo modo le menzogne passano per la verità».

Il 19 aprile l'agenzia Reuters, che non è americana, annunciava che Cuba aveva rifiutato la visita degli ispettori dei diritti dell'uomo.

«È vero. Prima sappiate però che Cuba è il paese che fa più proposte all'Onu in materia di diritti umani. Quindi rifiutiamo questo genere di ispezioni come abbiamo d'altronde rifiutato quelle sui missili. Cuba non accetta questo genere di interventi dall'esterno».

Perché?

«Non abbiamo tempo da perdere. E poi è una questione di onore».

Eppure sulla lista redatta da Amnesty International, l'organizzazione dei diritti dell'uomo, Cuba è lontano dall'essere il peggiore dei paesi. Vi si rimprovera solo la detenzione di "prigionieri di coscienza", come lo si rimprovera al Messico, al Perù e all'Argentina.

«D'accordo per i "prigionieri di coscienza", ma Amnesty o l'Onu hanno indagato sulle decine e decine di morti ordinate da Bush con il pretesto della lotta anti-terrorismo, senza parlare degli attentati che sono stati orchestrati contro la mia persona dai diversi governi americani? In più, mentono, questi famosi "prigionieri di coscienza" sono in realtà dei mercenari».

Siete certo che i 75 dissidenti condannati avevano tutti ricevuto del denaro dagli Stati Uniti?

«In un modo o nell'altro, è stato provato».

Ma molti cubani ricevono soldi dall'estero, dalle loro famiglie, dai loro parenti. È facile essere accusati, no...

«Se non riusciamo a provare che il denaro inviato dai vostri cugini viene dal governo americano, non prendiamo nessuna misura contro di voi. Solo per l'anno 2002, l'agenzia USAid ha inviato qui circa 2,5 milioni di dollari».

Ma perché non spiegarlo alla luce del sole, perché questo processo a porte chiuse? Lei rischia di cadere nella trappola tesa da Bush, che vuole farla passare per un tiranno alla Saddam Hussein.

«In passato abbiamo avuto molti processi pubblici, questa volta si trattava di una situazione di urgenza, bisognava reagire in modo radicale di fronte a questa gente che sfidava apertamente la legge, era necessario mettere un freno all'insolenza della sezione degli interessi americani a Cuba che organizza gli incontri con queste persone. Sa non è che si riunissero per festeggiare degli anniversari!».

Erano legati al Progetto Varela?

«Solo un terzo di loro. Ma questo non ha niente a che vedere con la loro imputazione».

Perché Osvaldo Paya, portavoce del Progetto Varela, non è stato indagato?

«Il governo rivoluzionario ha il diritto di non svelare le ragioni per le quali fa arrestare alcuni e non altri. È un privilegio di Stato».

Il Progetto Varela ha ricevuto il premio Sakharov conferitogli dall'Unione europea.

«Ne sono profondamente desolato. I cosiddetti dissidenti cubani rappresentano lo 0,2 per cento della popolazione».

Voi dite che il signor Paya non rappresenta niente, ma lui ha il sostegno dell'opinione internazionale, rischia di diventare un nuovo Mandela!

«Stone, di grazia, come si fa a paragonare quell'individuo a Mandela, un uomo che ha vissuto 25 anni in prigione!».

Perché non vi incontrate con il signor Paya?

«Per fare che? Non ho l'abitudine di perdere tempo con cose stupide».

Castro accetta le critiche?

«Sì, quelle che sono in buona fede».

Ad esempio?

«Io non me ne ricordo, ma fra i nostri intellettuali ci sono diverse concezioni su come costruire il socialismo».

Accettereste che qualcuno dicesse che la rivoluzione, una grande e bella idea, è stata tradita da Castro?

«Penserei che quella persona si sbaglia».

Una simile idea potrebbe essere resa pubblica?

«Sapete qui noi rendiamo pubblici anche i discorsi di Bush! E, regolarmente, i cubani possono esprimere i loro punti di vista alla tv».

Anche i più radicali?

«Si tratta di persone pagate dagli Stati Uniti, mi pare evidente».

No, io parlo di chi critica la rivoluzione. Fino a dove si può arrivare?

«L'ex presidente Usa Carter è venuto di recente a Cuba, e il suo discorso è stato trasmesso in diretta. Come quello del papa».

Sono stranieri però.

«I cubani possono fare altrettanto. Durante la visita del papa, l'arcivescovo di Santiago, cubano di nascita, ha fatto un discorso molto duro, ha affermato che l'anno migliore per Cuba è stato il 1958, l'anno in cui Batista ha ucciso molte persone, nessuno l'ha interrotto e nemmeno criticato. La gente ha semplicemente lasciato il proprio posto, non è rimasto nemmeno uno spettatore».

Immaginate ch'io sia un giovane regista cubano. Voglio fare un film sui guerriglieri della Sierra Maestra nel 1958-59. La mia idea è mostrare che, dietro la bella immagine romantica degli eroi, ci sono stati dei seri conflitti. Il mio film potrebbe essere proiettato?

«No, perché questo giovane non troverà mai nessuno disposto a collaborare con lui».

Per paura?

«Al contrario, perché i cubani sanno la verità sugli uomini che hanno la responsabilità di questo paese».

Onestamente, non c'è mai stato abuso di potere?

«Senza dubbio, ma mai con spargimento di sangue. Qui non c'è mai stato un caso di tortura, sono pronto a pagare tutto il denaro che volete. Eppure milioni di volte è stato scritto il contrario. Ma noi siamo vaccinati contro questo tipo di menzogne».

Potrei fare un film su Ochoa, il generale che voi avete accusato di abuso di potere?

«Non posso farvi delle promesse, ma possiamo prenderlo in considerazione».

E se io fossi cubano?

«Non ce n'è uno che non abbia avuto l'idea, e a ogni modo, non sono io che decido. È faticosa questa abitudine "Castro ha detto, Castro ha ucciso". Nessuno parla mai del Consiglio di Stato, un organismo di 31 membri, 31 onorevoli cittadini».

Immaginiamo un giovane alla guida di Cuba. Sarebbe una ventata d'aria fresca, senza rimettere necessariamente in discussione la rivoluzione. Il tempo di vedere come vanno le cose e l'immagine di Cuba all'estero potrebbe apparire migliore. Non crede?

«Precisiamo due cose: innanzitutto, non sono disposto a fare alcun piacere a Bush. Secondariamente, noi abbiamo ottimi rapporti col mondo intero. Rappresentiamo una sfida per l'opinione pubblica internazionale. Nei più gravi momenti della sua storia, Cuba si è sempre salvata non grazie a quel che pensavano di noi all'estero, ma in virtù dell'eroismo e della tenacia del suo popolo. Quando il blocco socialista si è disgregato nell'Europa dell'Est, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla sopravvivenza della rivoluzione cubana. L'opinione pubblica americana, composta da più di 200 milioni di persone, ha sicuramente un grande peso, e noi abbiamo del resto molti amici negli Stati Uniti, ma ne abbiamo moltissimi anche in Cina, che conta oltre un miliardo e mezzo di abitanti, come pure fra i 500 milioni di africani, le centinaia di milioni di indiani, indonesiani, singalesi. I paesi più sviluppati rappresentano soltanto il 20 per cento della popolazione mondiale».

Qualcuno dice: "Castro fa molto nel campo sociale, ed è una buona cosa, ma quando lo stomaco è vuoto non si ragiona bene". Qui si parla di fame, è vero o no?

«Sì, ma non è la stessa cosa che da voi. Qui si può mangiare ogni giorno, magari non una bistecca, certamente, ma non c'è un solo cubano che non goda di una protezione sociale».

Gli americani hanno un'idea fissa: i "valori democratici". Dopo quattro mandati consecutivi di Roosevelt, hanno modificato la Costituzione per ridurli al massimo a due. Il cambiamento di governo è considerato come un fatto salutare. Lei invece è al potere da più di 40 anni.

«No, è il popolo che è al potere da 44 anni».

Lei però è il "caudillo".

«Rifiuto questa definizione. Io sono una sorta di padre spirituale, non sono neanche presidente della Repubblica, ma soltanto del Consiglio di Stato. Non posso nemmeno nominare un mio amico ambasciatore. Rappresento, essenzialmente, un'autorità morale. Ma se vogliamo parlare dei "valori democratici" americani, allora diciamo che solo il 50 per cento dei cittadini va a votare, e che il presidente viene eletto con meno del 25 per cento dei suffragi. Da noi almeno l'affluenza alle urne è del 94,5 per cento, anche se il voto non è obbligatorio».

Le sembra normale che un leader resti al potere così a lungo?

«Dipende. Pensi alla regina Vittoria o, in epoca più recente, alla signora Thatcher, che ci è rimasta per 16 anni. Fino a quando c'è il consenso popolare».

Mandela ha lasciato la guida del governo a Mbeki e a quanto pare, almeno sul piano economico, ciò è stato benefico. Ma pur essendosi fatto da parte, continua a essere rispettato. Lei non riesce a immaginare un'uscita di scena analoga?

«Sì, ma solo il giorno in cui l'impero americano cesserà di costituire una minaccia per Cuba. Allora potrò andarmene a pesca, leggere, divertirmi...».

Non crede che un giovane leader potrebbe svolgere le sue funzioni meglio di lei?

«Vuole che glielo dica francamente? No. Oggi mi sento meglio che all'epoca della Sierra Maestra. Sono meno ambizioso d'un tempo. E sono contento, perché ho fatto molti progressi sul piano morale. Sono meno egoista. Se avessi amato il potere per il potere, non avrei accettato di correre tanti rischi. Non amo gli onori. Spero solo di riuscire a capire, quando verrà il giorno, se invece d'esser d'aiuto al mio popolo, rappresenterò un fardello».

L'esperienza dimostra - penso ad esempio ad Alessandro Magno che morì senza aver designato un delfino - che bisogna organizzare la propria successione.

«Da cinquant'anni a questa parte non faccio altro che addestrare i giovani. Molto prima della Moncada, avevo organizzato un movimento di 12 mila giovani, con i quali avevo condiviso il carcere e l'esilio, e dopo il nostro trionfo nel 1959, ho continuato a svolgere quest'azione educativa, che è lo scopo della mia vita. Sono pronto all'idea della mia morte, e ho una grande fiducia nel futuro».

Parliamo degli aspetti positivi di Cuba. Cominciamo con l'istruzione.

«Il 100 per cento dei bambini va a scuola. Abbiamo istituti specializzati per i giovani handicappati, che sono circa 50 mila nel nostro paese».

Anche i giovani adulti possono riprendere gli studi.

«Sì, c'è un nuovo programma per quelli fra i 17 e i 30 anni. Hanno diritto a borse di studio e quelli che già lavorano continuano a percepire interamente il salario».

A Cuba c'è il maggior numero di insegnanti al mondo in rapporto alla popolazione.

«Il doppio che nel continente americano. In media, un professore ogni venti studenti. Solo la Danimarca è più avanzata di noi».

Voi utilizzate molto la radio.

«Sono convinto che gli 800 milioni di analfabeti esistenti oggi nel mondo potrebbero imparare a leggere e scrivere in meno di 5 anni grazie a questo tipo di programmi radiofonici che abbiamo messo a punto».

Cuba vanta un record anche nel campo sanitario.

«Abbiamo 70 mila medici per 11 milioni di abitanti. Il tasso di mortalità infantile, che era del 60 per mille prima del 1959, è sceso al 6,5 per mille. In America è il 7 per mille».

La vita media su quale età si aggira?

«È salita da 61 a 76 anni e speriamo di arrivare ben presto agli 80».

Cuba è famosa anche per i suoi "dottori" sparsi nel mondo.

«Più di 3 mila medici, pagati dal governo, lavorano all'estero, la maggior parte in regioni molto remote che i loro colleghi occidentali sarebbero incapaci di raggiungere. Questo è quello che io chiamo il nostro capitale umano. I paesi occidentali, dove invece il capitale finanziario viene al primo posto, non potrebbero inviare tanti medici così lontano».

A Cuba non esiste lo sport professionistico.

«Lo sport è un diritto del popolo, un mezzo per migliorare le sue condizioni fisiche e abituarsi allo spirito di sacrificio. Noi possiamo vantare la più alta percentuale pro capite al mondo di medaglie olimpiche».

La pubblicità è proibita, come il divismo.

«Salvo per le campagne contro il fumo, non è consentita a Cuba. Il culto della personalità l'abbiamo bandito fin dai primi giorni della rivoluzione. Nessun nome di un leader vivente può essere utilizzato, ad esempio, per battezzare una scuola o una strada».

Non ci sono manifesti né statue di Castro.

«Nemmeno una. E neanche foto ufficiali».

La popolazione è coperta al 100 per cento da una rete di protezione sociale. E, cosa ancor più sorprendente per un paese socialista, l'85 per cento dei cubani ha una casa in proprietà.

«Nel nostro sistema socialista vi sono persone che ne possiedono anche più d'una, mai decine. L'alloggio non dev'essere un business».

Chi sono i più ricchi a Cuba?

«Gli agricoltori che vendono sui mercati privati e depositano i loro risparmi in banca a un tasso d'interesse dell'8 per cento. Ci sono anche artigiani che lavorano in proprio. E questo crea a volte delle gelosie».

Non ho visto armi da fuoco in circolazione.

«È vero. Gli atti di violenza qui sono rarissimi. Non rientrano nella nostra cultura. Questo dipende, io credo, dalla buona educazione della popolazione».

Quali sono state le sue prime reazioni dopo gli attentati dell'11 settembre del 2001?

«Detto sinceramente, mi hanno profondamente ferito».

Ha subito pensato agli arabi?

«No, non esattamente. Innanzitutto, gli afgani non sono arabi. E poi, generalmente, questi atti demenziali vengono compiuti in Medio Oriente a causa del conflitto fra israeliani e palestinesi».

Gli americani sapevano dell'esistenza di Bin Laden, vi sono stati degli avvertimenti provenienti dalla Francia, dalla Germania... Bush avrebbe soffocato sul nascere qualsiasi inchiesta seria poiché avrebbe inferto un colpo fatale al suo governo e alla sua immagine, già scalfita dall'esito delle elezioni presidenziali del 2000, che lei aveva definito fraudolente.

«Sono stati commessi molti errori. Hanno sottovalutato l'avversario sopravvalutando le loro possibilità. Inoltre, tutta l'attività dei loro servizi segreti è basata sul denaro, e soltanto su di esso. Sono tutti sul libro paga, gli agenti, le spie, confidenti. Anche i sovietici erano caduti nella stessa trappola. Noi abbiamo un modesto servizio d'informazioni, basato però sulla cooperazione spontanea, che è più affidabile. Gli americani sono ossessionati dalla moltiplicazione e dall'immagazzinaggio dei dati, possono intercettare 2 miliardi di telefonate contemporaneamente, possono avvistare un'automobile, che dico!, un piattino, dai loro satelliti. Ma il problema, in definitiva, è che spetta sempre all'uomo selezionare tutte queste informazioni, analizzarle e prendere una decisione».

Il vostro è stato il primo paese a esprimere la sua solidarietà agli Stati Uniti.

«Ho subito pensato che con la chiusura di tutti gli scali sul loro territorio vi sarebbe stato un grosso problema per gli aerei civili che si apprestavano ad atterrare quel giorno. Così, abbiamo proposto agli americani di mettere a loro disposizione i nostri aeroporti».

Come hanno reagito?

«So che sono venuti a conoscenza della nostra offerta, e ne hanno talvolta fatto cenno nei loro comunicati. Ma, come lei sa, quel giorno non vi era più alcun governo ufficiale negli Usa, non si sapeva nemmeno dov'erano il presidente e il suo vice».

Cuba è stata anche il primo paese a condannare la "risposta" di Bush al terrorismo.

«L'11 settembre è stato soltanto un pretesto. La politica aggressiva di Bush già preesisteva a quei terribili avvenimenti. Il discorso tenuto in seguito a West Point mirava a instaurare una dittatura mondiale. Non credo che la guerra sia la "risposta" giusta per eliminare il terrorismo. Al contrario, può soltanto provocarne l'ulteriore diffusione».

A parte Israele, Cuba è il paese che si è trovato più spesso alle prese con il terrorismo. Per lungo tempo, la politica estera Usa nei vostri confronti si è svolta all'insegna di attentati d'ogni genere. A cominciare dal marzo del 1960 con il sabotaggio della nave francese LaCouvre nel porto di Lisbona. Le armi e munizioni che trasportava erano state legalmente acquistate in una fabbrica belga dal giovane governo cubano. Gli agenti della Cia fecero esplodere il cargo in modo spettacolare. Nel marzo del '61, la raffineria Hermanos Diaz di Santiago viene attaccata, in aprile il più grande emporio commerciale del paese, El Encanto, è distrutto da un incendio doloso, e il mese successivo vengono lanciate bombe sulla città di Santa Clara. Nel frattempo, i dirottamenti aerei di cui abbiamo parlato prima si moltiplicano. L'azione più atroce risale all'ottobre del 1976, quando un aereo di linea cubano esplode in pieno volo con 57 persone a bordo, tutte di nazionalità cubana, più 24 membri dell'equipaggio.

«Purtroppo, quel che lei dice è vero. Senza contare i 700 attentati che sono stati orditi contro di me! In 14 mesi, dal novembre del '61, poco prima dello sbarco alla Baia dei Porci, al gennaio '63, sono state compiute 5.780 azioni terroristiche contro Cuba, tra cui 717 attacchi molto pesanti contro i nostri impianti industriali, con 234 vittime. Il bilancio complessivo è stato di circa 3.500 morti e più di 2 mila mutilati».

Bush ha dichiarato guerra a Saddam Hussein perché sospettato di possedere armi biologiche, ma già molto tempo prima, gli americani stessi hanno usato queste armi ignobili contro l'Iraq. Nel 1971, sotto la presidenza di Nixon, è stato introdotto a Cuba il virus della peste suina e voi avete dovuto abbattere 500 mila maiali per stroncare l'epidemia. Una fonte non autorizzata della Cia ha parlato di un container contaminato proveniente da Fort Gulik, una base americana situata nella zona del canale di Panama.

«Questo flagello, di origine africana, che non aveva mai colpito la nostra isola, è stato disseminato per ben due volte. Ma c'è stato di peggio: il virus della febbre rossa che provoca emorragie mortali per l'uomo. Nel 1981, contagiò 350.000 persone, provocando 158 vittime, di cui 101 bambini. Nel 1984, il capo di Omega 7 ha riconosciuto che era stato introdotto intenzionalmente a Cuba».

Bush vi imputa il possesso di armi batteriologiche.

«Non è Bush che ci accusa di questo, ma Bolton, il funzionario del Dipartimento di Stato che si occupa delle armi strategiche. Un giorno, ha stabilito che stavamo sviluppando un programma di ricerca su questo tipo di armi e che inoltre trasferivamo tecnologie a paesi in cui trovano rifugio gruppi di terroristi. È ridicolo. I nostri laboratori collaborano con scienziati americani per produrre farmaci contro la meningite e alcuni tipi di tumori».

Bush ha lanciato queste accuse proprio nel momento in cui l'ex presidente americano, Jimmy Carter, vi stava facendo visita.

«Evidentemente, lo ha fatto per irritarlo, ma Carter è una persona seria e fortunatamente, visto che si trovava sul posto, abbiamo potuto invitarlo a compiere un sopralluogo nei nostri impianti».

Ken Alibek, l'ex direttore dei programmi sovietici sulle armi batteriologiche, che vive oggi negli Stati Uniti, sostiene che voi possedete ordigni di questo tipo fin dall'inizio degli anni '90.

«Siamo seri! Innanzitutto, potremmo essere fieri di venir considerati una grande potenza in grado di produrre armi del genere. Ma è completamente falso. Per due ragioni: in primo luogo, i nostri scienziati sono stati formati con lo scopo di salvare le vite, e qui lei non troverà mercenari capaci di fabbricare sostanze mortali in cambio di soldi. Secondariamente, non crede che sarebbe davvero folle, per un piccolo paese come il nostro, tentare di metterci in concorrenza con gli Stati Uniti per produrre armi di questo tipo? Oltre ad andare incontro a un disastro economico, ciò sarebbe per noi un suicidio di fronte a uno Stato che possiede migliaia di testate nucleari».

Lei ha dichiarato che il suo destino era quello di combattere senza tregua contro gli americani.

«Sì. Era un pomeriggio del '59. Avevo appena visto degli aerei bombardare delle fattorie sulle montagne. Sia chiaro che non ce l'ho col popolo americano. I cubani, grazie al loro grado d'istruzione, hanno imparato a distinguere fra la politica seguita da un governo, e i semplici cittadini di un dato paese».

Si considera un dinosauro?

«L'esatto contrario. Mi sento come un uccello che esce dal nido. Io volo verso l'eternità. E a volte mi dico che sarei molto contento di ritrovarmi ancora qui nel 3000». Traduzione di Mario Baccianini e Rosalba Fruscalzo.

Morto Castro, come cambia Cuba, scrive il 26 novembre 2016 Fulvio Scaglione su "Gli occhi della Guerra". Fidel Alejandro Castro Ruz è morto a 90 anni dopo aver governato Cuba, ininterrottamente e fuori da qualunque forma di concorrenza democratica per il potere, dal 1959 al 2008. Primo ministro, presidente del Consiglio di Stato, presidente del Consiglio dei ministri, primo segretario del Partito comunista. Sempre lui. Poi suo fratello Raoul. Viene dunque da chiedersi se in questi ultimi anni, quelli del declino politico e umano, si sia reso conto di aver lasciato Cuba in condizioni molto simili a quelle in cui l’isola si trovava quando strappò il potere a Fulgencio Batista, l’ex sergente che, tra golpe ed esilii, aveva dominato la scena tra il 1933 e il 1959. Un paradosso? Molto meno di quanto sembri, se solo si guarda alla sostanza. Batista era andato al potere con un colpo di Stato militare, anzi due: uno nel 1933, l’altro nel 1952. Castro con una rivoluzione, che però non sarebbe riuscita se l’esercito non avesse abbandonato il precedente dittatore. Batista introdusse il partito unico, Castro anche. E il “suo” Partito comunista ha tenuto un congresso dopo 13 anni di nulla. La Cuba di Batista e quella di Castro, inoltre, si somigliano anche nelle contraddizioni. La prima dal punto di vista economico non era il disastro che poi è stato descritto: 5° posto nell’emisfero per reddito pro capite (il che voleva dire pari all’Italia e superiore al Giappone), 2° per possessori di automobili e telefoni, 3° per aspettativa di vita, 1° per possessori di televisori. Il tasso di alfabetismo era al 76%, che la metteva al 4° posto nell’America del Sud. Il disastro era sociale: a causa della corruzione e del razzismo. Godevano del benessere i soli bianchi della borghesia urbana, i “signori della canna” che ungevano le ruote del regime, mentre i contadini pativano la povertà più profonda. Quanto al razzismo… basterà ricordare che lo stesso Batista, l’unico Presidente non bianco nella storia dell’isola, ebbe negata l’iscrizione a molti dei country club dell’Havana. Castro ha fatto tutto uguale ma al contrario. Non è la corruzione ma il partito a decidere dove e come possono investire i pochi autorizzati a farlo, quale debba esser la dinamica dei prezzi, chi possa dar vita a un’attività privata, che resta un’eccezione: ancora oggi, più del 70% della forza lavoro è alle dipendenze dello Stato (e all’inizio degli anni Novanta la percentuale superava il 90%). L’economia è quindi cronicamente depressa (Cuba oggi è al 79° posto per Prodotto interno lordo pro capite nella graduatoria mondiale, dopo Portorico e prima della Tunisia) ma la qualità della vita è relativamente alta: 67° posto, dopo la Serbia e prima del Libano. Ad accomunare Batista e Castro, però, è il fatto sostanziale che Cuba, allora come oggi, dipende dagli altri e non da se stessa. Con Batista l’economia cubana era legata all’esportazione dello zucchero e agli investimenti degli americani. Castro, appena arrivato al potere, promise che “non il comunismo né il marxismo saranno la nostra idea. La nostra filosofia politica è quella della democrazia rappresentativa, della giustizia sociale e di una ben pianificata economia”. Ma quando cominciò con le nazionalizzazioni e con l’avvicinamento a Mosca, e l’America di J.F. Kennedy decretò l’embargo, tutte le promesse andarono in fumo. Così come, nei pochi anni tra il 1990 e il 1993, l’economia cubana crollò del 35% a causa di due soli fattori: la fine dell’Urss e, quindi, delle sovvenzioni sovietiche, e il crollo del prezzo dello zucchero sui mercati internazionali. Ancora oggi Cuba riceve 100 mila barili di petrolio al giorno dal Venezuela e li paga in gran parte con il lavoro di circa 30 mila tra medici e infermieri dislocati appunto in quel Paese. E se guardiamo al futuro, che la morte di Fidel Castro inaugura in modo non solo simbolico, risulta difficile scorgere qualcosa di diverso. La distensione firmata da Barack Obama e Raoul Castro ha portato all’isola aperture innegabili (viaggi e collegamenti) e qualche vantaggio economico (piccoli investimenti, apertura di canali bancari), ma il punto vero è la fine dell’embargo economico, a cui i Repubblicani, che ora dominano il Congresso, si sono sempre opposti e a cui nemmeno il presidente Donald Trump è favorevole. Embargo che finirà solo il giorno in cui anche l’ultimo Castro uscirà di scena e l’isola accetterà quella “esportazione della democrazia” che sta al centro della politica estera americana. Affluiranno capitali e investitori. L’Avana diventerà una piccola Las Vegas (ai tempi di Batista era la vera Las Vegas), i turisti accorreranno con le navi da crociera, sulle spiagge sorgeranno nuovi alberghi e ristoranti. E il passato e il presente di Cuba si riuniranno. Definitivamente.

Morto Fidel Castro, Cuba volta pagina. A novant'anni si è spento il leader della rivoluzione cubana. La sua morte arriva in un momento di cambiamenti radicali per l'isola. Quel che non sapremo mai è se abbia dato la sua approvazione, scrive Gianni Perelli il 26 novembre 2016 su “L’Espresso”. Nelle ultime e sempre più rare apparizioni in pubblico Fidel Castro con i passi incerti e l’eloquio balbettante emanava già un’aura di leggenda prossima a consegnarsi alla storia. L’ex presidente uruguaiano Josè Mujica, che era andato ad omaggiarlo a casa, lo descriveva “deteriorato dagli anni e dalla malattia”. Da quel momento la sua esistenza in vita è stata segnalata solo da scarne notizie sui capi di Stato, incluso papa Francesco, che passavano a trovarlo. Si diradarono anche le sue riflessioni su “Granma”, il quotidiano del partito comunista cubano. Nessun commento alla svolta storica dell’83enne fratello Raul che ha scongelato le relazioni con gli Stati Uniti. Appena un accenno di scetticismo alla possibilità di sviluppo dei rapporti con la Casa Bianca dopo la visita di Obama. La morte del 90enne Fidel Alejandro Castro Ruz, il lider maximo che fra la metà del secolo scorso e gli inizi dell’attuale ha demolito quasi tutti i record di durata al potere, non coglie di sorpresa anche se fino all’annuncio ufficiale è rimasta avvolta nella fitta ragnatela di enigmi che avvolge tutti i regimi dittatoriali. Innumerevoli volte era stata prematuramente annunciata, in seguito ai 638 attentati (oltre cento negli anni Ottanta sotto la presidenza americana di Ronald Reagan). Ma era evidentemente destino che la sua scomparsa avvenisse in maniera non violenta, per cause naturali, nel momento di un cambio radicale per la rivoluzione cubana che non si saprà mai se lui aveva approvato. Fidel Castro era nato il 13 agosto 1926 a Biran, un paesino della provincia di Holguin. Primogenito di Angel Castro Argiz, facoltoso proprietario terriero di origine galiziana, e di Linda Ruz Gonzalez, una cubana figlia di emigrati dalle Canarie. A sei anni i genitori lo iscrivono alle elementari nell’istituto per famiglie benestanti La Salle di Santiago. Dai 15 ai 19 anni frequenta all’Avana il collegio dei gesuiti Belen, dove approfondisce i temi religiosi che anche durante l’evoluzione marxista lo spingeranno a non staccarsi mai del tutto dalla Chiesa e a favorire la visita a Cuba di tre Papi, e si lega agli intellettuali che si battono per il riscatto della cultura ispanica contro il colonialismo anglosassone. Dal ’45 studia legge alla facoltà di diritto all’università dell’Avana, dove i professori nazionalisti accentuano la sua avversione contro lo sfruttamento dell’economia cubana perpetrato dalle grandi compagnie statunitensi. Aderisce negli anni successivi alla lega antiimperialista ostile al nuovo presidente cubano Ramon Grau. Nel '48 sposa Mirta Diaz Balart, studentessa di filosofia, e la porta in viaggio di nozze negli Stati Uniti. Un matrimonio turbolento che una quarantina di anni fa sfocia nel divorzio (anche per le numerose infedeltà del lider maximo). Dalia Soto del Valle, la vedova ufficiale che gli ha dato cinque figli (i nomi cominciano tutti con la A), figlia di un produttore di sigari di Trinidad nemico acerrimo del comunismo, compare sulla scena sentimentale di Castro solo agli inizi degli anni Sessanta. Fidel la sposa quasi in segreto nell'80, dopo la morte di Celia Sanchez, la compagna della Sierra che era stata il suo grande amore. Fra il ‘50 e il ‘52 Fidel si guadagna da vivere lavorando come avvocato in un piccolo studio legale. Nel ‘52 tenta il primo salto nella politica, candidandosi al Senato nelle file del Partito Ortodosso, ma il colpo di Stato di Fulgencio Batista annulla le elezioni. Una svolta traumatica che lo spinge a assecondare definitivamente i suoi impulsi rivoluzionari. Organizza con 80 altri guerriglieri nel luglio '53 l'assalto alla Moncada e viene respinto dall'esercito lealista. E' catturato e processato. Prima della condanna (15 anni, amnistiati nel '55) nell'arringa di difesa pronuncia la sua frase più celebre: “La storia mi assolverà”. Dopo la scarcerazione va in esilio in Messico e negli Stati Uniti. A Città del Messico incontra Che Guevara. Tra i due scocca la scintilla che cambierà i destini di Cuba. Nel '56 i due leader rivoluzionari, insieme a Raul (il fratello allora nell'ombra di Fidel) e Camilo Cienfuegos partono su una piccola imbarcazione (il “Granma”) dalle coste messicane e raggiungono clandestinamente quelle cubane. Qualche mese dopo sferrano nelle regioni orientali una prima offensiva militare che viene repressa. Fidel e i suoi più stretti collaboratori si rifugiano nella Sierra dove fanno proselitismo mettendo insieme un esercito di 800 guerriglieri. Inizia la lunga marcia della rivoluzione che si concluderà l'1 gennaio del '59 con la precipitosa fuga in aereo di Batista. Fidel concentra nelle sue mani tutte le leve del potere, proclamandosi primo presidente del Consiglio di Stato, primo ministro e primo segretario del Partito comunista cubano. Il lider maximo rimarrà padrone incontrastato dell'isola fino all'8 febbraio 2008 quando si dimette dal governo a causa di una diverticolite che per alcune settimane lo trattiene fra la vita e la morte. Il 19 aprile 2011 lascerà anche la leadership nel partito, consegnando il potere al fratello Raul, che come capo delle forze armate controllava già l'economia e che inizierà un lento cammino di riforme sfociato il mese scorso (anche grazie alla mediazione di papa Francesco) nel disgelo con gli Stati Uniti. All'inizio della sua straordinaria avventura politica Fidel non aveva rapporti tempestosi con gli americani. Anzi Washington riconosce quasi subito il suo governo. I primi contrasti nascono con le nazionalizzazioni delle compagnie statunitensi che operavano a Cuba. Ma c'è subito un tentativo di ricucitura. Il lider maximo visita la Casa Bianca, ricevuto dal vicepresidente Richard Nixon (il presidente Dwight Eisenhower lo considera troppo naif e in odor di comunismo). Il confronto non produce però alcuna intesa. Anzi, al ritorno all'Avana, Fidel espropria i colossi americani del petrolio e comincia a stringere legami con l'Unione Sovietica. Il 17 aprile '61 un commando di esuli cubani addestrati dalla Cia (e almeno ufficialmente non autorizzati dal nuovo presidente John Kennedy) cerca di rovesciare il regime castrista con l'assalto della Baia dei Porci. La missione fallisce. E la minaccia sventata incoraggia definitivamente Fidel a abbracciare il maerxismo-leninismo e a avviare l'economia verso la pianificazione di stampo comunista mutuata da Mosca. La crisi del missili, che fa temere la catastrofe planetaria, scoppia nell'ottobre del '62. La prospettiva di una batteria di ordigni installata dal leader sovietico Nikita Krusciov a Cuba induce Kennedy a un braccio di ferro che con grande sollievo del mondo intero si conclude la ritirata del progetto. Da quel momento Cuba, che era già stata indebolita da una raffica di sanzioni, viene colpita dall'embargo americano che dura ancor oggi. Negli anni successivi, Cuba cerca di esportare il suo modello con il Che (che troverà la morte nell'ottobre '67 in Bolivia) in Africa e in Sudamerica sulla spinta della fascinazione esercitata dall'antiamericanismo (e antiimperialismo) che attrae i radicali di sinistra di tutto il mondo. Fidel lancia una campagna di alfabetizzazione e promuove riforme sociali soprattutto nel campo dell'istruzione e della sanità. La revolucion diventa un feticcio ideologico ad onta della repressione della dissidenza che ne svela la natura dispotica. Ma l'economia non decolla e rimane principalmente legata alla produzione della canna da zucchero. Sono gli aiuti di Mosca (circa un quarto del Pil) a tenere finanziariamente in vita il regime. Nel '91 il crollo dell'Unione Sovietica mette in ginocchio Cuba, che perde la stampella della solidarietà comunista. Inizia il periodo especial, una stagione di stenti e di privazioni, contrassegnata da qualche sparuto moto di piazza che lo stesso Fidel – confidando nel suo magnetismo – si incarica di neutralizzare scendendo per le strade a calmare i manifestanti. Cuba per sopravvivere si affida soprattutto al turismo. Ma per uscire dalle ristrettezze dell'embargo Fidel rafforza anche i canali diplomatici con l'Europa e con la Chiesa Cattolica spianando la strada alla storica visita all'Avana nel '98 di Giovanni Paolo II. Nel 2004 la nuova svolta. Fidel stringe un patto con il leader populista venezuelano Hugo Chavez, che si impegna a dare il petrolio a Cuba in cambio dell'assistenza sanitaria dei medici cubani. Caracas sostituisce Mosca come stampella della revolucion. Dopo la malattia che lo costringe nell'ombra Fidel, che secondo la rivista Forbes (smentita dal regime) avrebbe accumulato un patrimonio personale di 530 milioni di dollari, si ritira nella sua finca, riceve capi di Stato e dignitari in visita all'Avana, incontra Benedetto XVI nel viaggio apostolico del 2012, consegna periodicamente le sue riflessioni al giornale di partito. Rimane perlopiù nell'ombra e non si capisce mai bene se il processo riformista avviato dal fratello Raul incontri del tutto la sua approvazione. Amato dai nazionalisti che hanno sempre creduto nella sua dottrina rivoluzionaria. Odiato dai dissidenti e dagli esuli. Mitizzato, nel bene o nel male, per il carisma e la straordinaria capacità di sopravvivenza della revolucion che pure da tanto tempo ha perso la spinta propulsiva. Fino alla morte che lo consegna alla storia da cui fin da giovane era certo che avrebbe ottenuto la piena assoluzione.

Morte di Castro, il tweet di Donald Trump e il commento di Obama. "Fidel Castro è morto!": il presidente eletto americano Donald Trump ha reagito alla notizia della morte del lider maximo cubano, scrive Luca Romano, Sabato 26/11/2016, su "Il Giornale".  "Fidel Castro è morto!": il presidente eletto americano Donald Trump ha reagito alla notizia della morte del lider maximo cubano con un laconico tweet in cui l'unico commento è affidato al punto esclamativo. Trump ha presso atto della morte del leader cubano e ha esclamato in questo modo su Twitter. Il commento del neo eletto presidente americano è arrivato oltre otto ore dopo l’annuncio ufficiale della scomparsa di Fidel, dato dal fratello presidente Raul in un messaggio televisivo. Il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto che farà "tutto" per contribuire alla "libertà e alla prosperità" del popolo cibano, dopo la morte di Fidel Castro. Trump in una nota parla di Castro come di "un dittatore brutale, che ha oppresso il suo popolo". Secondo Trump "Cuba resta un paese totalitario. La mia speranza è che la giornata odierna segni un passo in avanti rispetto a orrori durati troppo a lungo e verso un futuro in cui il meraviglioso popolo cubano possa ritrovare quella libertà che così ampiamente merita". Trump parla dell’eredità di Castro fatta di "plotoni d’esecuzione, ruberie, sofferenze inimmaginabili, povertà e negazione dei fondamentali diritti umani. Anche se le tragedie, i morti e il dolore causati da Castro non possono essere cancellati- conclude Trump - la nostra amministrazione farà tutto il possibile affinchè il popolo cubano possa finalmente cominciare il suo viaggio verso prosperità e libertà". E la morte di Castro è stata commentata anche da Barack Obama: "Sarà la Storia a registrare e giudicare l'enorme impatto di questa singolare figura sulla gente e sul mondo che lo circondava". Intanto c’è proprio l’incognita Trump sul disgelo tra Usa e Cuba. In campagna elettorale Trump ha detto che le "concessioni" dell’amministrazione Obama possono essere facilmente riviste (molte sono state prese con ordini esecutivi) e che lui le spazzerà via, se non avrà risposte adeguate; risposte alle domande di "libertà religiosa e politica per il popolo cubano e di libertà per i prigionieri politici". Il voto cubano (o almeno una parte significativa di esso) è stato importante per la vittoria di Trump in Florida: secondo un sondaggio New York Times-Siena, a settembre il sostegno per Trump è passato dal 33 al 52 per cento. Il presidente eletto si trova dunque nella posizione di chi deve rispondere alle attese. Negli ultimi due anni, Usa e Cuba sono stati protagonisti di un disgelo che ha portato alla normalizzazione delle relazioni a lungo congelate dopo la Guerra Fredda: il culmine è stata la visita del presidente Barack Obama a Cuba nel 2015, la prima di un presidente americano nell’isola dopo quella di Calvin Coolidge nel 1928.

Papa Francesco prega per Castro: "Sono rammaricato per la perdita". Tre i Papi che Fidel Castro ha incontrato e del quale è stato amico. E oggi Bergoglio prega per lui: "Vicinanza al popolo dell'amata terra", scrive Sergio Rame, Sabato 26/11/2016 su "Il Giornale". Papa Francesco prega per Fidel Castro e per il popolo cubano. A poche ore dalla morte del Lider Maximo, il Santo Padre ha espresso sentimenti di vicinanza ai famigliari, al governo e al popolo "dell'amata nazione" cubana. In un telegramma a Raul Castro, il presidente fratello del dittatore cubano, il Pontefice ci ha tenuto a far sentire la propria vicinanza per il defunto "dignitario ai famigliari, al governo e al popolo dell"amata nazione". Tre i Papi che Fidel Castro ha incontrato e del quale è stato amico. "Nella apertura di Cuba al mondo e del mondo a Cuba - afferma la Radio Vaticana - decisivo è stato il ruolo diplomatico della Chiesa cattolica". Sei, in diversi momenti, gli incontri del Comandante con San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Indimenticabile quello del 21 gennaio del 1998 a L'Avana con il Papa polacco appena sceso dall'aereo: i due si parlarono guardando i propri orologi come a siglare visivamente un istante che diventava storia. Poco dopo il Lider Maximo si presentò a sorpresa nell'albergo dei giornalisti (l'Habana libre che era stato il suo quartier generale) e i vaticanisti si sentirono chiamare uno a uno al telefono dalla reception con un incredibile: "Il Comandante l'attende nella hall". Al termine del suo viaggio San Giovanni Paolo II parlò di "grande fiducia nel futuro" di Cuba. "Costruitelo con gioia, guidati dalla luce della fede, con il vigore della speranza e la generosità dell'amore fraterno, capaci di creare un ambiente di maggiore libertà e pluralismo". Un auspicio, come sottolinea Radio Vaticana, che "ha camminato nel tempo sostenuto anche da Benedetto XVI che nel settembre del 2012 proprio a Cuba ribadì l'auspicio di un 'cammino comune' per tutti i cubani". "L'ora presente - disse Ratzinger - reclama in modo urgente che, nella convivenza umana, nazionale ed internazionale, si eliminino posizioni inamovibili ed i punti di vista unilaterali che tendono a rendere più ardua l'intesa ed inefficace lo sforzo di collaborazione". È stato, poi, papa Francesco che "sull'isola della rivoluzione" ha parlato di "piccoli ponti" che uno dopo la altro "fanno il grande ponte della pace". Bergoglio è stato con i suoi principali collaboratori (il segretario di Stato Pietro Parolin e il sostituto Giovanni Angelo Becciu) tra i protagonisti delle trattative riservate (svoltesi anche in Vaticano) che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Washington e L'Avana. "Nell'apprendere la triste notizia della scomparsa del suo caro fratello, l'eccellentissimo signor Fidel Alejandro Castro Ruz, ex presidente del consiglio di Stato e del governo della Repubblica di Cuba esprimo - ha scritto oggi papa Francesco - i miei sentimenti di dolore a vostra eccellenza e agli altri famigliari del defunto dignitario, nonché al governo e al popolo di quella amata nazione". Nello stesso tempo Bergoglio ci ha tenuto a offrire "preghiere al Signore per il suo riposo e affido tutto il popolo cubano alla materna intercessione di Nostra Signore de la Caridad del Cobre, patrona del Paese".

Fidel Castro, i 90 anni di solitudine dell'ultimo comunista. Domani il compleanno del Lìder Maximo: un gigante nascosto dietro cortine di eroismo e imbrogli, scrive Norberto Fuentes il 12 agosto 2016 su "La Repubblica". Il 31 agosto 1986, dopo un interminabile viaggio di 17 ore dall'Avana, con scalo a Ilha do Sal, di fronte a Capo Verde, Fidel Castro arrivò a Harare, la capitale dello Zimbabwe, per prendere parte alla conferenza dei Paesi non allineati. Si insediò nel villino alla periferia della città che gli esperti del ministero dell'Interno avevano comprato e preparato per lui, e che successivamente sarebbe servito come residenza permanente dell'ambasciatore cubano. C'era un giardinetto con un muro intorno accanto alla porta principale, e il villino era isolato e il mezzogiorno tranquillo quando Fidel uscì dalla casa nel piccolo cortile, infagottato in una vestaglia viola che gli scendeva fino alle caviglie e con le pantofole. Fece qualche passo con le mani infilate nelle tasche della vestaglia quando si accorse della presenza di una dozzina di suoi collaboratori accalcati nel parcheggio adiacente alla recinzione, e rientrò in casa. A quel punto a uscire fu il colonnello Joseíto (José Delgado), il capo della sua scorta, che andò dal gruppetto e disse, in tono di vera e propria supplica: "Signori, cazzo, vi prego di uscire da quell'ingresso e non guardare più da questa parte, così lui potrà credere di essere solo". In tutto il tempo che ho trascorso vicino o insieme a Fidel, questo è il momento più patetico che conservo nella memoria. Troppo intelligente per non sapere che la sua solitudine era impossibile, sembrava accontentarsi di credere in un'illusione. Eppure - e questo si dava per scontato - era una solitudine che veniva garantita con il dispiegamento di una compagnia rafforzata dei ranger delle Truppe speciali, portata dall'Avana per l'occasione e armata addirittura di missili antiaereo portatili. Implicito nella scena, quel vago patetismo (termine che non uso in senso peggiorativo), è debitamente rivelatore di una personalità in lotta permanente per assicurarsi un perimetro di intimità e renderlo inviolabile. Questo veniva espresso, o per meglio dire giustificato ideologicamente, in molti modi, e tra l'altro garantiva alcuni vantaggi inaspettati. L'idea, per usare le parole dello stesso Fidel, era che la sua vita personale non doveva mischiarsi con la sua vita politica. In quel caso, per decantazione, niente di meglio che la sua guardia pretoriana per tracciare e difendere la frontiera. Era qui che faceva atto di presenza la sua vera preoccupazione: disporre del miglior servizio di scorta del mondo. Idea e scorta che più tardi gli sarebbero servite (com'era logico) per darsi alla pazza gioia in festini organizzati sfruttando le sue misteriose case di sicurezza o, come successe in un periodo, per eludere la costante persecuzione che Celia Sánchez, sua compagna di guerriglia sulla Sierra Maestra, gli scatenò contro per tutta Cuba quando seppe dei suoi amoreggiamenti con Dalia Soto del Valle. Per quanto riguarda la sua famiglia, vale la pena di dire, questo concetto di roccaforte protetta fu difeso con un accanimento ancora più forte. Sto parlando della famiglia vera, di questa signora, sua moglie, Dalia, e dei cinque figli che ha avuto con lei, in ordine decrescente: Alex, Alexis, Alejandro, Antonio e Ángel. Occasionalmente, negli ultimi tempi, uscivano fuori alcune foto dell'intimità familiare e venivano pubblicate fuori da Cuba, ma la spiegazione delle autorità su queste indiscrezioni era di rassegnazione: normale che succedesse, perché ognuno dei ragazzi era cresciuto e aveva preso la sua strada. In realtà, a guardar bene, nonostante le rare foto pubblicate su riviste scandalistiche fuori da Cuba, si è trattato di un trionfo del servizio di sicurezza personale, perché fino alla maggiore età nessuno aveva mai potuto vedere neanche una foto dei ragazzini. Tutto nasceva, originariamente, da un criterio elaborato da Fidel, che era politico (anche se lui voleva riconvertirlo in una questione di sicurezza): secondo le sue stesse parole, pronunciate molte volte nella cerchia dei suoi amici più stretti, il criterio era non contaminare la sua famiglia con il resto dei suoi subordinati. E non valeva solo per il volgo. Nemmeno Raúl Castro per molto tempo ebbe accesso a quella famiglia e a quelle case. Raúl era pazzo di felicità il giorno in cui suo figlio Alejandro, che aveva già più di vent'anni, conobbe finalmente per caso, a una festa, due dei suoi cugini, figli di Fidel. Fu un momento di esaltazione per il generale dell'esercito e capo delle forze armate (e attuale presidente della Repubblica) quando ne fu informato, e chiamò i subordinati che stavano lì in quel momento e li mandò a cercare della vodka per brindare all'incontro. E non era solo il contatto con qualche cugino. L'accesso di Raúl e dei suoi familiari, come di qualsiasi altro cittadino, alla piscina termica coperta della famosa clinica Cimeq era proibito quando doveva usarla Dalia. Le spiegazioni per la condotta di Fidel e per il manto di protezione in cui faceva vivere la sua famiglia potevano essere molteplici, ma l'argomento di fondo andava sempre a parere, inesorabilmente, sulla Cia. È chiaro che si trattava anche di una spiegazione per l'esterno. Io direi che le ragioni possono essere intime come rivelò il colonnello Joseíto quella mattina a Harare: sentirsi solo. Cosicché, finora, quello che abbiamo avuto è un uomo che emette segnali di distrazione in maniera costante, metodica. Insomma, un uomo rivestito di una corazza di enigmi e che poteva contare sull'apparato repressivo di uno Stato per conseguire il suo obbiettivo. Un obiettivo che ora, con il passare del tempo e nel momento in cui compie novant'anni, domani, ci appare indistinto, rarefatto. In che direzione andava? O peggio ancora, in che direzione ci portava? Novant'anni, per Dio. Se togliamo dal conto i primi, investiti nella bucolica infanzia del figlio di un latifondista, e nella sua necessaria istruzione, e nella sua attività di campione di pallacanestro sotto l'egida dei gesuiti, il resto, settant'anni e più, da quando cominciò il suo addestramento di politico e pistolero all'Università dell'Avana fino a quando si è guadagnato il posto di ultimo leader del movimento comunista internazionale, quello che ci si para davanti è un gigante, che ci sfugge dietro cortine di fumo, imbrogli, manovre di occultamento e circoli ristretti. È curioso che quest'uomo, che tutti noi che siamo stati suoi contemporanei in qualche momento abbiamo venerato, e perfino amato, rimanga ancora un enigma, e che alla fine l'unica cosa che ci lascerà di se stesso sarà un'astrazione. (Traduzione di Fabio Galimberti) L'autore è un giornalista e scrittore cubano

"Io, l'italiano della barca di Fidel insegnai a Guevara a sparare". Dieci anni fa così Gino Donè Paro, morto nel 2008, raccontava a Repubblica la sua esperienza sul Granma, lo yacht a bordo del quale Castro, il 25 novembre 1956 (precisamente a 60 anni dalla morte), con alcuni di rivoluzionari, raggiunse dal Messico Cuba. Lui, unico italiano del gruppo, era stato partigiano in patria e sapeva come combattere: "Ernesto era un bravo medico, ma inesperto di armi. Fidel era un vero comandante", scrive Jenner Meletti il 26 novembre 2016 su "La Repubblica". Ripubblichiamo l'intervista fatta nel 2006 a Gino Doné Paro, unico italiano sul Granma, lo yacht a bordo del quale Fidel Castro partì, precisamente 60 anni prima della morte, il 25 novembre 1956, dal Messico verso Cuba con un gruppo di rivoluzionari durante la rivoluzione cubana. Ride come un bambino, Gino Donè Paro, 82 anni e mezzo. "Sono felice perché sono all'Avana. Fuori dalla finestra vedo le palme maestose e belle. Quando sono qui, mi sento cinquant'anni in meno". Un solo rammarico, per il 'companero Gino, el Italiano'. "Volevo venire qui come privato cittadino a trovare i miei amici. E invece sono nel protocollo, trattato come un ambasciatore". Ma non è sorpreso, 'el Italiano' arrivato da San Donà di Piave. "Ormai noi del Granma siamo rimasti in pochi, e ci trattano con i guanti. Forse riuscirò a vedere il compagno Fidel. Con lui e Raul parleremo di quello sbarco, di quei giorni di paura e di coraggio. Parleremo di Ernesto Guevara, che era mi hermano, mio fratello. Sono stato io a insegnargli a sparare bene, e soprattutto le tecniche della guerriglia. Già allora ero il più vecchio di tutti. E avevo una certa esperienza: in Italia avevo fatto il partigiano. Spiegavo a Ernesto come si organizzano gli agguati, come si attacca e come si fugge. Insomma, gli ho dato la giusta istruzione". Cinquanta fa, il 2 dicembre, lo sbarco del Granma sulle spiagge cubane di Las Coloradas. è l' inizio drammatico della rivoluzione. "Ci eravamo preparati in Messico. È lì che ho conosciuto Ernesto. Lui era un bravo medico, ma con le armi era inesperto. Se sbagliava un tiro, durante l'addestramento, io lo incoraggiavo. Insomma, credo di essere stato un buon maestro. Il viaggio sul Granma non si può dimenticare. Doveva durare tre giorni e invece siamo stati in mare per sette giorni. Il comandante assoluto era Fidel Castro, e poi c'era Raul che dirigeva tre plotoni. Io ero tenente, capo di uno dei plotoni. Fidel era un vero un comandante. Ti dava sicurezza, capivi che aveva un progetto preciso. Ma per il resto là sul Granma, secondo me, più che responsabili eravamo tutti dei pazzi, ma pronti a dare la vita uno per l'altro". Gino Donè Paro sembra raccontare un romanzo dei Tre moschettieri. "Uno per tutti, tutti per uno. Dopo due o tre giorni i viveri erano finiti. Avevamo fame e sete, ed eravamo stretti come sardine in quello yacht che aveva 8 posti in tutto. Ci si poteva stare anche in 20, ma noi eravamo 82. Ed io ero uno dei quattro stranieri, l'unico italiano, anzi l'unico europeo. Alla fine abbiamo finito anche il carburante". "Quattro ore per superare arbusti e mangrovie, e poi siamo stati attaccati dagli aerei di Batista. Ci dividemmo in gruppi, come mi aveva insegnato l'esperienza di partigiano. I chiodi degli scarponi ci bucavano i piedi. Ernesto mi aiutò, curando le ferite. Ma io soccorsi lui quando ebbe una crisi d'asma. Sì, ho fatto il medico curando un medico, perché per fare stare meglio le persone non ci sono soltanto le medicine, ma anche le coccole. Gli feci dei massaggi, piano piano, e lui si riprese. Dopo quei giorni non l'ho più incontrato. Io non l'ho mai chiamato Che, perché questo soprannome non gli piaceva. È un intercalare argentino. È come se avessero chiamato me 'Ciò', solo perché sono veneto. Anni dopo l'ho aspettato in Perù, mi hermano Ernesto, ma non siamo riusciti a fare incontrare le nostre strade". C'è anche un encomio firmato dal generale Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, nella vita di Gino Donè. "Quando facevo il partigiano, ho salvato dalla laguna e dai tedeschi degli ufficiali inglesi. Finita la guerra, ho capito che nel mio Veneto non avrei trovato da lavorare. E sono partito". Una tappa in Canada, poi Cuba. "Ho lavorato come muratore, carpentiere, decoratore, ruspista. All'Avana ho avuto la fortuna di incontrare Fidel Castro quando era presidente dell'associazione degli universitari". Nessun dubbio, anche dopo 50 anni. "Fidel è il Comandante e a Cuba c'è la vera libertà". Ma perché un italiano emigrante si trasforma in guerrigliero? Ancora una volta, la risata di un bambino. "Perché, anche se ero il più vecchio - quando ero sul Granma io avevo 32 anni, Fidel 30 ed Ernesto solo 28 - avevo il sangue che mi bolliva. Facevo il carpentiere, ma dentro ero ancora un maledetto partigiano. E allora, se vuoi bene alla patria, ai tuoi fratelli, alla famiglia, devi scegliere. A San Donà del Piave dovevi scegliere fra nazisti e fascisti e la libertà che stava dall'altra parte. Lo stesso problema lo trovai a Cuba. Da una parte c'erano il maledetto Batista e i suoi sicari, dall'altra Fidel, Raul, Ernesto e gli altri companeros". "El Italiano", pochi mesi dopo il viaggio del Granma, deve espatriare. Fa il marinaio per anni poi si ferma negli Stati Uniti. Ci resta fino a tre anni fa, quando torna a San Donà di Piave. "Sapevo della presenza di un italiano sul Granma - dice Gianfranco Ginestri, scrittore di libri e guide su Cuba - e ne ho avuto conferma dalle nipoti di Gino a San Donà, quando ancora lui era negli Usa". Gino Donè fra pochi giorni tornerà al suo paese sulla riva del Piave. "Io sono stato educato in mezzo ai preti, Ernesto era invece un marxista e leninista vero. Eppure siamo diventati fratelli. Mi hanno chiesto se sono anarchico, comunista, rivoluzionario... Io sono soltanto un maledetto selvaggio. Però osservo il mondo e vedo che c' è sempre qualcuno più povero e più ignorante di me. E oggi, chi dà una mano ai proletari? Forse ci vorrebbero ancora uomini che decidono di essere fratelli. Hasta siempre".

Morte Castro, gli esuli cubani fanno festa. L’opposizione cubana in esilio in Florida ha festeggiato la morte di Fidel Castro con centinaia di persone che nel cuore della notte sono scese in strada a Little Havana, scrive Franco Grilli, Sabato 26/11/2016, su "Il Giornale". L’opposizione cubana in esilio in Florida ha festeggiato la morte di Fidel Castro con centinaia di persone che nel cuore della notte sono scese in strada a Little Havana, a Miami, urlando "Cuba libre" e "El viejo muriò", il vecchio è morto. Se ne è andato "un tiranno" ma questo "non significa il ritorno alla libertà per il popolo cubano", ha avvertito però Ramon Raul Sanchez, leader di Movimiento Democracia, che come molti altri attivisti in Florida è stato svegliato dalla comunicazione della notizia. "È la tristezza più grande che ho nel mio cuore", ha aggiunto. "Vorrei poter dire che con la morte del tiranno il popolo ritrova la libertà", ha spiegato Sanchez, ma nel caso di Cuba "non è così perchè i Castro hanno preparato molto bene la successione" con il passaggio dei poteri da Fidel al fratello Raul. Per l’esponente dell’opposizione in esilio, Fidel Castro è un simbolo del terrore che con i suoi quasi 60 anni di potere lascia un’eredità di "paura, prigioni, dolore, il dramma dei ’balseros’" fuggiti via mare verso gli Stati Uniti.

Andy Garcia, l’attore racconta: «Una vita da esiliato per colpa di Castro. E il regime c’è ancora». L’attore: «Castro era accecato dalle sue idee e nessun revisionismo storico mi farà cambiare idea. Mai per il mio Paese mi sono sentito un figliol prodigo», scrive Giovanna Grassi il 26 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Andy García, nato all’Avana nel 1956, naturalizzato cittadino statunitense da molti anni, dice d’un fiato: «Cuba e la sua cultura sono nel mio Dna, sono l’essenza della mia identità, ma non ho mai risparmiato critiche a Castro. Ho sempre detto che Cuba è stata tradita, mistificata, usata da Fidel. Un dittatore. Non una icona rivoluzionaria». L’attore (che ha sfiorato l’Oscar con Il Padrino III) ha girato un film da regista, The Lost City, proprio sulla Cuba di Batista e della presa del potere di Castro.

Una saga ispirata anche alla storia della sua famiglia...

«Avevo 5 anni quando mio padre decise di emigrare a Miami, come centinaia di esuli cubani. Per anni mi ha spaventato e fatto soffrire vedere su tante magliette l’immagine di Castro “salvatore”, quando, invece, ha distrutto l’economia del mio Paese. Ho portato dentro di me per anni il dolore dell’esilio della mia famiglia per colpa di quello che, ripeto, ho sempre considerato un cattivo condottiero».

Che ricordi ha di suo padre e della fuga a Miami in cerca di una nuova vita?

«Mio padre era stato un grande avvocato e un libero giornalista e pensatore. In America cominciò a lavorare come cameriere. Gli sono grato per il suo coraggio e perché ha dato a tutti noi figli il più autentico valore della libertà e la conoscenza di tanti nostri compatrioti dissidenti gettati in fondo al mare, dopo essere stati uccisi e aver sofferto nelle prigioni. Castro era accecato dalle sue idee e nessun revisionismo storico mi farà cambiare idea».

Si è mai sentito un figliol prodigo?

«Posso solo dire che tutta la mia vita è stata segnata dalla nostalgia per Cuba. Mai per il mio Paese mi sono sentito un figliol prodigo. Non ho mai creduto in questa rivoluzione. Penso che per anni e anni la mia splendida Cuba sia diventata un Paese amletico e ferito per colpa di due regimi, quello di Batista e quello di Castro».

Quanto si considera americano e democratico e quanto cubano e conservatore?

«Non mi piacciono queste etichette, comunque l’anima più autentica di Cuba ha sempre cercato la libertà. Il presidente Obama ha giustamente più volte ricordato le parole del poeta cubano Josè Martí: “Libertà è la condizione base per ogni uomo che voglia sentirsi ed essere onesto”».

Lei ha denunciato anche in televisione quelli che ha definito «gli eccidi di Castro»....

«Hanno causato spaccature ideologiche in diverse generazioni. Il sogno della rivoluzione ha segnato, più nel male che nel bene, tante identità. Tanti giovani si sono uccisi per questo. Ho rifiutato molti commenti quando Obama con una cosiddetta “nuova era” decise di ripristinare le relazioni tra Cuba e Stati Uniti dopo colloqui con Raúl Castro e ho taciuto su alcuni appelli di papa Francesco».

Che cosa vuole dire oggi?

«Quello che ho sempre ripetuto: tornerò a Cuba quando finirà il regime e il mio popolo non sarà più oppresso. L’America mi ha offerto la libertà, le sarò sempre grato».

In tanti la pensano diversamente, anche fra i «latinos» in Florida o in California…

«Spero che si avvicini la libertà per il popolo cubano ma le diramazioni del potere di Castro sono infinite. Anche se siamo lontani dagli anni Sessanta che hanno ingiustamente idealizzato Fidel trasformandolo in una sorta di Robin Hood».

La morte di Castro, Bertinotti ricorda: «All’Avana con Lella, le notti passate ad aspettare che ci convocasse». L’ex presidente della Camera: «Ho provato come un senso di abbandono. Un dittatore? Definizione fuorviante, non è per questo che Castro passerà alla storia», scrive Alessandro Trocino il 26 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”.  Ho provato come un senso di abbandono». Fausto Bertinotti è commosso. Si allontana dal telefono per leggere un manifesto sulla parete: «Eccolo: Habana, Festival de la canción popular , 1967». Da allora è rimasto fedele al líder máximo per i suoi 80 anni gli scrisse, affettuoso: «Lunga vita, Comandante». Gli rispose Pietro Ingrao, su Liberazione: «Quello cubano è un regime di pesante dittatura».

Un senso di abbandono, dice.

«La storia a cui ho appartenuto se ne va. La morte di Castro è struggente. E dolorosa, per uno della mia generazione politica: è la fine di un’epoca. La fine del Novecento. L’epigrafe migliore è la sua frase: la storia mi assolverà».

La storia lo assolverà?

«Vorrei ricordare Brecht, quando diceva: voi che verrete dopo, siate indulgenti con noi, che abbiamo preparato la gentilezza ma non abbiamo potuto essere gentili. Messaggio che non condivido, ma che per quella storia vale».

Lei incontrò Castro?

«Più volte. Ricordo conversazioni lunghe anche una notte sulla globalizzazione. I suoi piedi erano a Cuba, ma la testa girava sul mondo».

Come avvenivano gli incontri?

«Una volta che ero con mia moglie Lella e nella casa vicina c’era García Márquez. Lui poteva chiamare per l’incontro a qualsiasi orario del giorno e della notte. Era un grande affabulatore, con un enorme carisma. Fu anche questo a far diffidare di lui Pietro Ingrao e Rossana Rossanda».

Ecco, Ingrao. Fu durissimo con lei.

«C’era una questione generazionale. Il gruppo dirigente del Pci non ha mai avuto una vocazione terzomondista. Ingrao, poi, ci trattava come un padre che guarda ragazzi scapigliati».

Il regime castrista imprigionava i dissidenti, silenziava i giornali, perseguitava i gay. Si può chiamare «dittatore» Castro?

«Mi pare fuorviante. Enfatizza una dimensione, ma non è per questo che Castro passerà alla storia. È la tessera del mosaico non il mosaico».

Cuba e l’Unione Sovietica.

«Incontrando Fidel, trovai un libretto sul cottimo, tradotto dal russo. Glielo dissi: “Vi adattate a un modello autoritario”. Lui rispose: “Quando ti devi cercare un alleato, l’importante è che sia molto lontano”. Un modo per far capire che era alleanza necessaria ma scomoda».

Non ci fu democrazia né pluralismo.

«È vero, ma una volta andai all’Avana, invitato prima della visita del Papa. Mi disse: “Di pluralismo ci sarebbe bisogno, ma qui l’opposizione sarebbe la longa manus dell’imperialismo. La visita del Papa apre una via al pluralismo”».

Le critiche da sinistra sono sbagliate?

«Ho ben presente il lato oscuro del castrismo. Noi contestammo le condanne a morte e per un periodo sospendemmo i rapporti. Ma non dimentichiamo il resto».

La sanità e la scuola.

«Sembra rituale ripeterlo, ma assicurare eguaglianza, scuola e sanità per tutti fu un atto unico. Cuba sotto Castro non è stato il migliore dei mondi possibili, ma certo è stato un combattimento per diventarlo. E poi se criticassimo, si potrebbe dire: da che pulpito viene la predica? È stato tale il fallimento della nostra sinistra europea, che c’è il dovere di prenderla bassa, quando si critica gli altri».

Lei disse che Castro è insostituibile. E ora?

«Senza il suo carisma, non si può chiedere a Cuba di continuare a essere quello che è. Spero solo che non perda del tutto quella luce che l’ha illuminata dal giorno dell’arrivo dei barbudos».

Roberto Saviano il 26 novembre 2016 commenta sui social la morte del "lider maximo". "Morto Fidel Castro, dittatore. Incarcerò qualsiasi oppositore, perseguitò gli omosessuali, scacciò un presidente corrotto sostituendolo con un regime militare. Fu amato per i suoi ideali che mai realizzò, mai. Giustificò ogni violenza dicendo che la sanità gratuita e l'educazione a Cuba erano all'avanguardia, eppure, per realizzarsi, i cubani hanno sempre dovuto lasciare Cuba non potendo, molto spesso, far ritorno".

È morto Castro, è morto un dittatore. Ha fatto la storia del Ventesimo secolo. Ma con Il mito della cultura diffusa e della buona sanità ha oscurato la violazione continua dei diritti civili, scrive il 26 novembre 2016 su "Panorama" Marco Ventura. È morto Fidel Castro. È morto un dittatore. È morto uno degli uomini che hanno fatto la storia del Ventesimo secolo. Un secolo crudele. È morta un’icona della politica mondiale ma anche italiana. Personalmente ho due ricordi. Il primo tanti anni fa in una vacanza a Cuba, la reazione rabbiosa e indignata di un gruppo di musicanti di strada ai quali mia moglie aveva chiesto di cantare “Hasta siempre” (al comandante Che Guevara). Erano dissidenti: non tutti a Cuba erano felicemente comunisti. Il secondo, una giornata in casa di Andy Garcia a Los Angeles, nel cuore della sua famiglia costretta all’esilio, tra i ricordi dell’attore sul filo del rimpianto. Lui eseguiva al pianoforte, a tratti in lacrime, le canzoni della sua patria perduta. L’icona di Fidel Castro ha accompagnato la mia generazione attraverso più di mezzo secolo. Era il Capodanno 1959, un anno prima della mia nascita, quando le forze rivoluzionarie entrarono all’Avana e Batista scappava da Cuba. Due anni dopo, in seguito al fallito sbarco di dissidenti cubani nella Baia dei Porci con l’appoggio degli Stati Uniti, Fidel annunciava che Cuba avrebbe adottato il comunismo e assumeva l’appellativo di Lìder Màximo. Tre anni ancora e Giangiacomo Feltrinelli, l’editore morto nell’esplosione dell’ordigno che stava collocando su un traliccio, volò a Cuba, lo incontrò e nel 1968 andò in Sardegna, con l’idea di trasformarla in una “Cuba del Mediterraneo”. Fidel fu molto attento ad alimentare non tanto il culto della personalità, quanto l’idea che Cuba fosse un’isola felice, rivoluzionaria, allegramente antimperialista, orgogliosamente comunista a ridosso della Florida, con un programma possente di nazionalizzazioni delle terre e delle industrie (lui figlio di un ricco possidente terriero cresciuto dai gesuiti e nei collegi più esclusivi), e di alfabetizzazione, progresso scientifico e politica sanitaria. Un po’ come l’Unione Sovietica, spacciata dai comunisti dell’Europa occidentale (Italia compresa) come modello di democrazia popolare e di progresso sociale. Tutto il male che di Cuba si poteva dire (ma non sempre si diceva), nella vulgata della sinistra alla Bertinotti-Minà era frutto della cattiveria dell’embargo statunitense. Fidel era Cuba e Cuba era una bandiera. Il volto più popolare quello di un guerrigliero morto: Che Guevara. In Italia, da ragazzo (nel 1977), le foto e immagini di Che Guevara erano stampate sulle magliette dei compagni (di scuola) che impedivano di entrare in classe imponendo l’autogestione, o che si confrontavano fisicamente coi fascisti (intesi in un’accezione molto ampia che comprendeva, fra gli altri, giovani liberali e forze dell’ordine) a suon di pugni, sprangate e qualche pistolettata. Il ’68 fu un’epopea positiva per i filo-castristi d’Italia, ma comportò la distruzione della cultura del merito, pregiudicando il futuro di almeno una generazione (ma non di tanti post-sessantottini da salotto che riuscirono a sistemarsi con spregiudicata abilità nei crocevia del potere universitario, editoriale, mediatico, politico, giudiziario, imprenditoriale…). Fidel era un capo illuminato, Che Guevara un campione della libertà, ed entrambi un vessillo antimperialista e anti-americano di non allineati che sventolavano la bandiera rossa. Batista, predecessore di Fidel, l’unico da ricordare come dittatore. Il dissenso cubano quasi considerato un artificio, un’invenzione della propaganda yankee. In realtà, il comunismo di Fidel era una scelta strategica di alleanza con l’Unione Sovietica per contrastare l’embargo degli Stati Uniti, e il Lìder Màximo il capo di un regime monopartitico. Qualsiasi forma di dissenso o opposizione era bollata come contro-rivoluzione al soldo degli americani. Il mito della buona sanità, della cultura diffusa, del cinema e dei brevetti, parzialmente vero, oscurava completamente le denunce dei dissidenti che testimoniavano assenza di libertà di stampa e di pensiero, repressione, licenziamenti politici, incarcerazioni. Si andava in prigione anche perché omosessuali. Nel 1953, al processo per l’assalto alla Caserma Moncada nel quale fu poi condannato a 15 anni di prigione, il giovane avvocato-guerrigliero Fidel Castro aveva declamato un discorso memorabile: “La storia mi assolverà”. Presto i cubani avrebbero dovuto ascoltare, per più di trent’anni, i discorsi lunghi ore di Fidel. La storia, in effetti, lo ha già assolto. La sua immagine è salva. Per molti è addirittura un eroe. Anche adesso, sui social dilaga il saluto, l’omaggio politico-militare della sinistra italiana al Lìder Màximo: “Hasta la victoria, siempre”.  Ma la realtà, anche se politicamente scorretta, è che è morto un dittatore.  

La Storia lo aveva già archiviato. Si è spento a 90 anni il "padrone" di Cuba. Ha tenuto testa agli Usa. Ma ha perseguitato i suoi "sudditi", scrive Mario Cervi, Domenica 27/11/2016, su "Il Giornale".  Pubblichiamo un inedito scritto negli ultimi anni di vita da Mario Cervi, cofondatore del «Giornale», scomparso un anno fa. Fidel Castro per oltre mezzo secolo è stato tra i protagonisti della scena internazionale. Difficile spiegare esaurientemente chi sia stato, cos'abbia rappresentato, come dovrà essere ricordato. C'è stato il Castro combattente per la libertà contro Fulgencio Batista, uno dei tanti generalucoli espressi dalla golpistica latino-americana. Ma c'è stato anche il dittatore che, come i Batista e perfino peggio dei Batista, sottopose Cuba alla repressione poliziesca, facendone un estremo santuario di un'ideologia condannata dalla storia, il marxismo leninismo. Non si può assimilarlo ai più servili e biechi servi di Mosca, non fu né un Honecker né un Husak. Ma della protezione e dei foraggiamenti sovietici ha fatto a lungo uno scudo contro la libertà. La fine storica di Fidel Alejandro Castro Ruz è già arrivata. Il fratello Raul, erede del potere, è soltanto una sbiadita controfigura del líder máximo. Nato il 13 agosto 1926 da genitori benestanti di origine galiziana, Fidel aveva studiato a Santiago de Cuba nel collegio La Salle, e poi all'Avana nell'esclusivo istituto de Belén, gestito dai gesuiti. I gallegos sono famosi in Spagna per la loro furbizia, i gesuiti lo sono a livello mondiale. Da queste radici Fidel trasse forse le doti di astuzia che, abbinate a coraggio e cinismo straordinari, contrassegnarono la sua esistenza. Dai gesuiti Fidel apprese la fierezza della hispanidad e il disprezzo per i materialisti anglosassoni che avevano fatto di Cuba il dominio della United Fruit e il bordello degli Usa. Eppure gli Usa lo affascinavano. Quando nel 1948 sposò Mirta Diaz-Balart, studentessa di filosofia - lui s'era iscritto a giurisprudenza -, trascorse una parte del viaggio di nozze nel grande Paese della bandiera a stelle e strisce. Avendo aderito all'estremismo nazionalista di sinistra che attirava tanti giovani, il 26 luglio 1953 fu tra gli assaltatori della caserma Moncada nella provincia di Oriente. Un disastro. Castro fu fatto prigioniero, processato, condannato a 15 anni di reclusione. Pronunciò in Tribunale la frase che i suoi numerosi laudatori non si stancano d'evocare: «La storia mi assolverà». In realtà non l'ha assolto. Liberato grazie a un'amnistia nel 1955, Castro fu esule in Messico e negli Usa. Tornò clandestinamente a Cuba su un'imbarcazione, il Granma, da cui ha preso poi nome il quotidiano del regime, tra i più infami esempi di stampa abbiettamente cortigiana che sia possibile ricordare. Il nuovo movimento clandestino compì il suo primo assalto il 2 dicembre 1956 lasciando sul terreno decine di cadaveri. Tra i sopravvissuti, «Che» Guevara e Raul Castro. La resistenza diventava tuttavia più forte, e Batista, dopo aver lanciato un'ultima offensiva per stroncarla, si rassegnò alla sconfitta. Il primo gennaio del 1959 i ribelli entrarono all'Avana: Fidel Castro aveva trionfato. È inutile a questo punto allineare le cariche formali - comandante in capo delle forze armate, inizialmente - che Castro ebbe. Il padrone di Cuba era lui, e a lui toccò di visitare la Casa Bianca e d'incontrarsi con il vice presidente Richard Nixon che lo giudicò naïf, ingenuo, «ma non necessariamente comunista». Il presidente Eisenhower aveva sbobbato il colloquio per impegni di golf. La rottura non tardò. Cuba, nel febbraio 1960, aveva stretto un accordo con l'Urss per forniture di petrolio, ma le raffinerie di Cuba, di proprietà Usa, si rifiutarono di lavorarlo e furono espropriate. Alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Usa e Cuba seguì un marcato avvicinamento di Castro all'impero sovietico. Firmò con Kruscev un accordo per aiuti economici e militari. Ad aggravare la tensione sopravvenne il 17 aprile 1961 lo sbarco di esuli cubani addestrati dalla Cia nella «Baia dei porci». Secondo i cervelloni dell'intelligence quel colpo di mano avrebbe dovuto accendere una fiammata rivoluzionaria anticastrista. Il presidente Kennedy si rifiutò di dare appoggio aereo all'impresa chiusa con 104 morti e 1189 catturati tra gli assalitori. A quel punto Castro non lasciò più spazio ad alcuna ambiguità. Disse che Cuba avrebbe adottato come dottrina nazionale il comunismo. Si affermò che Giovanni XXIII avesse scomunicato Fidel, il che non era vero. Ma un dignitario vaticano spiegò che la scomunica, in forza d'un decreto di Papa Pacelli, si abbatteva «ipso facto» su chiunque si fosse proclamato comunista. L'escalation raggiunse un livello di estrema pericolosità nell'ottobre del 1962, quando Washington accertò che Mosca voleva installare a Cuba un sistema missilistico. Il pianeta fu sull'orlo dell'Apocalisse nucleare, ma davanti alla possente reazione Usa i sovietici rinunciarono al progetto. Cuba era comunque diventata un vassallo a tempo pieno di Mosca. In compenso riceveva foraggiamenti - a spese dei poveri russi - equivalenti a un quarto del Pil dell'isola. Castro aveva instaurato un potere dispotico modellato, in peggio, su quello sovietico. Collettivizzazioni, espropriazioni, un pauperismo diffuso, le tessere alimentari, la polizia onnipresente, un culto della personalità ripugnante e il prevalere del dio dollaro, unica seria unità di misura economica. Nello stesso tempo Fidel alimentava conati insurrezionali un po' dovunque, divenne amico dell'editore Giangiacomo Feltrinelli che pensava a una resistenza sarda, procacciò armi a complottisti d'ogni risma e ne fece dono anche a qualche governante. Come Salvador Allende, il quale si uccise dopo il golpe militare con una mitraglietta donatagli da Castro. Il quale tuttavia, essendo la sua Cuba comunista ma anche cattolica, ha ospitato prima Giovanni Paolo II, poi - quando già nominalmente non aveva più il comando - Benedetto XVI. Castro mantenne il segreto sulla propria vita privata, ma s'è saputo che una figlia, Alina, aveva come Svetlana Stalin scelto la libertà, ponendosi sotto la protezione Usa. La fine dell'Urss fu per Cuba una catastrofe. Tuttavia il vecchio líder máximo si limitò ad allentare un po' le catene dalle quali Cuba era imprigionata. Non rinunciò, nemmeno dopo, alla mano dura contro i dissidenti, alcuni mandandoli al paredón, il muro delle esecuzioni. Non aveva esitato a perseguitare, come eretici, i compagni di lotta. Poi i guai di salute, con una grave operazione intestinale, hanno determinato il passaggio delle consegne al fratello Raul. Fidel Castro era finito, ed era in buona sostanza finito il suo regime. Ma come eroe d'un certo terzomondismo anti Usa Castro aveva conservato il suo prestigio, molte schiere di intellettuali anche italiani - basta pensare a Gianni Minà - ne magnificavano i successi nell'alfabetizzazione e nella sanità. Era lo stesso tipo di successi accreditati all'Urss, anche da corrispondenti stranieri. Ma non appena si ammalavano correvano a Helsinki per farsi curare.

La ricostruzione: come andò realmente alla Baia dei Porci. Dall’addestramento della Cia dei guerriglieri anticastristi allo sbarco sull’isola, storia di un clamoroso fallimento cui seguì una repressione spietata e la crisi dei missili, scrive Guido Olimpio 26 novembre 2016 “Il Corriere della Sera”.  Un’afosa notte della Florida. Sul calendario la data del 26 agosto 1960. Alcuni ragazzi si avvicinano a una fattoria nella campagna di Homestead, vogliono fare uno scherzo a quelli che pensano essere degli immigrati. Sono accolti a fucilate. Perché gli ospiti dell’accampamento non sono braccianti, ma guerriglieri anticastristi. La notizia corre fino a un giornale di Miami. Può essere l’inizio di uno scoop clamoroso, invece resta nel cassetto. Il governo riesce a mettere il coperchio, i militanti sono trasferiti in gran fretta in Guatemala. Perché la loro missione deve continuare. Fino all’ultimo atto, consumato in modo drammatico nella Baia dei Porci, sulla costa meridionale di Cuba. Gli americani non hanno mai accettato la vittoria di Fidel, pensano a una controrivoluzione. L’idea prende corpo, la Cia lavora al progetto mentre l’Fbi si mette di traverso, contraria a un atto illegale. Sul tavolo del presidente Eisenhower arrivano i primi piani, la questione cubana non è secondaria. Nella campagna elettorale John Kennedy non ha mai nascosto il suo approcci duro, rinfaccia al predecessore un atteggiamento arrendevole e quando entra alla Casa Bianca riprende in mano il dossier, anche se l’idea di un’invasione non lo scalda troppo. È d’accordo sul fare, ma non vuole restare intrappolato in un intervento diretto statunitense, dunque si affida alle «ombre». L’intelligence mette insieme quasi duemila uomini, tutti esuli inquadrati sotto le insegne della «Brigata 2056». Li prepara militarmente, mette a disposizione dei vecchi bombardieri B26 e alcuni mercantili. Gli strateghi indicano le mosse: neutralizzazione della forza aerea cubana, sbarco e creazione di una testa di ponte, sabotaggi e insurrezione. La Cia fornisce denaro, mappe, assistenza mentre i velivoli spia U2 scattano foto degli obiettivi e delle rotte d’avvicinamento. Una grande attività «coperta» che in realtà è stata captata dai servizi dell’Avana e dal Kgb. Vedono la tempesta arrivare, sono pronti a rispondere. Poco dopo l’1 del 15 aprile 1961 scatta l’assalto aereo, i B 26 attaccano le basi cubane ma non riescono a distruggere i velivoli del regime. Anzi, i caccia si levano in volo e fanno danni. Va male anche in mare. Due cargo si arenano, gli anticastristi che sono riusciti a mettere piede sulla sabbia (il 17) sono inchiodati dal fuoco governativo. Solo un intervento massiccio americano può salvare l’invasione, ma Kennedy resiste alle pressioni e oppone un no. Per i ribelli è la fine: circa 1000 sono catturati, 107 uccisi. Sull’isola parte la repressione con migliaia di arresti, all’Avana stroncano ogni dissenso. E andrà avanti per molto tempo. Il rovescio è imbarazzante. Un fallimento totale, una crisi diplomatica e un regalo alla propaganda antiamericana. Il disastro, però, non chiude la partita. John Kennedy e il fratello Robert autorizzano nuove iniziative per sbarazzarsi dei «barbudos». Nella zona sud di Miami, vicino all’università e dove oggi c’è lo zoo, cresce «Jmwave», sigla in codice per un avamposto Cia, dove gli agenti portano avanti l’Operazione mangusta. Il target è sempre Cuba. Raccontano che gli americani abbiano studiato 638 metodi per eliminare Fidel. Dall’avvelenamento dei sigari alle conchiglie bombe, dal ricorso a un cecchino alla trappola di un’amante. Alcuni erano «complotti» seri, altri tentativi semicomici. C’è poco da ridere. Gli avversari di Castro seminano bombe, anche su un jet passeggeri. Sono degli irriducibili, non dimenticano. Un anno dopo il mondo è sull’orlo della guerra per la crisi dei missili russi sull’isola caraibica, il 22 novembre del 1963 Kennedy è ucciso a Dallas, un attentato che ancora oggi aspetta risposte, una trama che si è incrociata spesso con figure della Cuba-connection, tra killer, 007 e mafiosi. Una storia mai finita.

Il Fidel Castro privato: le mogli, le amanti e la figlia segreta che lo ha pugnalato, scrive il 26 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Un "donnaiolo impenitente". La vita privata e quella sessuale di Fidel Castro, come del resto ogni aspetto della sua biografia, sono in equilibrio tra cronaca ufficiale ("di Stato"), leggenda e anti-propaganda maliziosa. Di sicuro, però, il Lìder Maximo amava molto le donne e da una di loro ha ricevuto forse il dolore più grande dei suoi 90 anni. Si tratta di Alina Fernandez Castro, la figlia mai riconosciuta del dittatore cubano morto la sera del 25 novembre: fuggì dal Paese travestita da turista grazie a una parrucca, visse per 21 anni a Miami, criticando il padre, e tornò sull'isola per occuparsi della madre malata Naty, Natalia Revuelta Clews, ex amante del presidente e da sempre sua sostenitrice. La prima moglie di Castro fu Mirta Díaz-Balart, sposata nel 1948 dopo l'incontro all'università. Divorziarono nel 1955, mentre lui era in esilio, dopo aver avuto un figlio, Fidel Ángel Fidelito Castro Díaz-Balart, che studiò a Cuba ed ebbe mansioni pubbliche di spicco. Nel 1980 Castro sposò Dalia Soto del Valle, tenuta nell'ombra per decenni sino alle foto fatte trapelare per il 75esimo compleanno del Lider maximo. Dalle seconde nozze ha avuto cinque figli. Durante questo matrimonio ebbe la relazione con Revuelta ed ebbe almeno altri due figli da relazioni occasionali con altre donne. Il dittatore secondo molti pettegolezzi avrebbe avuto continue relazioni extraconiugali e avventure da una sola notte anche durante le trasferte di lavoro all'estero.

Tutto Fidel Castro da Nikita a Naomi. Il Che diffidava di lui, la figlia lo odiava, per Sartre era un mito, per Reagan un bandito, scrive Massimo M. Veronese, Domenica 27/11/2016, su "Il Giornale". 

UNA FIGLIA PER NEMICA. «Me lo ricordo come un uomo timido e dolce, dalla grande barba, ma da tanti anni ormai non mi sento più figlia sua. Ricordo che quando avevo tre anni fece sostituire in tv Topolino con le immagini delle esecuzioni che lui aveva ordinato. Mi fa solo ribrezzo e pietà. E niente lo salverà dal male che ha fatto a noi cubani». Alina Fernandez Castro

«CHE» FIDUCIA. «É sempre stato un vero e proprio leader della borghesia di sinistra, ma con qualità superiori a quelle della sua classe sociale. All'inizio, nei primi momenti della Sierra Maestra, non avevo fiducia in lui, non avevo capito subito le sue qualità di condottiero e di rivoluzionario: non c'era contesa di qualunque tipo in cui lui non andasse a cacciarsi direttamente». Ernesto «Che» Guevara

DISTRUGGETE L'AMERICA. «Nel suo cablogramma del 27 ottobre lei mi proponeva di essere noi i primi ad assestare il colpo nucleare contro il territorio americano. Certamente lei capirà dove questo ci porterebbe. Non sarebbe un semplice colpo ma l'inizio della guerra mondiate termo-nucleare. Caro compagno Castro, trovo la sua proposta scorretta pur comprendendone le ragioni». Nikita Krusciov

DI PADRE IN FIGLIO. «Fidel è sempre stato un bambino ubbidiente ma il primo sciopero lo organizzò che non aveva ancora 14 anni in una fabbrica di zucchero contro il padrone. Cioè contro di me. Suo padre...». Angel Castro

ZORRO E GARCIA. «Fidel Castro è la principale forza della rivoluzione, ma anche la sua principale debolezza». Gabriel Garcia Marquez

DURI E PURI. «Castro è un trafficante di droga e di terrore. Divide i profitti con i narcos colombiani e con quei soldi finanzia le guerriglie del Centro America. Il fallimento di Cuba non è colpa dei cubani. É il fallimento di Fidel Castro e del comunismo, di un regime che fiorisce sulla repressione e sulla privazione degli esseri umani». Ronald Reagan

GRAZIE FIDEL. «Quando il resto del mondo sosteneva l'apartheid, Fidel Castro e Gheddafi hanno appoggiato con la Scandinavia, l'Olanda, i paesi socialisti, l'Africa e l'Asia la guerra di liberazione contro una delle più brutali forme di oppressione». Nelson Mandela

LA POLITICA DEL RIGORE. «Fidel è un fenomeno. Parliamo di Bin Laden, di Bush, della guerra. Passo molto tempo con lui, quando ha da fare lo aspetto fuori dalla porta. Mi ha detto che di politica ne capisco, io Invece gli spiego le regole del fuorigioco. É curioso, vuol sapere quanti passi ci sono dal dischetto alla porta. Gli ho risposto, dipende, passi miei o suoi?». Diego Armando Maradona

L'ADORATORE SINISTRO. «Ciò che mi permette di riconoscerlo tra tutti è quel suo profilo obliquo, quel naso lungo che si ritrae sotto la prominente sporgenza della fronte, le mascelle larghe e piatte, le sue grandi e rosse labbra, continuamente arricciate dalla riflessione, dall'irritazione, dall'amarezza, qualche volta distese da un sorriso; le ho viste tragiche o irritate, ma sensuali mai. Tranne forse quando si chiudono come un pugno attorno a un lungo sigaro, in generale spento». Jean-Paul Sartre

JURASSIC PARK. «Il vero embargo lo ha fatto lui al suo popolo e il primo a non voler la revoca è proprio lui. Un vecchio dinosauro terrorizzato, con la liberalizzazione dei mercati e delle idee, di perdere il controllo assoluto del Paese, cioè il potere, l'unica cosa che gli sia mai interessata». Andy Garcia

IL SOLITO ESAGERATO. «Tu sei stato il primo e più grande eroe apparso nel mondo a partire dalla seconda guerra mondiale. È come se il fantasma di Cortez fosse apparso sulla terra cavalcando il cavallo bianco di Zapata». Norman Mailer

FRATELLI DI SANGUE. «Fidel è un fratello per me, un fratello combattente della libertà. Per questo gli ho assegnato il premio per i diritti umani che porta il mio nome...». Moammar Gheddafi

TELE SUONO. «Adesso che faccio il giornalista il mio sogno sarebbe intervistare Margaret Thatcher e Castro. E fa niente che Fidel non sia stato molto leale nei miei confronti...». Mikhail Gorbaciov

GEMELLI DIVERSI. «Me lo ricordo quando venne in Cile. Piuttosto alto, parlava sempre facendo demagogia. Era molto attento con le donne, ma a me proprio non piacque». Augusto Pinochet

PANE, AMORE E FANTASIA. «Un uomo molto colto, affascinante, l'ho incontrato nel 1974, non mi interessava il politico ma l'uomo. Abbiamo simpatizzato, è rimasta una buona amicizia. Fu un vero gentiluomo, squisito. E aveva delle mani così belle...». Gina Lollobrigida

VENERE NERA (E ROSSA). «Castro è una persona di grande intelligenza: mi ha ricordato molto il presidente sudafricano Nelson Mandela». Naomi Campbell

DÀI RETTA A UN CRETINO, «Non mi piace che si condannino a priori persone pacifiche trattandole tranquillamente da terroristi. Si veda ad esempio Fidel Castro. Lo hanno demonizzato, quando invece è un convinto democratico che ama, ricambiato, il suo popolo». Danielle Mitterrand

C'È KENNEDY AL TELEFONO. «Quando Ernest si suicidò John Kennedy mi chiamò per chiedere cosa poteva fare per me. Gli chiesi di farmi andare a Cuba per recuperare alcuni beni che Ernest aveva lasciato nella tenuta della Finca Vigia. C'erano dei Monet, dei Picasso. Kennedy si attaccò al telefono, parlò direttamente con Fidel Castro e ottenne il consenso». Mary Hemingway

PER RIDERE UN PO'. Ernesto e Pedro si incontrano in piazza all'Avana. Ernesto chiede a Pedro: «Come va?». Pedro: «Sono stanco, compagno Ernesto. Ci sono file dappertutto qui all'Avana. File per comprare il pane, file per il pesce, file per il riso, file per i fagioli. Non ne posso più. Ho deciso: devo uccidere Fidel». Dopo un paio di mesi, i due si incontrarono di nuovo. Ernesto: «E Fidel l'hai poi ammazzato?». Pedro: «Non me ne parlare. C'era una fila per ucciderlo...».

UN VERO ANIMALE: «Fidel Castro è un uomo audace come un tasso». Ernest Hemingway

I SOLITI SOSPETTI. «Ho sempre avuto il sospetto che ci fosse Fidel Castro dietro l'omicidio di John F. Kennedy. Ma penso anche che se l'opinione pubblica si fosse sollevata contro Cuba l'Urss avrebbe preteso delle ritorsioni. La prima conseguenza è che ne sarebbe seguita una guerra che avrebbe provocato la morte di 40 milioni di americani in un'ora». Lyndon Johnson

PAROLA DI BIOGRAFO. «Bin Laden non è nemico dei cristiani, ma solo degli americani. Per questo è un fervente ammiratore di Fídel Castro, per la sua storica opposizione agli Usa. Osama sognava di poter incontrare un giorno Fidel». Hamid Mir

TAGLIATEGLI LA TESTA. «Tutte le rivoluzioni sono bagnate dal sangue e anche durante la Rivoluzione francese caddero delle teste. Ciò non vuol dire che Castro sia un macellaio, anche se ha alle spalle 40 anni di dittatura». Gerard Depardieu

FRATELLI COLTELLI. «Mio fratello? È protetto dai santi socialisti». Ramón Castro

NEI PANNI DI FIDEL. «Avevo un ottimo rapporto, direi, con i miei genitori. Di rado mi picchiavano. Anzi, credo che mi picchiarono un'unica volta, durante l'infanzia. Cominciarono a picchiarmi di santa ragione il 23 dicembre del 1942 e smisero nel'44, a primavera inoltrata». Woody Allen (Il dittatore dello stato libero di Bananas)

SE LO DICE LUI... «Castro non morirà mai» Hugo Chavez

Gianni Minà: «Io, Fidel e quell’intervista di 16 ore. Vi spiego perché non è stato un dittatore». Lo scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai, ha conosciuto il lider maximo meglio di molti altri giornalisti occidentali, scrive il 27 novembre 2016 Paolo Conti su "Il Corriere della Sera". Gianni Minà, scrittore e saggista, autore di trasmissioni storiche della Rai («Blitz», solo pe fare un esempio, ma fu anche tra i fondatori de «L’altra domenica») ha conosciuto Fidel Castro meglio di molti altri giornalisti occidentali. «Il comandante» gli rilasciò due interviste televisive (poi trasferite nei suoi libri): la più famosa è quella, fluviale, del 1987 perché durò sedici ore, tutte registrate, un record imbattuto nella storia della Rai. 

Ma come andò, Minà?

«Stavo realizzando una serie di interviste con i presidenti dell’America Latina. Attendevo a Cuba da dieci giorni la possibilità di incontrare Fidel Castro. Avevo già pronte ben ottanta domande avevo preparato insieme all’amico Saverio Tutino, grande intellettuale e giornalista, ex partigiano, che fu corrispondente dell’America Latina. Mi aiutò molto, i quesiti erano puntuali, mai banali. Venni convocato. Chiesi subito a Fidel se per caso volesse sapere prima le domande, come fanno sempre i capi di Stato e molti interlocutori. Mi diede una risposta che non dimenticherò: “Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole? Risponderò a tutte le domande”. Capii subito che non sarebbe stata una navigazione facile. Finimmo alle 6 del mattino, rischiai di perdere l’aereo per il Messico dove avevo fissato un appuntamento col presidente di quel Paese». 

Intorno a Minà (che sta presentando in Italia il suo film documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel», che racconta la visita del Pontefice nell’isola caraibica dal 19 al 22 settembre 2015), le tracce di una vita professionale. Molti premi, tra cui il Kamera della Berlinale alla carriera, il più prestigioso per i documentaristi. Sulla parete, i ritratti della moglie e delle due figlie di Minà firmati dal pittore messicano Omar Cuevas Manueco. Racconta Minà «che allora si girava in pellicola a 16 millimetri, e il materiale della Rai stava per finire. C’era con Fidel il suo assistente che improvvisamente sparì e tornò con un cartone pieno di pellicola giapponese dell’archivio cinematografico delle Forze armate rivoluzionarie». 

Mangiaste qualcosa in quelle sedici ore?

«Noi qualche panino. Fidel molto tè tiepido e basta. Ricordo che l’intervista si trasformò in un vero e proprio happening, vista la lunghezza». 

Se si chiede a Minà quale sia stato il particolare che lo colpì di più, risponde così: «Capii che non si sarebbe alzato da quella sedia se non avesse finito di parlare di Che Guevara. Gli dedicò cinquanta minuti». 

Fidel Castro, lo ha ricordato la stampa italiana e straniera, ha anche imprigionato molti dissidenti, intellettuali, omosessuali. Lei ebbe la sensazione che Fidel lo ammettesse?

«Vorrei dire che a Cuba avviene ciò che succede anche in tanti Paesi occidentali….ammetteva che la Cia lavorava nell’ombra a Miami, organizzando anche molti atti terroristici nell’isola. Molti responsabili sono ancora vivi e non sono mai stati processati, non credo sia una bella pagina nella storia degli Stati Uniti…».

Però anche Pietro Ingrao su «Liberazione» definì Cuba «una pesante dittatura», e tutto era, Ingrao, tranne che un uomo di destra… 

«Ingrao è stato un padre della sinistra, un grande politico e intellettuale. Ma in quel caso scrisse senza conoscere la realtà, non sapendo come stavano le cose. Mi dispiace dirlo, ma dette un giudizio superficiale. Per criticare, occorre sapere. Io ho diretto per quindici anni la rivista «Latinoamerica e tutti i sud del mondo» e ho ospitato molte voci del dissenso. Ma parlando dall’interno dell’isola». 

Per Cuba, secondo Minà, si deve parlare di rivoluzione tradita o attuata? 

«Sicuramente non tradita. Funziona un sistema che assicura alla gente la casa, il cibo, la sanità pubblica uguale per tutti, l’istruzione, la cultura. Oggi sarebbe uno dei tanti Paesi dell’America Latina che attendono che almeno qualcosa cambi, anche di poco, ma cambi. Invece a Cuba funziona, per fare un solo esempio, un centro di ingegneria genetica all’avanguardia nel mondo. Così come Cuba può inviare i suoi atleti alle gare internazionali e alle Olimpiadi, e in molti casi vincerle». 

Minà è convinto che con la morte di Fidel Castro a Cuba non cambierà niente: «No, sull’isola non credo ci saranno contraccolpi. Sarà Trump a doverci dire se vuole ringraziare quelli che, a Miami, hanno pagato parte della sua campagna elettorale. Cuba ha avuto e ha attori politici che sono entrati nella storia e hanno acquisito una grande credibilità. Ci sarà una ragione se papa Francesco ha voluto incontrare Fidel nella sua abitazione privata a Cuba durante il suo viaggio. E ci sarà sempre una ragione se proprio lì papa Francesco e il Patriarca Kirill hanno raggiunto un’intesa dopo mille anni di divisioni. Il Vaticano ha una visione ben diversa di Cuba rispetto a quella presentata da tanta stampa occidentale».

A proposito di papa Francesco, Minà: lei pensa che Fidel possa essersi convertito –lui, ex alunno dei gesuiti- in punto di morte? 

«Su questo punto, l’ultima volta in cui ci siamo visti, nel settembre 2015, è stato chiaro. Non ha mai usato la parola fede. Mi ha detto: “Sono stato educato da un’altra cultura. Poi ho incontrato questa, con cui tuttora vivo”. No, direi proprio nessuna conversione…»

Renato Farina il 27 novembre 2016 su Libero Quotidiano "saluta" Fidel Castro: "Lui vendeva sogni, la sua gente faceva la fame". Un istante, un solo istante prima di pronunciare quel nome, rivolgiamoci con gli occhi della pietà e della memoria a quelle migliaia di morti cubani fucilati come nemici della rivoluzione oppure annegati nel tentativo di liberarsi dal giogo del presunto liberatore. I Miguel, le Belinda, i Carlos. Fidel Castro è morto ieri nel suo letto, ed è stato molto fortunato. Sono pochi i tiranni che hanno questa sorte. E nessuno che sia stato celebrato come un mito positivo persino da quelli che lui e i suoi barbudos avrebbero volentieri liquidato come reazionari. I telegiornali e i quotidiani, nonché soprattutto il web pullulano di gallerie fotografiche sognanti, per la prima volta il fumo e i sigari non sono accompagnati da scritte evocanti il cancro, ma la poesia e la gloria. Primeggiano le immagini di Fidel ancora giovane accanto al suo compagnero Ernesto Che Guevara. In realtà i due finirono ben presto per odiarsi. Il Che fu costretto ad andare ad ammazzare e a farsi ammazzare in Bolivia per evitare una triste sorte a Cuba. Anche dopo la sua morte, quando decenni dopo, fu restituita la salma, Fidel Castro non volle fosse seppellito all’Havana per evitare di avere un anti-Papa sotto casa e lo confinò in un mausoleo a Santa Clara. Fidel Castro aveva sconfitto con l’aiuto persino della Cia il pessimo dittatore Batista. Non era comunista, Fidel, fu convertito al marxismo proprio dal medico argentino vagabondo di nome Guevara. Seppe far sognare i proletari e i contadini di Cuba, detestavano non solo lo sfruttamento cui li sottoponevano i fazenderos ma la decadenza morale rappresentata dal turismo sfrontato degli americani. Il sogno durò poco. Fidel Castro ridusse l’isola «formosa y linda» a una fattoria di sua proprietà con undici milioni di animali-uomini, dove il 7 per cento di loro, iscritto al partito comunista viveva abbastanza bene, a discapito dei restanti connazionali, senza diritto di parola o di opposizione anche minima. Povertà nera. Funzionava l’istruzione, quello sì, ma era di tipo totalitario equivalente a un lavaggio dell’anima e del cervello. E i medici erano e sono bravissimi, ma macchinari e cliniche sono dedicate alla cura dei tesserati comunisti e degli stranieri con la grana, per rimpinguare le casse vuote, dopo la fine dell’Unione Sovietica. So queste cose per la testimonianza di Valerio Riva che conobbe bene Fidel Castro e la realtà di Cuba grazie a molti viaggi e incontri con il leader maximo in compagnia del ricchissimo rivoluzionario Gian Giacomo Feltrinelli. Fidel era l’uomo più ricco del mondo, ed ebbe più donne di Mao, Kennedy e di Rocco Siffredi messi insieme. Intelligente e furbo, ed un po’ timoroso di Dio e memore dell’educazione religiosa ricevuta, negli ultimi anni il vecchio barbudos ha avuto un rapporto privilegiato con i Papi. C’ero nel 1998 quando arrivò Giovanni Paolo II, e il popolo mostrò di prediligere il polacco al divo locale. Il quale liberò alcune centinaia di prigionieri politici. Piano piano il regime si è aperto, più nell’apparenza che nella sostanza della libertà politica ed economica. Tant’è vero che il successore è Raul Castro, che è stato eletto con un voto democratico assai libero e unanime: quello di suo fratello. Lo scrittore russo Solzenicyn racconta questo episodio del Gulag sovietico alla morte di Stalin: gli “zek”, i prigionieri politici, furono radunati dal capo delle guardie che diede l’annuncio. La bocca dei galeotti mostrò i loro rari denti nel più splendido dei sorrisi. Furioso il comandante ordinò: giù il cappello! Allora lo lanciarono in alto all’uso russo delle feste. In Italia Togliatti e Nenni e Napolitano piansero a calde lacrime. Così oggi accade in Italia. Lacrime di Minà e dei vari cumpà. Noi invece salutiamo Fidel con un bicchiere di rum cubano: alla salute! Renato Farina

Napolitano su Fidel Castro: "Giusto rendere omaggio", scrive il 27 novembre 2016 "Libero Quotidiano". "Fidel Castro è stato protagonista storico di grande rilievo sul piano mondiale del secolo scorso, e si è caratterizzato come un costruttore di un esperimento di stato fondato sulla mobilitazione e il sostegno popolare, fin quando non sono balzate in primo piano e divenute contraddizioni fatali le componenti autoritarie e la subordinazione agli schemi sovietici e al blocco ideologico-militare guidato da Mosca". Lo afferma il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una nota. "Fidel Castro - prosegue - è stato nel contempo mito ideale e politico per grandi masse di militanti della sinistra nel mondo, nella stessa Europa e nel nostro paese. Anche per il suo straordinario carisma personale ha ispirato movimenti rivoluzionari, in particolare nell'America Latina, e alimentato speranze immaginando un futuro libero dal dominio capitalistico. La Cuba di Castro è stata anche al centro in vari momenti di tensioni tra le maggiori e più pericolose tra i blocchi dell'Est e dell'Ovest nel periodo della guerra fredda e oltre. La sua rivoluzione contro il regime di Batista non era stata guidata da ostilità verso gli Stati Uniti, ma piuttosto da vicinanza alle grandi tradizioni di libertà di quel paese. È giusto rendere omaggio oggi alla sua figura per l'esperienza complessa e drammatica che ha rappresentato nelle sue luci e nelle sue ombre, e per la lungimirante apertura con cui negli ultimi anni ha assecondato un processo di avvicinamento all'Occidente e di superamento delle barriere che avevano a lungo tenuto isolata la sua Cuba".

Solo Trump rompe il muro dell'ipocrisia. Dai leader del mondo parole di circostanza, ma chi dice la verità conquista i cittadini, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 28/11/2016, su "Il Giornale".  Le cose della storia, un po' come quelle della vita, non sono mai inventariabili secondo lo schema «o bianco o nero», si sa. I grandi personaggi e i grandi eventi rifuggono dai giudizi assoluti. Per comprenderli occorre tenere conto di tutte le sfumature. Però i distinguo, i pareri pro-e-contro, gli equilibrismi intellettuali, le analisi comparative, tutto questo dovrebbe essere materia degli storici, al limite degli intellettuali. Ai politici, invece, è chiesto qualcosa d'altro, di diverso. Ai politici è chiesto di scegliere, di prendere una posizione (una, non due contemporaneamente), di essere chiari di fronte al cittadino/elettore. Devono rischiare il giudizio, fare capire cosa pensano realmente, essere limpidi. E nel mare torbido dei ricordi che ieri - tra i leader del mondo - hanno affogato la memoria di Fidel Castro, è spiccato Donald Trump. Il suo giudizio tranchant - «Castro era un dittatore che ha oppresso il suo popolo» - può non essere condiviso. Ma è chiaro, deciso, magari dal punto di vista storico semplicistico, e dal punto vista comunicativo avventato. Ma è onesto. Tu sai chi sono. Io dico quello che penso. E quello che penso lo dico. Se ti piace come mi comporto, mi dai il tuo voto. Altrimenti ognuno per la sua strada. Poi ci si chiede - interrogando i flussi elettorali, citando la psicologia delle folle, scandalizzandosi per la «irragionevolezza» di certe scelte - perché uno come Trump vince. Si potrà chiamare la sua naturalezza volgarità, archiviare la sua semplicità come ignoranza, bollare la sua disinvoltura come superficialità. Ma non si potranno accusare le sue dichiarazioni di ipocrisia. Trump lo dirà in modo troppo diretto, e per alcuni fastidioso. Ma quello che sta dicendo è la verità. Che per un politico è la cosa fondamentale: essere credibile di fronte ai cittadini per essere votati dagli elettori. I cittadini e gli elettori, che sono la stessa cosa, sentendo piangere Fidel Castro come fosse un campione della libertà, non capiscono più i politici, i quali denunciano da ogni parte fantomatici pericoli per la democrazia, e poi non vedono (o fanno finta di non vedere) le vere dittature. È difficile per il cittadino/elettore comprendere quell'atteggiamento - ambiguo (...)(...) e conformista - per cui si mette in guardia da improbabili derive autoritarie nel mondo capitalista, e però si trascurano i dispotismi dei (residui) socialismi rivoluzionari...Curioso il meccanismo di certi politici (di solito supportati dall'ala intellettuale del partito). Parlano in modo interessato e ipocrita alla gente. La ingannano. E poi quando la gente si ribella, non votandoli, la liquidano come ignorante. E il popolo diventa populismo. Prima si rivolgono a loro come se non avessero il cervello, e poi li incolpano di scegliere con la pancia. Il caso di Castro è esemplare. Il regime del líder máximo era costruito sulle caserme, le prigioni, le persecuzioni, la povertà e la negazione dei diritti umani. Fare sparire tutto ciò dietro il sipario della retorica (e dei simboli iconici: i baschi, i sigari, le canzoni rivoluzionario), è un trucchetto che gli spettatori disincantati - cioè non ideologizzati - smascherano subito. Non li puoi ingannare. I numeri di illusionismo storico e gli equilibrismi culturali sfoggiati dai Grandi del mondo, parlando di un piccolo caudillo, non convincono nessuno. «Sarà la storia a giudicare il grandissimo peso della singolare figura di Castro nel mondo» (il presidente americano Barack Obama), «la sua eredità sarà giudicata dalla storia» (il presidente della commissione Ue, Jean-Claude Juncker), «figura dalle mille sfaccettature» (il Vaticano, attraverso L'Osservatore Romano), «un uomo che ha incarnato la rivoluzione nelle sue speranze e nelle sue disillusioni» (il presidente francese François Hollande), «un leggendario rivoluzionario e oratore» (il premier canadese Justin Trudeau), «un protagonista della storia del suo Paese e della vita del mondo» (il presidente della Repubblica Sergio Mattarella)... Sono parole di circostanza, certo. Diplomatiche, è vero. Prudenti, ed è giusto. Ma che non spiegano nulla. Che suonano false. Certo, sempre meglio dei deliri storici e filosofici come quelli del dittatore coreano Kim Jong-un («un vero leader del popolo»), o del presidente cinese Xi Jinping («un compagno e amico sincero»), o del portavoce del regime vietnamita («camarada y hermano»)... Ma a volte la follia è più comprensibile (e perdonabile) dell'ipocrisia.

Il libro nero del castrismo: mezzo milione di perseguitati. Gulag, omicidi politici, violazioni dei diritti umani: ecco la vera rivoluzione di Fidel in cinquant'anni di dittatura, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 28/11/2016, su "Il Giornale". Gulag, omicidi politici, repressione e sistematiche violazioni dei diritti umani sono i capitoli del libro nero del comunismo cubano. Il mondo piange Fidel Castro, ma sembra dimenticare o mettere in secondo piano i lati oscuri di mezzo secolo di indiscusso potere. All'annuncio della scomparsa del lider maximo, Amnesty international ha denunciato senza peli sulla lingua «la repressione sistematica delle libertà fondamentali» operata a Cuba durante il lungo regime di Fidel. «Nonostante i successi sul piano sociale, i 49 anni di regno di Castro sono stati caratterizzati da una repressione brutale della libertà di espressione» scrive Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty per le Americhe. E la libertà d'espressione non è stato l'unico diritto violato a Cuba. Si stima che dalla vittoria della revolucion siano finiti in galera mezzo milione di cubani accusati a torto o ragione di non essere allineati con il regime marxista leninista. Su una popolazione di 11 milioni di abitanti la dittatura comunista dell'isola ribelle vanta uno dei più alti tassi di carcerazione politica del mondo. «Sono stato arrestato più di 50 volte nel 2015. La polizia mi ha rotto il naso e il timpano, ma dobbiamo mostrare la realtà di repressione in cui viviamo» aveva detto in marzo Antonio Rodiles uno dei leader dell'opposizione, alla vigilia della storica visita a Cuba del presidente americano Barack Obama.

Nel 1965, pochi anni dopo l'avvento al potere di Castro, si contavano 45mila prigionieri politici. Lo stesso Che Guevara, il suo compagno di lotte più famoso, ideò il gulag caraibico di Guanahacabibes. «Vi mandiamo coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi» affermava il leggendario Che in una riunione del Ministero dell'Industria nel 1962. Durante il regime castrista sono finiti nel mirino anche gli omosessuali bollati con disprezzo maricones (finocchi, froci) e considerati espressione dei «valori decadenti della società borghese». I prigionieri politici sono stati per decenni costretti ai lavori forzati. Fino al 2005, il Cuba archive Porject, dettagliato database della repressione a Cuba aveva registrato 9240 «morti politici». Almeno 5600 cubani non in linea sono stati giustiziati e le «esecuzioni extragiudiziali» documentate sarebbero circa 1.200. Il 20% della popolazione cubana vive all'estero e ben 78mila persone avrebbero perso la vita nel disperato tentativo di fuggire dal «paradiso» socialista dopo l'avvento della rivoluzione. Solo quattro anni fa è morto in un sospetto incidente stradale, Oswaldo Paya, uno dei leader delle proteste democratiche. I familiari hanno sempre accusato gli agenti del governo cubano di averlo seguito buttandolo fuori strada. Altri pilastri della dissidenza nell'isola ribelle sono Guillermo Farinas, arrestato più volte, che ha compiuto 23 scioperi della fame contro il regime e Oscar Biscet, prigioniero di coscienza condannato a 25 anni e liberato nel 2011. Negli ultimi tempi di distensione con il resto del mondo per mantenere in piedi il regime, l'Avana ha fatto rilasciare ad ogni visita di un Papa o del presidente Obama e altri dignitari centinaia di prigionieri. L'obiettivo era dimostrare che tutto è cambiato. In realtà nel 2015 la Commissione cubana per i diritti umani ha denunciato 8.616 casi di detenzione arbitraria e 2500 nei primi due mesi di quest'anno. Berta Soler, una delle fondatrici delle Damas de Blanco, che contestano coraggiosamente il sistema cubano ha dichiarato: «Veniamo repressi semplicemente per aver esercitato il nostro diritto alla libera espressione e per aver manifestato in modo non violento». Nel lungo regno di Fidel ci sono stati tanti casi emblematici. Uno dei più noti è quello del poeta Armando Valladares condannato a 30 anni e sottoposto a condizioni di detenzione inumane perché si rifiutava di sottoporsi alla «rieducazione» socialista. Non è un caso che ieri l'ultimo dittatore stalinista, Kim Jong-un, leader supremo della Corea del nord, abbia espresso profonda tristezza per la scomparsa di Fidel ricordandolo per il «contributo eccezionale» al socialismo.

Quell'enorme "dynasty" tropicale che difende soprattutto se stessa. L'"inner circle" di parenti sui quali non si è mai saputo molto, scrive Luciano Gulli, Lunedì 28/11/2016, su "Il Giornale". Quella dei Kennedy e dei Bush, al confronto, fa tenerezza. Dynasty per Dynasty, quella messa in piedi da Fidel Castro è talmente vasta, estesa e ramificata che perfino nelle ristrette riunioni di famiglia - l'inner circle da cui fotografi e operatori sono stati sempre tenuti alla larga - non ci si raccapezzava mai, tra i vari Fidelito, Alexis, Alexander, Alejandro; e se si stava parlando di figli, nipoti, cugini o figli dei cugini o dei nipoti. E pazienza per il lìder maximo, che dall'alto dei suoi 90 anni aveva diritto a un altrettanto alto livello di rincoglionimento. È che a perderci la testa, in quelle riunioni, nel tentar di capire chi era chi e di chi si stava parlando, erano anche i parenti di mezz'età e le ricche cugine che, nel tempo lasciatogli libero dal coiffeur, dall'estetista e dal badminton, tenevano in ordine il complicato albero genealogico. Sono sempre stati tanti, d'altronde, i Castro. Il padre di Fidel, Angel, era un ricco latifondista di Biràn, nel sud-est dell'isola, proprietario di una vasta piantagione di canna da zucchero. E oltre al prediletto Fidel, aveva messo al mondo altri 8 tra maschi e femmine. Da allora, cioè da quando i Castro brothers sono diventati grandi e si sono riprodotti, è stato difficile raccapezzarcisi. Al manicomiale albero genealogico molto ha contribuito lo stesso Fidel, cui si annettono, tra figli legittimi e naturali, ben 11 esemplari. Una dinastia che in queste ore appare disorientata, incerta sul proprio futuro personale e politico. Sarà naturalmente Raùl, l'erede al trono dei Castro, a traghettare il clan in un «dopo-Fidel» in cui bisognerà in tutti i modi evitare errori e stravaganze tipo pubblicazioni di memoriali. A Raùl il compito di tenere la barra al centro nella lunga navigazione in seno al Potere in cui i Castro, ammaestrati dal capoclan, hanno tenuto sempre un basso profilo, badando a tutelare l'eredità della Revoluciòn e della famiglia. La cerchia più ristretta è composta da sette elementi: la moglie di Fidel, Dalia Soto del Valle, i loro cinque figli e il figlio del primo matrimonio, Fidelito Castro Diaz-Balart. Lei, la matriarca, è sempre stata nell'ombra (fino al 1992 non era mai apparsa in pubblico) e lì resterà. Fidelito, il primogenito, si occuperà dell'amministrazione dei beni del clan. Dalia Soto Del Valle, anche lei nata in una famiglia della ricca borghesia terriera, è stata compagna di Fidel dal 1961. La prima moglie, Mirta Diaz-Balart, rimase accanto a Fidel dal 1948 al 1955. Fidelito, figlio della coppia, nacque nel 1949. Studiò fisica nucleare a Mosca con lo pseudonimo di Josè Raul Fernandez e fu a capo del programma nucleare cubano dal 1980 al 1992. Tra i figli naturali di Fidel un cenno meritano Ciro e Fito. Il primo, frutto di una relazione passeggera, è esperto di medicina sportiva. Fito, 46 anni, è direttore dell'Agenzia del Turismo. Nel ginepraio di nipoti, ecco Alejandro, da non confondere con l'omonimo cugino. Colonnello delle Forze di sicurezza, è il principale consigliere del padre Raùl. Tra le figure femminili spicca Mariela, esponente di punta dei gruppi pro gay dell'isola, deputata all'Assemblea nazionale; e Deborah, sposata all'ambizioso generale dell'Esercito rivoluzionario Lopez-Callejas. Sullo sfondo, dimenticata da tutti, resta la sorella di Fidel, Juanita. Lasciando Cuba nel giugno del 1964, in una conferenza stampa disse: «I miei fratelli Fidel e Raùl hanno trasformato Cuba in una enorme prigione circondata dall'acqua». La «pazza», la chiamano in famiglia.

Lucia Annunziata, pugno in faccia ai comunisti: "Chi era davvero Castro", scrive il 27 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. "Hasta la Victoria, Fidel. Peccato che non sia mai davvero stata raggiunta". Contrordine compagni: anche Lucia Annunziata ha mollato Fidel Castro. Il commiato al dittatore morto della direttrice dell'Huffington Post, giovinezza e maturità profondamente radicate nella sinistra italiana affascinata dal mito di Cuba e della Revoluciòn è tra i più violenti e feroci letti in queste ore di lutto ed elegie sulla stampa nostrana. "La Cuba di oggi, nata dalla rivoluzione, si può raccontare con una sola sigla: GAESA. Sta per Grupo de Administracion Empresarial SA, ed è la società che gestisce un gruppo di aziende che producono metà dei ricavi dello stato cubano, incluso il 40 per cento delle entrate del turismo e le importazioni. E chi possiede GAESA? - si chiede la Annunziata nel suo editoriale - Il generale Luis Alberto Rodriguez, che altri non è che il genero di Raul Castro, Comandante in Capo dell'esercito cubano, dal 2008 Presidente del Consiglio dei Ministri, ma soprattutto figura chiave che negli anni ha lavorato accanto a Fidel nei ruoli più delicati, intestandosi anche le decisioni più discutibili. Raul è oggi insomma il perno del potere dell'Isola Caraibica". Addio romanticismi e celebrazioni, è tempo di dire pane al pane: "La cruda verità, che la sua morte ci aiuterà nei prossimi anni a mettere a fuoco, è che la rivoluzione cubana ha seguito nel suo destino quello di ogni altro stato comunista del secolo scorso - diventando a tutti gli effetti un regime oligarchico, a base ideologica, fondato sull'intreccio fra appartenenza politica e denaro, controllato dai militari e composto da un pugno di famiglie di cui la prima famiglia innanzitutto. Come la Russia, come la Cina, come tutti I paesi del blocco socialista, prima del muro, ma anche dopo il muro". E tanti saluti alle illusioni sbandierate da più parti (Fausto Bertinotti ed ex/post comunisti in testa) di uguaglianza e lotta ai privilegi.

CI POSSIAMO FIDARE DEI FRATELLI CASTRO? I CUBANI DICONO NO. Che cosa sta veramente accadendo a Cuba? Le cose sono cambiate dopo gli accordi con Obama e l'annunciata visita di Papa Francesco? Lo abbiamo chiesto a Carlos Enrique Carralero Almaguer, noto dissidente cubano, dal 1995 esule in Italia e residente a Milano. Carralero è autore di molti volumi tra cui la celebre trilogia «Saturno», un'allegoria della dittatura castrista. Il suo ultimo libro è «Fidel Castro – L'abbraccio letale» (Greco & Greco Editori, 2013). Intervista a Carlos Carralero.

Potrebbe fornirci qualche elemento sul suo background politico?

«Io mi proclamo cristiano. Sono stato membro di alcune associazioni di opposizione al regime comunista. Concretamente, ho collaborato con CID (Cuba Independiente y Democrática), l'organizzazione fondata da Huber Matos nell'esilio. Facevamo un'azione di propaganda ideologica pacifica, evidentemente clandestina. Se fossi stato preso, mi aspettavano almeno vent'anni di carcere duro. Nel 1990 sono stato cacciato via dal lavoro. Sono stato allora avvicinato da Oswaldo Payá, coordinatore nazionale del Movimiento Cristiano de Liberación, col quale ho collaborato per alcuni mesi. Nel 1993 ho raccolto 72 firme nel mio quartiere in sostegno a un plebiscito per restaurare la democrazia in Cuba. L'articolo 88 della Costituzione contiene un comma secondo il quale, con 10mila firme, i cubani possono chiedere all'Assamblea Nacional (Parlamento) di convocare un plebiscito. Evidentemente il regime non ne ha mai tenuto conto. Le mie firme, quindi, non sono servite a niente. Espulso da Cuba nel 1995, sono approdato in Italia. Qui, nel 2003, ho fondato l'Unione per le libertà a Cuba, per cercare di aiutare i miei connazionali perseguitati e, nello stesso tempo, aprire gli occhi agli italiani sulla reale situazione nell'isola-prigione. A questo scopo organizziamo conferenze, pubblichiamo libri, interveniamo in programmi radio e TV e via dicendo. In collaborazione col giornalista Aldo Forbice, questa associazione ha raccolto 100mila firme in favore dei prigionieri politici e della democrazia a Cuba. Bisogna registrare che, prima, in Italia c'era il Comité italiano por los derechos humanos en Cuba, fondato da Laura González, scomparsa nel 2005».

Una "scheda" di tutto rispetto. In Europa in generale, e in Italia in particolare, conosciamo la situazione di Cuba soltanto attraverso la lente deformante dei mass media. Che cosa è, in realtà, il regime dei fratelli Castro? Che cosa ha significato per Cuba?

«Rispondo con qualche ricordo di famiglia. Io sono il più giovane di una famiglia che, nel suo piccolo, fece la Rivoluzione. Mio padre, quattro zii di parte paterna, uno zio di parte materna e un cugino formavano un nucleo di opposizione alla dittatura di Batista. La mia casa era praticamente un accampamento ribelle. Tra noi alcuni raggiunsero Fidel Castro alla Sierra Maestra, ma non combatterono mai né incontrarono personalmente Castro, sempre protetto dalle sue guardie del corpo. Tornando in pianura, sul finire del 1959, poche settimane prima del trionfo della Revolución, ricevettero la notizia che i due membri della famiglia rimasti a casa, mio padre e mio cugino, erano stati uccisi dai corpi paramilitari. Io ero ancora piccolo, ma il fatto mi sconvolse molto. I miei zii, invece, sono morti nella povertà. Essendo nato in una famiglia rivoluzionaria, io sono entrato a far parte del sistema. Col tempo, però, ho acquisito la coscienza che il regime castrista non era, nemmeno da lontano, l'ideale per il quale avevamo lottato e che tanti cubani avevano sognato. Oggi, quasi tutti questi rivoluzionari della prima ora, compresi i miei parenti, sono morti, uccisi dallo stesso regime che avevano aiutato a instaurare. Fidel Castro aveva ripetutamente giurato di non essere comunista e di voler restaurare la democrazia in Cuba. Balle che egli raccontò fino ai primi mesi del 1961. Diceva che non era una "rivoluzione rossa" ma "verde come le palme". La Palma Real, alta ed elegante, è l'albero nazionale di Cuba. Dopo il 1961, egli tradì questi begli ideali, trasformando la rivoluzione verde in rossa. Fu la cosiddetta svolta comunista, in cui Castro si mise nelle mani di chi lo poteva proteggere, ossia l'Unione Sovietica. Più di uno all'epoca, tra cui Rafael Díaz-Balart, fratello della prima moglie di Castro, aveva profetizzato che egli avrebbe scelto il "rosso"».

Cuba allora era un paese piuttosto ricco. La rivoluzione non è stata fatta col pretesto di combattere la povertà?

«Cuba era uno dei paesi più sviluppati dell'America Latina, classificata allora come potenza emergente, o "paese in fase di decollo economico", secondo la classifica del celebre economista Whitman Rostov. Aveva la più bassa mortalità infantile del continente e uno dei più alti indici di scolarità. L'economia era fiorente. Il peso cubano era una delle valute più solide del mondo. Alla vigilia della rivoluzione, c'erano più investimenti cubani negli Stati Uniti, che investimenti americani a Cuba. Avevamo un'industria di zucchero molto fiorente, e più di un capo di bestiame per abitante. Castro ha distrutto tutto ciò, gettando la mia patria in una miseria quale non si era mai vista. A Cuba, oggi, ci sono medici, tecnici e ingegneri. Si potrebbe, dunque, dire che esiste una buona educazione. Il nostro popolo, però, ha perso la sapienza. La sapienza unifica. Il popolo cubano oggi è diviso, le manca assolutamente una bussola spirituale. Perché un popolo che perde la Fede è un popolo smarrito spiritualmente. Perfino la tanto biasimata dittatura di Batista non era poi tanto cattiva. Egli era un dittatore nello stile classico degli "uomini forti" latinoamericani. Niente a che fare con figure come Hitler o Stalin, o anche Castro. Batista permetteva l'esistenza di partiti politici di opposizione e non infieriva contro la stampa contraria al suo governo. La Costituzione varata nel suo primo governo, nel 1940, era considerata da molti una delle più avanzate del mondo. Batista indurì il regime solo quando il movimento 26 de Julio, capeggiato da Fidel Castro, cominciò a piantare bombe nelle città. Una notte, per esempio, scoppiarono quasi cento bombe all'Avana. Questo era terrorismo. Non difendo quel regime, anche perché Batista era circondato da militari senza scrupoli. Ma se proprio di mancanza di scrupoli dobbiamo parlare, allora il primato va senza dubbio a Fidel Castro e a i suoi seguaci. Poi, nessuna dittatura nella storia dell'America Latina è durata cinquantasei anni».

Com'è il controllo del regime sulla popolazione?

«A Cuba ci sono due forme di repressione. Una diretta e un'altra indiretta. La repressione diretta è rivolta ai "dissidenti", che in realtà vuole dire chiunque non la pensi come il regime comunista. Minacce, ricatti, arresti e via dicendo, completati dai famosi processi stalinisti, in cui i "dissidenti" vengono condannati senza pietà. L'accusa più comune è "propaganda nemica", reato che non è definito da nessuna parte, ma che vuol dire semplicemente avere idee diverse da quelle del regime. Per esempio, io ho visto persone condannate per aver detto che Fidel Castro sbagliava tale o tale politica. Oppure, accusare qualsiasi membro del regime, perfino i più modesti, costituisce "propaganda nemica". Castro abolì la Costituzione del 1940 e promulgò una Ley Fundamental, di carattere prettamente comunista, vigente fino al 1975, quando fu sostituita da una nuova Costituzione, anch'essa comunista. Bisogna, però, dire che i primi a violarla furono gli uomini del regime. Per esempio, l'articolo 53 garantisce la libertà di riunione. Ma provi Lei a riunirsi senza l'autorizzazione del regime! La repressione indiretta è rivolta a tutta la popolazione. A partire dai cinque anni i bambini devono frequentare la scuola statale, dove sono vittime di un vero lavaggio del cervello. La giornata scolastica comincia col grido "¡Por el comunismo!", al quale i bambini rispondono in coro "¡Seremos como el Ché!". Se un bambino non aderisce all'ideologia ufficiale, convocano i genitori e li minacciano di escluderlo dal sistema scolastico. Si stabilisce, in questo modo, un sistema di terrore che appiattisce le coscienze e terrorizza i cittadini. La tanto decantata educazione cubana non è che un'immensa operazione di lavaggio di cervello. Questo controllo continua poi durante tutta la vita. Per esempio, se un medico vuole promuoversi professionalmente, deve superare l'esame di idoneità ideologica sostenuto presso un Comitato del regime. Se devi traslocare in un'altra città, hai bisogno di un certificato del regime. Poi esiste il controllo del sistema sanitario nazionale, che accompagna ogni cittadino, non solo nelle sue vicende di salute, ma anche nelle sue scelte politiche. In questo modo, la tua vita è sempre condizionata dalla tua integrazione politica. Il controllo diventa capillare attraverso i Comités de Defensa de la Revolución (CDR), una sorta di soviet di quartiere, che controllano ogni cittadino anche nella sua vita privata».

Questo è cambiato negli ultimi anni?

«La situazione dei diritti dei cittadini non è cambiata in assoluto. Ogni volta che si leggono cose su Cuba, anche sui social network, si vedono persone perseguitate per le loro idee. A Cuba non esiste una sola organizzazione di opposizione che sia legale. Sono tutte illegali. Perfino il Movimento Cristiano de Liberación, nonostante il suo fondatore Oswaldo Payá fosse un fisico di prestigio, perfino candidato al Nobel per la pace, è stato perseguitato. Payá era vicino mio all'Avana, e mi ricordo quando hanno vandalizzato la sua casa, per spaventarlo, senza che la Polizia intervenisse».

Quali effetti avrà l'accordo recentemente firmato tra Obama e Cuba, con la mediazione di Papa Francesco?

«Non mi atteggerò a profeta. Potrebbe succedere ciò che è successo in Romania, cioè che vi sia un inizio di vera contestazione che cresca fino a rovesciare il regime. Ma è una probabilità molto ridotta. Il popolo cubano è diventato inerte. È affetto da ciò che gli psicologi chiamano "Sindrome d'indifendibilità appresa". È un riflesso condizionato, come quello di Pavlov, per il quale dopo anni di sottomissione a un giogo, la persona non reagisce più. Le persone afflitte da questa sindrome soffrono una sorta di paralisi psicologica che gli toglie la capacità di reagire di fronte a ingiustizie, umiliazioni e via dicendo. Questo è tipico dei regimi comunisti, e il popolo cubano si è abituato. Tutti dicono "Esto no hay quien lo tumbe" (questo non lo rovescia nessuno). È un atteggiamento arrendevole. Bisogna riconoscere che il regime castrista è riuscito, crudelmente, a sviluppare nell'anima cubana questa sindrome. Se soltanto un 5% dei cittadini si fosse ribellato seriamente, credo che la storia sarebbe stata molto diversa. Forte di questo fatto, il regime comunista cubano, in sostanza, non ha alcuna intenzione di cambiare. Detto ciò, credo che si potrà camminare verso una sorta di capitalismo di Stato alla cinese. È una cosa che io stesso ripeto ormai da anni».

Ma, se il regime castrista ha un tale controllo sulle istituzioni, e anche sulla mente dei cittadini, che bisogno ha di firmare tali accordi? Perché cerca il riconoscimento da parte del suo ex arci-nemico, gli Stati Uniti?

«Raul Castro non è un dittatore nato, come suo fratello. Egli lo è diventato. Raul non è un dilettante, un improvvisatore: è militare, ha una mente organizzatrice. Per esempio, è lui a gestire l'immensa fortuna dei Castro. Non è un ideologo, bensì un pragmatico».

Che cosa cerca Raul con questa manovra?

«La manovra ha due scopi. Anzitutto, immagine. E devo dire che ci è riuscito. Come ripetendo uno slogan, molti dicono: "todo está cambiando" (qui sta cambiando tutto). Questo slogan è poi amplificato dai mezzi di comunicazione, a livello mondiale. Con l'immagine viene anche il riconoscimento ufficiale. Obama ha legittimato il regime comunista, come adesso sembra voler fare anche Papa Francesco. Bisogna, però, dire che non vi è stata nessuna apertura politica. Un esempio personale: da anni io ho la cittadinanza italiana. Il Consolato cubano si rifiuta di lasciarmi entrare nel Paese col passaporto italiano, che è l'unico che possiedo. D'altronde, io avrei paura di tornarci. Se riuscissi a mettere piede a Cuba, avrei subito sulle mie spalle cento poliziotti dei servizi che mi piantonerebbero giorno e notte. Potrebbero, per esempio, creare un incidente stradale. Che libertà è questa? Ancor oggi, manifestare un'opinione politica diversa da quella del regime è la via più sicura per il carcere. Il secondo scopo della manovra di Castro è economico. In conseguenza della manovra, il regime sta ricevendo molti più soldi. Con la liberazione delle transazioni bancarie, dagli Stati Uniti stanno arrivando palate di soldi, inviate dai residenti cubani. Il numero di turisti sta aumentando esponenzialmente. Ogni aereo che arriva dagli Stati Uniti implica fior di quattrini iniettati nella fragile economia dell'isola. Per esempio, solo la mancia lasciata da un turista gringo può significare metà dello stipendio mensile di un cubano. Il famigerato embargo non fu mai effettivo. Non vi fu mai un blocco a Cuba. In realtà era un colabrodo. Ma è evidente che adesso ci sarà più facilità per commerciare con l'isola. È un mistero, ma Castro ha sempre avuto l'appoggio del mondo. Il regime comunista di Fidel Castro è la dittatura più aiutata di tutti i tempi. Dall'URSS Cuba ricevette tanti soldi, in sostanza quasi quanti col famoso Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa. Un debito che non pagherà mai. Crollata la Cortina di ferro, i Paesi occidentali hanno gareggiato negli aiuti al dittatore. Solo dal Venezuela, per esempio, arrivano gratuitamente a Cuba ogni giorno centomila barili di petrolio».

Un'ultima domanda. Fra tutti, forse, l'appoggio più importante, a livello morale, è stato quello di non pochi rappresentanti della Chiesa?

«In concreto, non credo che ci sia stato un sostenitore più utile e tenace del comunismo cubano dell'arcivescovo de l'Avana, cardinale Jaime Ortega. Ricordo che, dopo la morte di Zapata nel 2010, proprio Ortega bloccò le manifestazioni delle Damas de Blanco contro il regime. Egli convocò le Damas in Curia per dire loro che non potevano manifestare in pubblico. Poco tempo dopo, la leader delle Damas, Laura Pollán, morì in circostanze misteriose. Nemmeno una volta Ortega ha protestato contro i maltrattamenti che queste donne, alcune anziane, ricevono continuamente da parte degli sbirri di Castro. L'appoggio di Ortega è tanto più sconvolgente in quanto, ancora semplice sacerdote, egli patì il campo di concentramento. Ortega, però, è solo la punta dell'iceberg dell'appoggio cattolico al regime comunista. C'è tutta una corrente allineata alla cosiddetta teologia della liberazione, che appoggia il comunismo. Non a caso sono venuti a Cuba i fratelli Boff e il domenicano fra Betto. Sì, purtroppo c'è stato molto appoggio cattolico a Castro. Anzi, i casi di sacerdoti oppositori si contano sulle dita della mano». (Rivista Tradizione, Famiglia, Proprietà - Ottobre 2015)

Fidel, la Storia ti assolverà? Forse...scrive Lanfranco Caminiti il 14 ago 2016 su “Il Dubbio”. A Cuba il lider maximo ha compiuto 90 anni. In più di mezzo secolo di potere ha sfidato undici presidenti americani, governando la sua isola tra conquiste sociali e la paranoia politica tipica dei regimi autoritari. «La historia necesita tiempo / La storia ha bisogno di tempo», ha sussurrato Paco Ignacio Taibo II per rispondere a una domanda sulla rivoluzione cubana. E quanta prudenza e quanta consapevolezza e quanta tenerezza c'è in queste parole - «amoroso y critico», ha definito il proprio sentimento verso Cuba il grande scrittore di lingua spagnola, che di rivoluzionari e rivoluzioni ha impastato le sue storie. Solo che il tempo sembra esserselo preso tutto lui, Fidel, che compie novant'anni. E non sembra abbia intenzione di smettere, benché in Florida gli emigré cubani continuino a accendere ceri a Nuestra Señora de la Caridad pregando che arrivi presto the biological solution. In più di cinquant'anni di potere ha sfidato undici presidenti Usa, da Eisenhower a Obama. Su questo tempo, dalla metà del secolo scorso, l'avvocato Castro, nato il 13 agosto 1926 a Biràn, provincia di Holguìn, parte meridionale di Cuba, ha giganteggiato. Dall'alto del suo metro e novanta. «La historia me absolverá»  concluse così la propria arringa difensiva, vero atto d'accusa contro il golpe del 10 marzo 1952 e la dittatura a Cuba il giovane Fidel, citando Tommaso d'Aquino, John Locke e Martin Lutero, non certo Marx o Lenin, dopo il disastroso attacco alla caserma Moncada il 26 luglio 1953 in cui morirono ottanta uomini, armati per lo più di fucili da caccia, dopo di che erano fuggiti sulla Sierra e erano stati poi catturati, e che pure divenne l'atto fondativo della rivoluzione cubana. Raccontò al processo: «Abel Santamaria con ventuno uomini aveva occupato l'Ospedale Civile; con lui c'erano un medico e due nostre compagne per accudire i feriti. Raul Castro, con dieci uomini, occupò il Palazzo di Giustizia; e a me toccò attaccare l'accampamento con il resto, novantacinque uomini. Arrivai con un primo gruppo di quarantacinque, preceduto da un'avanguardia di otto... ». Ah, come invidio gli scrittori sudamericani - è già tutto magicamente raccontato dalle cose, che ci vuole a metterle assieme. La storia lo assolverà? Non fosse per quella tuta sportiva della Adidas, che ormai indossa da anni, Fidel sembrerebbe oggi una mummia sovietica, una di quelle che si trovavano sul palco della Piazza rossa a Mosca a veder sfilare missili e carri armati, e che salutavano con la mano o con gesto militare, e poi si abbracciavano e si baciavano congratulandosi l'uno con l'altro per la potenza sfoggiata del comunismo. Ma, come dice l'Ecclesiaste, c'è un tempo per la divisa e un tempo per la tuta, un tempo per la guerriglia e un tempo per la pensione. E Fidel l'ha capito. Lui che comunista lo è stato, lo è per la verità aveva cominciato militando nel Partito ortodosso cubano, un miscuglio di riformismo e nazionalismo, ma cubano. I comunisti cubani sono una razza strana: quando lo arrestano in Messico nel 1956 nel campo di Santa Rosa, insieme al Che e altri compagni che si andavano preparando per lo sbarco a Cuba, Batista, il dittatore cubano, ne vuole l'estradizione, perché teme "un complotto comunista". Fidel scriverà allora una lunga lettera al settimanale Bohemia, per spiegare perché lui non sarà mai comunista, ricordando che era stato proprio Batista, nel 1940, il candidato ufficiale del Partito comunista cubano, e che in quel momento al governo ci sono ministri comunisti. Il fatto è che una razza strana erano i comunisti sudamericani: rigidi come soldatini di piombo, obbedienti a Mosca perinde ac cadaver, guarderanno sempre con malcelato fastidio alla rivoluzione cubana, quando non con ostilità. E Fidel poi si rimangerà tutto. E che poteva fare se il mondo era diviso a metà e o stavi di qua o stavi di là, e se quelli con la bandiera a stelle e strisce, gli americani, ti organizzano con la peggiore feccia della terra lo sbarco alla Baia dei Porci per rovesciarti e provano mille modi per farti fuori, allora non ti restano che quelli con la bandiera rossa, i russi, per sopravvivere? Canna da zucchero in cambio di petrolio. Diventerà una condanna la monocultura sarà sempre la tragedia di ogni tentativo di riscatto sudamericano, anche quando assumerà il colore nero del petrolio come in Venezuela. L'avvocato Castro e il dottore Guevara ne erano consapevoli e immaginavano tutta una fioritura di imprese e attività. Ma come fai se tutto intorno hai l'embargo e l'unica cosa che vogliono i russi i tuoi alleati, figli di puttana, ma sono gli unici alleati che hai è la canna da zucchero? Così, comunista, Fidel, c'è diventato per conseguenza. Per via della canna da zucchero, si potrebbe dire. Rossana Rossanda non l'aveva capito: quando andò a Cuba con il suo compagno Karol gli spiegava, a lui, a Fidel, tutto il quadro internazionale del comunismo, e gli ortodossi, e gli eretici, e gli stalinisti e i trotskisti, e lui, il Fidel, le chiese: «Chi è Trotsky?». Ah, la lunga coda degli intellettuali europei per incontrarlo, sembrava di stare non al Malecon ma sulla Rive Gauche. Altro che il Subcomandante Marcos: con tutto il rispetto per il Sup, se lo sognava quel fior fiore di intellettuali europei che volteggiavano intorno a Fidel. Avevano cominciato Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, febbraio 1960 - tristi, tristissimi orfani del comunismo russo virato nell'orrore dello stalinismo e che ora finalmente avevano trovato il rivoluzionario capace di tenere testa all'imperialismo americano. Sartre scrisse: «È la luna di miele della Rivoluzione». La storia lo assolverà? La luna di miele è finita da un pezzo. «Cuba me duele», ha scritto il grande Eduardo Galeano. Il regime per un lungo periodo è diventato paranoico, vedeva nemici ovunque e l'unica risposta che trovava era stringere ancora di più diritti e libertà e sbattere in prigione qualunque voce di dissenso e di opposizione, come fossero tutti mafiosi della Florida prezzolati per rovesciare Castro. Ma qualcuno può pensare che cinquantasei anni di embargo, invasioni mercenarie, attacchi terroristi e trame d'ogni tipo possono aver dato qualche ragione alla leadership cubana per diventare paranoica. Assediata per cinquantasei anni dall'ingombrante vicino del nord, Cuba ha comunque raggiunto nel campo della scuola e della sanità standard da primo mondo pur stando nel terzo mondo. La mortalità infantile e l'alfabetizzazione hanno tassi identici a quelli americani, e il numero di alunni per classe è un terzo di quelli della Gran Bretagna, mentre, per dire, a Haiti, supportata per anni dagli Stati uniti, l'analfabetismo e la mortalità infantile registrano tassi dieci volte più alti. Cuba ha sviluppato un sistema sanitario, una ricerca biotecnologica e farmaceutica, considerata dagli stessi americani ai primi livelli dell'America latina. Fino a non molto tempo fa, cinquantamila medici cubani lavoravano gratuitamente in novantatré paesi del mondo e ogni anno circa mille studenti del terzo mondo ricevevano una gratuita formazione universitaria. Qualcuno può credere che questi numeri migliorerebbero se l'isola tornasse nelle mani dell'opposizione sostenuta dai nostalgici di Miami, dagli eredi e parenti delle aziende agricole, delle fabbriche e dei bordelli che Castro e il Che e Camilo Cienfuegos (ah, che nomi, i rivoluzionari sudamericani, sembrano storie inventate da Hugo Pratt) e i loro compagni espropriarono, che dalla Florida hanno tramato per anni per potersi riprendere le loro cose? «A todos nos llega nuestro turno / Per tutti arriva il proprio turno» aveva detto così il Comandante il 13 aprile scorso, durante il VII Congresso del Partito comunista cubano. «Por inexorable ley de la vida - aveva aggiunto il fratello Raul - el último Congreso dirigido por la generación histórica». Il settanta percento dei cubani è nato sotto il segno di Fidel. Magari, California dreaming, chissà. E questa è l'inesorabile legge della vita. Non li fanno più di quello stampo. Comunque la si voglia considerare, questa è una cosa che mette tanta tristezza.

Fidel Castro di Maurizio Stefanini del 16 Settembre 2009. Dal Foglio del 11 febbraio 1997. Fidel Alejandro Castro Ruz nasce il 13 agosto 1926, nel piccolo villaggio di Biran. La regione è l’Oriente cubano, la zona arretrata e turbolenta da cui nel 1868 è partita la prima grande insurrezione contro la dominazione spagnola. E Angel Castro y Argiz, suo padre, è appunto un soldato spagnolo, che arriva nell’isola nel 1895 con l’esercito incaricato di domare l’ennesima rivolta. Ma nel 1898 intervengono nel gioco gli Stati Uniti, che cacciano le forze di Madrid, e regalano all’isola l’indipendenza. Sotto la loro pesante e poco gradita tutela. Angel, congedato senza il proverbiale becco di un quattrino, si ingegna a vendere limonate, fa fortuna, e al prezzo di un lavoro indefesso si trasforma in un agiato proprietario terriero. Il gran profeta della “seconda indipendenza” e della “rivoluzione agraria” in America Latina è dunque il rampollo di uno sbirro del colonialismo divenuto latifondista. Fidel se ne vergogna, e ai biografi che cercano di ricostruire i suoi anni giovanili parla piuttosto della madre: Lina Ruz Gonzalez, “una cubana da lunga data e di umilissima origine”. Tanto umile che cresce analfabeta, imparerà a leggere e scrivere solo da grande. Di venticinque anni più giovane di Don Angel, arriva nella fattoria di lui dalla natia regione occidentale come cameriera e cuoca. Ben presto i rapporti tra padrone e serva evolvono a un punto tale che Donna María Argota, la maestra che oltre a essere la legittima consorte di Don Angel è anche la madre dei suoi due figli, se ne va di casa. Angela, Ramón e Fidel nascono dunque fuori del matrimonio. E le nozze religiose che regolarizzano la posizione dei quattro figli successivi sono celebrate dopo la morte, più presunta che accertata, di Donna María. Qualche biografo ha cercato in questa irregolarità anagrafica la ragione per cui Fidel viene battezzato solo a sei anni. Ma i figli illegittimi, in una società permissiva come quella cubana, non hanno mai fatto scandalo. E sembra che la ragione vera del ritardo sia da ricercare nella difficoltà di mettere insieme nello stesso momento e nello stesso posto l’unico prete della regione con l’indaffaratissimo don Fidel Pino Santos, il facoltoso latifondista (e creditore) che suo padre ha scelto come padrino. Tanto è vero che, alla fine, al battesimo lo porterà un altro. Anche se il nome del padrino designato, Fidel, ormai già dato al bimbo, rimane. Fin da piccolo Fidel manifesta in tutti i modi la propria antipatia per il padre. A nove anni minaccia di dare fuoco alla casa. Da adolescente cerca di convincere i contadini a scioperare contro Don Angel per ottenere aumenti di salario. E quando inizia la rivoluzione, anche se suo padre è ormai morto, non manca di prendersi una vendetta simbolica mandando i suoi guajiros a incendiare la piantagione di zucchero della famiglia, “per dare un esempio ai latifondisti rapaci ed egoisti”. Eppure, Don Angel influenza il figlio molto più di quanto Fidel non abbia mai voluto ammettere. E’ dal vecchio combattente della guerra del 1898 che il futuro líder máximo impara l’odio per gli americanos, come il vecchio Don Angel chiama gli statunitensi, secondo l’uso spagnolo e a differenza dei veri cubani che, come tutti i latino- americani, preferiscono parlare invece di norteamericanos. Un’antica antipatia di gioventù che nel padre di Castro ormai anziano è riattizzata da alcuni litigi di confine con proprietà appartenenti a gringos. E’ sempre dal vecchio patriarca imperioso che Fidel eredita il proprio innato autoritarismo. Osserviamolo con attenzione, Don Angel, che si alza la mattina prima di tutti, si fa radere a zero il cranio con un rasoio, si mette in testa il cappello a larghe tese da cui si separa solo per andare a dormire, e inizia ad andare in giro per la tenuta impicciandosi di tutto, e impartendo in continuazione ordini che non si aspettano di essere contraddetti. Don Angel è a suo modo un brav’uomo, attento al benessere di familiari e dipendenti, che colma di regali e attenzioni. Ed è felice, la sera, se può trascorrerla a giocare con loro a domino. Ma se inizia a perdere, bara. E se qualcuno trova da ridire il vecchio guerriero, gridando come un ossesso, dà un pugno sul tavolo e manda le pedine all’aria. Sostituiamo al cappello la tenuta verdeoliva, e al cranio pelato la barba intonsa dai tempi ormai mitici della Sierra Maestra. Allarghiamo le dimensioni della tenuta all’intera Cuba. Pensiamo, al posto dei regalini che Don Angel distribuiva ogni fine anno, a quell’assistenza sanitaria e a quell’istruzione pubblica di cui il líder máximo va oggi tanto orgoglioso; immaginiamo, al posto del figlio che osa vincere al domino, un cittadino che si permette di chiedere libere elezioni, e mettiamo anche una condanna a trent’anni di carcere o a morte, invece dello schiaffo in faccia o del pugno sul tavolo. Vedremo che Fidel, se odiava il padre, era perché gli somigliava troppo. E che due despoti di tal fatta, nella stessa famiglia, erano troppi per poter convivere. “Sono stato in due diverse scuole religiose e sempre da interno, giacché i miei vivevano in campagna”, ha ricordato Fidel Castro nella famosa intervista a Gianni Minà. “Fino alla quinta elementare ero stato in un collegio dei fratelli dell’ordine di Giovanni Battista de la Salle e anche lì avevo avuto qualche problema a causa del mio carattere”. Più precisamente, come ricorda qualche biografo meno compiacente dell’italiano, aveva picchiato un compagno, aveva tirato un pezzo di pane in testa a un prete, era noto per il suo hobby di “operare d’appendicite” le lucertole con un temperino, e alla fine i padri avevano pregato Don Angel di levare dalla scuola i fratelli Ramón, Fidel e Raúl perché “non studiano, e sono gli alunni più prepotenti che abbiamo mai avuto”. “Così sono finito dai gesuiti del liceo Dolores di Santiago di Cuba”, continua Fidel. “Quando stavo per iniziare il primo anno di liceo io stesso, dopo aver letto gli opuscoli illustrativi, proposi in famiglia il mio trasferimento al liceo di Belén dell’Avana”. Minà, purtroppo, non ha approfittato della storica intervista per chiedere al líder máximo se davvero, come raccontano i biografi meno compiacenti già menzionati, argomento decisivo per convincere il riluttante Don Angel sia stata la minaccia di dare fuoco alla casa. E’ il severo metodo dei gesuiti, ad ogni modo, che riesce finalmente a trarre dal piccolo teppista, se non proprio un alunno modello, certo un allievo di quelli che lasciano una traccia nella storia di una scuola. Si distingue come atleta e organizzatore di eventi sportivi: una passione che non lo abbandonerà più, e da statista lo porterà a sacrificare risorse preziose pur di fare del proprio paese una delle prime potenze sportive del mondo. Anche se, nello stile che ha appreso dal padre, quando perde, ha l’abitudine di abbandonare la competizione a metà, o di cercare comunque di mandare tutto a carte quarantotto. A Belén, dove si organizzano gare di oratoria, Fidel inizia anche a coltivare l’altra sua grande passione, quella per i discorsi. “La sua devozione nei confronti della parola è quasi magica”, ha scritto di lui il suo amico Gabriel García Márquez. “All’inizio della Rivoluzione, solo una settimana dopo il suo ingresso trionfale all’Avana, parlò incessantemente alla televisione per sette ore”. Il suo stile è talmente ipnotico che, per dirla sempre con lo scrittore colombiano, “la gente lo ascolta con un orecchio alle proprie cose e l’altro al discorso”. Eppure, questa radio umana ha “una voce afona che a volte sembra sfiatata”. Come Mussolini, che a detta di Salvemini “inventò il fascismo ma non riuscì mai a pronunciarlo correttamente”, ha un pesante accento dialettale, e come tutti i ca- raibici nei momenti di eccitazione si mangia le consonanti intervocaliche. Altro problema che affligge Fidel Castro, anche se può sembrare incredibile, è la sua innaturale timidezza, che d’altronde lui stesso ha più volte candidamente confessato. José Ignácio Rasco, che dopo essere stato suo compagno di studi è ora un leader dell’opposizione in esilio, racconta di aver ospitato in casa sua Fidel per una settimana, quando il futuro líder máximo preparò il suo primo discorso pubblico. Secondo l’insegnamento di Demostene, il balbuziente gran capofila di tutta la scuola dei grandi oratori loro malgrado, anche Fidel aveva passato tutto questo tempo a scrivere e riscrivere il testo, prima di provarlo davanti a uno specchio. Ma, come ricorda il suo biografo Tad Szulc, “l’incertezza che sempre si avverte all’inizio dei suoi discorsi non dura che un momento. Quando viene catturato dal fascino dell’argomento, la timidezza svanisce per tutte le lunghe ore che rimane davanti a microfoni e telecamere”. “Fidel ha legno, non mancherà l’artista che lo scolpisca”, scrivono i gesuiti nel giudizio di fine corso. E Fidel ricorda la loro come “una buona educazione”: “Imponevano la disciplina e il loro insegnamento scientifico era di alta qualità”. Le uniche riserve, oggi, sono ideologiche. “Quei gesuiti erano spagnoli e le loro idee non erano molto progressiste, erano idee nazionaliste, di destra e anticomuniste. Le loro simpatie erano orientate verso il franchismo e non potevano in nessun modo essere considerati progressisti”. A uno dei massimi esponenti della teologia della liberazione, il brasiliano Frei Betto, Fidel ha spiegato che alla politica, in quell’epoca, “non badava molto”. Ma altri biografi ce lo descrivono invece come molto più influenzato dai suoi insegnanti gesuiti di quanto ora non voglia ammettere. “Tra gli alunni interni del collegio Belén il giovane Fidel era l’unico a parteggiare per l’Asse”, ha scritto, ad esempio, Carlos Alberto Montaner. Alberto de Castro, il giovane e brillante professore di storia e sociologia di Belén, sarebbe stato il primo a dare un contenuto ideologico al confuso antiamericanismo che il suo quasi omonimo aveva ereditato dal padre. Il primo anche a spiegargli il valore della hispanidad: la superiorità intellettuale e morale del pensiero iberico e cattolico, che gli anglosassoni starebbero cercando di distruggere imponendo il loro decadente materialismo ai popoli ispanici. Negli anni Quaranta, d’altronde, sono molti i nazionalisti latino- americani che teorizzano un’alleanza anti-Usa con il fascismo europeo. Primo fra tutti, l’argentino Juan Domingo Perón. E’ la sconfitta dell’Asse a spingere molti di loro a sinistra, e a far nascere l’idea di una nuova alleanza anti-Usa con l’Unione Sovietica. Ed è la fine dell’Urss, oggi, a suggerire a un vecchio maneggione come Fidel l’idea di manovrare per cercare di mettere l’Europa contro Washington. Le apparenti giravolte del dittatore cubano, così, rivelano una coerenza di fondo. In cui il falangismo della gioventù, l’antibatistismo pragmatico e moralista degli anni Cinquanta, la svolta comunista del 1960, l’apertura economica di oggi diventano per Fidel mere scelte tattiche e contingenti. Al servizio di una strategia e di un’ossessione, l’antiamericanismo, questa sì ben altrimenti coerente e radicata in lui sin dagli insegnamenti e dall’esempio dell’odiato padre, Don Angel, il soldato spagnolo che odiava i gringos e che batteva i pugni sul tavolo quando perdeva a domino.    Il giovane Fidel Castro si iscrive alla facoltà di legge nel 1945. L’Università dell’Avana è un Far West, dove la pistolettata è considerata un mezzo altrettanto legittimo del voto per farsi valere. Il futuro líder máximo si segnala su entrambi i fronti: è eletto delegato del primo anno del corso di legge, ed è accusato di duplice omicidio. “Ero il Don Chisciotte dell’università, principale bersaglio di randellate e sparatorie”, ricorda ora con la nostalgia dell’uomo anziano. Ma sin da allora la ribalta nazionale non gli basta. Nel 1947 si arruola in una spedizione per rovesciare il dittatore di Santo Domingo Rafael Leónidas Trujillo. Nel 1948, mentre è a Bogotá per un congresso studentesco, si unisce alla sommossa che i liberali colombiani scatenano quando il loro leader carismatico Jorge Eliecer Gaitán è assassinato da un conservatore. Quando sente i primi spari, si butta per strada, raccatta un fucile e una sciabola, si mette un cappello e una giacca da poliziotto e impazza per tre giorni assaltando caserme ed edifici pubblici. Entrambe le esperienze finiscono nel grottesco. Dalla retata con cui la polizia blocca l’impresa dominicana, si salva squagliandosela di soppiatto su una barchetta che ha tenuto pronta per ogni evenienza. Da Bogotá è rimpatriato d’urgenza su un aereo stalla carico di tori muggenti che “non gli fanno chiudere occhio”. Ma alla stampa racconta avventure che iniziano a costruire la sua leggenda. Dagli sbirri dominicani, dice, si è salvato buttandosi in mare e nuotando per un tratto infestato da pescecani. E nella rivolta di Bogotá confessa di aver “ammazzato tre preti”. Soprattutto la seconda è una balla grossa come una casa. Tra i morti, si saprà, non c’è stato neanche un religioso. Dopo il 1960, Fidel racconterà che in quei tempi era già diventato comunista. Ma alla campagna elettorale del 1948 partecipa come militante del Partito ortodosso, che si contrappone al corrotto governo del Partito autentico. I nomi delle due formazioni la dicono lunga sulla pochezza del dibattito ideologico. Entrambi i movimenti si considerano gli interpreti, “ortodossi” ed “autentici”, del pensiero di José Martí, il padre della patria morto durante la guerra d’indipendenza del 1895. “Vergüenza contra dinero!, “dignità contro denaro!”, grida nei suoi infuocati comizi radiofonici Eduardo Chibás, il passionale leader ortodosso. Ma alle urne arriva solo terzo. La batosta elettorale sembra far mettere a Fidel la testa a posto. Si sposa, fa un figlio, recupera in sei mesi gli esami che non ha fatto in due anni, si laurea e, nel 1950, apre un ufficio legale. Ma in tre anni di esercizio sono solo due i clienti in grado di pagargli una parcella. Non perché non sia bravo: è che preferisce difendere la gente che non ha il becco di un quattrino, arricchisce così la sua leggenda con il romantico blasone di “avvocato dei poveri”. Continuano in questi anni i rapporti, anche se burrascosi, con il padre, che non manca di far arrivare ogni mese il suo sostegno economico. Intanto, la situazione di Cuba precipita. Il 5 agosto 1951 Chibás si spara alla pancia in diretta radiofonica, per esortare i cubani a “svegliarsi”. “Muoio per Cuba”, farfuglia nell’agonia. La commozione è enorme. Fidel annuncia la sua candidatura alla Camera per la provincia dell’Avana alle elezioni del 1952, che promettono di portare gli ortodossi al potere a furor di popolo. Ma quel voto non si terrà mai. Il 10 marzo 1952 un golpe depone il presidente “autentico” Carlos Prío Socarrás, mettendo al suo posto il generale Fulgencio Batista. Sergente steno- grafo, quest’uomo di umili origini dalla faccia sempre sudata è arrivato ai vertici dell’esercito il 4 settembre 1933, dopo una rivolta di sottufficiali contro il governo conservatore di De Céspedes e gli alti gradi a lui allineati. Padrone indiretto dell’isola per sette anni con una serie di presidenti fantoccio, Batista si fa eleggere capo dello Stato nel 1940: il primo e, finora, l’unico della storia di Cuba ad avere sangue negro. Non dà inizialmente una cattiva prova. E’ lui a far abolire il famigerato “Emendamento Platt”: l’articolo della costituzione che autorizza formalmente gli Stati Uniti ad intervenire militarmente nell’isola. E’ sempre lui a dare a Cuba, nel 1940, una nuova costituzione, tra le più avanzate dell’America Latina. Nel 1944 l’ex-dittatore si prende addirittura il lusso di farsi battere alle urne, e di tornarsene a casa in buon ordine. In fondo, è grazie a lui se a Cuba c’è una democrazia, sia pure inquinata da corruzione e violenza politica. Ed è sempre grazie a lui se negli anni Cinquanta l’isola conosce una relativa prosperità economica. Una leggenda dura a morire continua a ripetere ancora oggi che il regime castrista, per quante critiche gli si possano fare, ha avuto se non altro il merito di strappare il paese dalle secche del sottosviluppo, e di fornirlo dei servizi sociali migliori di tutto il Terzo Mondo. Ma i dati ufficiali dell’Onu ci rivelano che alla vigilia della rivoluzione l’isola ha indici che la pongono all’avanguardia in America Latina, e allo stesso livello globale dell’Italia: il quarto posto nel continente per numero di telefoni pro-capite; il terzo per automobili e radio; il secondo per il reddito; il primo per i televisori; la mortalità più bassa; un numero di medici pro-capite più alto che in Italia; un tasso di alfabetizzazione del 75%. In Italia, all’epoca, siamo all’80%. Vi sono sperequazioni sociali, è vero. Ma inferiori al resto dell’America Latina. E quanto alla famosa “prostituzione di massa”, è un fenomeno legato alla presenza di turisti con un potere d’acquisto molto più alto della popolazione locale. Tanto è vero che è ricomparso in maniera drammatica non appena il regime ha riaperto le frontiere. Particolare poco noto, comunque, ancora nel 1959 ben quindicimila cittadini italiani presentano regolare domanda di emigrazione al consolato cubano di Roma. Ed è lo stesso Fidel, in quell’anno, a vantarsi di “aver sfatato il mito che non si può fare una rivoluzione senza crisi economica”. La Cuba degli anni ‘Cinquanta, insomma, non è l’Haiti o la Repubblica Dominicana di oggi, ma è piuttosto simile alla Taiwan degli anni Settanta, o all’Indonesia degli anni Novanta. Un paese che, proprio perché è cresciuto dal punto di vista economico, non accetta più quella corruzione, quelle diseguaglianze sociali e quell’autoritarismo che prima potevano sembrare inevitabili. L’inammissibile torto di Batista, nel 1952, è quello di mettersi contro l’evoluzione che lui stesso ha propiziato. E di farla così abortire. Fidel, dopo aver scritto all’ex-sergente una lettera di protesta, lo denuncia con acre sarcasmo al Tribunale di suprema garanzia per “violazione della Costituzione”. I giudici, dopo aver dato un’occhiata alle baionette che luccicano sui fucili dei soldati di guardia fuori della corte, rispondono imbarazzatissimi che l’impugnazione “è inammissibile” perché “è la rivoluzione la fonte di ogni legge”. Mai frase fu più incauta di questa rivolta all’ex-pistolero ammazzapreti, che prendendo i magistrati in parola inizia subito a organizzare un colpo di mano con un gruppo di militanti della Gioventù ortodossa. Il luogo prescelto è la caserma Moncada a Santiago, la città dove ha iniziato gli studi. La data è il 26 luglio 1953: 26 come il 1926, anno in cui è nato, come 26 sono i suoi anni nel momento della decisione. Una sciccheria cabalistica irresistibile, per un uomo che si vanta in continuazione di “essere nato sotto lo stesso segno di Simón Bolívar”. E che ha voluto andare in viaggio di nozze a New York, malgrado il proprio antiamericanismo ostinato, solo perché “lì è vissuto José Martí”.   L’assalto alla Moncada inizia alle 4,45 del 26 luglio 1953, quando 125 militanti della Gioventù Ortodossa si riuniscono nella fattoria di Siboney. Sono travestiti da soldati, con uniformi fatte in casa e armi prese al mercato nero. Sottovoce, cantano l’inno nazionale. Poi salgono su 16 macchine, e si dirigono verso la caserma del primo reggimento di fanteria. Il carnevale impazza e c’è la ragionevole speranza che gran parte dei 428 uomini della guarnigione sarà troppo ubriaca per reagire. Metà degli autisti sbaglia strada. Quelli che arrivano, poi, sono in ritardo rispetto all’orario preventivato delle 5,15. “Aprite, arriva il generale!”, grida un ribelle. Mentre le tre sentinelle scattano sull’attenti, sette uomini saltano loro addosso, le disarmano, aprono la porta, corrono per le scale a occupare il centro radio. Una pattuglia di ronda si avvicina sospettosa. Giocando il tutto per tutto, Fidel preme sull’acceleratore, e punta sui soldati per travolgerli. Per un interminabile istante, il destino della rivoluzione resta sospeso sull’orlo del marciapiede. Ma la ruota si imballa, e il motore si spegne. Mentre un fuoco d’inferno si scatena, le sirene iniziano a suonare. L’azione è fallita. Nella battaglia sono morti 19 soldati e 10 ribelli. La propaganda castrista continua ancora a raccontare della ferocia con cui nei tre giorni successivi 59 fidelisti sono massacrati dopo essere stati presi prigionieri. Gli anticastristi, a loro volta, ricordano i decenni di carcere inflitti da Fidel ai suoi oppositori - compresi reduci dell’assalto alla Moncada, come Mario Chanes de Armas e Gustavo Arcos - e paragonano queste condanne alla sollecitudine con cui i condannati del 1953 sono graziati dopo un anno e mezzo. La verità è che sui fidelisti prigionieri si sfogano soprattutto i soldati del primo reggimento, imbestialiti per il pericolo corso. Il resto dell’esercito ha poca voglia di infierire su chi ha preso le armi contro un regime chiaramente illegale. Lo stesso tenente Pedro Sarría, quando cattura Fidel dopo una settimana di latitanza, impedisce ai suoi soldati di torcergli un capello, ed esprime al prigioniero la sua solidarietà. Dai militari, il no alla repressione si estende a tutto il paese. La chiesa chiede clemenza. I giudici che condannano Fidel a 15 anni gli permettono tuttavia di trasformare il processo in uno show, ascoltando per due ore senza fiatare la sua requisitoria contro il regime. “La storia mi assolverà!”, grida il ribelle. Batista, che non è abituato all’impopolarità, alla fine concede l’amnistia. E’ un arrivederci minaccioso quello con cui il 7 luglio 1955 Fidel si imbarca. “Lascio Cuba perché mi sono state chiuse tutte le porte per una lotta pacifica”. In Messico, Fidel contatta il tenente Alberto Bayo, un cubano che è stato ufficiale dei repubblicani spagnoli. E’ lui ad addestrare alla guerriglia il nuovo piccolo esercito che si forma. Intanto, si consuma il definitivo distacco dal Partito Ortodosso, con la costituzione formale del Movimento 26 Luglio (M-26-7). Il divorzio politico segue al divorzio familiare tra Fidel e la moglie, di cui in carcere ha scoperto che è un agente del ministero dell’Interno. E’ una vicenda penosa, anche per il litigio che segue intorno all’assegnazione del figlio Fidelito. Ma l’ostinato ribelle non si fa distrarre. Il 25 novembre 1956 la piccola armata salpa dal porto messicano di Tuxpan. Sono 82 gli uomini che si affollano sul Granma, un battello a due motori di quindici metri che non dovrebbe portare più di 25 persone. Due volte la vecchia carretta corre il rischio di affondare. Quando il 2 dicembre il Granma arriva sulla spiaggia di Niquero, nel sud-est di Cuba, “sembra più un naufragio che un approdo”, come racconterà in seguito Ernesto Guevara. E’ un medico argentino giramondo e idealista che si è unito ai ribelli in Messico. I cubani lo hanno ribattezzato “el Che”, per il tipico intercalare caraibico che ripete in continuazione. Un po’ come, in Italia, l’“aò” dei romani, l’“uè” dei milanesi e il “neh” dei torinesi. Nei piani, lo sbarco dovrebbe essere sincronizzato con un’insurrezione a Santiago. Ma Fidel è arrivato con 2 giorni di ritardo e la ribellione è stata già domata. Per giunta nello sbarco è andata perduta la gran parte dei viveri, ed i ribelli sono presto costretti a sopravvivere masticando pezzi di canna da zucchero. E’ seguendo una traccia di arbusti masticati incautamente lasciati sul terreno che il 5 dicembre le guardie rurali finiscono addosso all’Esercito Ribelle, come si è pomposamente ribattezzato. E’ un disastro peggio della Moncada. Su 82 uomini, 3 cadono in battaglia, 22 vengono giustiziati dopo la cattura, 22 finiscono in carcere, altri 19 scompaiono senza lasciare traccia. Solo 16, dopo essersi nascosti nelle piantagioni di canna da zucchero, riescono infine a raggrupparsi il 21 dicembre sulla Sierra Maestra. “Un uomo con un fucile può qui far fronte a dieci, senza paura delle pallottole”, ha scritto su questa catena montuosa di 1.000 metri Pablo de la Torriente: un giornalista cubano morto in Spagna con le Brigate Internazionali. Cinquantamila persone vi strappano penosamente di che vivere dalla roccia. Per lo più, sono contadini cacciati dalla pianura per l’espandersi del latifondo, o operai licenziati. Disperati che occupano la terra senza alcun titolo di proprietà, e che Fidel ha già individuato come la miglior massa di manovra per la sua rivoluzione. La retorica di regime, negli anni a venire, celebrerà fino alla nausea l’epopea di questi montanari che hanno giurato di non tagliarsi più la barba fino a quando la dittatura non sarà stata abbattuta. Eppure, i dati ufficiali sulla consistenza dell’Esercito Ribelle ci narrano di una storia diversa: 50 uomini nei primi mesi del 1957; 80 a maggio; 200 a dicembre; 300 nell’aprile 1958; non più di 2.000 al momento della spallata finale sull’Avana. D’altra parte, è anche il fallimento dello “sciopero generale rivoluzionario” indetto per il 9 aprile 1958 a dimostrare come i cubani, nella loro stragrande maggioranza, guardino la lotta alla finestra, aspettando di vedere chi è il vincitore. Ma la ristretta minoranza che sta con Fidel è determinata. I soldati di Batista, invece, sono demotivati. I profittatori di regime pensano più a portare in salvo le ricchezze mal guadagnate che a farsi ammazzare. E lo stesso dittatore permette a quel pugno di ribelli di organizzarsi indisturbati, solo perché la “guerra” gli consente di approvare bilanci e spese straordinarie, aggirando i controlli della Corte dei Conti. Solo nel settembre 1957, quando la marina tenta di ammutinarsi, il dittatore comincia a preoccuparsi. E l’allarme cresce nel marzo successivo, alla notizia che Washington ha decretato l’embargo sulle forniture di armi. Atterrito dalla prospettiva di perdere l’appoggio di forze armate e americani, le due colonne del suo regime, il 24 maggio 1958 Batista lancia contro i ribelli un’offensiva che vorrebbe essere risolutiva. Due colonne avanzano sulla Sierra dalla pianura, mentre una terza sbarca dal mare. Sono 10 mila uomini contro 300. Ma i ribelli hanno avuto tutto il tempo di sistemarsi in posizioni munitissime, mentre il morale dei soldati è sempre più basso. Convinto dell’importanza della guerra psicologica, Fidel li bombarda da altoparlanti con esortazioni a disertare, mentre dà ordine ai suoi di sparare sempre “al primo della fila”. La battaglia dura 76 giorni. Quando l’esercito di Batista inizia a ripiegare, abbandonando armi e materiali, la guerra è in pratica decisa. Il 21 agosto Fidel ordina l’offensiva. Il 7 novembre investe Santiago. Il 20 dicembre cade Sancti Spiritus. Il 24 dicembre si arrende la guarnigione di Santa Clara. Il primo gennaio 1959, dopo aver salutato l’anno vecchio con evviva e champagne, Batista imbarca familiari e collaboratori su due aerei e dirige verso la Repubblica dominicana. La guerra rivoluzionaria è finita. Il più sorpreso di tutti, per questa conclusione improvvisa, è lo stesso Fidel, che arriverà all’Avana solo una settimana dopo. Lo precede di sei giorni Ernesto Che Guevara.    Come e perché Fidel Castro sia divenuto marxista-leninista è tra i temi più dibattuti nella storiografia Usa del XX secolo. Per i liberal, fu la Casa Bianca a non capire la rivoluzione cubana, per pregiudizio, e a spingerla così tra le braccia di Mosca. Per i conservatori, è stato invece Fidel a nascondere fino all’ultimo la propria fede comunista, per meglio ingannare il popolo sulle sue reali intenzioni. Paradossalmente, è lo stesso líder maximo ad accreditare quest’ultima analisi, quando afferma di essersi convertito al socialismo scientifico già dal 1948, e di averlo nascosto perché a Cuba “i tempi non erano ancora maturi”. Ma Fidel è un dialettico abilissimo a rigirare le frittate. Nessun documento dimostra una sua adesione al marxismo prima del 17 aprile 1961. Quella di comunista, d’altronde, negli anni 50, è a Cuba un’etichetta disprezzata. Al punto che il Partito comunista cubano nel 1944 si mimetizza da “Socialista popolare” (Psp). Sono gli stessi comunisti a rovinarsi la reputazione, con le proprie continue giravolte: alleati nel 1933 del dittatore Machado dopo averlo combattuto, nel 1940 entrano nel governo di Batista, e nel 1953 tacciano l’attacco alla Moncada di “avventurismo piccolo borghese”. Solo nel 1958 si uniscono alla lotta armata. Oltre al Psp, contro Batista ha combattuto anche il Direttorio studentesco rivoluzionario (Der): una formazione di tendenze vagamente cristiano-sociali, che crea un nucleo guerrigliero sulle montagne dell’Escambray, dopo che il meglio della sua leadership è rimasto annientato nel 1957 in un attacco suicida al palazzo presidenziale. Sempre sul “Secondo fronte” dell’Escambray hanno agito militanti del vecchio Partito Autentico ed ex-militari che si sono dati alla macchia dopo il fallito ammutinamento della marina militare. In tutto, Psp, Der, autentici e militari hanno schierato un migliaio di guerriglieri. Il Movimento 26 Luglio di Fidel ne ha invece portati alla lotta 2.000. Ma la sua ideologia, nel 1959, è indefinita. In seguito, si parlerà molto del contrasto tra i militanti moderati delle città e quelli radicali della montagna. Ma anche importanti dirigenti della sierra sono anticomunisti. Ad esempio Huber Matos, o Humberto Sori-Marín. La spaccatura attraversa la stessa famiglia Castro. Dei fratelli impegnati nella lotta, Raúl è considerato, assieme a Ernesto Che Guevara, il principale veicolo di influenza marxista nel Movimento. Ramón ostenta la propria fede cattolica. E Juana, dopo la comunistizzazione del regime andrà in esilio, e diventerà uno dei leader dell’opposizione di Miami. Per Fidel, in realtà, l’alleanza con l’Unione Sovietica non è un fine, ma il mezzo con cui portare avanti la sua ossessione ideologica, l’antiamericanismo. Anche perché, in un paese come Cuba, da sempre umiliato per le pesanti interferenze Usa, può essere proprio la lotta serrata agli yankee la scusa migliore per imporre un potere assoluto. “Quando questa guerra finirà”, scrive in una lettera del 5 giugno 1958, “ne comincerò un’altra, per me, molto più lunga e grande: sarà la guerra che farò contro gli americani”. A rinfocolare i suoi antichi risentimenti sono state le armi che Washington ha continuato a fornire al regime che lui combatte, anche dopo l’annuncio formale del “non intervento”. Ma la linea di Washington non è univoca. La Cia, ad esempio, invia anche a lui aiuti, per un ammontare di 50 mila dollari. E dopo la fuga di Batista sono gli Stati Uniti il primo paese a riconoscere il nuovo governo rivoluzionario. Capo dello Stato provvisorio è l’ex-magistrato Manuel Urrutía Lleó, premier è José Miró Cardona, un altro moderato. Su 15 membri del governo, solo 3 vengono dalla guerriglia. In capo a due anni, 6 di loro saranno in esilio e uno sarà stato fucilato. Fidel si “ac- contenta” di rimanere alla testa dell’Esercito Ribelle. Ma non ci mette molto a far capire chi comanda sul serio. Il 13 febbraio “convince” il presidente a destituire Miró Cardona, e ne prende il posto. Pur continuando a ripetere che “la nostra rivoluzione non è rossa, ma verde come le palme”, comincia a dire che “elezioni veramente democratiche” si potranno fare solo “quando tutti avranno un lavoro, la riforma agraria sarà una realtà, tutti i bambini andranno a scuola, tutte le famiglie avranno accesso agli ospedali, tutti i cubani conosceranno i loro diritti e doveri e sapranno leggere e scrivere”. Sotto banco, ha intanto iniziato a trattare con Carlos Rafael Rodríguez, il machiavellico leader comunista che è stato ministro di Batista. Con l’aiuto del Psp, organizza scuole ideologiche per gli uomini del Movimento 26 Luglio. Il 17 maggio, crea un Istituto nazionale di riforma agraria che si trasforma in un vero e proprio governo parallelo. A giugno caccia dal governo il ministro degli Esteri Roberto Agromonte, filo-americano. Perfino l’ingenuo Urrutía, a questo punto, capisce che le cose stanno prendendo una brutta piega, e cerca di resistere rifiutandosi di firmare le leggi. Mobilitando la piazza e l’Esercito Ribelle, Fidel costringe anche lui alle dimissioni, e lo sostituisce con un proprio uomo di fiducia, Osvaldo Dorticós. Il 21 ottobre Fidel fa arrestare per “tradimento” Huber Matos, che ha scritto una lettera di protesta contro l’“infiltrazione dei comunisti”. Il 26 novembre si dimette il ministro dei Lavori pubblici Manuel Ray: un leader urbano del Movimento, che va in esilio a Miami. Migliaia di cubani seguono la stessa strada. Dopo trentotto anni, sarà un decimo della popolazione che sceglierà di “votare con i piedi”. Cataneo, un famoso cantante di rumba, quando Fidel è entrato all’Avana ha detto: “Si salveranno solo quelli che sanno nuotare”. La gente inizia a chiamarlo “il profeta”. L’evoluzione è evidente quando Raúl diventa ministro della Difesa. Contemporaneamente il Che è nominato ministro dell’Industria e direttore della Banca centrale. Si narra che Fidel, al termine di un’estenuante riunione, abbia chiesto: “Chi di voi è economista?”. E che l’argentino, svegliandosi di soprassalto dal dormiveglia, abbia gridato: “Io! Io!”, avendo capito “chi di voi è comunista?”. Gli Stati Uniti non hanno ancora fatto ufficialmente alcun gesto ostile. Ma il 4 febbraio 1960 il vice-presidente sovietico Anastas Mikoyan va in visita a Cuba e stende le basi per l’alleanza tra i due paesi. Secondo Fidel, la Cia getta la maschera il 4 marzo 1960, quando nel porto dell’Avana salta in aria una nave francese carica di armi che Cuba ha acquistato in Belgio. E’ durante i funerali delle 81 vittime che al Che viene scattata la famosa foto. Prove del “sabotaggio” non ne sono però mai emerse, e il Dipartimento di Stato ha sempre accusato la “colpevole leggerezza” con cui nello scarico degli esplosivi i cubani hanno violato tutte le norme internazionali di sicurezza. Ad ogni modo, l’escalation è iniziata. Alla legge con cui il 6 agosto 1960 Fidel nazionalizza proprietà fondiarie statunitensi per 250 milioni di dollari, Washington risponde a settembre iniziando a paracadutare aiuti ai gruppi armati anticastristi che si sono sollevati sull’Escambray. Il 13 ottobre Fidel espropria altre 382 società industriali e commerciali. Il 19 ottobre gli americani dichiarano l’embargo commerciale. Il 31 gennaio 1961 rompono le relazioni diplomatiche. Il 17 aprile 1961, infine, 1.500 anticastrisi armati dalla Cia sbarcano a Playa Girón, tentando di sollevare l’isola contro Castro. L’impresa sarà un disastro. E del successivo disimpegno americano saranno vittime anche i ribelli dell’Escambray, sterminati dopo spietati rastrellamenti. Gli anticastristi hanno avuto il torto di credere nell’illusione che lo stesso Fidel ha creato: la possibilità di innescare una rivoluzione con il semplice esempio di un “focolare” guerrigliero. Quel 17 aprile Fidel chiama per la prima volta alla difesa della “repubblica socialista”. Cuba è ormai un paese comunista anche dal punto di vista formale. Il 3 luglio 1962, Partito socialista popolare, Movimento 26 Luglio e Direttorio studentesco rivoluzionario vengono fusi nelle Organizzazioni rivoluzionarie integrate (Ori). Inizia l’era del partito unico. Per Fidel Castro essere comunisti o anticomunisti, in fondo, è secondario, rispetto alla fedeltà al capo, lo dimostrano le epurazioni all’interno del Movimento 26 luglio che hanno colpito sia a destra che a sinistra. I “socialisti popolari”, poi, sono considerati particolarmente pericolosi perché per loro l’alleanza con l’Urss non è una scelta tattica, ma ci credono sul serio. Non a caso, le due “lezioni” nei loro confronti vengono in due momenti di difficoltà tra Fidel e Mosca. Il primo è poco prima della crisi dell’ottobre 1962, quando Kennedy decreta il blocco navale dopo aver scoperto che i sovietici hanno installato su Cuba missili atomici. Per una settimana, tra il 21 ed il 28, la pace è in bilico. La guerra nucleare è evitata dalla decisione di Kruscëv di fermare le navi da guerra sovietiche dirette all’isola. Le rampe verranno tolte, in cambio del ritiro di altre rampe Usa dalla Turchia. Il mondo tira un sospiro di sollievo. Ma Fidel è furibondo. “Nikita mariquita, lo que se dá no se quita”, cantano per le vie dell’Avana i militanti delle organizzazioni di massa del regime. “Nikita frocetto, quello che si dà non si toglie”. Un leader più impulsivo potrebbe andare alla rottura. Ma Cuba è appena stata espulsa dall’Organizzazione degli Stati americani, e l’ambizioso piano di industrializzazione lanciato dal Che è fallito. Fidel sa che la sopravvivenza del suo regime dipende dall’aiuto sovietico, e nella primavera del 1963 ricuce i rapporti con un viaggio in Unione Sovietica la cui durata entra nel Guinness dei primati delle visite ufficiali: 40 giorni. Castro, però, insiste nel voler esportare la rivoluzione nel Terzo Mondo, mentre l’Urss punta sulla coesistenza pacifica. Alla costituzione di quella specie di internazionale sovversiva terzomondista definita Conferenza tricontinentale, Mosca risponde tagliando le forniture di petrolio. E Fidel si vendica con la nuova purga sugli ex-Psp. La morte di Ernesto Che Guevara in Bolivia porta alla riconciliazione definitiva, sancita dall’approvazione dell’invasione in Cecoslovacchia. Di nuovo, con la fine dell’illusione guerrigliera, Fidel si rende conto che non ha alternative. E col Che, poi, viene meno il piantagrane che più ha messo zizzania tra Cuba e l’Unione Sovietica. Fino al punto di affermare, in un famoso seminario ad Algeri del febbraio 1965, che Mosca “si rendeva complice dello sfruttamento capitalistico”. Già nel 1967 qualche giornalista avanza il sospetto che Guevara sia stato mandato apposta al macello in un’impresa impossibile. L’ipotesi, liquidata da Fidel con sdegno, è stata ora rilanciata da Daniel Alarcón Ramírez, il “Comandante Benigno” che prese il comando dei guerriglieri in Bolivia dopo la cattura del Che. “E’ evidente che i sovietici chiesero a Fidel di chiudere tutta la faccenda, pena l’immediata sospensione dei loro aiuti”, ha affermato l’ex-guerrigliero, dopo aver rotto col regime ed essere andato in esilio a Parigi. Anche Camilo Cienfuegos, il leg- gendario comandante guerrigliero sparito in un misterioso incidente aereo nell’ottobre 1959, sarebbe stato per lui fatto togliere di mezzo da Fidel perché stava diventando troppo popolare. L’insofferenza di Fidel per ogni fronda anche potenziale sarebbe stata poi all’origine della fine di Arnaldo Ochoa, il generale condannato alla fucilazione nel 1989 per un’oscura vicenda di narcotraffico. E, secondo Benigno, l’ira di Fidel per essere stato contraddetto in una riunione avrebbe portato nel 1990 all’arresto perfino di Juan Almeida, il negro comandante di una colonna dell’Esercito Ribelle. La minaccia di un’insurrezione della popolazione di colore, e il fatto che la notizia era filtrata a Miami, avrebbe poi convinto Fidel a “far comparire Almeida in pubblico, indossando l’uniforme militare e le sue mostrine di Comandante della rivoluzione”. “Da allora”, afferma Benigno, “Juan Almeida continua regolarmente a rendere visita, in compagnia di Raúl Castro, a unità militari, centri industriali, sedi provinciali di partito. Ma non si sa se sia libero o prigioniero”. La colpa di Almeida? Aver detto a Fidel di spiegare alla gente che, con la dissoluzione dell’Urss, i tempi delle vacche grasse sono finiti. Fino al ’90, Mosca fornisce a Cuba in cambio del suo zucchero il 70% di tutto il suo fabbisogno in beni. Una cifra colossale, che l’economista Irina Zorina, dell’ex-Accademia delle Scienze dell’Urss, calcola in 100 mila milioni di dollari in 32 anni. Più di quanto non hanno ricevuto tutti i paesi dell’Europa occidentale con il piano Marshall e tutti i paesi latino-americani con l’Alleanza per il progresso messi insieme. Così Fidel ha creato il suo consenso di massa. I suoi estimatori parlano di “Stato sociale avanzatissimo”. In realtà, non è che una variante pseudo-comunista del clientelismo latino-americano. La stessa politica di redistribuzione selvaggia e sperpero della rendita da materie prime di Perón in Argentina dopo la seconda guerra mondiale, dei governi colorados in Uruguay nella prima metà del secolo, della “democrazia petrolifera” venezuelana tra il ’58 e l’89. Non è mai stata l’Urss però a teleguidare Fidel. All’inizio, piuttosto, è Fidel a ricattare i sovietici, minacciando di creare guai. Poi, dopo il disastro Usa in Vietnam nel 1975, li convince che l’Occidente sta ormai mollando la presa nel Terzo Mondo. Se non proprio in America Latina, la rivoluzione può ormai essere esportata tranquillamente in Africa e Asia. Iniziano le “missioni internazionaliste”, in cui l’Urss mette i soldi, e Fidel gli uomini. “Cuba paga il suo pane e cipolla con camion di soldati”, dice una canzone di protesta che si diffonde in questi anni. Il conto in vite, tutto sommato, è basso. Queste le stime di Benigno: 2.500 morti in Uganda e Angola, 20 in Venezuela, alcune decine in Nicaragua, 8 in Argentina, 14 col Che in Bolivia, 35 in Cile nel 1973, 6 a Santo Domingo nel 1959, 11 a Grenada nel 1985, 41 in Guinea-Bissau, 5 in Sierra Leone, 11 in Guinea, 3 in Somalia, 19 nel Sahara Occidentale, 3 in Libano, 150 in Etiopia, 5 nello Yemen, 7 in Algeria, 400 nello Zaire. Ma l’Unione Sovietica è letteralmente stroncata dalle spese di questa politica mondiale per cui non ha le risorse. Dimentico della promessa del Che degli anni 60 (Cuba avrebbe superato il reddito pro-capite degli Usa), Fidel riscopre l’ecologia. “Io direi che non sarebbe salubre che tutti avessero l’automobile. E poi non sarebbe fattibile. Pensiamo alla Cina, che ha più di un miliardo di abitanti. Immaginiamo, per un attimo, ogni famiglia cinese con una o due automobili. Quanto durerebbe la materia prima per un’industria automobilistica del genere? Quanto durerebbe il petrolio di tutto il mondo con un simile numero di macchine?”. Predicando l’austerity, dollarizza intanto gli scambi, aprendo anche ai cubani i negozi in valuta prima riservati ai turisti. E svende letteralmente le imprese di Stato al capitale straniero, per creare una lobby internazionale interessata alla sopravvivenza del suo regime. Ma con le sue ossessioni autocratiche blocca ogni libera iniziativa locale che non sia di dimensioni minuscole. Il cerchio si è chiuso. Di zucchero, esportazione di carne e turismo viveva la Cuba di Batista. Di zucchero e turismo vive la Cuba di oggi, visto che la fissazione di Fidel di essere un genio della ricerca biotecnologica ha affondato l’allevamento. Mc Castro sono chiamati dalla gente gli insipidi hamburger di soia e grasso di maiale che i cubani sono costretti a mangiare da quando gli esperimenti di Fidel per incrociare razze bovine tropicali da carne con razze nordiche da latte hanno prodotto mucche che continuano a dare il poco latte di prima, ma muoiono per il caldo e forniscono carne immangiabile. La prostituzione turistica è tornata ad imperversare. Le imprese in mano agli stranieri sono più che nel ’59, visto che ai cubani non è consentito di fare gli imprenditori. In compenso, non c’è più traccia degli odiati americani. Ma Fidel, dopo averli cacciati, è ora furibondo perché gli yankee si sono offesi e, decretando l’embargo, hanno detto fin dal ’60 che non vogliono investire in paesi dove i loro investimenti vengono poi nazionalizzati. Rispetto al ’59, Cuba vince più medaglie olimpiche. E la sua autorevolezza, in campo internazionale, è senza dubbio maggiore. A merito di Fidel, si può dire che la sua semplice presenza ha costretto gli Stati Uniti ha comportarsi in America Latina in maniera meno arrogante e più responsabile. Ed è stato anche questo fattore alla base dello sviluppo che i paesi del continente hanno conosciuto negli ultimi anni. Le polemiche sull’autoritarismo, in fondo, lasciano il tempo che trovano. Fidel è stato un dittatore, ma non il peggiore di quelli che l’America Latina ha conosciuto. Anche se, essendo rimasto l’ultimo, attira indubbiamente l’attenzione. Fidel, però, ha sottratto Cuba a questa rivoluzione. E ha distratto l’America Latina dal percorrerla fino in fondo, con la falsa profezia di un modello nuovo che era invece solo la riverniciatura del vecchio autoritarismo patriarcale. Se la storia lo condannerà, sarà questa la principale imputazione. P.S. “Che”, non è un intercalare caraibico, come scritto erroneamente l’altro ieri, ma platense, Ernesto Guevara, infatti, era argentino. 

Che Guevara: il mostro dietro il mito. Scritto da Julio Loredo nel marzo 2012. Personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie; favorevole a una guerra nucleare con gli Stati Uniti anche al prezzo di sterminare l’intera popolazione cubana; promotore dei campi di lavoro forzato per “rieducare” i giovani; acerrimo avversario della musica e delle mode moderne. Il vero Che Guevara è anni luce lontano dal mito propagandistico inventato dalla sinistra. La Rivoluzione, lo sappiamo, è largamente costruita sulla menzogna. Dalla presa della Bastiglia nel 1789 (in realtà consegnata dai difensori), al ladro di cavalli tramutato in “Eroe dei due mondi”, al sanguinario dittatore sovietico presentato come “good uncle Joe”. Mai, però, un’operazione di maquillage propagandistica è stata così inverosimile e incurante della realtà storica, come l’invenzione del mito di Ernesto “Che” Guevara, il medico argentino divenuto guerrigliero sotto l’egida di Fidel Castro. Dalla famosa foto dallo sguardo “idealista”, che lo ritrae invece in preda ad una crisi di asma, alla sua morte “eroica”, quando in realtà morì implorando clemenza, praticamente tutto del “Che” Guevara è propaganda. Recenti studi hanno cominciato a smontare, pezzo a pezzo, questo mito prediletto della sinistra. A battere l’ultimo chiodo sulla bara del Che due giovani giornalisti brasiliani, che hanno scritto una divertente quanto ben documentata «Guida politicamente scorretta dell’America Latina». Il primo capitolo, il più lungo, è dedicato proprio a Ernesto Rafael Guevara de la Serna, più noto come Che Guevara. Gli autori vi svelano “flagranti contraddizioni fra la sua vita e l’ammirazione che essa ispira”.

Una prima contraddizione è quella di usare l’immagine del Che come simbolo della libertà giovanile. Prima della rivoluzione, Cuba era una Mecca della cultura. Nel 1950 l’isola contava 1.700 scuole private e 22mila pubbliche, che le garantivano il più alto indice di scolarità nell’America Latina. Il 23% del bilancio era speso nell’educazione. Nel 95% delle abitazioni c’era una radio, attraverso cui ci si poteva sintonizzare su oltre 140 canali. Il Paese contava ben sette case discografiche, alcune multinazionali, 600 cinema e 15mila juke box. Gli artisti cubani erano star a Broadway, come le star americane erano di casa a La Havana. Le TV americane trasmettevano in diretta da Cuba, mentre grandi magazzini come Sears Roebuck si facevano pubblicità sui giornali dell’Isola. C’erano più turisti cubani negli USA che turisti americani a Cuba, serviti da ventotto voli giornalieri e quattro traghetti navetta. Tutto questo all’insegna d’una economia fiorente. Suona strano dirlo, ma gli investimenti cubani negli Stati Uniti, alla vigilia della rivoluzione, superavano il mezzo miliardo di dollari. Tutto finì nel 1959. La maggior parte degli artisti cubani fu costretta all’esilio, e impedito l’ingresso agli artisti stranieri. Le musiche e le mode americane ed europee furono proibite in quanto “imperialiste”. Si finiva in un campo di concentramento solo per il fatto di ascoltare rock ‘n roll a casa, oppure di indossare jeans o di utilizzare vocaboli anglosassoni. Iniziò la caccia nelle strade ai ragazzi “capelloni” e troppo “moderni”. Silvio Rodríguez, direttore dell’Instituto de Radio y Televisión de Cuba, fu indotto alle dimissioni per aver citato i Beatles. I cinema chiusero i battenti. A L’Havana ne restò solo uno. Il Che era il principale istigatore di questa repressione: “Ho giurato davanti al ritratto del vecchio compagno Stalin di non mollare fino a quando non avrò annientato questi polipi capitalisti”. Affermando che “per costruire il comunismo occorre creare l’uomo nuovo”, il Che ammetteva come unica musica permessa ai giovani “i cantici rivoluzionari”, ricordando loro che dovevano “concentrarsi sul lavoro, sullo studio e sul fucile (…) abituandosi a pensare e agire come una massa, seguendo le iniziative (…) dei nostri capi supremi”. Quanti giovani che pure indossano le magliette con il volto del Che sarebbero disposti a seguire un simile programma di vita?

Una seconda contraddizione è quella di presentare il Che come simbolo delle cause democratiche. Tutti sanno che, molto prima che i nazisti li trasformassero in lugubre marchio del loro regime, i campi di concentramento erano già molto diffusi nell’Unione Sovietica. Pochi, però, sanno che fu proprio Che Guevara a introdurli a Cuba. Il primo lager tropicale, personalmente creato dal Che, è il campo di lavori forzati di Guanahacabibes, destinato a “rieducare” le persone refrattarie alla rivoluzione. “A Guanahacabibes inviamo coloro che non devono stare in prigione, coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi” – affermava il Che in una riunione del Ministero dell’Industria nel 1962. Questo lager servì poi da modello per le Unidades Militares de Ayuda a la Producción (Umaps), che giunsero a contenere più di 30mila prigionieri. Leggiamo in un rapporto del 1967 della Commissione Interamericana dei Diritti Umani: “I giovani sono reclutati a forza dalla Polizia e rinchiusi in questi campi di lavoro, senza nessun tipo di processo giudiziario né diritto alla difesa. (...) Questo sistema svolge due funzioni: a) facilitare manodopera gratuita allo Stato; b) castigare i giovani che si rifiutano di partecipare alle organizzazioni comuniste”. Il Che fu, inoltre, il principale artefice della svolta comunista del regime di Fidel Castro. “Il Movimento 26 Luglio non era di per sé comunista — ricorda Huber Matos, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente in esilio —Furono Fidel e il Che a condurre la rivoluzione per le vie del comunismo sovietico”.

Ed eccoci alla terza contraddizione: quella di presentare il Che come simbolo dell’idealismo e dell’amore, come talvolta succede anche in ambienti cattolici. La famosa immagine del Che che guarda “idealisticamente” verso l’infinito fu scattata da Alberto Korda, fotografo del regime, il 5 marzo 1960 nel corso di un memoriale per le vittime dell'esplosione della nave belga “La Coubre”, ma rimase sconosciuta fino al 1967. Fu l’editore Giangiacomo Feltrinelli a comprarne allora i diritti e a iniziarne la diffusione. L’effige fu utilizzata per la prima volta come simbolo rivoluzionario nel corso di una manifestazione di piazza a Milano nel novembre dello stesso anno. La foto del Che è stata trasformata in icona internazionale di pace, amore e idealismo, quasi alla stregua del Mahatma Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Ma chi conosce il vero pensiero del guerrigliero castrista? Per rinfrescarci la memoria, i due autori brasiliani citano alcuni brani tratti dai suoi «Testi Politici»:

— “L’odio come fattore di lotta. L’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale”.

— “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi e selettivi e li trasforma in perfette macchine per uccidere”.

— “La via pacifica è da scordare e la violenza è inevitabile. Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue nel segno della liberazione, anche a costo di vittime atomiche”.

Tale esaltazione dell’odio e della violenza non restava confinata al campo delle dichiarazioni idealistiche, ma veniva attuata in modo molto concreto. Il Che era favorevole a scatenare una guerra nucleare contro gli Stati Uniti, qualunque fossero i costi. Nel 1961 egli si recò in Unione Sovietica per firmare un accordo militare che prevedeva, tra l’altro, l’installazione di ogive nucleari sul suolo cubano, giustificando tale mossa con il proposito di lanciare qualche missile sugli Stati Uniti per provocarne la reazione. “Vorrei utilizzare tutti questi missili, puntati contro il cuore degli Stati Uniti, compresa New York”, dichiarava al London Daily Worker, giornale del Partito comunista inglese. Secondo il Che, la causa della Rivoluzione ben valeva il sacrificio della popolazione cubana: “Cuba è l’esempio tremendo di un popolo disposto all’auto-sacrificio nucleare, perché le sue ceneri possano servire da fondamento per una nuova società”. Bisogna sottolineare che l’accordo era ultrasegreto. Appena sei membri del Governo cubano ne erano a conoscenza. Il popolo cubano era in questo modo collocato a sua insaputa sull’altare sacrificale. Il popolo, non certo i dirigenti. In previsione del conflitto nucleare, Fidel e Raul Castro, insieme al compagno Che Guevara, presero contatto con l’Ambasciatore sovietico per ottenere asilo nel bunker antiatomico sotto l’ambasciata...In quest’ottica, la presenza di immagini del Che durante talune Marce per la Pace appare una tragica quanto beffarda ironia...Nel 1980, la fondazione Cuba Archive lanciò il progetto “Verità e Memoria”, allo scopo di raccogliere la documentazione sulle persecuzioni a Cuba. Dagli archivi risulta che, negli anni dal 1957 al 1959, cioè dalla guerriglia nella Sierra Maestra fino al primo anno di governo rivoluzionario, Ernesto Che Guevara è stato personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie, alcune eseguite da lui stesso. Fra le vittime c’erano colleghi guerriglieri non sufficientemente motivati, soldati e poliziotti, giovani e, soprattutto, oppositori politici. È tristemente noto, per esempio, il massacro di decine di civili nella città di Santa Clara, espugnata nel 1958 dalle truppe rivoluzionarie al comando di Che Guevara. Poi, come Procuratore del Tribunal Revolucionario di stanza al Forte La Cabaña, nel solo anno 1959, egli ordinò l’esecuzione di 104 dissidenti. Questo stando ai documenti scritti. I testimoni poi parlano di almeno 800 morti in quel periodo. “Non possiamo ritardare la sentenza —incitava il Che ai suoi collaboratori — Siamo in rivoluzione. Le prove sono secondarie”. Non possiamo, però, negarle al Che una certa coerenza nel suo delirio sanguinario. Già nel 1952, nel famoso «Diario dalla Motocicletta» — raccolta di annotazioni fatte nel corso di un viaggio in moto per l’America del Sud — egli scrisse: “Bagnerò la mia arma nel sangue e, pazzo di furore, taglierò la gola a qualsiasi nemico che mi capiti fra le mani. Sento le mie narici dilatarsi con l’acre odore della polvere da sparo e del sangue dei nemici morti”. Non possiamo nemmeno negargli una rozza franchezza. Dopo il suo famoso discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, il 12 dicembre 1964, egli dichiarò: “Fucilazioni? Certo! Noi abbiamo fucilato, fuciliamo, e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è fino alla morte!”. Via di questo passo, i due giovani giornalisti brasiliani vanno avanti per quasi cinquanta pagine, esibendo ben sessantanove fonti a corredo delle loro affermazioni. A questo punto, però, siamo autorizzati a domandarci: ma coloro che indossano le magliette del Che e, o appiccicano le sue immagini su muri, moto, macchine e qualsiasi superficie serva all’uopo sanno, o ignorano, tutte queste cose? Frivoli? Idioti utili? Giocattoli nelle mani della propaganda comunista? A voi la scelta…

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive Cumasch. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

Il Fascismo è di Sinistra, scrive Nicholas Micheletti. Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo. – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Molti professori non si soffermano sulle caratteristiche base dell’ideologia fascista. C’è molta carne al fuoco che, per motivi prettamente ideologici, vengono analizzati in modo pessimo. Punto primo: il fascismo è un’ideologia di sinistra, rivoluzionaria e antiborghese. Il movimento fascista è un movimento rivoluzionario, moderno, avanguardistico. Esso racchiude varie ideologie apparentemente in antitesi tra di loro: abbiamo dentro monarchici reazionari (De Bono), sindacalisti rivoluzionari (come il defunto Corridoni), futuristi (che non ho mai capito dove cazzo volevano andare a parare…), arditi, socialisti (Mussolini), repubblicani (Balbo). Il 4 fasci (che rappresentavano i 4 quadrumviri: Balbo, Mussolini, De Bono e De Vecchi) racchiusi in un unico fascio rappresentavano appunto l’unione di tante ideologie diverse tra di loro in un’unica sola: la patria. L’ideologia fascista fu dunque essenzialmente rivoluzionaria, di sinistra: bisognava formare una nuova Italia, un nuovo italiano che ragionasse secondo i dettami e le idee inculcategli dal partito. Giolitti, che vedeva in Mussolini un nuovo Crispi, aveva capito ben poco dell’essenza fascista. Il fascismo aveva anche un aspetto reazionario: ma si limitava solo al ritorno all’ordine dopo anni di lotte tra classe operaia e padronale (biennio rosso), la componente reazionaria è solo una goccia nell’oceano! Poi che l’ideologia fascista sia cambiata nel corso degli anni, che si sia venduta alla classe padronale (anche se in modo non evidente come l’esempio di Hitler in Germania), che sia degenerata è tutto vero! Ma l’applicazione è sempre differente all’ideologia. Ogni regime è di per se reazionario. Per “reazione politica” il vocabolario dice: << La reazione è un’opposizione a forme di innovazione politica, sociale, artistica o culturale, a sostegno del ritorno ad autorità, valori e istituzioni del passato, operata da partiti, gruppi di pressione o anche individui. >> Dunque ogni regime, anche comunista, si oppone al cambiamento, all’ instaurazione di un altro regime. «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e REAZIONARIE dell’occidente… » (Dichiarazione di guerra, giugno 1940, Benito Mussolini) Il Fascismo lo si colloca a destra solo per convenzione, ma è movimento di stampo socialista, una terza via dopo il capitalismo e il comunismo. E’ un movimento sia rivoluzionario, sia reazionario: rivoluzionario, perché era una rivoluzione, voleva cambiare l’Italia in un sistema nuovo, superando la lotta di classe, per voler arrivare al concetto perno dell’ideologia fascista: la Patria (come sopra), una nuova Italia basata sulla meritocrazia, sul rispetto dei superiori, sui valori della famiglia, un’ Italia in cui tutti volevano collaborare per renderla grande, un’Italia nuova; allo stesso tempo è un movimento reazionario perché nacque come reazione al comunismo (probabilmente senza il Fascismo, in Italia sarebbe arrivato il bolscevismo). Il comunismo è un’ideologia politica basata sull’abolizione della proprietà privata e delle classi sociali. La proprietà privata (terreni, ristoranti, fabbriche) è fonte di guadagno e i soldi sono fonte di corruzione, di potere usato per le prepotenze sociali verso i più deboli, ecc… Non sono dunque i capitalisti ad essere “cattivi d’animo”, ma è il capitalismo e gli effetti sociali che produce che li porta a comportarsi in una certa maniera. Tali persone debbono essere private del loro capitale e debbono essere rieducate. Il capitale deve essere di proprietà dello stato (ovvero della collettività) e la ricchezza da esso prodotte deve essere distribuita dallo stato in proporzione ai meriti, al lavoro e alle necessità dei singoli. Questa idea non può che essere giusta, ma gli uomini non sono in grado di rinunciare alle loro proprietà, e quindi il comunismo non può fondarsi sulla democrazia, ovvero sull’esercizio del potere per mezzo del consenso, ma deve basarsi sulla dittatura del proletariato (è proletario chi non possiede nulla). Solo così si può costruire un futuro migliore.” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del comunismo. Il comunismo fu teorizzato nella metà del 1800 da un tedesco di nome Marx ed applicato nella realtà per la prima volta nel 1917 in Russia. Esso fu applicato nei vari paesi in maniera più o meno rigorosa. Particolarmente rigorosa nel paese d’origine, la Russia, e nei paesi asiatici (Cina, Vietnam,…), meno rigorosa in alcuni paesi europei (Polonia ad esempio) e a Cuba (dove addirittura è stato sempre concesso di possedere piccole attività, come ristoranti, bar, ecc…). Attualmente è applicato in teoria in Cina (che nella realtà è diventato un paese capitalista) ed in pratica a Cuba (oggi in forma ancora più blanda). Essa è sempre fallita poichè si basava sull’assenza di democrazia (quindi sull’oppressione) e proponeva un sistema economico in contrasto con la natura umana, in quando il concetto di proprietà è insito in tutto il regno animale (alcuni animali, ad esempio, segnano il proprio territorio con l’urina) e quindi anche nell’uomo. In Asia il comunismo si è macchiato di razzismo. “Il fascismo si fonda sul corporativismo. La corruzione, le lotte sanguinose, le prepotenze sociali, ecc… sono frutto della lotta di classe, cioè delle lotte che si sviluppano tra le varie classi sociali, per invidia e/o voglia di prevaricazione. Il progresso ed il benessere non possono che essere raggiunte con la pace sociale, che può esistere solo se le classi sociali si alleano tra loro per il bene del paese. Debbono nascere dunque le corporazioni, cioè alleanze tra uomini che fanno lo stesso mestiere. Tuttavia non si può mai immaginare che la corporazione dei proprietari terrieri e quella dei contadini vadano “spontaneamente” d’accordo come anche quella degli industriali con quella degli operai, quindi anche il fascismo non può basarsi sull’esercizio del potere tramite il consenso, bensì sulla dittatura. Lo stato impone la concordia e per far sì che essa duri deve preoccuparsi del bene degli appartenenti alle corporazioni in ogni modo, garantendo loro un’adeguata assistenza sociale (istituzione di enti assistenziali per i lavoratori tutt’ora esistenti come l’INPS, l’INAIL, ecc…; istituzione di enti di sovvenzione all’industria tutt’oggi esistenti come l’IRI; ecc… )e perfino organizzandone gratuitamente gli svaghi (introduzione del “Sabato Fascista”, degli enti nazionali del Dopolavoro come l’Enal, di manifestazioni sportive, culturali, sociali, ecc…). Tutte queste iniziative erano a spese dello stato, che si finanziava tramite un’adeguata tassazione di tipo progressivo (maggiore percentuale di tasse ai più ricchi). E’ vietata la libera iniziativa economica (una persona non può aprire un’attività come un ristorante o una fabbrica senza una speciale autorizzazione dello stato che è difficile avere) poichè la libera iniziativa porta alla concorrenza e alle lotte tra le varie fazioni. Gli industriali pagano più tasse per finanziare le iniziative dello stato e non possono imporre orari di lavoro troppo pesanti, ma godono della pace sociale perchè agli operai è vietato scioperare e sono tutelati dalla nascita di concorrenza nel loro settore poichè è vietata la libera iniziativa economica.” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del fascismo. Il fascismo nasce come reazione al comunismo in Italia, dove prende il potere nel 1922. Il capitalismo in quel periodo non si dimostra abbastanza maturo per offrire un sistema accettabile per la maggior parte della popolazione in alternative al comunismo, che riusciva ad allettare meglio le masse popolari. La rivoluzione russa aveva dimostrato che non era possibile reprimere con il solo uso della forza le ambizioni delle masse popolari ad avere condizioni di vita migliori, ma queste si dimostrarono incapaci di essere propositive e riformiste e si abbandonavano ad un estremismo che minacciava di provocare l’instaurazione di una dittatura comunista. Il fascismo si proponeva come sistema per garantire migliori condizioni di vita smorzando così la protesta sociale per poi reprimere con la forza le fazioni popolari più intransigenti (cioè quelle guidate dai comunisti) nonchè i sostenitori della democrazia. Dittature di tipo fasciste sono nate successivamente in tanti paesi (Spagna, Portogallo, Germania, ecc…). Tuttavia sono tantissimi i regimi che nel corso della Guerra Fredda si dichiaravano fasciste senza essere tali. Erano regimi dittatoriali appoggiati dagli Stati Uniti con l’unico scopo di contrastare il comunismo e di impedire le riforme sociali che avrebbero leso gli interessi delle multinazionali americane. Si trattavano di dittature rette da loschi individui che si proponevano solo l’arricchimento personale. Per capire se un regime dittatoriale è veramente di tipo fascista bisogna tener presente che il fascismo è caratterizzato dai seguenti fattori: profonda avversione per il sistema capitalista, per il comunismo, per i paesi anglosassoni (come Stati Uniti e Gran Bretagna), per Israele; grande simpatia per gli stati islamici (anche se estremisti), per la causa palestinese, esaltazione della propria identità nazionale e per l’assistenza sociale. Il fascismo è sempre fallito perchè si basava sulla dittatura (quindi sull’oppressione) e la pace sociale era imposta e quindi non sincera, ma in parte solo pace apparente in quanto vi erano molte tensioni sociali latenti. Inoltre la mancanza di libera iniziativa economica impediva il pieno sviluppo del principio della concorrenza e del continuo miglioramento del prodotto, facendo ristagnare l’economia e limitandone lo sviluppo. Di conseguenza tale sistema azzoppava sul nascere le idee innovative invece di favorirle. Il fascismo in Europa si è gravemente macchiato di razzismo. “Il capitalismo è un sistema economico che si basa sul capitale e sulla libera iniziativa economica. Non è una ideologia in quanto è esso stesso la negazione di ogni ideologia, intesa come idea preconcetta. La storia ha dimostrato che il capitalismo è il sistema più opportuno. Esso, infatti, anche se ha dimostrato di avere difetti (sfruttamento degli operai agli inizi del 1900, crisi economica mondiale del 1929, ecc…), ha dimostrato anche di essere molto flessibile e di conciliarsi bene con i molti correttivi di natura sociale ed economica che nel tempo ne hanno notevolmente attenuato i difetti. L’organizzazione sociale si basa sull’idea che tutti gli individui e tutte le classi sociali debbono avere interesse ad accordarsi. Ad esempio gli industriali devono avere interesse a pagare bene gli operai affinchè essi non esercitino il diritto di sciopero (per il quale non possono essere licenziati) bloccando la produzione e creando un danno economico all’imprenditore. Ma anche gli operai hanno interesse a non pretendere troppo poichè le giornate di sciopero sono detratte dallo stipendio (perchè in quei giorni non si lavora e quindi non si viene pagati). Di conseguenza, sia pure con fatica, si giunge sempre ad un accordo, poichè entrambi le fazioni hanno interesse ad accordarsi. E’ chiaro che un simile sistema può reggersi solo se la gestione del potere avviene tramite il consenso, e quindi in maniera democratica (altrimenti, per esempio, come fare le leggi che garantiscono il diritto di sciopero?).” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del capitalismo. Il capitalismo è nato con l’abolizione del sistema feudale, che può datarsi nella rivoluzione francese del 1789 in Europa o nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 per quanto riguarda il continente americano. Oggi quasi tutti gli stati del mondo sono ufficialmente capitalisti, ma non vi è vero capitalismo se non vi è vera democrazia (cosa che invece spesso manca). I paesi che sono riusciti ad applicare il capitalismo in piena osmosi con la democrazia con pazienza e perseveranza per molti decenni (come il nostro), introducendo di volta in volta gli opportuni correttivi, sono i più ricchi e progrediti al mondo sotto il punto di vista economico, culturale e sociale. Sintetizzando, dal punto di vista economico si ha:

1) Comunismo: Proprietà privata NO, Libera iniziativa economica NO!

2) Fascismo: Proprietà privata SI, Libera iniziativa economica NO!

3) Capitalismo: Proprietà privata SI, Libera iniziativa economica SI!

Dal punto di vista politico, invece, si ha:

1) Comunismo: Democrazia NO! (Dittatura del Proletariato)

2) Fascismo: Democrazia NO! (Dittatura Corporativa)

3) Capitalismo: Democrazia SI!

Fascisti di sinistra da "Fascisti immaginari" - Luciano Lanna e Filippo Rossi. «La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...» Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra». Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...». E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini». Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità». E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata». Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo. Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria». Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra». E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni.  Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla». Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista». In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"». E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale». Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!». Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia». E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata". In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI. Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI. In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna. Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi. Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza». Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi. Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte). Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana. Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato». Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste. «Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati». Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra». E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera. La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera. Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese». All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana. Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo. Luciano Lanna e Filippo Rossi da "Fascisti immaginari".

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

100 ANNI DALLA RIVOLUZIONE: MALEDETTO OTTOBRE ROSSO. Russia, niente feste per i 100 anni della Rivoluzione: Putin non mette in discussione la stabilità prima del voto. Il Cremlino ha deciso da tempo: in vista delle presidenziali niente festeggiamenti ma spazio ad eventi culturali, mostre e dibattiti. La decisione non ha comunque fermato i preparativi del Partito Comunista: dal 1 all’8 novembre riunioni, serate di gala sia a San Pietroburgo che a Mosca. Nel pomeriggio la consueta parata attraverserà la centrale via Tverskaya per concludersi davanti alla statua di Marx dietro la Piazza Rossa, scrive Maria Michela D'Alessandro il 7 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Fare i conti con il passato in Russia non è mai stato facile, e Vladimir Putin lo sa bene. Glielo hanno insegnato a scuola, da giovane, nel Kgb e persino in famiglia: meglio guardare al presente e al futuro, senza però dimenticare il passato. Ricordare sì ma facendo attenzione. Cento anni fa la presa del Palazzo d’inverno nella capitale di allora San Pietroburgo cambiò per sempre la storia della Russia, e del mondo. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre del 1917 – 24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano – c’era però un altro Vladimir al comando: il Partito bolscevico iniziò l’azione armata contro il governo provvisorio e l’insurrezione portò i rivoluzionari alla formazione di un governo presieduto da Vladimir Il’ič Ul’janov, per tutti Lenin. Quella Rivoluzione d’ottobre che segnò il crollo dell’impero russo e la nascita della Repubblica sovietica. Il no di Putin – A 100 anni da quel fatidico giorno, è difficile mettere d’accordo i russi sulla rivoluzione, tra l’indifferenza di alcuni e la nostalgia di altri. A mettere a tacere tutti è stato ancora una volta Vladimir Putin, da 18 anni il solo uomo al comando della “nuova” Russia: niente festeggiamenti ma spazio ad eventi culturali, mostre e dibattiti presieduti da professori universitari. Del resto anche il portavoce del Cremlino aveva chiarito che non ci sarebbe stato nulla da festeggiare, giustificando l’assenza di un programma ufficiale, seguito dalle dichiarazioni dello stesso Putin che, durante l’intervento al Valdai Club di Sochi, aveva definito i risultati della Rivoluzione di ottobre non univoci, ed oggi strettamente intrecciati a conseguenze sia negative che positive. Eppure, le tracce dell’ottobre 1917 sono indelebili. La festa dei comunisti – “Prima degli anni Novanta, era grande festa nazionale, tutti i cittadini erano quasi obbligati a partecipare alle celebrazioni”, spiega Andrey, un signore di mezza età cresciuto ai tempi dell’Unione Sovietica. Durante il mandato di Boris Eltsin i carri armati non sfilavano più ma gli uffici rimanevano comunque chiusi e si festeggiava quella festa diversa solo per il nome, diventata il “Giorno della Riconciliazione Nazionale”. Infine nel 2005 fu sostituita con la festa dell’Unità Nazionale, spostata al 4 novembre in ricordo della vittoria dei russi sui polacchi del 1612. “Oggi per me non c’è niente da festeggiare, la rivoluzione fu una tragedia”, conclude Andrey. Anche se a pensarla così non sono le migliaia di persone atterrate a Mosca in questi giorni: 120 delegazioni arrivate da tutto il mondo, dalla Cina al Venezuela, dalla Corea del Nord all’Italia passando per il Vietnam, tutti per ricordare la rivoluzione e gli eventi legati ad essa. Domenica mattina in tanti hanno fatto la fila per visitare il mausoleo di Lenin, vedere la salma del padre della rivoluzione d’ottobre e deporre garofani sulla tomba del milite ignoto e la sua fiamma eterna che onora la memoria di oltre 20 milioni di sovietici caduti nella guerra contro il nazi-fascismo. La decisione di Putin non ha comunque fermato i festeggiamenti del Partito Comunista guidato da Gennadij Andreevič Zjuganov: dal 1 all’8 novembre riunioni, serate di gala sia a San Pietroburgo che a Mosca. Nel pomeriggio di oggi la consueta parata attraverserà la centrale via Tverskaya per concludersi davanti alla statua di Marx dietro la Piazza Rossa. E questa sera saranno tutti all’hotel Renaissance di Mosca per una cena speciale o forse solo piena di nostalgia. Paura della rivoluzione – Tutti tranne Vladimir Putin. Per paura, per bisogno di stabilità in vista delle elezioni presidenziali del prossimo marzo, o forse per cancellare quella parola tanto odiata. Dal latino revolutio, revolutionis, la rivoluzione da sempre significa mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. E secondo Putin “la rivoluzione è sempre risultato di un deficit di responsabilità”. Secondo un sondaggio del Vciom, il Centro di Ricerca di opinione pubblica russa, pubblicato all’inizio del mese di ottobre, su 1.800 persone intervistate, il 57% ha definito la ‘rivoluzione’ come un evento storico inevitabile. Se il 38% dei partecipanti al sondaggio ritiene che gli effetti della rivoluzione siano stati positivi nel suo complesso, per il 92% sarebbe inaccettabile una nuova rivoluzione in Russia, così come i “rivoluzionari” pronti a prenderne parte, solo il 27%. La stessa ricerca ha rivelato come negli ultimi anni la simpatia nei confronti di Lenin, Stalin e Nicola II siano in aumento, passando da un 37% nel 2005 ad un 52% nel 2017 per il rivoluzionario georgiano, e dal 42% al 60% per l’ultimo imperatore di Russia. Quanto a Putin, se per una volta è stato escluso dal sondaggio del centro, altre ricerche, prime quelle del Levada Center, lo danno ancora in netto vantaggio su altri ipotetici candidati, se mai ce ne dovessero essere.

I russi non sanno come festeggiare la Rivoluzione d’ottobre (e Putin si tiene alla larga). Il 7 novembre saranno cento anni dalla rivoluzione guidata da Lenin che portò alla nascita dell'Urss. Putin non parteciperà alla marcia anche per non alimentare le opposizioni interne. Tra serie tv sull’ex nemico “Trockij” e film su Nicola II adulterino, la Russia non sa come affrontare il passato, scrive Andrea Fioravanti il 27 Ottobre 2017 su “LInkiesta”. Nel 1917 un Vladimir ha cambiato la Russia e il mondo facendo una rivoluzione nel mese di ottobre. Cento anni dopo un altro Vladimir non ha nessuna voglia di celebrare quell’evento per evitare che accada di nuovo. Il prossimo 7 novembre (il calendario non è più giuliano, ma gregoriano ormai) sarà passato un secolo esatto da quando Vladimir Ul'janov, in arte Lenin, a capo dei bolscevichi instaurò il regime comunista con un colpo di stato, rovesciando il governo provvisorio che aveva fatto abdicare lo zar Nicola II qualche mese prima. Dopo due guerre mondiali, una guerra fredda, sei segretari del partito comunista, un muro caduto e un decennio di disordine politico e sociale, il potere lo ha preso un altro Vladimir: Putin. E il presidente della Federazione russa non vede l’ora di togliersi il prima possibile questo impiccio. Per affrontare il più grande grattacapo istituzionale degli ultimi anni, il Cremlino ha una strategia chiara: festeggiare il meno possibile. Secondo il Financial Times, Vladimir Putin non parteciperà alla marcia del 7 novembre e l'evento serale sarà organizzato al Renaissance, un hotel nella periferia nord di Mosca, lontano dal Cremlino. Una decisione strana, in apparenza. Putin ha costruito la sua figura politica soprattutto partecipando ai grandi eventi di commemorazione della storia russa come la "Giornata della vittoria", festeggiata in pompa magna ogni 9 maggio, per celebrare la vittoria contro i nazisti nella seconda guerra mondiale. Putin vuole una festa onesta: «È inammissibile speculare su una tragedia che ha colpito tutte le famiglie russe non importa da quale lato delle barricate. Non può esserci la divisione, la malizia, il risentimento, l’amarezza del passato nella nostra vita di oggi e nei nostri interessi politici» ha detto in un discorso rivolto alla nazione dal Cremlino, una settimana fa. Il presidente russo vuole evitare speculazioni politiche con il presente ma anche ricordare che il nemico non è tra i nostalgici del regime o i putiniani, ma là fuori: «Ricordiamoci che siamo un solo popolo e che siamo soli». Già, soli contro l’occidente. È su questa scia che Putin ha costruito la sua figura di padre della nazione e restauratore dell’ordine dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica e il caos politico e sociale dell'era Eltsin. Ad ascoltare in prima fila il discorso di Putin c’era anche un altro Vladimir, Gundjaevil (Cirillo I) capo della chiesa ortodossa russa, istituzione lasciata ai margini dal regime sovietico e ripescata da Putin per sostenere la sua presidenza votata all’ideologia nazionalista. Putin si è posto come leader ed erede di un impero millenario che parte dal 988 e arriva fino all'annessione forzata della Crimea nel 2014. Nel mezzo alti e bassi, zar illuminati e pazzi, terribili e grandi. Sono loro a fare la storia con i generali e le guerre, non gli uomini comuni o i politici. In questo gigantesco (e semplificato) quadro storico l'Unione sovietica è considerata solo una piccola parentesi della storia, da ripescare solo per celebrare la vittoria contro i nazisti nel 1945. Anche per questo nel 2005 Putin ha cancellato l’anniversario della rivoluzione d’ottobre del 7 novembre (nel 1992 rinominata “Giorno della conciliazione”) per introdurre la “festa dell’Unità nazionale”. Putin ha voluto che si festeggiasse ogni 4 novembre l’anniversario della liberazione di Mosca dall’occupazione dei polacchi, avvenuta nel 1612 per dare un senso di continuità con la storia degli zar. Nel 1613 salì al potere lo Michele I che diede inizio alla dinastia dei Romanov, durata poco più 300 anni fino alla destituzione di Nicola II, proprio nel 1917. Non solo una festa, ma un simbolo politico. Per capirci, il 4 novembre dell’anno scorso il Governo ha fatto erigere davanti alle porte del Cremlino una statua di 17 metri di un altro Vladimir, il grande, considerato il fondatore della Russia e della Chiesa ortodossa nel 988 d.C. Un simbolo di una Russia unita che ignora il passato comunista per ricollegarsi alle origini della sua storia. Secondo un sondaggio del 2014 dell’istituto indipendente Levada Center, solo il 54% dei russi intervistati ha identificato il nome corretto della festa dell’Unità nazionale e il 16% ha detto di non conoscerla. Anche se la celebrazione del 7 novembre è stata sospesa negli ultimi anni, il centenario non si può ignorare per tante ragioni. In fondo si tratta di un evento che non ha cambiato solo la storia nazionale russa ma anche quella del mondo intero. Ignorarla completamente sarebbe impossibile. Ed è impossibile visto che ogni strada, monumento, piazza è intrisa della storia dell'Unione sovietica. Sempre Putin ha detto che la rivoluzione russa «ha avuto conseguenze positive e negative». Un’analisi ambigua e indicazioni poco chiare del governo su come celebrare la rivoluzione ha lasciato ai russi molti dubbi se festeggiare o meno.

Il primo canale russo, Tv1, manderà a inizio novembre una serie tv sulla rivoluzione russa. Protagonista: Lev Troctkij. Sì, proprio lui: il teorico della rivoluzione comunista permanente, braccio destro di Lenin e nemico di Stalin che lo fece prima esiliare in Messico, poi uccidere e subire una damnatio memoriae. La “rai” russa, controllata dal governo, ha scelto di riabilitare l’uomo più odiato dal regime staliniano per raccontare la rivoluzione del 1917. Un altro modo ancora per il governo di smarcarsi da quel periodo storico. Finalmente la Russia è riuscita a storicizzare il proprio passato? Non proprio. Ieri è uscito al cinema “Matilda” un film sulla storia d’amore tra lo zar Nicola II e Matilda Kshesinskaya, ballerina del Teatro imperiale di S.Pietroburgo. Il film ha scatenato polemiche per le scene di sesso tra i due definite oltraggiose da molti, compresa la deputata Natalia Poklonskaya. La 37enne, dal 2014 al 2016 procuratrice generale della Repubblica autonoma della Crimea, mandata dal governo russo dopo l’annessione forzata della regione, ha chiesto di proibire il film nelle sale. La dichiarazione del volto ufficiale del regime alla Duma, il parlamento russo, è una rassicurazione alla chiesa ortodossa russa che ha santificato Nicola II. Ora, nel film Nicola Romanov non era ancora diventato zar e compare in poche scene, anche se la maggior parte di sesso, ma questo non ha impedito a molti cinema di rifiutare la proiezione. E in quello dove si è svolta l'anteprima, la polizia ha controllato che non ci fossero delle bombe in sala. A Ekaterinenburg, il principale centro economico dell’area degli Urali, il 4 settembre un uomo ha incendiato due macchine davanti alla sede dell'avvocato di Alexey Uchitel, regista del film. Da occidentali è difficile capire perché i russi si affidino ancora a lui dopo 17 anni di potere. Questo ex agente del Kgb con la passione per gli sport estremi e le pose da macho ha ereditato un Paese nel caos istituzionale, politico e sociale e gli ha garantito ordine e sicurezza. Sono queste le due ragioni principali. Tutto il resto è propaganda occidentale o del Cremlino. Per farlo Putin ha usato metodi duri, non democratici ma per la maggioranza dei russi era l’unico modo possibile e accettabile per non far crollare tutto il sistema. «Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente» è una massima attribuita al leader comunista cinese Mao Zedong (o Tse tung, se preferite). In Russia la confusione culturale e storica rimane, quella politica non ancora. Ma la situazione non sembra favorevole, almeno per Putin. Da occidentali è difficile capire perché i russi si affidino ancora a lui dopo 17 anni di potere. Questo ex agente del Kgb con la passione per gli sport estremi e le pose da macho ha ereditato un Paese nel caos istituzionale, politico e sociale e gli ha garantito ordine e sicurezza. Sono queste le due ragioni principali. Tutto il resto è propaganda occidentale o del Cremlino. Per farlo Putin ha usato metodi duri, non democratici ma per la maggioranza dei russi era l’unico modo possibile e accettabile per non far crollare tutto il sistema. La situazione negli ultimi anni è cambiata. Il principale oppositore del Cremlino, Alexei Navalny è stato definito da molti un blogger ma è una definizione riduttiva. Navalny è un avvocato, finanziere e giornalista che ha usato un blog (e non solo) per mobilitare i giovani russi. Come tutti i nati dopo la caduta del muro di Berlino non guardano la tv, sono sempre su internet e non hanno vissuto l’Unione sovietica. Putin ha portato sicurezza e ordine ma per farlo non ha potuto impedire la corruzione. È su questo pertugio di critica al sistema e non solo a Putin che Navalny ha costruito il suo movimento formato in gran parte da giovani e punta a vincere le elezioni il prossimo marzo. Non ci riuscirà. Anche perché c'è una terza e nuova candidata: Ksenia Sobchak. La figlia dell’ex sindaco di S.Pietroburgo e mentore di Vladimir Putin, fa la giornalista e ha un programma in tv. Come Navalny vuole prendere il voto dei giovani che protestano contro il sistema corrotto. Basta avere qualche rudimento di politica per sapere che divisi si perde. Putin ha avallato la candidatura di Sobchak proprio per dividere le opposizioni. Non solo Navalny e Sobchak, ma anche i nazionalisti russi che come sostiene il Carnegie Moscow Center sono sempre più fuori controllo. E l’attentato di Ekaterinenburg. Putin ancora non ha annunciato la sua candidatura e secondo alcuni potrebbe farlo proprio il 7 novembre. Ma il grande orso della politica russa rischia di inciampare tra i tanti piccoli nani politici ed estremisti che ha contribuito a creare. Anche per questo il centenario della rivoluzione russa del 1917, scoppiata per colpa di governanti incapaci di capire le istanze di cambiamento della popolazione è il peggior anniversario possibile da festeggiare.

La gita dei nostalgici comunisti Tutti a Mosca per la Rivoluzione. Una delegazione di politici di Pc e Rifondazione in Russia. Mummie con il pugno chiuso da Rizzo ad Alboresi, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 08/11/2017, su "Il Giornale". I compagni si sono ritrovati tutti come quel giorno di cento anni fa. Cantando e marciando con il pugno chiuso verso la Cattedrale del Salvatore sul Sangue Versato a San Pietroburgo, la chiesa che venne eretta nel luogo dove venne ammazzato lo zar Alessandro II e ancora il treno di Lenin e la stazione ferroviaria Finlyandsky, dove Lenin tornò dopo l'esilio, e la fermata della metropolitana Gorkouskaya, dedicata allo scrittore Gorky, il palazzo museo della politica Kshesinskayaj e poi a Mosca, il Cremlino, la piazza Rossa, siti di nostalgia e di fede, falce e martello, la barba di Lenin e il suo copricapo agitato nell'aria gelida di novembre, poi i baffoni di Stalin e, ancora a San Pietroburgo, il museo galleggiante dell'incrociatore Aurora dal quale partì il colpo di cannone che segnò la conquista del Palazzo d'Inverno. Fedeli nel secolo, i comunisti di ogni dove, si sono visti, rivisti, conosciuti e riconosciuti, infine radunati, venendo da Cuba e dal Vietnam, dalla Corea del Nord e dalla Cina, Paesi dove la rivoluzione ha lasciato segni e sogni, eroi e vittime ma nel silenzio e con la propaganda che si deve ai regimi, tutti ma quelli di estrema sinistra con il privilegio particolare. Vladimir Putin si è tenuto alla larga da bandiere e icone, lontano dai cortei, dagli altri siti delle celebrazioni, niente falce e martello, fine di un'epoca, non della storia, la nuova Russia non dimentica ma evita il ricordo drammatico. I morti si contano, non si cancellano con la propaganda ma la memoria cerca di onorarli diversamente. In contemporanea ai cortei nostalgici, l'altra Mosca ha celebrato, con la consueta parata, i 76 anni della marcia dell'Armata Rossa che, il 7 novembre del '41, partiva verso il fronte per opporre resistenza al nemico. Sul fronte russo contemporaneo si sono presentati i nostalgici comunisti nostrani, di ogni sezione e cellula, Rifondazione, Pci, Pc dei lavoratori, con a capo, si fa per dire, Marco Rizzo e con lui Maurizio Acerbo, Marco Consolo, Mauro Alboresi, ultimi bolscevichi, in verità menscevichi, non più maggioranza ma ormai minoranza, coda di un tempo che fu, festival malinconico dell'Unità, smarrita non soltanto nelle edicole. Il compagno Lenin è sempre presente fra loro e nei manifesti, nei quadri, nei fogli d'epoca, ovviamente nel mausoleo, sotto una teca di cristallo, cadavere imbalsamato, monumento di se stesso, cioè di una filosofia e di un'azione politica poi devastata dai suoi successori come testimonia un sondaggio effettuato dal Levada center, un centro studi non governativo, anzi marchiato come «agente straniero». Secondo il 23% degli intervistati, Lenin ha portato il Paese sulla via del progresso e della giustizia, il 21% pensa che i successori, Stalin basta e avanza, abbiano distrutto il sogno e il 15% ritiene che Lenin abbia invece portato alla Russia morti e disgrazie. Lenin non si tocca ma c'è chi vorrebbe seppellirlo, portarlo via dalla Piazza Rossa, togliere quel macabro sito e trasformarlo in un museo perché la gente di Russia è ormai stanca delle tragedie. I nostri combattenti della falce e del martello, stimolati dal tovarisch Gennady Zjuganov, primo segretario dell'unione dei partiti comunisti, non la pensano così, sono imbalsamati, come il compagno Vladimir Ilic, sventolano idee, drappi e parole impolverate e polverose, residuati dell'altro secolo, non c'è più l'albergo Lux, dove i rivoluzionari si radunarono per l'assalto, oggi il viaggio tutto compreso, prevedeva albergo a tre stelle, escursioni con pranzo, trasferimento aeroporto-hotel-stazione, viaggio in treno Sapsan (collega ad alta velocità Mosca a San Pietroburgo, Sapsan significa «Falco» ed è la Freccia Rossa, guarda un po' le combinazioni cromatiche, delle ferrovie russe), tutto per euro 700, volo dall'Italia escluso. Non si resta più in coda per tre ore al controllo passaporti, scomparse le Zighuli si viaggia su vetture lussuose, le lampadine cimiteriali sono state sostituite con luci a cento watt, gli alberghi sono carichi di euro e dollari, il cambio al mercato nero è una barzelletta antica, così le calze di nylon e le penne bic, la mafia domina, la classe operaia spera nel paradiso in terra. Cento anni dopo, la Russia è ancora viva, da Lenin a Putin, sempre cinque lettere in testa a tutti, il Paese rivoluzionario è rivoluzionato. Il gruppo vacanze nostalgia dei comunisti nostrani rientra ai rispettivi domicili, con il selfie di un Paese che non è più quello dei loro sogni. Sabato prossimo il Partito Comunista dei Lavoratori terrà una conferenza per il centenario della Rivoluzione di Ottobre. Il sito: Reggio Calabria. Boia chi molla.

23 agosto - una data storica, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Il 23 agosto 1991, i telespettatori sovietici assistono increduli a uno spettacolo che mai avrebbero immaginato di vedere. All’onnipotente segretario generale dell’onnipotente Partito comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbacev, appena liberato da una residenza estiva in cui i ribelli l’avevano imprigionato, viene intimato pubblicamente di tacere. Quell’interlocutore dal cipiglio vendicatore e imperioso è l’eroe del giorno Boris Eltsin, ex membro del Politburo, il quale si è sorprendentemente dimesso dal partito l’anno precedente ed è stato trionfalmente eletto a suffragio universale presidente della Repubblica di Russia. Umiliato, politicamente sconfitto, il giorno successivo Gorbacev e costretto ad annunciare le proprie dimissioni dalla direzione del Partito comunista e, soprattutto, il divieto dell’intromissione di quello stesso partito nell’esercito e negli organismi di Stato. Il 25 dicembre dello stesso anno, alle 19,30, la bandiera rossa con falce e martello, che sventolava sul Cremlino dal 1917, è sostituita dal vessillo tricolore russo. Muore così, dopo settantaquattro anni di potere assoluto, il primo regime comunista, trascinandosi dietro quello che Annie Kriegel aveva definito il «sistema comunista mondiale».

Cos'è il comunismo? Scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Il termine "comunismo", nato in Francia nel 1840, ma ha acquisito il significato corrente solo nel 1918, quando Lenin, dopo aver preso il potere in quello che era l'impero russo, ha chiamato il suo partito comunista. Fino alla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista nel 1848, i termini socialismo e comunismo erano considerati intercambiabili. Marx ed Engels operano la suddivisione tra «socialismo utopistico» e «socialismo scientifico», che essi chiamano anche comunismo e che sarà la base ideologica di tutte le dittature comuniste. Il comunismo è una variante del socialismo. Mentre i socialisti credono nella democrazia e vogliono conquistare il potere democraticamente, i comunisti credono nella dittatura del proletariato e intendono arrivare al potere con la rivoluzione. In un'occasione, Lenin francamente ha definito il comunismo come la dittatura del proletariato, un potere non limitato da nulla, da nessuna legge, non condizionato da alcuna regola, che si basa sulla coercizione. Una definizione che descrive perfettamente ciò che è avvenuto sotto il suo regime. I comunisti, come i socialisti e gli anarchici, affermano che la loro dittatura è solo un regime temporaneo, istituito per distruggere le classi possidenti e l'intero ordine socio-politico borghese. Una volta che la borghesia sia stata schiacciata, lo stato sarà "appassito" ed è destinato a cedere il posto a una libera associazione di comunità. Ma questo obiettivo non è mai stato raggiunto da alcun regime comunista. La lotta di classe è stata intesa a partire da Lenin nel più drastico dei modi: l'eliminazione fisica di tutti quelli ritenuti incompatibili con l'edificazione del comunismo (tecnici, ingegneri, professionisti attivi sotto il governo zarista, contadini proprietari kulaki, religiosi e devoti). Questo sterminio ha raggiunto il suo apice con Stalin, e successivamente in Asia con Mao Tse-tung, e Pol Pot. Ovunque i comunisti abbiano preso il governo, la proprietà dei mezzi di produzione e dei terreni agricoli, è stata trasferita allo stato (nota: non agli operai, non ai contadini, ma allo STATO). La borghesia è stata annientata (non solo tramite l'espropriazione ma anche fisicamente tramite omicidi, persecuzioni, deportazioni) ma ad essa si è sostituita una nuova casta con difetti ancora peggiori: una nomenclatura improduttiva, vorace, ignorante che si è arrogata diritti e privilegi che fingeva di voler combattere. I regimi comunisti, quando non sono crollati per il fallimento economico o nel tentativo di riformarli (ed è il caso dell'Unione Sovietica) si sono atrofizzati. Cuba e la Corea del Nord sono due esempi evidenti di questa incapacità di evolversi. L'Unione Sovietica, si è disgregata con il tentativo di riformarla in senso democratico. Si vedano gli articoli: 23 agosto - una data storica - Soltanto Stalin. La Cina rimane una feroce dittatura comunista che sopravvive solo perché ha abbracciato l'economia di mercato: arricchirsi è glorioso (Deng Xiaoping). Tutte le esperienze di questo secolo indicano che un regime comunista non può essere cambiato democraticamente dal basso, dalla volontà popolare ma unicamente dalle classi dirigenti. Brano di Stéphane Courtois dal capitolo "I crimini del Comunismo" da "Il libro nero del comunismo" (Mondadori)

I crimini del comunismo, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale le Guardie rosse di Mao hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

URSS, 20 milioni di morti,

Cina, 65 milioni di morti,

Vietnam, un milione di morti,

Corea del Nord, 2 milioni di morti,

Cambogia, 2 milioni di morti,

Europa dell'Est, un milione di morti,

America Latina, 150 mila morti,

Africa, un milione 700 mila morti,

Afghanistan, un milione 500 mila morti,

Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10 mila morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti. Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.

Brano di Stéphane Courtois dal capitolo "I crimini del Comunismo" da "Il libro nero del comunismo" (Mondadori)

Soltanto Stalin

Il progetto di Gorbaciov di trasformare l’Unione Sovietica in una confederazione di Stati sovrani fallì dopo la secessione di varie Repubbliche. Nel settembre del 1991 l’Urss, già parzialmente disintegrata si dissolse.

Soltanto Stalin, scrive Indro Montanelli il 28 novembre 1988. Ero in Israele, anni cinquanta, quando dalla Russia di Kruscev cominciarono a giungere i primi segni di disgelo e di qualche apertura di frontiere. «Ne sarete contenti», dissi a Golda Meir, «ora anche i vostri potranno avere il passaporto.» «Contenti?» rispose lei. «Ne siamo atterriti. Quei popoli lì la prima libertà che si prendono quando gliene danno qualcuna è di ammazzare gli ebrei e poi di ammazzarsi fra loro.» Non è necessario essere un cremlinologo — razza fortunatamente in estinzione — per capire cosa sta succedendo in Russia e perché succede solo ora. Basta un po’ di Storia (e mi scuso per l’ovvietà del suoi suggerimenti). Quel Paese non ha mai conosciuto la democrazia — e temiamo che non possa conoscerla nemmeno nel prossimo futuro— non per qualche celeste maledizione ma perché, per tenere insieme le popolazioni che si è messa da secoli in corpo, ha sempre avuto bisogno di un potere centrale di ferro, secondato da una Polizia occhiuta e invadente. Lo fu quello degli zar, che cadde quando accennò a smettere di esserlo. Lo è stato quello di Lenin, di Stalin [si veda anche: Lenin maestro di Stalin nella pratica del terrore NRD] e dei suoi successori, fino a Breznev. Non vuole più esserlo quello di Gorbaciov, e la prima libertà che gli azerbaigiani sì prendono è quella di ammazzare gli armeni. Tanto per cominciare. Forse i padri della rivoluzione erano in buona fede quando dettero al loro Stato il nome di Urss, che significa Unione delle repubbliche sovietiche socialiste con pieno riconoscimento delle vari etnie che la compongono. Erano convinti di aver trovato un mastice più efficace della coazione poliziesca: l'ideologia. A furia di scrivere e di ripetere che i nazionalismi sono soltanto creazioni e inganni del capitalismo, è probabile che abbiano finto per crederci. Soppresso il capitalismo nei ceti sociali che lo incarnavano, i popoli proletari si sarebbero sentiti fratelli al di sopra di ogni differenza di sangue, di lingua, di cultura, di religione. La verifica l'abbiamo sotto gli occhi. Certamente Gorbaciov aveva previsto le tremende resistenza che la sua perestrojka avrebbe trovato nella cosiddetta nomenklatura, detentrice del potere con il diritto di abusarne, e quindi ben risoluta a difenderlo. Ma forse non immaginava che la minaccia più grossa al suo riformismo decentratore sarebbe venuta dall'esplosione dei nazionalismi, che ora rischiano di travolgerlo. Alcuni commentatori sostengono che ad accendere la miccia ed a propagare l’incendio siano proprio gli elementi conservatori (quelli che si riconoscerebbero, non so con quanta pertinenza, in Ligaciov), per dimostrare che i nazionali si combattono in un modo solo, quello di Stalin, e provocare così un ritorno ai suoi metodi. Può darsi. Ma la domanda che si pongono — ne siamo sicuri — i nostri lettori è se ce la farà Gorbaciov a domare l’incendio coi metodi suoi. Purtroppo, è una domanda cui nemmeno lui è in grado, ora come ora, di rispondere. Noi siamo convinti della sua buona fede. Così come lo siamo della sua capacità di manovra. L’uomo è di stazza. Ha visione strategica e coraggio da vendere. E se riuscisse a realizzare solo una metà di ciò che evidentemente ha in testa passerebbe alla Storia come il più grande protagonista di questo secolo, che pure di grandi protagonisti — nel bene e nel male — ne ha visti passare parecchi. Ma da dilettanti, a naso, e nella speranza di sbagliarci - non gli diamo più del trenta per cento di probabilità. Comunque due lezioni ci sembra di poter trarre sin d’ora da questa vicenda. La prima è che se settant’anni d’Internazionalismo proletario praticato senza esclusione di colpi non sono bastati a debellare i nazionalismi, vuoi dire che il sangue la lingua, la religione la cultura sono più forti dell'ideologia. La seconda è che i totalitarismi sono più facili o meno difficili da montare che da smontare. A liberalizzare la Russia e a guarirla dallo Stalinismo poteva forse riuscire un uomo solo: Stalin.

Le persecuzioni del comunismo alla religione, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". I teorici del comunismo non hanno mai nascosto il loro odio verso la religione. Marx ed Engels la definiscono “oppio dei popoli” ; Lenin la chiama “acquavite spirituale” ; Il comunista sardo Gramsci definisce la religione “puro narcotico per le masse popolari” . Il “socialismo scientifico” non va giudicato però nelle sue affermazioni teoriche, ma nelle sue realizzazioni pratiche, perché è nella prassi, come spiega Marx, che i filosofi dimostrano la verità del loro pensiero.

L'origine delle persecuzioni comuniste alla religione trova ispirazione nella rivoluzione francese: qui la persecuzione del cristianesimo si inquadrò in un più generale tentativo di sradicare completamente tutte le tradizioni dell'Ancien regime, con aspetti singolari come il culto della "dea Ragione" o la sostituzione dei nomi dei mesi del calendario. Sul piano giuridico, la posizione del comunismo nei confronti della religione è quella riassunta dall’art. 124 della Costituzione sovietica del 1936 secondo cui: “la libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini”. Religione e antireligione non sono sullo stesso piano. La libertà religiosa è ristretta al culto privato, alla coscienza interiore del singolo e di fatto vanificata. L’antireligione ha invece il diritto di propaganda e l’appoggio dello Stato. L’ateismo deve espandersi occupando lo spazio pubblico, mentre la religione deve estinguersi, anche perché il sistema comunista nega la dimensione privata dell’individuo in nome del primato del pubblico e del collettivo. L’ateismo militante costituì, di fatto, il motore del sistema sovietico. Tutto ciò che apparteneva alla Chiesa, non solo proprietà e beni economici, ma seminari, scuole, orfanotrofi, ospedali, vennero nazionalizzati. Fu vietato l’insegnamento della religione e l’uso visibile di simboli religiosi, come icone e croci, perfino sulle tombe. Tutte le funzioni religiose e le manifestazioni pubbliche della religione, quali battesimi, matrimoni, funerali, dovevano essere prive di ogni riferimento religioso.

Cattedrali, chiese e cappelle destinate al culto furono trasformate in stalle per animali, in magazzini, in fabbriche, in sale cinematografiche. Si organizzarono “carnevali antireligiosi” nel periodo delle grandi feste liturgiche. Furono prodotti film antireligiosi e creati musei dell’ateismo, spesso nelle chiese. L’insegnamento e lo studio dell’ateismo venne reso obbligatorio nelle Università e nelle scuole di ogni ordine e grado. Anche la radio dell’Associazione degli Atei militanti trasmetteva su tutte le stazioni sovietiche in 14 lingue e, nel 1970 in URSS erano 4500 le stazioni radio che diffondevano la propaganda. La Chiesa ortodossa russa, prima del 1917 contava circa 210.000 membri del clero, tra monaci e preti diocesani, negli anni del Terrore, dal 1917 al 1941, ne vennero fucilati circa 150.000. Sempre nel 1917 i vescovi russi erano 300 e di essi 250 furono assassinati dai bolscevici. Dopo il crollo dell’impero, nel 1917 i cattolici erano forse 2 milioni e mezzo, i vescovi 14, i sacerdoti 1350, le chiese circa 600. Nel 1941 rimanevano aperte solo due chiese, una a Mosca e l’altra a Leningrado (appartenenti all’ambasciata francese) e vivevano nel Paese solo 1 vescovo (straniero) e 20 sacerdoti in libertà. I preti fucilati erano stati quasi 300, gli altri costretti ad emigrare. La campagna di ateizzazione proseguì, dopo la morte di Stalin (1953), sotto Kruscev e i suoi successori. Il rapporto Ilicev sull’educazione atea del novembre 1963 ribadì l’inconciliabilità di scienza e religione e la necessità di un sistema di coerente educazione scientifica atea. “Fra poco tempo – disse Kruscev – la religione finirà di esistere, la gente dimenticherà cosa è la religione ed io vi mostrerò l’ultimo sacerdote cattolico”. L’assalto alle Chiese dopo il 1945 La conferenza di Yalta sancì la spartizione dell’Europa in due zone di influenza: con il consenso dei governi occidentali, il comunismo sovietico divenne padrone assoluto dell’Europa orientale. Iniziò quindi la persecuzione contro i cristiani che vivevano nei Paesi dell’Europa orientale. Vanno ricordate le grandi figure di prelati cattolici che si opposero al comunismo in quegli anni terribili. Uno dei primi fu l’arcivescovo uniate di Leopoli in Ucraina, Joseph Slipyi. Quando i sovietici gli offrirono di divenire patriarca ortodosso di Mosca, purché rompesse con Roma, egli preferì continuare la sua vita nei gulag dove trascorse 17 anni e poi in esilio. Con lui va ricordato il beato Alessio Zaryckji (1912-1963), di nazionalità ucraina, deportato a Karaganda in Kazakistan, dove morì martire della fede nel 1963. Anche la Jugoslavia ebbe un suo simbolo eroico in Monsignor Alòjzije Stepìnac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria, arrestato il 18 settembre 1946. Era accusato di condiscendenza verso il nazismo, ma il reale movente era la lettera pastorale del 23 settembre 1945, con cui l’episcopato da lui guidato rivelava che 243 membri del clero erano stati uccisi, 169 imprigionati e 89 scomparsi. Sottoposto a processo, fu condannato a sedici anni di lavori forzati, trasferito al carcere di Lepoglava e successivamente al domicilio coatto nel suo villaggio natale di Krašiæ, dove rimase strettamente sorvegliato dalla polizia fino alla morte per avvelenamento nel 1960. Fu beatificato nel 1998 da Giovanni Paolo II. In Ungheria, l’arresto del cardinale Jozsef Mindszenty (1892-1975), il 26 dicembre 1948, manifestò le intenzioni del regime. I comunisti lanciarono contro di lui una campagna di diffamazione analoga a quella lanciata contro Stepinac. A causa della sua eroica opposizione fu torturato per quaranta giorni consecutivi e costretto a firmare documenti di cui non conosceva il contenuto. Tutti gli ordini religiosi furono dichiarati fuorilegge (1950) e circa diecimila religiosi furono costretti a trovare altri modi di vivere. Nel 2009 è stato beatificato mons. Zoltan Meszlenyi (1892-1951), vescovo ausiliario di Esztergom, successore del cardinale Mindszenty, morto in campo di concentramento nel 1951. E’ il primo beato della dittatura comunista ungherese. Due altri nomi celebri sono quelli del cardinale Stéfen Wyszinski (1907-1981) arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia e del cardinale Josef Beran (1888-1969), arcivescovo di Praga, in Cecoslovacchia. Quando il cardinale Beran, arcivescovo di Praga, morì, nel 1969, fu segretamente fatto cardinale Stephan Trochta (1905-1974), che morì, a sua volta, nel 1974 dopo un brutale interrogatorio. Con lui va ricordato il Beato Vasil Hopko (1904-1970), greco-cattolico, arrestato e torturato, e il vescovo clandestino, Jan Korec, nato nel 1923, oggi cardinale, animatore della resistenza cattolica in Slovacchia. In Lituania, la “terra delle croci”, dal 1972, la rivista clandestina “Cronaca della Chiesa cattolica in Lituania” ha documentato gli atti di arbitrio e di violenza commessi contro il popolo lituano. Ancora negli anni Ottanta, in Lituania, i sacerdoti venivano minacciati, picchiati, uccisi, come padre Bronius Laurinavicius (1913-1981) e padre Juozas Zdebskis (1929-1986). In Albania, preti e laici furono uccisi a migliaia dai comunisti di Enver Hoxha, passato negli anni Sessanta, dal comunismo filo-sovietico a quello cinese. I gerarchi del Partito comunista si compiacevano ad affermare che l’Albania fosse divenuta “il primo Stato ateo del mondo”, come si legge nella costituzione approvata nel 1976. Tra le figure di spicco della resistenza va ricordato padre Mikel Koliqui (1902-1997), creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1994. Era stato condannato ai lavori forzati nel 1945, con l’accusa di ascoltare le radio straniere. In Bulgaria, paese a larga maggioranza greco-ortodosso, la Chiesa ortodossa bulgara divenne nel 1950, un organismo pubblico, al servizio dello Stato. Padre Eugenio Bossilkov (1900-1952), oggi Beato, fu arrestato, torturato, condannato a morte e gettato in una fossa comune nel 1952. In Romania, le chiese, le scuole, gli ospedali cattolici vennero chiusi o trasferiti agli ortodossi. Mons. Iuliu Hossu (1885-1970), nominato cardinale in pectore da Paolo VI, rifiutò di rinnegare la propria fede e morì in prigione, come il servo di Dio Anton Durcovici (1888-1951), vescovo di Iasi. In Moldavia, i vescovi Aron Marton (1896-1980) di Alba Iulia e il padre Alexandru Todea (1912-2002), poi cardinale passarono la loro vita in prigione e agli arresti. Sono in corso i processi di beatificazione di mons. Vladimir Ghika (1873-1954), morto in un carcere comunista, in seguito alle torture della Securitate e quello del francescano padre Clemente Gatti (1880-1952), anch’egli morto in seguito ai maltrattamenti ricevuti in carcere. In Romania vi fu qualcosa peggio di Auschwitz. Nessun lager o gulag eguagliò il carcere di Pitesti, a nord di Bucarest, tra il 1949 e il 1952, vero e proprio teatro degli orrori, dove il carceriere Eugen Turcanu aveva inventato i supplizi più efferati, per rieducare i prigionieri attraverso la tortura fisica e psichica, praticata a vicenda tra i detenuti politici. Ai seminaristi veniva infilata ogni giorno la testa in un secchio pieno di urina e di escrementi, mentre le guardie inscenavano una parodia del rito battesimale: Turcanu li obbligava i seminaristi a partecipare a messe nere, che lui stesso organizzava, specialmente durante la settimana santa e il venerdì santo. L’ombra dell’imperialismo comunista, fin dagli anni Trenta, si diffuse nel mondo. Come dimenticare l’olocausto rosso in Spagna, dove il numero dei preti e dei religiosi martirizzati è stato almeno di 6832, fra i quali trenta vescov. La maggioranza dei martiri del XX secolo finora beatificati dalla Chiesa risale soprattutto ai primi sei mesi della guerra civile spagnola, dal luglio 1936 al gennaio 1937. Anche l’Italia conobbe una “guerra civile” tra il 1943 e il 1945. È stata documentata la morte di 129 sacerdoti ammazzati dai partigiani comunisti tra l’8 settembre 1944 e il 18 aprile 1945. Tra questi, è stato beatificato don Francesco Bonifacio (1912-1946), ucciso dalle milizie di Tito nel 1946. C’è anche un seminarista di 14 anni, Rolando Rivi (1931-1945) per cui è avviata la causa di beatificazione. Il 18 gennaio 1952 Papa Pio XII nella Lettera apostolica Cupimus imprimis non esitò a paragonare la situazione dei cattolici e dell’intero popolo della Cina comunista a quella dei cristiani delle prime persecuzioni dell’epoca romana.

L’imponente libro Mao, "La Storia Sconosciuta" di Jon Halliday e Jung Chang , descrive dettagliatamente le pene patite dai seguaci di tutte le religioni in Cina nel secondo dopoguerra del Novecento. Nel 2000 è morto il cardinale Ignatius Kung Pin-Mei, l’arcivescovo di Shangai che ha passato 30 anni nei lager, 2 agli arresti domiciliari e 13 in esilio. Accanto al suo nome va ricordato quello del servo di Dio François-Xavier Nguyen Van Thuan, vescovo di Saigon (1928-2002) in Vietnam, imprigionato per 13 anni, dal 1975 al 1988, poi creato cardinale nel 2001. La persecuzione incruenta in Occidente Il comunismo è morto? I rapporti dell’Aiuto alla Chiesa che soffre documentano che la persecuzione continua da Cuba alla Corea del Nord, oltre che in Cina, dove i Laogai, inaugurati da Mao nel 1950, sono oggi ancora operanti, per annientare gli oppositori politici e fornire al regime un’enorme forza lavoro a costo zero. Non possiamo dimenticare però che accanto alla persecuzione cruenta, esiste quella incruenta, non meno feroce, che si serve del linciaggio mediatico e dell’isolamento morale. Esso fa parte della guerra culturale e psicologica del comunismo, che in Occidente ha trovato in Antonio Gramsci il suo maggiore teorico. L’anticristianesimo di Gramsci è sofisticato ma implacabile. Compito del comunismo, per Gramsci, è portare al popolo quel secolarismo integrale, che l’illuminismo aveva riservato a ristrette élite. Sul piano sociale, questo secolarismo ateo viene attuato mediante una eliminazione di fatto del problema di Dio, realizzata, secondo le parole del comunista sardo, da una “completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume” , cioè attraverso un’assoluta secolarizzazione della vita sociale, che permetterà alla “prassi” comunista di estirpare in profondità le stesse radici sociali della religione. Lo Stato “laico”, a differenza degli Stati atei del passato, non ha bisogno di professarsi esplicitamente ateo. Dio, ormai espulso totalmente da qualsiasi ambito sociale, non dev’essere nominato neppure per negarlo. Il Cristianesimo deve essere rimosso dalla memoria storica e dallo spazio pubblico, per evitare qualsiasi forma di autocomprensione cristiana della società. C’è quindi una stretta coerenza tra la richiesta, recentemente fatta all’Italia, di rimuovere il Crocifisso dai luoghi pubblici e l’espunzione di ogni richiamo al Cristianesimo dal Preambolo del Trattato di Lisbona. La nuova Europa, in cui non c’è posto né per Dio né per il Cristianesimo, realizza il piano gramsciano di secolarizzazione integrale della società. Il cuore ideologico del comunismo è il materialismo dialettico: la concezione del mondo secondo cui tutto è materia in trasformazione e la dialettica è la legge del perenne divenire. I regimi comunisti sono caduti, ma il relativismo professato e vissuto dall’Occidente si fonda sui medesimi presupposti del materialismo e del relativismo, ovvero sulla negazione di ogni realtà spirituale e di ogni elemento stabile e permanente nell’uomo e nella società. Dobbiamo prendere atto del fatto che la profezia di Fatima, secondo cui la Russia avrebbe diffuso i suoi errori nel mondo, si è avverata. La decomposizione del comunismo ha putrefatto l’Occidente. Il comunismo non è riuscito però a distruggere il Cristianesimo e in esso, e solo in esso, l’Europa può ancora trovare le ragioni della sua vita e della sua speranza. Roberto De Mattei, Convegno “The Fall of Communism Conference: 1989-2009 – Lessons learned” Zagabria – 4 dicembre 2009.

Evoluzione del comunismo: la distruzione della famiglia tradizionale, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Le teorie economiche dei comunisti si sono rivelate fallimentari: ovunque applicate hanno prodotto enormi catastrofi. Tuttavia alcune idee dei socialisti e dei comunisti sulla società, sulla famiglia, sull'educazione dei figli continuano a circolare, producendo danni altrettanto gravi e una aberrante povertà morale nelle società occidentali. L'estrema deriva di questo pensiero è l'ideologia gender che sostiene la non-esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne determinata da fattori scritti nel corpo, ma che gli uomini e le donne sono uguali da ogni punto di vista. C'è, per l'ideologia gender, una differenza morfologica ma non conta nulla ed è superabile. Per gli ideologi gender, la differenza maschile / femminile è una differenza esclusivamente culturale: gli uomini sono uomini perché sono educati da uomini, le donne sono donne perché sono educate da donne. C'è secondo Stefano Zecchi (scrittore, filosofo ed ex comunista) un motivo culturale che conduce a propagandare la filosofia gender e cioè che l’estremismo radicale con cui prima la sinistra affermava che il comunismo era la salvezza per i popoli è stato trasferito nella convinzione che i generi vadano aboliti. “Dire che i generi non sono più maschio e femmina – afferma – ma addirittura 56 tipi diversi diventa la battaglia per un’identità politica. Come prima credevano sinceramente che il comunismo salvasse il genere umano e si riconoscevano nella moralità ineccepibile, così oggi sostengono che il gender salva dall’abbrutimento. Ma così la politica diventa biologismo, selezione della specie, darwinismo deteriore. Basta leggere i loro testi”.  Sempre Zecchi sull'indottrinamento dei bambini all'ideologia gender fin dalle scuole elementari: «Mette i brividi questo tentativo di sottrarre i bambini all’educazione dei genitori, contrapponendo ai valori e alle tradizioni della loro famiglia, qualcosa di imposto dallo Stato e di aleatorio». «Una cosa degna del peggior comunismo stalinista».

Comunisti contro la famiglia. Marx e Engels avevano le idee chiare sulla famiglia. Distruggerla. E l'hanno scritto ben chiaro nel Manifesto del partito comunista, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Abolire la famiglia! Sino i più radicali s’indignano a questa esecrabile intenzione dei comunisti. Quale è la base della famiglia borghese dell’epoca nostra? Il capitale e il guadagno individuale. La famiglia non esiste allo stato completo che per la borghesia, ma essa si completa nella prostituzione pubblica, e nella soppressione delle relazioni di famiglia per il proletario. La famiglia del borghese sparisce naturalmente colla scomparsa del suo completamento necessario, e l’uno e l’altro scompaiono coll’abolizione del capitale. Ci rimproverate di volere abolire l'educazione dei fanciulli fatta dai loro parenti? Confessiamo il delitto. Voi pretendete che sostituendo l’educazione sociale all’educazione domestica si spezzano i vincoli più cari. La vostra educazione non è forse essa pure determinata dalla società, dalle condizioni sociali, nelle quali voi allevate i vostri fanciulli, dall’intervento diretto od indiretto della società coll’aiuto delle scuole, ecc.? I comunisti non inventano l’influenza della società sull’educazione, essi ne cambiano soltanto il carattere e strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.

Comunismo e diritto all'aborto, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Le cifre sull'aborto forzato in Cina (la politica del figlio unico) sono impressionanti: si stimano 400 milioni di morti da quando è entrato in vigore l'obbligo di generare un solo figlio. In anni recenti si sono superati i 13.000.000 di aborti all'anno. Il grafico illustra bene il divario con gli altri paesi. L’aborto libero e legale, cioè riconosciuto dalla Legge come diritto, come cosa giusta, appare per la prima volta nella Storia con la Rivoluzione comunista del 1917: il comunismo parte dal presupposto arbitrario che la famiglia non sia un istituto naturale, ma un portato della Storia, un istituto artificiale. La famiglia sarebbe tipica di un mondo ingiusto e corrotto, quello "borghese", che riconosce la proprietà privata dei beni materiali e quella che per i comunisti è la «proprietà privata degli affetti», la famiglia, appunto. Per Vladimir Lenin (1870-1924), che si colloca sulla scia dei pensatori social-comunisti - Dom Deschamps (1716-1774), Étienne-Gabriel Morelly (1717-1778), Babeuf (Settecento), Charles Fourier (1772-1837) e Karl Marx (Ottocento) - abolizione della proprietà privata significa dunque anche abolizione dei rapporti familiari moglie-marito, genitori-figli: per questo introduce, coerentemente, il divorzio e l'aborto. L'aborto per i comunisti è giustificabile anche alla luce di un altro cardine del pensiero comunista: il materialismo. L'uomo, e così pure il bimbo nel ventre materno, è pura materia, senza anima e destino immortali. Le conseguenze pratiche non tardano a manifestarsi. Françoise Navailh, nella sua Storia delle donne: il Novecento, a cura di Françoise Thebaud, (Ed. Laterza 1992), scrive: «L'instabilità matrimoniale e il rifiuto massiccio dei figli sono i due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi sommersi, diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente, i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. I padri abbandonano la famiglia, lasciando spesso una famiglia priva di risorse». Gli effetti di tale politica divorzista e abortista si vedono ancor oggi: basti pensare quanti e quanto grandi sono gli orfanotrofi negli ex Paesi comunisti (Romania, Ucraina, Bielorussia, Russia, ecc…), da cui vengono presi gran parte dei bambini adottati in Europa (adozioni internazionali). In Russia si arrivava al punto, come ha raccontato Olga Kovalenko, olimpionica in Messico nel 1968, che, come lei, «anche altre ginnaste nell'URSS venivano indotte a concepire e poi abortire, perché con la gravidanza l'organismo femminile può produrre più ormoni maschili e sviluppare più forza. Se rifiutavano, niente Olimpiadi».

Il comunismo e l'ideologia "gender", scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". In campo di morale sessuale il comunismo ha fatto una completa inversione ideologica: sotto Stalin, Mao, e altri tiranni comunisti gli omosessuali venivano imprigionati, deportati e costretti ai lavori forzati. Ora, sotto le bandiere del partito comunista, ancheggiano pederasti, lesbiche, trans e ogni altra possibile categoria di persone appartenenti a qualche devianza sessuale. Le sedi di Sel / PD / Rifondazione comunista sono piene di bandiere arcobaleno, che capovolte sono diventate l'emblema dei "gay". Sono state rimosse le foto ufficiali di Stalin, (probabilmente non quelle di Lenin o di Mao) ma campeggiano in bella vista i ritratti di Pasolini. Uno degli artefici di questa tendenza della sinistra a farsi portatrice delle rivendicazioni di sodomiti e altri deviati è Mario Mieli. Mario Mieli [Mario Mieli: comunismo e depravazione] filosofo, pederasta e comunista italiano scriveva: Il maschilismo dimostra di essere il più grave impedimento alla realizzazione della rivoluzione comunista: esso divide il proletariato e – quasi sempre – fa dei proletari eterosessuali i tutori della Norma sessuale repressiva di cui il capitale necessita per perpetuare il proprio dominio sulla specie. Gli eterosessuali maschi proletari sono corrotti: essi accettano di farsi pagare la misera moneta fallofora del sistema per tenere a freno, in cambio delle gratificazioni meschine che ne traggono, la potenzialità rivoluzionaria transessuale delle donne, dei bambini e degli omosessuali. «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica». In un brano del "saggio" “Gay rivoluzionario” di Mario Mieli, eroe – simbolo dell’omosessualismo, icona dell’ideologia gender in Italia: “Noi sodomizzeremo i vostri figli, simboli della vostra mascolinità debole, dei vostri sogni superficiali e delle vostre volgari menzogne. Li sedurremo nelle vostre scuole, nei vostri dormitori, nelle vostre palestre, nei vostri spogliatoi, nelle vostre arene, nei vostri seminari, nei vostri gruppi giovanili, nei bagni dei vostri teatri, nelle vostre caserme, nei vostri parcheggi, nei vostri club maschili, nelle vostre camere del Congresso, ovunque gli uomini sono insieme ad altri uomini. I vostri figli diventeranno i nostri lacchè e faranno ciò che vogliamo. Saranno plasmati di nuovo a nostra immagine. Ci desidereranno e ci adoreranno”. Mieli abbracciò il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la società capitalista intrinsecamente omofoba. E' considerato il "filosofo" di riferimento di tutti quelli che si riconoscono sotto la sigla lgbt (lesbico – gay – bisex – trans).

I 100 ANNI DELLA RIVOLUZIONE. I comunisti di oggi peggio di quelli veri. I custodi del politically correct eredi dei marxisti. Vogliono un mondo di fantasia, e sono pronti a tutto per eliminare chi si oppone, scrive Marcello Veneziani il 7 Novembre 2017 su “Il Tempo”. Il 7 novembre di cent'anni fa il comunismo andò al potere a Mosca. E la storia del mondo cambiò, in peggio. Tutti celebrano da giorni la rivoluzione bolscevica, raccontano il clima e gli accadimenti di quei giorni ma nessuno ha osato fare un bilancio storico dei frutti tragici di quella Rivoluzione. Eppure il costo umano del comunismo supera quello di ogni altro regime, movimento, evento storico e perfino delle guerre mondiali. Ricordando giorni fa la Marcia su Roma i media si sono spinti fino alla Shoah che storicamente c'entra poco con l'Italia fascista del '22; parlando della Rivoluzione d'ottobre invece hanno osservato l'omertà totale sui gulag, le repressioni, i massacri, il regime totalitario e tutta la storia che seguì a quella presa del potere. Stasera, di questo e di altri Tramonti, dialogheremo a Roma con Fausto Bertinotti, comunista non pentito ma mente onesta e appassionata. Della rivoluzione bolscevica si sono registrate in questi giorni due significative rivendicazioni nostalgiche. Da una parte Mario Tronti, lucido teorico dell'operaismo, ha elogiato in Parlamento la rivoluzione leninista mentre i suoi colleghi erano presi dalla legge elettorale e lo vedevano come un marziano. La sua nota così vistosamente stonata, così fuori luogo e fuori tempo, ha acquisito perlomeno la nobiltà della sconfitta e il valore di una testimonianza decisamente fuori moda. Ancor peggio, sfidando la parodia, ha fatto Marco Rizzo, esponente dell'ultimo comunismo, che ha marciato su Mosca in una replica virtuale dell'assalto al Palazzo d'Inverno per onorare la memoria della rivoluzione russa. C'è qualcosa di grottesco, di patetico ma anche di rispettabile in questi ultimi “conati sovietici” in pieno nichilismo globale. Anche se è l'esatta applicazione di una celebre massima di Marx secondo cui la storia si presenta la prima volta come tragedia e poi si ripete come farsa. Ma come ricordare oggi il comunismo, a cent'anni dalla nascita e dopo il suo tramonto, più qualche grosso residuo come il comunismo tecno-capitalista in versione cinese? A parte la tragica contabilità delle vittime, qual è il suo bilancio storico? Quando il comunismo va al potere in ogni parte del mondo fallisce, si fa apparato poliziesco e regime repressivo, ovunque genera vittime e profughi: questo vuol dire che il difetto non è nelle singole realizzazioni o nei singoli artefici ma è proprio nell'essenza stessa del comunismo. Qual è allora il vizio d'origine del comunismo che lo ha destinato a produrre ovunque catastrofi e atroci fallimenti? È la pretesa di cambiare la natura umana, il mondo, l'umanità, di sacrificare l'uomo reale all'uomo futuro che non verrà. È la contrapposizione radicale tra la società imperfetta ma reale in cui viviamo e la società perfetta dell'utopia comunista. È l'abolizione del mondo reale per far posto al mondo migliore e venturo. Finita l'utopia e l'attesa messianica della rivoluzione salvifica, è rimasta un'eredità del comunismo: la pretesa di correggere l'umanità si è fatta politicamente corretto. Dal PC al PC, dal partito comunista al politically correct. Quello è il viaggio di ritorno del comunismo, a cui ho dedicato un'ampia parte del mio libro Tramonti, uscito il mese scorso. Dopo il comunismo, è venuto fuori questo canone ideologico ed etico, questo codice progressista dell'ipocrisia che risponde a una nuova lotta di classe dal sapore razzista: noi siamo i custodi, missionari e portatori del Politicamente corretto e chi non si conforma è fuori dalla modernità e dalla democrazia, dal progresso e dal consesso civile, merita disprezzo ed esclusione. Chi non fa parte della razza illuminata del nuovo PC merita l'infamia, va cancellato o demonizzato, e se va al potere, anche democraticamente, va processato e poi scacciato.

Questa è l'eredità primaria del comunismo, della lotta di classe, della guerra finale tra il mondo migliore e il mondo reale. Nel politicamente corretto spicca il tema dell'accoglienza. Il nuovo proletariato sono i migranti, accoglierli è la missione del comunismo prossimo venturo. O, se preferite, del catto-comunismo. Bisogna abbattere ogni frontiera, espiantare ogni legame territoriale, non porre limiti a nessun diritto, come a nessun desiderio. È il diritto di avere diritti, separato da ogni dovere. Il rigurgito dell'utopia calpesta la realtà, la natura, i legami comunitari, l'appartenenza a una civiltà, a una nazione, a una città. Il comunismo è morto ma le sue eredità sono molto pesanti. Ma dove confluiscono oggi le speranze del comunismo, i miti di Gramsci, Berlinguer e Che Guevara? Convergono sulla figura di Papa Bergoglio, visto come una specie di misericordioso vendicatore del comunismo, di don Milani giunto al pontificato, di paladino dei migranti, dei poveri e come demitizzatore, se non demolitore della tradizione cattolica. Lui visto come l'antiTrump, l'anti-Curia, lui, leader delle Ong. Su Bergoglio converge la simpatia sia dei fautori del Politically correct che i reduci del comunismo, sia gli Eugenio Scalfari che i Bertinotti. Atei si ma papisti... I sorprendenti voltafaccia della storia.

Nazismo e comunismo, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Scrive Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo de "Il libro nero del comunismo": Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine. Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone [si veda Il comunismo in cifre e I crimini del comunismo], contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore. I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin [si veda Lenin maestro di Stalin nella pratica del terrore] e dai loro seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il precorrimento. A questo proposito Rudolf Hess, incaricato di creare il campo di Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo. [...] «Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così anche Lenin e Stalin: i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude, a proposito dei figli dei kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei». La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi. E', quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali.

No, la rivoluzione d’ottobre aveva un’idea il fascismo no, scrive Piero Sansonetti il 7 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il giudizio sull’aspetto sanguinario del comunismo non cambia quello sulla spinta che modifica il rapporto tra economia e giustizia sociale in tutto il mondo. Enrico Berlinguer, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre. Erano passati 64 anni dalla caduta del “palazzo d’Inverno” e dalla presa del potere da parte di Lenin e dei bolscevichi. Berlinguer si riferiva alla stretta autoritaria in Polonia, voluta dai russi, che seguiva l’invasione sovietica dell’Afghanistan, avvenuta due anni prima, e la repressione di 13 anni prima in Cecoslovacchia e molti altri episodi simili. Probabilmente però Berlinguer si riferiva anche a qualcos’altro: la svolta in atto in Occidente con la strategia del reaganismo e del thatcherismo che prendeva il posto della strategia socialdemocratica europea, e del New Deal di Roosevelt, e della nuova frontiera di Kennedy e della Great Society di Jonhson. Il mondo era entrato nell’epoca del neoliberismo, che poi è l’epoca nella quale stiamo ancora vivendo. La vittoria del neoliberismo decretava la fine dell’egemonia comunista. E modificava tutti i termini della lotta politica. Il discorso di Berlinguer, in televisione – rispondendo alla domanda di un giornalista del Messaggero, Sergio Turone – precedeva di quattro anni la svolta di Gorbaciov e di otto la caduta e la fine del comunismo. Non si può negare una capacità di intuizione e anche di analisi notevole, che sorreggeva questa presa di posizione del capo del Pci. Ma la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre era realmente esistita? Io credo di sì. E non penso che per riconoscerla sia necessario negare, o attenuare, gli orrori del comunismo, e non solo dello stalinismo. Né che in alcun modo riflettere su questa spinta possa giustificare la crudeltà e l’ampiezza del fenomeno dittatoriale. Il leninismo, lo stalinismo, il maoismo, e le loro ricadute (Pol Pot, Ceaucescu, Deng, i vari Kim che si sono succeduti) sono sicuramente responsabili di stragi devastanti, di persecuzioni, di infamie tra le più gravi della storia dell’umanità, forse inferiori solo all’Olocausto nazifascista. Ma non è un giudizio storico o etico su quest’aspetto cupo e sanguinario del comunismo, figlio di quella rivoluzione, a poter cambiare il giudizio sulla spinta propulsiva. La rivoluzione d’ottobre, che fu la realizzazione, più o meno rozza, della teoria marxista, modifica il rapporto tra economia e giustizia sociale in tutto il mondo, e soprattutto nel mondo occidentale. Non solo in Russia: non tanto in Russia. E lo modifica per un periodo di lunga durata: circa 70 anni. Io mi pongo questa domanda: cosa sarebbe oggi il capitalismo nel quale viviamo se non ci fossero stati il rooseveltismo e la socialdemocrazia? E poi mi pongo questa seconda domanda: in che misura la socialdemocrazia e poi la corrente politica liberal americana, sono state influenzate dal comunismo, dalle sue teorie, persino dai suoi successi storici?

Credo che nessuno possa rispondere immaginandosi un capitalismo che si sviluppava in modo autonomo, senza essere influenzato dalla spinta della rivoluzione d’ottobre. Quella spinta, e il messaggio ideale (o ideologico) che portava con sé, avviluppò e condizionò l’intera politica mondiale, ed ebbe una influenza fortissima nell’orientare il liberismo e il riformismo fino all’avvento di Reagan. La guerra fredda certamente fu una lotta molto dura tra le due grandi potenze e tra le due opzioni politiche che erano in campo. E anche tra i due grandi valori che portavano: da una parte la libertà, dall’altra l’uguaglianza. I motivi per i quali quella guerra fu vinta in modo clamoroso e inequivocabile dal liberismo, sono tanti. Ma uno di essi sicuramente è la differenza nel modo con il quale i due “campi” si misurarono con l’avversario e con le sue idee. Il campo comunista non solo rifiutò di imitare l’occidente del suo culto della libertà (e della democrazia, che ne è una conseguenza), ma si chiuse ancor di più, finì per considerare la libertà il vero nemico del socialismo e dell’uguaglianza. L’occidente fece esattamente il contrario: si aprì ed entrò in competizione con il comunismo proprio sul suo terreno: quello delle politiche che tendevano a ridurre le diseguaglianze e a combattere le povertà. Non solo il riformismo europeo e americano fu profondamente influenzato dalla spinta della rivoluzione d’ottobre, ma lo stesso capitalismo ne fu fortemente condizionato e modificò su molti aspetti la sua stessa natura. E allora mi pongo un’altra domanda: quanto c’entra la crisi verticale della socialdemocrazia, e in genere della sinistra, in tutto l’Occidente, con la fine del comunismo? Io credo che c’entri molto. Perché la sinistra riformista aveva costruito se stessa come variante democratica del comunismo. La fine del comunismo l’ha lasciata senza punti di riferimento e senza la capacità di reimmaginarsi, di costruire una nuova prospettiva. Per questo non ho mai creduto che si possano mettere sullo stesso piano la rivoluzione d’ottobre e il fascismo, o il nazismo. Non perché ci siano grandi differenze nella furia totalitaria e nella ferocia dei massacri. Ma perché mi pare che sia sbagliato mettere sullo stesso piano un movimento puramente reazionario e violento, privo di una strategia, di una visione – di una utopia – come fu il nazismo, con un gigantesco fenomeno rivoluzionario, fallito, ma ricco di esperienze, d’idee, di possibilità.

Maledetto Ottobre rosso! 100 anni fa la rivoluzione russa, scrive Corrado Ocone il 7 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il comunismo ha in comune con il fascismo e il nazismo molto più di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere. Avvalorando la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto. No, entrambi sono una reazione al mondo borghese e capitalistico. Comunismo e nazismo, due totalitarismi Non dite che sono diversi! “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, come li ebbe a definire il giornalista americano John Reed, autore di un racconto “in presa diretta” degli avvenimenti che portarono i bolscevichi di Lenin a conquistare il potere il 7 novembre di un secolo fa (25 ottobre secondo il vecchio calendario gregoriano russo), furono veramente sconvolgenti. Anche e soprattutto perché, da quel preciso momento, la storia del Novecento non fu più la stessa. Non solo in Russia, ma anche in Occidente. “Breve”, come voleva Eric Hobsbawm, o “non breve” che sia, il Ventesimo secolo ha comunque una cifra ben definita: è il secolo delle idee al potere, dell’ideologia che si fa ideocrazia, dei politici che sono intellettuali, della crisi delle società e delle istituzioni liberali e dell’avvento delle masse sulla scena del potere, del potere totalitario, della tragedia delle guerre e degli stermini di massa ( delle tante “uova rotte”, per usare una metafora di Lenin ripresa da Isaiah Berlin, senza riuscire a fare una “frittata” che a ben vedere sarebbe stata, se realizzata, indigeribile). Tutto questa storia inizia lì, in Russia, in quei giorni. Anche gli autoritarismi di destra, i nazionalismi, i fascismi, il nazionalsocialismo tedesco, generano da quel momento e da quell’episodio. E con l’operato dei comunisti sovietici, di Lenin prima e di Stalin poi, hanno molti più elementi in comune di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere. Avvalorando addirittura la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto. No, in verità, entrambi sono momenti di una comune reazione al mondo borghese e capitalistico. Né il fascismo può essere affatto considerato, giusta l’interpretazione della stessa storiografia, come una reazione di cui i capitalisti si son serviti per combattere il comunismo quando le armi della democrazia formale o borghese sono risultate spuntate. L’alleanza con le forze padronali, o meglio conservatrici, dei fascismi ci fu ma fu contingente. E, in ogni caso, essi hanno invece sempre avuto un’impronta socialista che derivava loro dal modello originale (si legga, per farsene un’idea, il capitolo intitolato Le radici socialiste del nazismo ne La via della schiavitù di Friedrich von Hayek.) Già nel 1921, quando il movimento fascista di Mussolini muoveva i primi passi in Italia, Guido de Ruggiero, che avrebbe poi pubblicato una Storia del liberalismo europeo (1925) di vasto successo internazionale, scriveva: «In verità, io, tra il rosso e il nero, non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il resto è indiscernibile». Fu in ambito italiano, prima (in senso negativo) con Giovanni Amendola e poi (in senso positivo) con Giovanni Gentile che fu d’altronde usato per la prima volta, proprio in quegli anni, il termine “totalitarismo”, che dopo il secondo conflitto mondiale i cosiddetti “liberali della guerra fredda”, in primis Hannah Arendt, avrebbero reso popolare e introdotto nel comune linguaggio scientifico. Nel 1927, dal canto suo, Benedetto Croce aveva affermato, in un’intervista all’Observer, che giudicava i «nazionalismi e autoritarismi, che si oppongono al socialismo e comunismo, come un’imitazione a rovescio». Aggiungendo però, da quello studioso profondo che era stato di Marx, di cui aveva apprezzato la proposta di un canone di interpretazione storica, da usare accanto ad altri e non in modo unilaterale, e il realismo politico ( lo aveva definito il “Machiavelli del proletariato”), che, fra i due totalitarismi, «la forma seria e coerente e fondamentale rimane sempre quella marxistica». Ancora nel 1950, nel pieno della “guerra fredda”, il filosofo napoletano scriverà che «l’abito della dittatura e della rinunzia alla libertà hanno trovato una nuova forma in un partito che fu avversario del fascismo ma di cui il dittatore italiano, già comunista rivoluzionario, si era nutrito, in modo che la sua era stata un’imitazione del comunismo, dalla quale era agevole risalire all’originale. Solo gli accidenti e le avventure portarono il Mussolini a diventare nemico del comunismo, al quale sarebbe volentieri tornato se avesse potuto e se ne avesse avuto il tempo». Ovviamente, chi più di tutti, nell’ambito della storiografia, si è impegnato a sottolineare le affinità e la dipendenza genetica fra i due totalitarismi è stato, nel secondo dopoguerra, lo storico tedesco Ernst Nolte, che non a caso, dopo aver definito “guerra civile europea” quella scatenata nel 1917 dalla Rivoluzione d’ottobre e durata fino al 1945, ha parlato del secondo dopoguerra, fino alla definitiva caduta nel 1989 del comunismo, come di un periodo di “guerra civile mondiale” ( seppur “fredda”). Resta così confermato che il “socialismo reale”, il comunismo realizzato, ha segnato l’intero secolo, con la sua presenza oppressiva e sempre più ampia (interessando molti altri Paesi al di fuori dell’Unione Sovietica). Esso non solo ha soffocato la libertà individuale dei cittadini delle nazioni che l’hanno conosciuto, ma non ha nemmeno realizzato nessuna delle promesse di giustizia che aveva fatto. Non è un caso: il comunismo, lungi dall’essere «un umanismo di giustizia sociale» (sic!), come ha recentemente scritto una sprovveduta firma del Corriere della sera (Donatella Di Cesare, 17 luglio), è un progetto, nella sua essenza, antivitale e antiumano. E che, pertanto, è corrotto nell’essenza, ab origine (l’autrice, per corroborare le sue tesi, osserva ovviamente che «la corruzione di un progetto non è il progetto stesso»). Ora, a parte il fatto che Marx non ha inteso mai essere un “puro filosofo”, e anzi ha instaurato un rapporto di stretto legame dialettico fra teoria e prassi, continuato un po’ da tutti i suoi epigoni, a cominciare da Lenin, non si può certo dire che il comunismo che egli aveva in testa fosse altra cosa rispetto a quello effettivamente messo in pratica dai bolscevichi e in genere nel Novecento. Il quale tutto è da considerare fuorché una perversa deviazione dalla via maestra o da un presunto “comunismo vero” e, casomai, come dicono alcuni, ancora tutto da realizzare. Certo, instaurando un rapporto necessitante fra pensiero e azione, è pur vero che Lenin (sulla scia di pensatori come Giovanni Gentile) sviluppa il marxismo in una determinata direzione, che potremmo definire attivistica e rivoluzionaria. Quella direzione era però già presente in Marx come una delle possibili e legittime. Il fatto che il marxismo si sia dimostrato errato, e foriero di fallimenti tragici “in pratica”, chiama in causa la “teoria” e non significa affatto che essa errata non fosse e che in qualche modo possa essere “salvata”. «Il male nel caso del marxismo scrivevo in conclusione del mio Karl Marx pubblicato per Luiss nel 2007- non è tanto nella mente e nelle azioni degli epigoni ma è già tutto nel pensiero e nell’azione del suo padre fondatore». Il “peccato originale” del marxismo è, da una parte, di ordine logico, dall’altra, di natura antropo- ontologica, diciamo così. Dal primo punto di vista, l’esperienza sovietica ci ha mostrato nella “prassi” ciò che è vero in “teoria”: cioè che ogni “costruttivismo” politico o “economia di piano”, come ci hanno insegnato, fra gli altri e meglio degli altri, i pensatori della “scuola austriaca” dell’economia (da Carl Menger a Ludwig von Mises e Hayek), è tanto impossibile quanto irrazionale. Oltre a presupporre di necessità l’introduzione di quella forma di coercizione che Marx aveva previsto, definendo “dittatura del proletariato”, e che nei paesi del comunismo realizzato è diventata prassi politica comune. Marx e i comunisti, d’altra parte, non hanno però fatto i conti fino in fondo nemmeno con la “natura” dell’essere umano, tanto che, io credo, soprattutto da questo punto di vista, l’Ottobre deve, a cento anni di distanza, fungere per tutti noi da ammonimento. Essi hanno infatti elaborato un sistema di pensiero e di azione “che indica come obiettivo da realizzare una società senza più conflittualità. Un obiettivo non solo irrealistico, ma alla fine nemmeno auspicabile. Una realtà conciliata con se stessa sarebbe una realtà senza più spirito vitale”, cioè in cui è venuta meno quella molla che fa andare costantemente avanti, ed essere e vivere, l’umanità”. Spostando poi il discorso, altre domande sorgono naturali. L’Ottobre ha almeno favorito il progresso delle condizioni materiali e morali delle masse nel mondo intero? Ha contribuito alla diminuzione della povertà assoluta e delle ingiustizie relative a cui pure, fra tante tragedie, abbiamo assistito nel corso del secolo scorso? In molti, in questi giorni, affermeranno questa tesi. Ed è indubbio che, tenendosi nella realtà tutto, anche la “rivoluzione comunista”, infiammando e spingendo all’azione, o semplicemente per reazione da parte di chi aveva il potere, ha finito per contribuire ai progressi del secolo. Ha funzionato come mito e come elemento utopico, senza dubbio. Quei progressi si sono però tutti o quasi tutti realizzati nella cornice della “società aperta” e delle istituzioni liberal- democratiche. Non poteva essere altrimenti. Ed è comunque un fatto, “duro e solido” come era sempre per Marx la realtà. Un fatto che non può continuare ad essere rilevante per tutti gli uomini pensanti e responsabili.

Radici giacobine del Fascismo. «Di quale “contemporaneità” Spengler ritenesse degna la mia rivoluzione, non mi spiegò (...) Sarei stato fiero se egli avesse appaiato temporalmente, ideologicamente, il fascismo ai sogni giacobini di Robespierre, di Saint-Just, di Rossel, di Cipriani, i puri della rivoluzione militante (…)». B. Mussolini, in Y. De Begnac, "Taccuini mussoliniani", Bologna 1990, pag. 598

«Mussolini non si stanca di celebrare sempre di nuovo la Comune di Parigi, “sangue fecondo, sangue che ci è sacro”. Solo il sangue porta avanti la storia (…) Per Mussolini quella che Marx e Lenin considerano una visione scientifica del corso necessario della storia (…) si costituisce come una “fede” (…) “Nessuna vita senza spargimento di sangue”». E. Nolte, "Il giovane Mussolini", Varese 1993, pp. 22-63.

«Non sorprende che, nelle conversazioni con Emil Ludwig, Mussolini citi Blanqui. Il rivoluzionario francese, una citazione della quale sarà da lui posta come motto nella testata del “Popolo d’Italia” nel 1915, non è forse l’erede di una sinistra giacobina incarnata da Babeuf in Francia e da Buonarroti in Italia, e che coniuga radicalismo repubblicano, comunismo utopistico e patriottismo rivoluzionario?» P. Milza, "Mussolini", Roma 2000, pp. 42-43

Le radici del fascismo, scrive Marxpedia. Gramsci è il primo all'interno del partito socialista a formulare la possibilità dell'affermarsi della reazione fascista. E se questo avviene, è perché il gruppo dell'Ordine Nuovo è l'unico nell'intero partito socialista a rendersi conto dell'importanza della sconfitta subita dal proletariato nell'aprile del 1920 a Torino. Una sconfitta che non dice la parola fine sulle possibilità rivoluzionarie in Italia, ma da cui è necessario trarre tutte le conseguenze. Sull'Ordine Nuovo dell'8 maggio 1920, viene pubblicata la nota “Per un rinnovamento del partito socialista”: La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: - o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa di produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria o governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito Socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i Sindacati e le Cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese. Quanto scritto troverà una drammatica e rapida conferma. Ciò che è successo a Torino ad aprile, si ripete in tutta Italia a settembre con un'ondata di occupazioni di fabbriche. La sconfitta di tale movimento per le mancanze della direzione del partito socialista, insieme alle numerose sconfitte subite dai contadini nelle campagne, apre le porte all'improvvisa ascesa dello squadrismo fascista. Il fascismo quindi non è una fatalità storica. Né è il frutto della natura reazionaria di un solo particolare blocco della borghesia. E' la convulsione del sistema in crisi, la reazione di fronte alla possibilità di una rivoluzione. Ma tale reazione non si attenua con lo scemare del movimento rivoluzionario, come la fiamma del fornello si abbassa diminuendo il gas. E' costante illusione del riformismo che la controrivoluzione si limiti, limitando la rivoluzione. Ma entrambe sono la dimostrazione del fatto che gli equilibri sono rotti. La società è condannata ad un balzo in avanti o alla peggiore regressione. E' nel solco di questa idea che Gramsci inizia ad analizzare la decadenza della democrazia borghese italiana. Scrive alla nascita del Ministero Giolitti: la democrazia parlamentare perde le sue basi di appoggio, il paese non può essere più governato costituzionalmente, non esiste e non potrà più esistere una maggioranza parlamentare capace di esprimere un ministero forte e vitale, che abbia cioè il consenso dell’ “opinione pubblica”, che abbia il consenso del “paese”, cioè delle classi medie. La democrazia borghese è solo una delle forme di dominio del capitalismo. La piccola borghesia è il principale lubrificante di tale particolare meccanismo di Governo. L'arena della piccola borghesia non può essere la grande lotta sociale, perché su questo terreno essa non ha alcuna grande controparte. Non ha sotto di sé enormi masse di proletari da affossare, né può lottare direttamente contro il grande capitale la cui oppressione le si presenta sotto la forma impersonale del mercato. Il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato le impediscono di crescere e trasformarsi in grande capitale. Il rafforzamento del grande capitale la conducono al fallimento e la proletarizzano. La via economica le è dunque preclusa. Per questo, scarica la propria energia - e nella gran parte dei casi la propria frustrazione - sul terreno della politica. Per questo l'unico terreno che le appare degno di conquista è quello dello Stato. Lo tira per la giacchetta in un senso o nell'altro. E' anarchica quando lo Stato deve sparire per lasciare spazio ad un mondo privo di tasse. Ed è allo stesso tempo la sostenitrice di uno Stato forte, perché i suoi piccoli affari non possono sopportare lunghi periodi di turbamenti. Tale ceto si autoproclama medio, perché ritiene di non avere né i difetti dei lavoratori salariati né quelli del grande capitale, pur sentendosi dotato delle qualità di entrambi i poli della società. Si ritiene l’anello di congiunzione in grado di rappresentare l'intera società. Ma in questo suo rappresentare tutti, c'è in realtà il suo non rappresentare nulla. Ogni qual volta si tratta di grandi lotte economiche e sociali, torna a rivelarsi uno zero. Ha un reddito insufficiente per impossessarsi delle leve economiche della società, ma sufficiente per sostenere la propria promozione sociale. Dal suo seno vengono notabili, avvocati, giornalisti. Per ogni grande avvocato al servizio di un grande capitalista, per ogni parlamentare in contatto con i salotti dell'alta borghesia, per ogni amministratore di una grande azienda, esistono migliaia di piccoli avvocati, notabili, consiglieri comunali e piccoli tecnici d'azienda. Un intero pulviscolo atmosferico che non vive di vita propria, ma riesce a depositarsi in ogni poro della società. E in questo sta la sua utilità. Pur non potendo giocare alcun ruolo indipendente, permea la società e trasmette capillarmente l'ideologia dominante ai ceti oppressi.

La crisi della democrazia borghese è quindi prima di tutto la crisi della piccola borghesia. La delusione per la prima guerra mondiale e le sue sirene nazionaliste, l'enorme aumento del carico fiscale, la spietata concorrenza del grande capitale in crisi, determinano un distacco della piccola borghesia dal meccanismo democratico e parlamentare. Scrive Gramsci nel 1921: La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel “cretinismo parlamentare”. (...) [Ma] il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l'azione diretta, è la pressione dall'esterno. Tra il 1919 e il 1920 la piccola borghesia si avvicina alla rivoluzione socialista. E' disponibile a dare credito all'azione del proletariato e della sua organizzazione politica, ad aiutare o semplicemente restare neutra di fronte ai tentativi di rovesciare l'ordine esistente. Quando la rivoluzione fallisce, però, la classe operaia non perde solo per sé, ma perde anche l'appoggio di tutti i settori oppressi della società: [la piccola borghesia] avendo visto che la lotta di classe non è riuscita a svilupparsi e a concludersi, nuovamente la nega, nuovamente si diffonde la persuasione che si tratti di delinquenza, di barbarie, di avidità sanguinaria. La reazione, come psicologia diffusa, è un portato di questa incomprensione. La piccola borghesia non può tollerare di essere stretta a lungo nella morsa tra lotta operaia e dominio del grande capitale. Per sopravvivere alla crisi, ha bisogno che una di queste due forze vinca in maniera definitiva. O con il proletariato per liberarsi dall'oppressione dello Stato e dei debiti verso le banche, o con la grande borghesia contro qualsiasi forma di sciopero o rivendicazione sindacale: questo è il bivio. Nel 1920 la rivoluzione è fallita, dimostrandosi incapace di sciogliere questo nodo. Per la piccola borghesia non vi è nessun ritorno al vecchio parlamentarismo, ma direttamente il passaggio alla controrivoluzione. Qua sta la peculiarità del fascismo. Per la prima volta, la piccola borghesia sembra trovare una propria forza autonoma nella società. Egemonizza l'esasperazione sociale dei ceti oppressi con una fraseologia ribelle e pseudo-rivoluzionaria. Con tale fraseologia incendia l'immaginazione e avvolge i settori più arretrati del movimento operaio e contadino, lega a sé il sottoproletariato. Il disoccupato entrando nelle bande fasciste sente di poter dominare la società. Da reietto è improvvisamente invitato a mangiare al tavolo del padrone. Da ricercato della polizia, ha improvvisamente accesso alle sue grazie. Tuttavia né piccola borghesia né sottoproletariato possono giocare un ruolo autonomo. Il loro ruolo non è in ultima analisi preponderante in una società basata sui grandi mezzi di produzione. Il piccolo commerciante dipende dalla banca, vende nel proprio negozio i prodotti della grande produzione e non ha potere di determinare le scelte di un intero Stato come fanno i grandi gruppi industriali. Il sottoproletario può costituirsi in banda fascista ma ha bisogno di una forza esterna che lo finanzi. La sua azione può mantenersi indipendente solo per un periodo breve: [la piccola borghesia] scimmieggia la classe operaia, scende in piazza (...). si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta [ora] la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. (...) il proprietario per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata la quale per mascherare la sua reale natura deve assumere atteggiamenti politici “rivoluzionari”. (...) [Ma] Sviluppandosi il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce più a nascondere la sua vera natura. (...) La piccola borghesia anche in questa ultima incarnazione politica (...) si è dimostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, agente della controrivoluzione. Dunque il fascismo non è una forza borghese qualunque. E' “un movimento sociale, l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrici”. [6] Non attacca le organizzazioni del movimento operaio per ciò che dicono o per ciò che vogliono, ma direttamente per ciò che sono. Eppure il fascismo non minaccia solo le organizzazioni della classe ma anche la democrazia borghese che indirettamente ne permette l'esistenza. Non deve solo spezzare i picchetti operai con lo squadrismo, ma anche abrogare il diritto di sciopero. Non deve solo colpire la stampa operaia, ma anche il diritto democratico borghese alla libertà di stampa. La sua azione si pone fuori dalla legalità esistente, seppure tale legalità rimanga solo e soltanto di origine borghese. Non esiste quindi una contraddizione tra i fascisti e il parlamentarismo borghese, tra Mussolini e Giolitti? Non esiste uno scontro tra squadrismo e forza pubblica statale? Non devono i comunisti difendere la seconda in contrapposizione al primo? Non devono in ultima analisi allearsi con la democrazia borghese contro la repressione fascista? La risposta di Gramsci è categoricamente negativa. La democrazia borghese non entra in crisi perché minacciata dal fascismo, ma è la decomposizione stessa della democrazia borghese a fornire la base della minaccia fascista. Il fascismo è l'annuncio che per la borghesia anche la propria stessa democrazia rappresenta un costo eccessivo. Legandosi mani e piedi alla borghesia democratica, le forze del movimento operaio non possono che essere travolte dal suo stesso processo di disgregazione: il partito socialista (...) è oggi il massimo esponente e la vittima più cospicua del processo di disarticolazione (...) che le masse polari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia. Gramsci si spinge a dire: “è una premessa necessaria per la rivoluzione che anche in Italia avvenga la completa dissoluzione della democrazia parlamentare”. Ma forse finché resiste Giolitti non c'è speranza di evitare l'avvento di Mussolini? Finché resiste il diritto borghese democratico, con il suo contorno di Carabinieri, Polizia, guardie regie, non si può sperare che tutto questo funga da barriera contro l'illegalità fascista? La democrazia borghese non può fermare l'avanzata fascista perché non ha forze su cui contare. Ha perso l'appoggio della piccola borghesia e non ha i favori del grande capitale. Quest'ultimo ha deciso ormai per l'opzione fascista. Nel campo del parlamentarismo, rimangono solo generali senza esercito: vecchi senatori, grandi intellettuali che hanno speso la propria vita a reprimere il proletariato in nome della legalità costituita e che ora invocano l'intervento del proletariato stesso a difesa di tale legalità. La loro ultima funzione consiste nel proporre una tregua al movimento operaio, immobilizzandolo; propagandano l'illusione che, difendendo lo Stato, si convincerà lo Stato a rivolgere le proprie armi contro il fascismo. Ma ribadisce Gramsci: Giolitti è impotente (...) perché a Bologna, a Milano, a Torino, a Firenze, i suoi funzionari sostengono il fascismo, armano i fascisti, si confondono coi fascisti; perché in tutti questi centri il fascismo si confonde con la gerarchia militare, perché tutti in questi centri il potere giudiziario lascia impunito il fascismo. E di fronte al Governo Bonomi insiste: Il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. (...) egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e sanno corrompere gli uomini. L'avvento di Bonomi al potere, dopo l'ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà illegale. Tra Stato e partito fascista, tra squadrismo e Carabinieri, tra legalità democratico borghese e illegalità fascista, non vi è totale identità. Ma non vi è nemmeno contrapposizione frontale. Vi è un rapporto dialettico. L'una si trasforma nell'altra. Si sorreggono, si compenetrano, per arrivare ad una sintesi reciproca: Il fascismo è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato (...); il fascismo è l'illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza: è nota legge storica che il costume precede il giudice. (...) Il fascismo ha assaltato le Camere del Lavoro e i municipi socialisti: lo Stato restaurato scioglierà “legalmente” le Camere del Lavoro e i municipi che vorranno rimanere socialisti. Il fascismo assassina i militanti della classe operaia: lo Stato restaurato li manderà “legalmente” in galera e, restaurata anche la pena di morte, li farà “legalmente” uccidere. E ancora: La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degli ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell'umanità. Non s'era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l'una interna, la sostanziale, l'altra esterna, la formale. (...) La realtà ha mostrato nel modo più evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gli interessi della classe dominante (...). Il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale. (...) E' sorto così il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo dell'illegalità la sola cosa legale. Deve quindi il movimento operaio rinunciare alla difesa della democrazia, seppur borghese? No, ma deve avere chiaro che tale difesa non significa perdere la propria indipendenza di classe a favore di un'alleanza con le forze democratico-borghesi. Queste sono solo un'ombra del passato. Lo Stato “democratico” passa armi e bagagli al fascismo. Le rivendicazioni democratiche sono proprio per questo da includere con ancora più forza nel programma comunista. Ma lo scopo di tale inclusione non è quella di ravvivare nuovamente le illusioni democratiche delle masse, ma al contrario di demolirle. Facendo propria la lotta democratica, i comunisti dimostrano che solo la lotta contro il capitalismo può fornire una base al mantenimento della democrazia. Il bivio è lo stesso delineato nell'aprile del 1920, o fascismo o rivoluzione: Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbitri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni, può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato “restaurato” come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l'unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dalla produzione. Nel 1921 non ci sono dubbi su cosa Gramsci intenda per “nuovo potere di Stato”: uno Stato operaio basato su una democrazia di natura consiliare e sulla nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione. Cambiò idea a riguardo? Era quella solo una concezione infantile destinata ad essere abbandonata con il tempo? Se c'è stato un momento in cui tale abbandono sarebbe potuto sembrare giustificato, questo momento è l'Aventino. Nel 1924, infatti, sembra destarsi un fronte democratico borghese in opposizione al fascismo. Non era quindi il caso di abbandonare ogni analisi precedente e lanciarsi nelle braccia di un blocco nazionale democratico?

Lo Stato corporativo e le radici socialiste del fascismo italiano, scrive Giuseppe Comper il 28 ottobre 2015 su "Il Secolo trentino". Destra e Sinistra, fascismo e socialismo: oggigiorno, soprattutto nella nostra Italia, quando vengono nominate queste due ideologie socio-politiche le si accostano a precise immagini mentali e concettuali, oltre che iconografiche, in riferimento al proprio soggettivo punto di vista: c’è chi parla del fascismo con nostalgia e chi ne parla con veemenza nei suoi confronti, come c’è chi racconta il socialismo con fierezza ed orgoglio e chi invece criticandolo sotto ogni aspetto. Interessante è constatare che ancora oggi spesso (non sempre) chi si identifica con la Destra necessariamente e a priori attacca la Sinistra, così come chi si colloca a Sinistra aborra tutto ciò che viene dalla Destra. Come se fascismo e socialismo fossero due mondi opposti e inconciliabili tra loro, come se non avessero nulla in comune e nulla di che spartire culturalmente l’uno con l’altro. Pensiero pressoché errato, guidato da luoghi comuni e leggende metropolitane createsi intorno a queste due ideologie, poiché se si studia più in profondità la materia si vedrà che fascismo e socialismo, Destra e Sinistra, non sono sempre e comunque poi così diversi. E la storia offre molti spunti da cui partire nell’analisi di questa riflessione. In politica economica infatti lo Stato fascista italiano di Benito Mussolini e quello socialista russo di Vladimir Lenin non differivano in quasi nulla: entrambi i modelli presentavano una forte centralizzazione del potere statale, nonché la progressiva nazionalizzazione delle imprese economiche. In ambedue i sistemi insomma lo Stato si faceva carico della vita civile ed economica della società – non per nulla si parla di “capitalismo di Stato”, non diversamente dall’attuale Cina comunista. Infatti nel 1939 l’Italia risultava essere uno tra i Paesi con il più alto numero di imprese nazionalizzate – seconda solo alla Russia, appunto. Sia nello Stato corporativo fascista sia in quello socialista il concetto di “individuo assestante” era sostituito da quello di “individuo all’interno ed al servizio dello Stato”, ossia della propria comunità. Così come, vicendevolmente, lo Stato doveva porsi al servizio dei cittadini. «Il cittadino nello Stato fascista non è più un individuo egoista che detiene il diritto antisociale di ribellarsi contro ogni legge della Collettività», scriveva infatti lo stesso Mussolini nella sua autobiografia del 1928, rendendo immancabilmente chiara la sua avversione al capitalismo liberale. Difatti nell’Italia fascista scioperi e serrate erano vietati per legge, poiché lo Stato doveva porsi come coordinatore delle relazioni lavorative all’interno delle aziende: i conflitti sociali andavano gestiti e risolti, non accentuanti con scontri violenti e che minassero all’unità nazionale. Non solo: molte delle riforme economiche attuate dal fascismo italiano e dal socialismo russo sono state riprese nel Dopoguerra non solo dai due Paesi interessati, ma anche da altre nazioni occidentali. Per fare solo un esempio, la nascita del Welfare State, o Stato Sociale, nella democraticissima Inghilterra, misura economica che prevedeva l’assistenza e la sussistenza dei cittadini da parte dello Stato, con un ovvio incremento della spesa pubblica a discapito (leggero o pesante) dell’imprenditoria privata. Misura economica elaborata e messa in pratica non dalla Destra conservatrice, ma dalla Sinistra laburista britannica. Non è da scordarsi che Benito Mussolini proveniva in effetti dal mondo della matrice di Sinistra italiana, dei quali ideali lo stesso Duce rivendicò di non aver mai abbandonato: iniziato come militante dello storico PSI, divenne in seguito direttore del giornale di partito Avanti!. La sua carriera all’interno del Partito Socialista arrivò a concludersi quando venne espulso per i suoi moniti interventisti e nazionalisti durante la Prima Guerra Mondiale. Ma la cultura di cui si era fatto portavoce in epoca giovanile la si può osservare anche e soprattutto quando arrivò al governo del Paese, tant’è che il modello di Stato corporativo di cui il PNF si fece ideatore intendeva porsi come “terza via” tra lo Stato liberale individualistico e quello socialista, tentando di abbattere i limiti di entrambi i modelli. In conclusione, la lezione che questa volta la storia insegna è di non farsi ingannare dai nomi e dai colori politici. Spesso e volentieri bianco e nero – o, in questo caso, Rosso e Nero – non sono poi così diversi l’uno dall’altro: possono mostrare sfumature che accomunano più idee, seppur provenienti da mondi apparentemente agli antipodi. Giuseppe Comper

Socialismo nazionale. Nazionalismo di sinistra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il socialismo nazionale, parte del nazionalismo di sinistra, è una forma di socialismo sorta come ideologia politica per la prima volta in Italia alla vigilia della prima guerra mondiale. Interessò soprattutto il primo Novecento in Europa e in Italia trovò in parte rappresentanza con il fascismo delle origini e successivamente con la RSI. Nel dopoguerra, è stato presente all'interno della galassia del neofascismo, del socialismo italiano, del giustizialismo e del socialismo arabo. A livello mondiale è stato o è principalmente rappresentato da alcuni nazionalismi, ad esempio dal socialismo italiano di stampo garibaldino, dal peronismo argentino o dall'estremizzazione del nazionalsocialismo tedesco (seppure fosse realmente portato avanti solo dall'ala sinistra del NSDAP, poi confluita nel Fronte Nero di Otto Strasser).

Dottrina. L'ideologia si proponeva di coniugare socialismo e nazionalismo, con una posizione definita "nazional-rivoluzionaria" in contrapposizione sia al capitalismo nella politica economica, sia all'internazionalismo marxista (definito “nemico delle patrie e dei più elementari valori nazionali"). L'ideologia riprendeva elementi del pensiero del nazionalismo sociale di Enrico Corradini, del sindacalismo rivoluzionario del francese Georges Sorel e del socialismo patriottico di Carlo Pisacane. Con il Fascismo ebbe riferimenti nella Carta del Lavoro, nel sindacalismo fascista, e nella legislazione sociale fascista, mentre nella "Repubblica Sociale Italiana" mantiene le radici legate agli aspetti rivoluzionari e anticapitalisti, nell'ambito della ricerca della "terza via". Nel secondo dopoguerra fu identificato come la linea politica seguita dal Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi in Politica estera. La versione "craxiana" del Socialismo nazionale si configurò come una dottrina di stampo patriottico legata agli ambienti della sinistra democratica.

In Italia. In Italia già nel 1910 Enrico Corradini, parlò di un nazionalismo che doveva anche essere "nazionale" in economia. I fermenti “social-nazionalistici” si manifestarono oltre che con la guerra italo-turca del 1912, soprattutto alla vigilia della prima guerra mondiale da parte di esponenti socialisti che in rottura con il partito si proclamarono interventisti, rivendicando ideali patriottici della tradizione risorgimentale, con l'obiettivo di completare l'unificazione dell'Italia, sia in quanto ritenevano che soltanto dalla guerra vittoriosa sarebbe potuta nascere la scintilla della rivoluzione sociale, che avrebbe completamente annientato il sistema “borghese” ottocentesco della Belle Époque. Tra coloro che si fecero notare in prima linea nella “battaglia” social-nazionale, figurarono oltre all'ex socialista massimalista Benito Mussolini, altri personaggi di spicco, tra cui sindacalisti come Filippo Corridoni, esponenti del Futurismo come Filippo Tommaso Marinetti, socialisti irredentisti come Cesare Battisti, che si raccolsero intorno al nuovo giornale diretto da Benito Mussolini, Il Popolo d'Italia, e nella formazione da lui stesso formata, il Fascio d'azione rivoluzionaria, nato per cercare di riunire tutta la sinistra nazionale interventista. Dopo la prima guerra mondiale il cosiddetto "socialismo nazionale" sviluppò l'idea della vittoria mutilata e rivolse attenzione alle condizioni dei reduci. Tali idee si concretizzarono nel 1919 nella fondazione a Milano dei Fasci italiani di combattimento mussoliniani, e nel suo manifesto. Il programma di San Sepolcro, dove oltre a rivendicare Fiume e la Dalmazia, si tratteggiavano politiche di profondo cambiamento: tutti valori riproposti altresì con l'Impresa di Fiume e la Carta del Carnaro di Gabriele D'Annunzio. Fra il '19 e il '22 il movimento fascista, consolidatosi attraverso l'appoggio del grande capitale industriale e degli agrari, lanciò un'offensiva violentissima contro sedi, organi di stampa e dirigenti del movimento socialista, dei partiti della sinistra e delle organizzazioni dei lavoratori e dei contadini. Dopo la Marcia su Roma del 1922 (simbolo della Rivoluzione fascista) e la fusione con i conservatori nazionalisti dell'Associazione Nazionalista Italiana (ANI), il regime perse la sua connotazione socialista indirizzandosi verso la creazione di un vero e proprio Stato totalitario-corporativo, adottò in campo socio-economico il corporativismo, con la Carta del Lavoro del 1927, invece che il socialismo. In materia estera il regime fascista puntò alle colonie, con una chiara l'ambizione imperialistica e anche per dare una valvola di sfogo alla disoccupazione e alle misere condizioni di larga parte dei contadini, che il regime non era in grado di migliorare. Allo stesso tempo il secondo conflitto mondiale fu dipinto dalla retorica fascista come lo scontro dell'"Italia proletaria e fascista", del “sangue contro l'oro”, ossia agitando la “bandiera” della "guerra rivoluzionaria" delle Nazioni proletarie; Italia e Germania, contro le “plutocrazie reazionarie” occidentali. Dopo la caduta del regime nel 1943, con la creazione della Repubblica Sociale Italiana e con la nascita del nuovo Partito Fascista Repubblicano i principi "antemarcia" del fascismo, furono ripresi nel Manifesto di Verona dove vennero bruscamente riprese le antiche istanze para-socialisteggianti e movimentiste del vecchio programma di San Sepolcro. È forse opportuno ricordare fra l'altro, che proprio all'interno della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini appoggiò, la nascita di un Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (R.N.R.S.); con a capo l'ex socialista Edmondo Cione, e altri ex socialisti "mussoliniani" come Carlo Silvestri, sindacalisti rivoluzionari come Pulvio Zocchi, che nonostante non si dichiarassero apertamente fascisti, e dichiarassero autonomia dal PFR, cercavano di fornire una copertura "da sinistra" al nuovo regime montato dal Terzo Reich. O come Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia. A tale Raggruppamento, fu anche concesso dal governo e da Mussolini la stampa di un proprio quotidiano politico l' "Italia del Popolo"; (nome consigliato dallo stesso Mussolini, per ricordare il vecchio giornale di Giuseppe Mazzini).

La RSI aveva nel suo programma la riforma della socializzazione delle imprese e dell'economia, per la cui stesura Mussolini aveva attivato Bombacci, che sarà poi fucilato a Dongo insieme a Mussolini.

In Germania. In Germania il socialismo tedesco ha spesso coniugato anche la visione nazionalistica del Pangermanismo, con Oswald Spengler che nel suo "Socialismo e Prussianesimo" nel 1919 vagheggiava di un "socialismo antiegualitario, gerarchico, comunitario", come Arthur Moeller van den Bruck o Werner Sombart nel suo "Socialismo tedesco". Negli anni venti nasce in Germania anche il Nazionalbolscevismo. Ma è il Nazionalsocialismo, che trae origine dal partito politico guidato dal suo ideologo principale Adolf Hitler, l'NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, "Partito operaio nazionalsocialista tedesco"), ed è basato su un programma politico indicato da questi nel libro Mein Kampf a incarnare il "Socialismo nazionale" tedesco. Il nazismo esprime una forma nazionalista e totalitaria con mire operaiste, opposta al socialismo internazionale di stampo marxista e si concretizzò quale reazione alla disuguaglianza economica nella società liberista tedesca della Repubblica di Weimar. Come per il fascismo, anche nel nazismo delle origini è presente - anche se non egemone - una componente ideologica di stampo collettivistico e socialisteggiante, che attirò consensi addirittura da parte di militanti del Partito Comunista Tedesco. Il partito nazionalsocialista era contro il potere delle corporazioni transnazionali. Questa semplice posizione anti-corporativa è condivisa da molti partiti di centro-sinistra così come da molti gruppi politici che si rifanno al socialismo libertario. L'abolizione degli interessi sui prestiti all'agricoltura e il divieto di tutte le speculazioni sulla terra." Tra i punti programmatici i principi del “Blut und Boden” (“Sangue e terra”) e del “Brot und Arbeit” (“Pane e Lavoro”) che vedeva nello stato il garante supremo della prosperità economica della nazione, della sicurezza lavorativa dei cittadini, dell'abolizione delle disparità salariali, del mantenimento della pace sociale, del giusto profitto degl'industriali, del controllo ferreo delle banche e delle finanze.

Altri paesi. Le esperienze italiane e tedesche ispirarono il sorgere di un socialismo nazionale anche in altre nazioni, In Spagna, nel 1931, nacquero le JONS. In Francia l'ex segretario dei giovani comunisti Jacques Doriot fondò il Partito Popolare Francese, mentre in Romania si affermava il movimento anticapitalista e nazionalista della Guardia di Ferro. Altro movimento che coniugava socialismo e nazionalismo fu il Partito Giustizialista di Juan Domingo Perón e quello Ba'th del siriano Michel Aflaq e dal suo conterraneo alā al-Dīn al-Bīār nel mondo arabo.

Dopoguerra italiano. Nel secondo dopoguerra i contenuti del socialismo nazionale furono ripresi in nome della "Terza via" all'interno di partiti come il Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale (quanto meno i primi tempi: dal '46 ai primi anni cinquanta), quando era identificato soprattutto con i reduci della RSI. Nel 1952 nacque il Raggruppamento Sociale Repubblicano, che poi divenne Partito del Socialismo nazionale. Nel 1957 confluirono nel Partito Nazionale del Lavoro di Ernesto Massi. I gruppi di “Pensiero nazionale”, capeggiati da Stanis Ruinas, erano invece ex fascisti finiti nell'orbita del Partito Comunista Italiano. Giano Accame, intellettuale della destra postfascista, ha avvicinato alcuni temi della politica (soprattutto estera) di Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano negli anni '80 al socialismo nazionale. Sempre Accame coniò la definizione "socialismo tricolore" per identificare il Socialismo nazionale del PSI craxiano. Sempre nell'ambito del PSI, agiva la cosiddetta corrente "autonomista" che dava ampio risalto ai valori dell'identità nazionale italiana. In tempi recenti il Fronte Sociale Nazionale nato negli anni '90, ha fatto riferimento ai valori del socialismo nazionale. Distaccatosi dal Fronte Sociale Nazionale (confederatosi nel 2008 con il partito La Destra guidato da Francesco Storace), dopo una prima costituzione in Centro Studi Socialismo Nazionale, si rifà a questo progetto il movimento politico extraparlamentare, denominato "Unione per il Socialismo Nazionale", nato nell'ottobre del 2011.

BENITO MUSSOLINI. UN COMUNISTA UCCISO DAI COMUNISTI.

Benito Mussolini. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia e Duce del Fascismo. Durata mandato 31 ottobre 1922 – 25 luglio 1943. Monarca Vittorio Emanuele III.

Benito Amilcare Andrea Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Tremezzina, 28 aprile 1945) è stato un politico, dittatore e giornalista italiano. Fondatore del fascismo, fu presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Nel gennaio 1925 assunse de facto poteri dittatoriali e dal dicembre dello stesso anno acquisì il titolo di capo del governo primo ministro segretario di Stato. Dopo la guerra d'Etiopia, aggiunse al titolo di duce quello di "Fondatore dell'Impero" e divenne Primo Maresciallo dell'Impero il 30 marzo 1938. Fu capo della Repubblica Sociale Italiana dal settembre 1943 al 27 aprile 1945. Fu esponente di spicco del Partito Socialista Italiano e direttore del quotidiano socialista Avanti! dal 1912. Convinto anti-interventista negli anni della guerra italo-turca e in quelli precedenti la prima guerra mondiale, nel 1914 cambiò improvvisamente opinione, dichiarandosi a favore dell'intervento in guerra. Trovatosi in netto contrasto con la linea del partito, si dimise dalla direzione dell'Avanti! e fondò Il Popolo d'Italia, schierato su posizioni interventiste, venendo quindi espulso dal PSI. Nell'immediato dopoguerra, cavalcando lo scontento per la "vittoria mutilata", fondò i Fasci italiani di combattimento (1919), poi divenuti Partito Nazionale Fascista nel 1921, e si presentò al Paese con un programma politico nazionalista e radicale. Nel contesto di forte instabilità politica e sociale successivo alla Grande Guerra, puntò alla presa del potere; forzando la mano alle istituzioni, con l'aiuto di atti di squadrismo e d'intimidazione politica che culminarono il 28 ottobre 1922 con la marcia su Roma, Mussolini ottenne l'incarico di costituire il Governo (30 ottobre). Dopo il contestato successo alle elezioni politiche del 1924, instaurò nel gennaio 1925 la dittatura, risolvendo con forza la delicata situazione venutasi a creare dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Negli anni successivi consolidò il regime, affermando la supremazia del potere esecutivo, trasformando il sistema amministrativo e inquadrando le masse nelle organizzazioni di partito. Nel 1935, Mussolini decise di occupare l'Etiopia, provocando l'isolamento internazionale dell'Italia. Appoggiò quindi i franchisti nella guerra civile spagnola e si avvicinò alla Germania nazista di Adolf Hitler, con il quale stabilì un legame che culminò con il Patto d'Acciaio nel 1939. È in questo periodo che furono approvate in Italia le leggi razziali. Nel 1940, ritenendo ormai prossima la vittoria della Germania, fece entrare l'Italia nella seconda guerra mondiale. In seguito alle disfatte subite dalle Forze Armate italiane e alla messa in minoranza durante il Gran consiglio del fascismo (ordine del giorno Grandi del 24 luglio 1943), fu arrestato per ordine del re (25 luglio) e successivamente tradotto a Campo Imperatore. Liberato dai tedeschi, e ormai in balia delle decisioni di Hitler, instaurò nell'Italia settentrionale la Repubblica Sociale Italiana. In seguito alla definitiva sconfitta delle forze italo tedesche, abbandonò Milano la sera del 25 aprile 1945, dopo aver invano cercato di trattare la resa. Il tentativo di fuga si concluse il 27 aprile con la cattura da parte dei partigiani a Dongo, sul lago di Como. Fu fucilato il giorno seguente insieme alla sua amante Claretta Petacci. Figlio del fabbro Alessandro Mussolini (Montemaggiore di Predappio, 11 novembre 1854- Forlì, 19 novembre 1910) e della maestra elementare Rosa Maltoni (San Martino in Strada, 22 aprile 1858- Predappio, 19 febbraio 1905), nacque il 29 luglio 1883 a Dovia, frazione del comune di Predappio, in una casa tuttora esistente nell'attuale via Varano Costa, ormai inglobata nel paese. Il nome "Benito Amilcare Andrea" fu deciso dal padre, socialista, desideroso di rendere omaggio alla memoria di Benito Juárez, leader rivoluzionario ed ex-presidente del Messico, di Amilcare Cipriani, patriota italiano e socialista, e di Andrea Costa, imolese, leader del socialismo italiano (nell'agosto 1881 aveva fondato a Rimini il «Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna»). Contrariamente al marito, la madre Rosa era credente e fece battezzare il figlio. Mussolini frequentò le prime due classi elementari prima a Dovia e poi a Predappio(1889-1891); entrò quindi per volontà della madre nel collegio salesiano di Faenza (1892-ottobre 1894), ma venne trasferito in seguito a una punizione (comprensiva della retrocessione dalla classe quarta alla seconda) per una rissa nella quale ferì un suo compagno più anziano con un coltello. A Faenza, Benito passò un periodo infelice: oltre alle punizioni corporali subite dai salesiani per la sua scarsa osservanza delle regole del collegio, visse con rabbia e frustrazione la sua condizione sociale. La famiglia era di modeste condizioni: il padre, pur avendo una propria attività, viveva ai margini della comunità locale a causa delle sue idee politiche; la madre, che insegnava ai bambini delle elementari presso Palazzo Varano, guadagnava uno stipendio insufficiente a compensare le mancate entrate del marito. Aiutato dalla madre, proseguì gli studi nella laica Regia Scuola Magistrale maschile Carducci di Forlimpopoli, diretta da Valfredo Carducci, fratello di Giosuè Carducci, dove conseguì nel settembre 1898 la licenza tecnica inferiore. A partire dall'ottobre di quell'anno, per via di uno scontro con un altro alunno, venne costretto a frequentare come esterno (solo nel 1901 fu riammesso come convittore). A Forlimpopoli, anche per l'influsso paterno, Mussolini si avvicinò al socialismo militante facendosi notare in comizi serali nei paesi limitrofi e nel 1900 si iscrisse al Partito Socialista Italiano, dove fece amicizia con Olindo Vernocchi. Dopo aver ottenuto sempre nello stesso istituto di Forlimpopoli il diploma di Maestro elementare l'8 luglio 1901, avanzò domanda d'insegnamento per concorso o per incarico in diversi comuni: Predappio, Legnano, Tolentino, Ancona, Castelnuovo Scrivia. Non riuscendo ad ottenere la cattedra e non avendo nemmeno avuto il posto di "sostituto aiutante" del segretario comunale di Predappio (la sua domanda fu respinta dal gruppo clerico-moderato con 10 voti su 14), dopo una supplenza di pochi mesi nella scuola elementare di Pieve Saliceto (frazione di Gualtieri), emigrò il 9 luglio 1902 in Svizzera per sfuggire al servizio militare obbligatorio, stabilendosi a Losanna. Lì si iscrisse al sindacato muratori e manovali, di cui poi divenne segretario, e il 2 agosto 1902 pubblicò il suo primo articolo su L'Avvenire del lavoratore, il giornale dei socialisti svizzeri; l'attività giornalistica vera e propria cominciò nel 1904. Fino a novembre visse in Svizzera, spostandosi di città in città e svolgendo lavori occasionali, tra cui il garzone di una bottega di vini a Losanna. Venne espulso due volte dal paese: il 18 giugno 1903 fu arrestato a Berna come agitatore socialista, trattenuto in carcere per 12 giorni e poi espulso il 30 giugno dal Canton Berna, mentre il 9 aprile 1904 venne incarcerato per 7 giorni a Ginevra a causa del permesso di soggiorno falsificato, per poi essere espulso una settimana dopo dal Canton Ginevra. Nel frattempo ricevette anche una condanna a un anno di carcere per renitenza alla leva militare. Venne protetto da alcuni socialisti e anarchici del Canton Ticino, tra cui Giacinto Menotti Serrati e Angelica Balabanoff, con la quale avviò una relazione sentimentale. Nel periodo in cui Mussolini risiedette in Svizzera, abitò a Savosa, comune periferico a nord di Lugano, e partecipò al consolidamento dei muri sulla strada di Trevano, sulla Cassarate-Monte Brè e soprattutto alla costruzione della ferrovia Lugano-Tesserete. In Svizzera Mussolini ebbe la possibilità di avvicinarsi a Vilfredo Pareto, frequentandone le lezioni all'Università di Losanna, dove l'economista italo-francese insegnò per alcuni anni. Pareto (che definirà Mussolini "un grande statista") inciterà il suo allievo a prendere il potere e organizzare la Marcia su Roma (inviando un telegramma dalla Svizzera in cui si diceva «ora o mai più»). Mussolini utilizzò le idee di Pareto per rivedere la sua adesione al socialismo. Sempre in Svizzera Mussolini collaborò con periodici locali d'ispirazione socialista (tra cui il Proletario) e inviò corrispondenze al giornale milanese l'Avanguardia socialista. L'attività di giornalista rese evidente sin dai suoi primi scritti l'avversione ideologica al positivismo, allora predominante nel socialismo italiano; Mussolini prese subito posizione contro questo orientamento e si schierò con l'ala rivoluzionaria del partito socialista, capeggiata da Arturo Labriola. Con il passare degli anni Mussolini sviluppa una sempre più aspra avversione verso i riformisti, tentando di diffondere e di imporre all'intero movimento socialista la propria concezione rivoluzionaria. È in questo periodo che mostrò le maggiori affinità ideologiche con il sindacalismo rivoluzionario. Dalle discussioni con il pastore evangelico Alfredo Taglialatela, Mussolini trasse una conclusione negativa sul problema dell'esistenza di Dio, sul quale tornò a riflettere molti anni dopo. Le sue opinioni saranno in seguito raccolte nell'opuscolo L'uomo e la divinità, una breve dissertazione sui motivi per i quali bisognerebbe negare l'esistenza di Dio. Mussolini in questo periodo studiò assiduamente il francese e cercò di imparare il tedesco, avvalendosi in quest'ultimo caso dell'aiuto della Balabanoff. Nel novembre 1904, caduta la condanna per renitenza alla leva in seguito all'amnistia concessa in occasione della nascita dell'erede al trono Umberto, Mussolini tornò in Italia. Dovette tuttavia presentarsi al Distretto militare di Forlì e adempì ai suoi doveri di leva venendo assegnato il 30 dicembre 1904 al 10º Reggimento bersaglieri di Verona. Poté tornare a casa con una licenza per assistere la madre morente (19 gennaio 1905). Poi riprese il servizio militare, ottenendo al termine una dichiarazione di buona condotta per il contegno disciplinato. In Svizzera lasciò libero il posto di corrispondente dalla Confederazione elvetica del giornale italiano Avanguardia Socialista, e tale incarico venne assegnato al giovane socialista Luigi Zappelli, che già aveva conosciuto. Congedato, Mussolini rientrò a Dovia di Predappio il 4 settembre 1906. Poco dopo si recò a insegnare a Tolmezzo, dove ottenne un posto da supplente dal 15 novembre sino al termine dell'anno scolastico. Il periodo nel comune friulano fu difficile: con gli studenti si dimostrò incapace di mantenere l'ordine e l'anticlericalismo e il linguaggio sboccato gli attirarono le antipatie della popolazione locale, tanto che le ragazze del paese lo chiamavano "tiranno". Nel novembre del 1907 ottenne l'abilitazione all'insegnamento della lingua francese e nel marzo 1908 gli venne assegnato un incarico come professore di francese presso il Collegio Civico di Oneglia, dove insegnò anche Italiano, Storia e Geografia. A Oneglia ottenne la sua prima direzione di un giornale, il settimanale socialista La Lima. Nei suoi articoli il neo direttore attaccò le istituzioni sia politiche sia religiose, accusando il governo Giolitti e la Chiesa di difendere gli interessi del capitalismo ai danni del proletariato. Per evitare problemi si firma con lo pseudonimo di "Vero Eretico". Il giornale suscitò grande interesse e Mussolini comprese che il giornalismo d'eversione poteva essere uno strumento politico. Tornato a Predappio, si mise a capo dello sciopero dei braccianti agricoli. Il 18 luglio 1908 fu arrestato per minacce a un dirigente delle organizzazioni padronali. Processato per direttissima fu condannato a tre mesi di carcere, ma il 30 luglio venne rilasciato in libertà provvisoria su cauzione. Nel settembre dello stesso anno fu di nuovo incarcerato per dieci giorni per aver tenuto a Meldola un comizio non autorizzato. In novembre si trasferì a Forlì, dove visse in una stanza affittata, assieme al padre vedovo che nel frattempo aveva aperto la trattoria Il bersagliere con la compagna Anna Lombardi. In questo periodo, Mussolini pubblicò su Pagine libere (rivista del sindacalismo rivoluzionario edita a Lugano e diretta da Angelo Oliviero Olivetti) l'articolo La filosofia della forza, in cui faceva riferimento al pensiero di Nietzsche. Il 6 febbraio 1909 si trasferì a Trento, capitale dell'irredentismo italiano, dove venne eletto segretario della Camera del Lavoro e diresse il suo primo quotidiano, L'avvenire del lavoratore. Il 7 marzo di quell'anno si rese protagonista di un breve scontro giornalistico con Alcide De Gasperi, direttore del periodico cattolico Il Trentino. Mussolini collaborò anche con il quotidiano Il Popolo, diretto da Cesare Battisti, sulle cui pagine scrisse della "santa di Susà", una contadina di nome Rosa Broll che era stata adescata da un sacerdote del luogo. L'articolo ebbe un tale successo che la direzione del Partito Socialista trentino decise di farne una pubblicazione a sé stante, al prezzo di 6 centesimi. Il 10 settembre dello stesso anno Mussolini venne incarcerato a Rovereto con l'accusa, da cui poi fu assolto, di diffusione di giornali già sequestrati e istigazione alla violenza verso l'Impero asburgico. Il giorno 26 fu comunque espulso dall'Austria e fece ritorno a Forlì. Il caso del "professor Mussolini" divenne di interesse nazionale tanto che durante un'interrogazione parlamentare alla Camera (presentata dal deputato socialista Elia Musatti), fu interpellato il ministro degli Esteri Francesco Guicciardini il quale rispose che "per quanto possa essere dispiacevole che l'espulsione di cittadini italiani dall'Austria si rinnovi con una certa frequenza, pure io non credo in nessun modo di intervenire nella faccenda trattandosi di questione interna dell'Austria". I fatti trentini comunque procurarono a Mussolini una notevole notorietà in Italia, lo spinsero ulteriormente verso l'azione politica e segnarono l'inizio del passaggio da una concezione socialista e internazionalista a posizioni marcatamente nazionaliste. A partire dal gennaio 1910, divenne segretario della Federazione socialista forlivese e diresse il suo periodico ufficiale L'idea socialista, settimanale di quattro pagine (ribattezzato da Mussolini stesso Lotta di classe). Il 17 gennaio Mussolini iniziò a convivere con Rachele Guidi, sua futura moglie, in un appartamento ammobiliato di Via Merenda n° 1. Cominciò inoltre a collaborare con la rivista socialista Soffitta. In questi anni forlivesi, decise anche di prendere lezioni di violino dal Maestro Archimede Montanelli. Fra le opere preferite di Mussolini si ricordano: La Follia di Corelli, le sonate di Beethoven, le composizioni di Veracini, Vivaldi, Bach, Granados, Fauré e Ranzato. Dal punto di vista giornalistico, continuò anche il rapporto con Il popolo di Trento. Cesare Battisti gli chiese di scrivere un romanzo a puntate. Il compenso era di 15 lire a puntata. Mussolini scelse uno dei suoi argomenti preferiti, la critica sociale anticlericale. Ispirandosi a una storia realmente avvenuta a Trento nel Seicento (lo scandaloso amore tra il vescovo-principe di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, e una cortigiana) scrisse L'amante del cardinale. Claudia Particella. Il romanzo uscì a puntate, dal 20 gennaio all'11 maggio 1910. Come rappresentante della federazione di Forlì, Mussolini partecipò al congresso socialista di Milano (1910). L'11 aprile 1911 la sezione socialista di Forlì guidata da Mussolini votò l'autonomia dal PSI. Nel maggio dello stesso anno la prestigiosa rivista letteraria La Voce, diretta da Giuseppe Prezzolini, pubblicò il suo saggio Il Trentino veduto da un socialista, costituito dagli appunti stesi da Mussolini durante il 1909. Il 25 settembre, assieme all'amico repubblicano Pietro Nenni, Mussolini partecipò a una manifestazione contro la guerra con l'impero ottomano per il possesso diCirenaica e Tripolitania, che si concluse con scontri violenti con la polizia. Mussolini aveva definito l'impresa coloniale africana di Giovanni Giolitti un "atto di brigantaggio internazionale"; aveva inoltre definito il tricolore "uno straccio da piantare su un mucchio di letame". Arrestato il 14 ottobre, venne processato e condannato a un anno di reclusione (23 novembre). Il 19 febbraio 1912 la Corte d'Appello di Bologna ridusse la pena a cinque mesi e mezzo e il successivo 12 marzo Mussolini venne rilasciato. L'8 luglio 1912, al congresso del PSI di Reggio Emilia, avanzò una mozione di espulsione (definita da lui anche lista di proscrizione) nei confronti dei riformisti Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angiolo Cabrini e Guido Podrecca, che venne accolta. L'accusa era di "gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista". Quindi entrò nella direzione nazionale del partito. Collaborò poi con Folla, giornale di Paolo Valera, firmandosi con lo pseudonimo "L'homme qui cherche". Grazie agli eventi del 1912 e alle sue qualità di brillante oratore, nel novembre 1912 divenne esponente di spicco dell'ala massimalista del socialismo italiano e giunse alla direzione dell'Avanti!, organo ufficiale del partito, succedendo a Giovanni Bacci (Angelica Balabanoff venne scelta per il ruolo di viceredattore capo). Alle Elezioni politiche del 1913 (il primo turno si svolse il 26 ottobre) Mussolini si presentò, nel collegio di Forlì, come candidato socialista per la Camera dei Deputati, ma venne sconfitto da Giuseppe Gaudenzi, repubblicano (tradizionalmente, i repubblicani erano molto forti nel forlivese). Il mese successivo (novembre 1913) fondò un proprio giornale, Utopia, che diresse fino allo scoppio della guerra e sul quale poté esprimere tutte le proprie opinioni, anche quelle in contrasto con la linea ufficiale del partito. Al congresso del Partito Socialista di Ancona del 1914, presentò con Giovanni Zibordi una mozione, che venne accolta, con la quale si riconobbe esser incompatibile l'appartenenza alla massoneria per un socialista. Il 9 giugno venne eletto consigliere comunale a Milano e fu protagonista della Settimana Rossa. Allo scoppio della prima guerra mondiale interpretò con fermezza la linea non interventista dell'Internazionale Socialista. Mussolini era del parere che il conflitto non poteva giovare agli interessi dei proletari italiani bensì solo a quelli dei capitalisti. Nello stesso periodo, all'insaputa dell'opinione pubblica, il Ministero degli Esteri stava avviando un'operazione di persuasione negli ambienti socialisti e cattolici per ottenere un atteggiamento favorevole verso un possibile intervento dell'Italia in guerra. Riguardo agli ambienti socialisti, individuò nel quotidiano del partito uno strumento per portare i socialisti dalla propria parte. Fu Filippo Naldi, "faccendiere" con numerosi agganci tra gli ambienti finanziari e il giornalismo (e direttore del bolognese Resto del Carlino), a prendere contatti con il direttore dell'Avanti. Il 26 luglio Mussolini pubblicò un editoriale intitolato Abbasso la guerra, a favore della scelta antibellicista; ma negli stessi giorni compaiono altri articoli, a firme di noti esponenti del partito, che pur mantenendo fermo l'atteggiamento di fondo contro la guerra cominciavano a discutere sull'alleato che avrebbe potuto giovare alla causa italiana.[senza fonte] Già nei primi mesi del conflitto appariva quindi tutta l'incertezza del Partito Socialista, che non sapeva risolversi tra la sua inclinazione antimilitarista e la propensione verso la guerra come mezzo per rinnovare la lotta politica e smuovere gli equilibri consolidati nel Paese. Uno dei primi a porre dubbi sulla neutralità assoluta fu Bissolati, a cui seguirono Prezzolini, Salvemini, i repubblicani, i radicali, i massoni, i socialisti riformisti e i sindacalisti rivoluzionari. I primi attacchi a Mussolini relativi ad un suo possibile cambio d'opinione si ebbero il 28 agosto 1914 in un articolo de "Giornale d'Italia" e continuarono in settembre e ottobre su altri quotidiani. Fu in questo contesto che Naldi pubblicò un polemico articolo sul Resto del Carlino (7 ottobre 1914, scritto da Libero Tancredi), in cui accusava Mussolini di doppiogiochismo, ottenendo l'irata reazione del direttore dell'Avanti!. Cogliendo l'occasione per un chiarimento, Naldi si recò a Milano nella sede del quotidiano e conobbe personalmente Mussolini. Sfruttando forse la sua insofferenza per la posizione ambigua del partito, ottenne da Mussolini una prima "conversione", da posizioni antibelliciste a un neutralismo condizionato. Il 18 ottobre, mutando esplicitamente la propria originaria posizione, Mussolini pubblicò sulla Terza pagina dell'Avanti! un lungo articolo intitolato «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», in cui rivolse un appello ai socialisti sul pericolo che una neutralità avrebbe comportato per il partito, cioè la condanna all'isolamento politico. Secondo Mussolini, le organizzazioni socialiste avrebbero dovuto appoggiare la guerra fra le nazioni, con la conseguente distribuzione delle armi al popolo, per poi trasformarla in una rivoluzione armata contro il potere borghese. La nuova linea non venne accettata dal partito e nel giro di due giorni Mussolini rassegnò le dimissioni (20 ottobre). Nel periodo di direzione Mussolini, il giornale era salito da 30-45.000 copie nel 1913 a 60-75.000 copie nei primi mesi del 1914. Grazie all'aiuto finanziario di alcuni gruppi industriali (ancora con la mediazione di Filippo Naldi), Mussolini riuscì rapidamente a fondare un suo giornale: Il Popolo d'Italia, il cui primo numero uscì il 15 novembre 1914. Dalle colonne del suo giornale, Mussolini attaccò senza remore i suoi vecchi compagni. Col partito era rottura: il 29 novembre Mussolini venne espulso dal PSI. I tempi dell'operazione e la provenienza dei finanziamenti insospettirono gli ex compagni, che accusarono Mussolini di indegnità morale. Secondo il Partito Socialista, egli avrebbe ricevuto fondi occulti da agenti francesi in Italia, che lo avrebbero corrotto per farlo aderire alla causa dell'interventismo pro-Intesa. La questione finì davanti alla commissione d'inchiesta del collegio dei probiviri dell'Associazione Lombarda dei Giornalisti, che escludette ogni ipotesi di corruzione giungendo alla conclusione che la nascita del giornale era da collegarsi esclusivamente al rapporto di simpatia personale fra Mussolini e il direttore del Carlino Naldi. Solo negli ultimi anni stanno uscendo documenti che proverebbero invece il diretto intervento del governo francese a favore di Mussolini, che comunque sappiamo aver incontrato in Svizzera rappresentanti dell'Intesa, i quali gli assicurano il loro appoggio. In particolare, secondo una nota scritta nel novembre 1922 dai servizi segreti francesi a Roma, Mussolini (che venne dichiarato in un'altra nota degli stessi servizi «un agente del Ministero francese a Roma») avrebbe incassato nel 1914 dal deputato francese Charles Dumas, capo di gabinetto del ministro francese Jules Guesde, socialista, dieci milioni di franchi "per caldeggiare sul suo Popolo d'Italia l'entrata in guerra dell'Italia al fianco delle potenze alleate". Nel mese di dicembre prese parte a Milano alla fondazione dei "Fasci di azione rivoluzionaria" di Filippo Corridoni, partecipando poi al loro primo congresso il 24 e il 25 gennaio 1915. Nel marzo 1915, dopo una lunga serie di reciproci articoli durissimi, giunti all'insulto personale, nonostante lo Statuto del Partito Socialista lo vietasse, Claudio Treves sfidò Mussolini a duello. La sfida venne accolta e il duello si svolse a Bicocca (nord di Milano) nel pomeriggio del 29 marzo 1915. Fu un combattimento alla sciabola tesissimo, durato 25 minuti, suddivisi in otto assalti consecutivi, nei quali i duellanti infersero, l'un l'altro, varie ferite e contusioni. Al termine dell'ottavo assalto, su consiglio dei medici, i padrini decisero di porre termine allo scontro, comunque constatando l'univoco rifiuto dei duellanti alla riconciliazione. Pur restando ferito all'avambraccio, alla fronte e all'ascella, Treves riuscì a colpire all'orecchio il futuro Duce, che era uscito indenne da sei precedenti duelli. Secondo il ricordo del figlio di Treves, Piero: "Non credo vi siano mai state due persone più antitetiche. Mio padre era fondamentalmente un uomo di cultura, odiava la demagogia, la retorica vana, il gonfiarsi le gote, insomma tutto ciò che caratterizza il cosiddetto 'villan rifatto'. Questo era precisamente Mussolini, il quale si faceva bello di una cultura che non aveva...". In seguito l'interventismo di Mussolini si fece sempre più acceso, accompagnato dalla veemenza contro le istituzioni parlamentari, che nella sua idea di guerra come anticamera della rivoluzione avrebbero dovuto essere spazzate via dalla novità della guerra mondiale, grazie alla quale le masse rivoluzionarie si sarebbero affacciate armate sul palcoscenico della storia: « Questi deputati che minacciano pronunciamenti alla maniera delle republichette sud-americane, questi deputati che diffondono – con le più inverosimili esagerazioni – il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, ciarlatani… questi deputati andrebbero consegnati ai tribunali di guerra! La disciplina deve cominciare dall'alto se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, sono sempre più fermamente convinto che per la salute dell'Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati, e mandare all'ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia un bubbone pestifero. Occorre estirparlo.» Alla dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria (23 maggio 1915), Mussolini fece domanda per arruolarsi volontario, e questa come nella maggioranza dei casi venne respinta dagli uffici di leva. Venne chiamato come coscritto il 31 agosto1915, e fu assegnato come soldato semplice al 12º Reggimento bersaglieri; il 13 settembre parti' per il fronte con l'11º Reggimento bersaglieri. Tenne un diario di guerra, pubblicato sul Popolo d'Italia (fine dicembre 1915 - 13 febbraio 1917), nel quale raccontò la vita in trincea e prefigurò se stesso come eroe carismatico di una comunità nazionale, socialmente gerarchica e obbediente. Il 1º marzo 1916 fu promosso caporale per meriti di guerra. Nel "Rapporto Gasti" si legge, tra l'altro, «Attività esemplare, qualità battagliere, serenità di mente, incuranza ai disagi, zelo, regolarità nell'adempimento dei suoi doveri, primo in ogni impresa di lavoro e ardimento». Il 31 agosto successivo venne nominato caporal maggiore. Il 23 febbraio 1917 fu ferito gravemente dallo scoppio di un lanciabombe durante un'esercitazione sul Carso. Fu operato nell'ospedaletto da campo di Ronchi di Soleschiano dal clinico chirurgo Giuseppe Tusini, fondatore e preside dell'Università Castrense di San Giorgio di Nogaro. Durante la convalescenza venne visitato nel sanatorio da Vittorio Emanuele III. In questo periodo fece circolare due leggende: che aveva rifiutato l'anestetico mentre gli estraevano le schegge dal corpo e che gli austriaci, considerandolo il nemico più potente, bombardarono l'ospedale in cui si trovava allo scopo di ucciderlo. Dopo la prima convalescenza in ospedale militare e le due successive licenze venne congedato illimitatamente nel 1919. Mussolini tornò alla direzione de Il Popolo d'Italia nel giugno 1917. Il 1º agosto1918 modificò il sottotitolo da "Quotidiano socialista" a "Quotidiano dei combattenti e dei produttori", indicando chiaramente la strada da intraprendere. In dicembre pubblicò sul giornale l'articolo Trincerocrazia, in cui rivendicò per i reduci dalle trincee il diritto di governare l'Italia post-bellica e prefigurò i combattenti della Grande Guerracome l'aristocrazia di domani e il nucleo centrale di una nuova classe dirigente. Stando a documenti resi pubblici nel 2009, fu in questo periodo che l'allora tenente colonnello del servizio segreto militare britannico Samuel Hoare (futuro Segretario per gli Affari Esteri e successivamente Segretario degli Interni) prese accordi con Mussolini, fornendogli una retribuzione settimanale di 100 sterline in cambio dell'impegno a sostenere la linea bellica anche dopo la sconfitta di Caporetto. Mussolini in questo periodo ricevette per il suo giornale anche, secondo una relazione della Polizia del 10 aprile 1917, finanziamenti da parte di ricchi industriali milanesi, da Banche per la pubblicità dei prestiti di guerra, da singoli sovvenzionatori come Cesare Goldmann e probabilmente Filippo Naldi, dalla Banca Italiana di Sconto e dalla massoneria. Ci furono probabilmente anche legami con i gruppi industriali Ansaldo e Toeplitz (e legata a quest'ultimo la Banca Commerciale Italiana). La fondazione dei Fasci italiani di combattimento avvenne a Milano il 23 marzo 1919 inPiazza San Sepolcro; stando allo stesso Mussolini non erano presenti che una cinquantina di aderenti, ma negli anni successivi, quando la qualifica di sansepolcrista dava automaticamente diritto a vantaggi cospicui in termini economici e di prestigio sociale, furono centinaia coloro che riuscirono a far aggiungere alla lista il loro nome. Tra marzo e giugno i futuristi di Filippo Tommaso Marinetti divennero la componente principale del Fascio milanese e fecero sentire la loro influenza ideologica; tuttavia Mussolini ebbe modo di affermare: "Noi siamo, soprattutto, dei libertari cioè della gente che ama la libertà per tutti, anche per avversari. (...) Faremo tutto il possibile per impedire la censura e preservare la libertà di pensiero di parola, la quale costituisce una delle più alte conquiste ed espressioni della civiltà umana". Dall'esperienza dei Freikorps tedeschi trasse la conclusione che squadre di uomini armati potevano essere utilissime per intimidire l'opposizione: il 15 aprile 1919, subito dopo un comizio della Camera del Lavoro all'Arena Civica, fascisti, arditi, nazionalisti e allievi ufficiali, guidati da Marinetti e Ferruccio Vecchi si lanciarono contro la sede dell'Avanti!, attaccandola e devastandola, dopo una serie di colluttazioni stradali con gruppi socialisti e dopo che dalla sede del giornale venne sparato un colpo di pistola che uccise un soldato, Martino Speroni. Mussolini si tenne in disparte, credendo che i suoi uomini non fossero ancora pronti per combattere una "battaglia di strada", ma difese il fatto compiuto. Procedette quindi a reclutare un esercito di arditi pronti a vari assalti frontali e trasportò nella sede del Popolo d'Italia una grande quantità di materiali bellici, per prevenire un possibile "contrattacco rosso". In giugno Mussolini si schierò contro il governo guidato da Francesco Saverio Nitti; per i fascisti il neopresidente del consiglio era il rappresentante di quella vecchia classe politica che essi intendevano soppiantare. Dalla debolezza dell'esecutivo Mussolini voleva trarre la forza per attuare una rivoluzione, e per tutta l'estate il suo nome fu associato a complotti volti a realizzare un colpo di Stato. Il 12 settembre, Mussolini promosse davanti alla sede de Il Popolo d'Italia una sottoscrizione a favore dell'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio, dopo aver incontrato quest'ultimo per la prima volta a Roma il 23 giugno. Il 7 ottobre era a Fiume, dove ebbe colloqui con D'Annunzio. I rapporti con il Vate furono comunque estremamente fugaci, e condizionati da reciproca diffidenza e rivalità: Mussolini mal sopportava l'idea che D'Annunzio potesse relegarlo in secondo piano; D'Annunzio gli scrisse una lettera tacciandolo di codardia, ma quando la missiva venne pubblicata dal Popolo d'Italia questo passaggio fu censurato. Il 9 ottobre si tenne a Firenze il primo Congresso dei Fasci di Combattimento: venne deciso di presentarsi alle imminenti elezioni politiche senza aderire a nessuna alleanza. Alle elezioni politiche del 16 novembre 1919 i fascisti, nonostante le candidature "eccellenti" dello stesso Mussolini e di Marinetti a Milano, non ottennero neanche un seggio, e nella provincia di Milano presero soltanto 4675 voti. Inoltre, il 18 novembre Mussolini fu arrestato per poche ore con l'accusa di detenzione di armi ed esplosivi, e venne rilasciato grazie anche all'intervento del senatore liberale Luigi Albertini. Dall'infelice esperienza Mussolini trasse la conclusione che il fascismo era guardato con diffidenza dall'elettorato conservatore ed era troppo simile ai socialisti per l'elettorato progressista; pertanto, avendo il fascismo fallito come movimento di sinistra, esso avrebbe potuto trovare un suo spazio come aggregazione di destra. All'inizio del 1920 Mussolini s'impegnò per aumentare i propri consensi nel nord-est, e in particolare a Trieste, città di frontiera dove convivevano non senza attriti italiani e slavi. Il 24 e il 25 maggio 1920 Mussolini partecipò al secondo Congresso dei Fasci di combattimento, che si teneva al teatro lirico di Milano. I Fasci di combattimento, grazie alla progressiva svolta a destra, iniziarono ad avere finanziamenti da parte di industriali, i quali venivano in cambio protetti da squadre di arditi. In giugno si schierò a favore di Giolitti, con il quale in ottobre s'incontrò per la risoluzione della questione di Fiume: pur biasimandolo per aver ritirato le truppe dall'Albania, gli fece capire che un accordo con i liberalconservatori era possibile. Il 12 novembre, con il fondo L'accordo di Rapallo, commentò abbastanza favorevolmente il trattato italo-jugoslavo firmato da Giolitti, con cui Fiume diveniva una città libera. Successivamente ad una discussione del Comitato Centrale dei Fasci del 15 novembre Mussolini modificò la propria opinione sulla bontà del trattato. Nel gennaio del 1921 la minoranza comunista usciva dal PSI per fondare il Partito Comunista d'Italia; ciò mise in allarme Mussolini perché i socialisti, ricollocatisi su posizioni più moderate, avrebbero potuto essere interpellati da Giolitti per una collaborazione governativa, escludendo in questo modo i fascisti dagli scenari politici principali. Il 2 aprile, dopo aver sfilato con gli squadristi in camicia nera in occasione dei solenni funerali delle vittime del terrorismo anarchico del teatro Diana, Mussolini accettò la richiesta di Giolitti di far parte dei Blocchi Nazionali, contando di poter addomesticare i fascisti alle sue posizioni politiche e utilizzarli per indebolire le opposizioni. Il futuro Duce si presentò quindi come alleato dello statista di Mondovì, dei nazionalisti e di una serie di altre associazioni e partiti, alle elezioni del 15 maggio1921, nelle liste dei "Blocchi Nazionali" antisocialisti: la lista ottenne 105 seggi, di cui 35 per i fascisti e anche Mussolini fu eletto deputato. Grazie all'immunità parlamentare poté quindi evitare il processo relativo ai fatti del 1919 (cospirazione e detenzione illegale di armi). Le consultazioni si svolsero in un clima di violenza: i morti furono un centinaio e in molte zone, approfittando del tacito favore della Polizia, i fascisti impedirono ai partiti di sinistra di tenere comizi. A partire da questo momento le camicie nere moltiplicarono i numerosi episodi di violenza e aggressione fisica e verbale contro gli avversari politici del fascismo; bersagli preferiti erano soprattutto socialisti, comunisti e popolari: il fenomeno prese il nome di squadrismo. Il 2 luglio, con un articolo (In tema di pace) sul Popolo d'Italia, invitò i socialisti e i popolari ad aderire a un patto di pacificazione per la cessazione delle violenze squadriste. L'accordo venne siglato il 2 agosto e firmato il giorno successivo grazie alla mediazione del presidente della Camera Enrico De Nicola; tuttavia, le violenze non cessarono perché l'esecuzione dell'accordo venne contestata dai singoli ras e perché ne vennero esclusi i comunisti, che non aderirono per estraneità del patto ai loro principii politici: fra costoro e gli squadristi le violenze continuarono rendendo vuoto di significato il patto; d'altro canto a Mussolini non conveniva recitare più di tanto la parte del pacificatore perché i ras minacciavano di scavalcarlo e destituirne l'autorità sui Fasci. A proposito della notevole autonomia di cui godevano i singoli gruppi squadristi, Renzo De Felice riporta che il futuro duce entrò in contrasto con alcuni esponenti che mettevano in dubbio la sua posizione di guida del movimento (su tutti, Dino Grandi) e che non accettavano la volontà mussoliniana di presentare quest'ultimo come "normalizzatore" dell'ordine sociale. Emblematico da questo punto di vista, sempre secondo De Felice, quanto scrisse Mussolini: «Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch'io posso fare a meno del fascismo». Tuttavia, le divergenze vennero superate, e il 7 novembre si tenne a Roma il terzo congresso dei Fasci di Combattimento, che vennero trasformati nel Partito Nazionale Fascista, con Michele Bianchi primo segretario. Il 1º gennaio 1922 Mussolini fondò il mensile Gerarchia, con cui collaborò l'intellettuale (e amante di Mussolini) Margherita Sarfatti, ma già nell'agosto precedente si era affrettato a creare una scuola di cultura fascista che aveva il compito di esporre la dottrina. Nel febbraio del 1922 divenne primo ministro Luigi Facta, l'ultimo liberale prima di Mussolini, personaggio di modesto spessore. La sua nomina fece il gioco dei fascisti poiché dava l'ennesima dimostrazione dell'incapacità del sistema parlamentare democratico di produrre un governo stabile e di mantenere l'ordine. Sotto il suo governo le incursioni delle squadre fasciste si moltiplicarono, soprattutto nelle province di Ferrara e Ravenna (si distinse in questi attacchi Italo Balbo). Il 2 agosto le sinistre indissero uno sciopero, definito da Turati "legalitario" ed organizzato fin dal 28 luglio, contro le violenze delle camicie nere, che intervennero determinandone il fallimento: a Milano, per esempio, gli squadristi dispersero i picchetti degli scioperanti e conquistarono i depositi dei tram, facendo circolare regolarmente i mezzi pubblici con la scritta "gratis - offerto dal Fascio". Nel frattempo, tra il 31 agosto e il 5 settembre, le squadre fasciste occuparono i municipi di Ancona, Milano, Genova, Livorno, Parma, Bolzano e Trento, acquisendone il controllo, dopo violenti scontri armati. Si trattava del crescendo della "rivoluzione fascista", con cui Mussolini tentò un ambizioso colpo di mano per impadronirsi del potere, sfruttando il consenso acquisito presso gli ambienti sociali più influenti del regno. Il 24 ottobre egli passò in rassegna a Napoli le 40.000 camicie nere lì radunate, affermando il diritto del Fascismo a governare l'Italia. In molti si convinsero che ormai dialogare con Mussolini fosse diventato inevitabile: Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando teorizzarono una coalizione di governo che includesse anche i fascisti e Nitti, che sperava nella presidenza del Consiglio, riteneva ora un'alleanza con Mussolini il mezzo migliore per scalzare il suo avversario Giolitti. Proprio Giolitti, secondo lo stesso Mussolini, era l'unico uomo che poteva evitare il successo del fascismo: Facta lo sollecitò più volte a intervenire ma il grande vecchio della politica italiana comunicò che non si sarebbe scomodato se non per prendere direttamente in mano le redini del governo (fu questo un errore di cui si sarebbe pentito). I fascisti lo blandirono promettendogli la presidenza del Consiglio ed egli li accreditò presso il mondo industriale milanese. Tra il 27 e il 31 ottobre 1922, la "rivoluzione fascista" ebbe il suo culmine con la "marcia su Roma", opera di gruppi di camicie nere provenienti da diverse zone d'Italia e guidate dai "quadrumviri" (Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi). Il loro numero non è mai stato stabilito con certezza; tuttavia, a seconda della fonte di riferimento, la cifra considerata oscilla tra le 30.000 e le 300.000 persone. Mussolini non prese parte direttamente alla marcia, temendo un intervento repressivo dell'esercito che ne avrebbe determinato l'insuccesso. Rimase a Milano (dove una telefonata del prefetto lo avrebbe informato dell'esito positivo) in attesa di sviluppi e si recò a Roma solo in seguito, quando venne a sapere del buon esito dell'azione. A Milano, la sera del 26 ottobre, Mussolini ostentò tranquillità nei confronti dell'opinione pubblica assistendo al Cigno di Molnár al Teatro Manzoni. In quei giorni, stava in realtà trattando direttamente col governo di Roma sulle concessioni che questo era disposto a fare al Fascismo, e il futuro Duce nutriva incertezza sul risultato che la manovra avrebbe avuto. Il re, per l'opposizione di Mussolini a qualsiasi compromesso (il 28 ottobre rifiutò il Ministero degli Esteri) e per il sostegno di cui il fascismo godeva presso gli alti ufficiali e gli industriali, che vedevano in Mussolini l'uomo forte che poteva riportare ordine nel paese "normalizzando" la situazione sociale italiana, non proclamò lo Stato d'assedio proposto dal presidente del Consiglio Facta e dal generale Pietro Badoglio, e diede invece l'incarico a Mussolini di formare un nuovo governo di coalizione (29 ottobre). Se il re avesse accettato il consiglio dei due uomini, non ci sarebbero state speranze per le camicie nere: lo stesso Cesare Maria De Vecchie la destra fascista di ispirazione monarchica avrebbero optato per la fedeltà al Re. Il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera e tenne il suo primo discorso come presidente del consiglio (il "discorso del bivacco"), nel quale dichiarò: «Signori! Quello che io compio oggi, in quest'aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti anni, anzi, da troppi anni, le crisi di governo erano poste e risolte dalla camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata un assalto ed il ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta nel breve volgere di un decennio che il popolo italiano - nella sua parte migliore- ha scavalcato un ministero e si è dato un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle "camicie nere", inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ti abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.» Nella Camera dei deputati Mussolini ottenne la fiducia con 306 voti a favore, 116 contrari (socialisti, comunisti e qualche isolato) e 7 astenuti (rappresentanti delle minoranze nazionali), nel Senato con 19 voti contrari. Tra i favorevoli risultarono Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Luigi Facta e Antonio Salandra mentre Francesco Saverio Nitti abbandonò l'aula per protesta. Il 25 novembre ottenne dalla Camera i pieni poteri in ambito tributario ed amministrativo sino al 31 dicembre1923, al fine di "ristabilire l'ordine". Il 15 dicembre 1922 si istituì il Gran Consiglio del Fascismo. Il 14 gennaio 1923 le camicie nere vennero istituzionalizzate attraverso la creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il 9 giugno, dopo esser riuscito, con minacce, a far dimettere il principale antagonista parlamentare, Don Sturzo, ed a far frazionare il gruppo dei popolari con il suo pacato discorso del 15 luglio, presentò alla Camera la nuova legge Acerbo in materia elettorale, approvata dalla stessa il 21 luglio ed il 13 novembre dal Senato, divenendo poi la legge 18 novembre 1923, n. 2444. Mussolini ebbe un successivo voto di fiducia il 15 luglio con 303 voti a favore, 140 contro e 7 astensioni. Sempre in luglio, grazie all'appoggio britannico, nella conferenza di Losanna fu riconosciuto il dominio italiano sul Dodecaneso, occupato dal 1912. Il 27 agosto si verificò l'eccidio di Giannina: la spedizione militare Tellini, col compito di definire la linea di confine tra Grecia e Albania venne massacrata. Mussolini inviò un ultimatum alla Grecia per chiedere riparazioni, scuse ed onori ai morti e, in seguito al parziale rifiuto del governo greco, ordinò alla marina italiana di occupare Corfù. Con questa azione, il nuovo presidente del consiglio voleva dimostrare di voler perseguire una politica estera forte e ottenne, grazie alla Società delle Nazioni, le riparazioni richieste (dietro l'abbandono dell'isola occupata). Il 19 dicembre presiedette alla firma dell'accordo tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni fasciste (il cosiddetto "patto di Palazzo Chigi"). Il regio decreto 30 dicembre 1923 n. 2841 stabilì la creazione degli Enti Comunali di Assistenza (ECA) con compito di «coordinamento di tutte le attività, pubbliche o private, volte al soccorso degli indigenti, provvedendo, se necessario, alle loro cure, o promuovendo ove possibile l'educazione, l'istruzione e l'avviamento alle professioni, arti e mestieri». Essi furono unificati in due enti territoriali deputati all'assistenza sanitaria e materiale dei poveri e dell'infanzia abbandonata col regio decreto del 3 marzo 1933 n. 383. [Il R.D. non parla di ECA, che sono nati nel '37.] Il 27 gennaio 1924 venne firmato il trattato di Roma tra Italia e Jugoslavia, col quale quest'ultima riconobbe all'Italia Fiume, annessa il 22 febbraio. In seguito a questo, il 26 marzo il re conferì a Mussolini l'onorificenza dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata. A partire dalla marcia su Roma il governo italiano stabilì rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica, che vennero migliorati nel corso del febbraio 1923, giungendo al riconoscimento dell'URSS ed alla stipulazione di un trattato di commercio e navigazione il 7 febbraio 1924. Un accordo con il Regno Unito permise all'Italia di acquisire l'Oltregiuba, regione keniota che venne annessa alla Somalia italiana. Il 24 marzo si ebbe il primo tentativo di radiotrasmissione di un discorso politico. Alle elezioni del 6 aprile 1924, la "Lista Nazionale" (nota con il nome di "Listone") ottenne il 60,1% dei voti e 356 deputati (poi ridotti a 355 per la morte di Giuseppe De Nava, non sostituito); ad essi si aggiunsero il 4,8% di voti e i 19 seggi conseguiti dalla "lista bis". Nel complesso le due liste governative raccolsero il 64,9% dei voti validi, eleggendo 375 parlamentari, di cui 275 iscritti al Partito Nazionale Fascista. Oltre al PNF erano entrati nel "Listone" la maggioranza degli esponenti liberali e democratici (tra cui Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, ed Enrico De Nicola, che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, e numerose personalità della destra italiana. Le consultazioni si svolsero in un clima generale di violenza e intimidazioni, nonostante Mussolini avesse inviato reiterati appelli all'ordine ai fascisti e telegrammi ai prefetti affinché impedissero a chiunque intimidazioni, provocazioni e aggressioni, che avrebbero potuto portare le forze di minoranza a chiedere l'annullamento delle elezioni (che vedevano comunque favorito il "Listone"). Allo stesso tempo, Mussolini aveva impegnato telegraficamente i prefetti affinché ogni sforzo fosse effettuato per assicurare la vittoria alla Lista Nazionale, attraverso l'opera di convincimento degli incerti e la lotta all'astensionismo, l'opera di propaganda sulla corretta compilazione della scheda elettorale, e soprattutto attraverso manifestazioni e celebrazioni pubbliche patriottiche e religiose, nelle quali i Fasci locali avrebbero potuto presentarsi come gli unici detentori della legittimità a rappresentare la nazione. Le elezioni si conclusero con una schiacciante vittoria della Lista Nazionale, tale da superare le aspettative dello stesso Mussolini, che sulla base delle informative ricevute dai prefetti si aspettava una percentuale di consensi di poco superiore al 50%. Il "Listone" ottenne invece il 64,9% su base nazionale, tale da raggiungere da solo il premio di maggioranza del 65% previsto dalla Legge Acerbo per il partito di maggioranza relativa. La sconfitta delle opposizioni portò la stampa antifascista e anche quella a fascista ad un serrato attacco contro le violenze e le illegalità commesse dai fascisti e dagli organi dello Stato allineati al fascismo.  Solo pochi giornali riconobbero la vittoria elettorale del blocco nazionale. Gli abusi, i brogli e le violenze perpetrate dai fascisti vennero infine denunciate il 30 maggio dal deputato socialista unitario Giacomo Matteotti con un duro ma circostanziato discorso alla Camera col quale chiese di annullare il risultato delle elezioni. L'intervento provocò una seduta concitata, in cui Matteotti venne interrotto a più riprese, in particolare da Farinacci, il quale a sua volta rinfacciò all'opposizione le illegalità commesse dai movimenti antifascisti, mentre maggioranza e opposizione si scambiavano accuse reciproche. Alcuni esponenti della Lista Nazionale abbandonarono l'Aula per protesta contro le accuse lanciate da Matteotti. Il 10 giugno 1924 Matteotti venne sequestrato per mano di squadristi fascisti e di lui, per settimane, non ci fu più traccia. L'evento provocò grande turbamento in tutta la nazione e numerosi furono gli iscritti del partito nazionale fascista che stracciarono la tessera; la reazione più clamorosa fu tuttavia quella passata alla storia come «secessione dell'Aventino», ovvero l'abbandono del parlamento da parte dei deputati d'opposizione per protesta nei confronti del rapimento. Indicato dalla stampa e dall'opposizione ma anche da alcuni suoi alleati come mandante, Mussolini non venne però imputato nel processo, che portò alla condanna a sei anni per omicidio preterintenzionale di tre militanti fascisti (Amerigo Dumini, Albino Volpi e Amleto Poveromo) che secondo la sentenza avrebbero agito di propria iniziativa nell'assassinare Matteotti (il quale risulterà essere stato accoltellato a morte pochi istanti dopo essere stato rapito). Nonostante la responsabilità politica, se non fattiva, fosse con tutta evidenza di Mussolini e del PNF, anche il processo all'Alta Corte Senato del Regno contro Emilio De Bono non coinvolse Mussolini. La responsabilità di Mussolini come mandante dell'omicidio Matteotti è stata contestata da Renzo De Felice, che ha opinato come egli in quel periodo fosse il più danneggiato nella sua politica e nella sua persona da quel delitto. Lo stress dovuto ai fatti produsse in Mussolini i primi sintomi di un'ulcera duodenale che lo accompagnò per tutto il resto della sua vita. L'autunno 1924 fu denso di tensioni per Mussolini: alcuni fascisti presero le distanze da lui, e molti chiesero le sue dimissioni, affinché il "fascismo" potesse "ritemprarsi libero dalle responsabilità dei supremi poteri" (così il ministro delle Finanze De Stefani, presentò il 5 gennaio 1925 le proprie dimissioni – respinte – a Mussolini). La pubblicazione del "memoriale Rossi" (forse voluta dallo stesso Mussolini) portò altre accuse, ma per le sue incoerenze interne Mussolini riuscì con un'abile campagna di stampa a ritorcerle a suo vantaggio. Mussolini si limitò a cedere l'interim degli Interni a Federzoni, il quale venne incaricato di reprimere innanzitutto ogni moto spontaneo sia delle opposizioni che degli squadristi (i quali, soprattutto dopo l'assassinio come vendetta per Matteotti dell'onorevole Armando Casalini che tornava a casa con la figlia, il 12 settembre 1924 ricostituirono alcune "squadracce" e ripresero le violenze arbitrarie, anche verbali nei confronti di Federzoni stesso). Mentre la situazione si faceva sempre più tesa si agitarono anche voci che sostennero che Mussolini pensasse ad un colpo di Stato per risolvere la questione: una tesi che De Felice ha smentito: proprio l'iniziale volontà di Mussolini di risolvere politicamente e nei limiti della legalità costituzionale la crisi spinse invece i ras a metterlo spalle al muro. Dopo una durissima campagna di stampa portata avanti dalle testate dell'estremismo fascista, la sera del 31 dicembre un gruppo di consoli della Milizia capitanato da Aldo Tarabella ed Enzo Galbiati si recò a Palazzo Chigi. Lo scontro verbale fu violentissimo: gli squadristi accusarono Mussolini di volersi disfare della Milizia e del partito e lo minacciarono di un "pronunciamiento". A Firenze, nel frattempo, si erano radunati oltre diecimila squadristi, pronti all'azione violenta: fu incendiata la sede del Giornale nuovo e altre sedi antifasciste, e dato l'assalto alle carceri delle Murate, dalle quali furono tratti i fascisti ivi detenuti. In tutta questa situazione, il re taceva e l'Esercito non si muoveva. Mussolini, a questo punto "decise di giocare grosso: approfittare dell'atteggiamento del re per mettere fuori giuoco le opposizioni, rassodando così il proprio traballante potere e dando soddisfazione agli intransigenti, ma al tempo stesso tirare anche a questi un colpo mortale". Forte dell'indecisione delle opposizioni e premuto dai suoi compagni più radicali (Balbo, Farinacci e Bianchi soprattutto), il 3 gennaio 1925 Mussolini tenne alla Camera dei deputati un discorso sul delitto Matteotti col quale sfidò chiunque a trascinarlo davanti ad una corte speciale per giudicarlo, se davvero lo si fosse ritenuto correo al crimine commesso contro Matteotti. Inoltre, dopo aver respinto ogni addebito e ogni accusa in merito all'omicidio di Matteotti, espose le vicende della rivoluzione fascista, delle lotte interne e dell'ascesa al potere del fascismo, arrivando a sfidare l'aula sostenendo che se il fascismo non fosse stato altro che "un'associazione a delinquere", si procedesse immediatamente a preparare "il palo e la corda" per impiccarlo seduta stante e quindi concludendo, per riaffermare il proprio potere anche sul fascismo, Mussolini proclamò di volersi assumere "la responsabilità politica, morale, storica" del clima nel quale l'assassinio si era verificato, e dunque anche il comando delle frange più estreme del movimento e del partito che proprio in quei giorni l'avevano brutalmente spinto verso la svolta dittatoriale. Il giorno dopo Mussolini fece diramare a Federzoni una serie di telegrammi ai prefetti coi quali chiedeva la repressione più stringente di ogni sommossa o tumulto di ogni fazione in particolare però sui "comunisti e sovversivi", il controllo della stampa (quella dell'opposizione tramite la censura, quella fascista tramite un richiamo all'ordine perentorio) e poi - direttamente ai dirigenti delle federazioni fasciste un richiamo all'ordine con minaccia diretta nei confronti dei dirigenti che avessero permesso disordini da parte dei propri gregari. Nel gennaio iniziarono le azioni poliziesche di sequestro di giornali (il primo dei quali fu La conquista dello Stato, della sinistra fascista) di chiusura di sedi e circoli dell'opposizione (95 sedi e 150 esercizi pubblici di ritrovo, in particolare contro i comunisti e i circoli di "Italia libera") e di arresto di elementi "sospetti" (111 "pericolosi sovversivi" erano stati arrestati). Alle dimissioni di alcuni elementi liberal moderati dal governo Mussolini, questi rispose con un rapido "giro di poltrone", portando all'interno dei ministeri personalità fondamentali per il fascismo come il giurista Rocco e Giovanni Giuriati. Questi uomini - diretti da Mussolini - avrebbero nel giro di un anno costruito l'intelaiatura giuridica e funzionale dello Stato dittatoriale fascista. Dopo essere divenuto capo del governo Mussolini divenne oggetto di una serie di attentati, dai quali uscì sempre illeso. Il primo fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialista e Tito Zaniboni, appostatosi con un fucile alla finestra di una stanza dell'albergo Dragoni, di fronte al balcone di palazzo Chigi dove era previsto che Mussolini si affacciasse per il settimo anniversario della vittoria alle ore 10. La Polizia, che lo sorvegliava da più di un anno, fece però irruzione nella stanza di Zaniboni, alle ore 9. Il processo fu celebrato nell'aprile 1927 e Zaniboni fu condannato a 30 anni di reclusione, che, grazie ad amnistie, scontò per minor tempo. L'attentato creò notevole agitazione nel Paese: molti deputati aventiniani tornarono filo-fascisti - anche opportunisticamente - in Parlamento e la stampa liberale e cattolica, così come la Confindustria, iniziò a sostenere implicitamente od esplicitamente il Governo. Infine, oltre alle molte violenze fasciste vendicatrici, furono messe a soqquadro sedi di giornali ed alcune testate furono soppresse. La mattina del 7 aprile 1926 Mussolini uscì dal palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia; Violet Gibson, una nobildonna inglese, gli sparò da distanza ravvicinata, ferendolo lievemente al naso. Non appena medicato Mussolini fu già in grado di presenziare alla cerimonia d'insediamento del nuovo direttorio fascista e, il giorno dopo, prima di recarsi in Libia, commentò: «Le pallottole passano e Mussolini resta». Il terzo attentato fu opera di Gino Lucetti, un giovane marmista anarchico di Carrara che aveva combattuto negli Arditi e che poi, aggredito dai fascisti, era emigrato a Marsiglia. L'11 settembre 1926 egli attese che Mussolini uscisse dalla sua abitazione e gli lanciò una bomba a mano che colpì il tetto dell'auto del duce e scoppiò a terra ferendo otto persone. Nell'interrogatorio disse di aver voluto vendicare i massacri effettuati dagli squadristi a Torino nel dicembre del 1922. Il quarto attentato è il più misterioso. La sera del 31 ottobre 1926 a Bologna, il "duce" aveva appena inaugurato il nuovo stadio sportivo il Littoriale nell'ambito della commemorazione della "marcia su Roma"; su una macchina scoperta stava andando alla stazione quando un colpo di pistola gli lacerò la sciarpa dell'ordine mauriziano. Dietro alla macchina di Mussolini, che proseguì, un gruppo di squadristi di Leandro Arpinati (tra cui anche Balbo) si buttò sul presunto attentatore e lo linciò: il cadavere mostrerà 14 pugnalate, un colpo di rivoltella e tracce di strangolamento. Si trattava di Anteo Zamboni, un ragazzo quindicenne di famiglia anarchica. Secondo alcune recenti ricostruzioni, da alcuni storici ritenute poco documentate e probanti, l'attentato sarebbe stato il risultato di una cospirazione maturata all'interno degli ambienti fascisti emiliani (si sospettano a turno Farinacci, Balbo, Arpinati e Federzoni), contrari alla «normalizzazione» inaugurata da Mussolini, ostile ad ulteriori eccessi rivoluzionari e allo strapotere delle formazioni squadriste. I rapporti di polizia dell'epoca dimostrano come si svolsero inizialmente delle indagini negli ambienti squadristi bolognesi ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di ras locali come Farinacci e Arpinati, ma che non diedero alcun risultato. A quel punto si concluse che l'attentato non poteva che essere opera di un elemento isolato. Una ulteriore indagine sollecitata dal Ministero degli Interni fu svolta ancora dai magistrati del Tribunale Speciale ma anch'essa approdò alle medesime conclusioni conseguite dalla polizia. L'attentato di Bologna fornì il pretesto per le leggi fascistissime del novembre 1926. Il 5 novembre si registrarono: l'annullamento dei passaporti; sanzioni contro gli espatri clandestini; soppressione dei giornali antifascisti; scioglimento dei partiti; istituzione del confino e la creazione di una polizia politica segreta (che affidata aArturo Bocchini assumerà poi il nome di OVRA); il 9 vi fu la dichiarazione di decadenza dal mandato parlamentare di 120 deputati; il 25 venne istituita la pena di morte per chiunque avesse commesso un fatto diretto contro la vita, l'integrità o la libertà personale del re, della regina, del principe ereditario e del capo del governo, nonché per gli altri delitti contro lo Stato; nella stessa data venne inoltre creato il Tribunale speciale, che entrò subito in azione contro la "centrale comunista" (Gramsci, Terracini e altri). « Dopo la Roma dei Cesari, dopo quella dei Papi, c'è oggi una Roma, quella fascista, la quale con la simultaneità dell'antico e del moderno si impone all'ammirazione del mondo.» Con la legge 17 aprile 1925 n. 473 vennero sancite le nuove norme igieniche per le imprese, con l'obbligo di provvedere al servizio sanitario nell'azienda, di non gravare donne e minorenni con carichi eccessivi e di segnalare come tali e custodire le sostanze nocive. I contratti nazionali di lavoro assumevano forza di legge e i «padroni» («datori di lavoro») potevano stipulare contratti individuali difformi dai collettivi di categoria solo se erano previste condizioni migliori per i lavoratori. Sull'osservanza dell'atto vigilava il neo-costituito Ispettorato Corporativo. Col regio decreto 1º maggio 1925 n. 582 nacque l'Opera Nazionale Dopolavoro ("OND") allo scopo di "promuovere il sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali con istituzioni dirette a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali". Il 14 giugno 1925 il Presidente del Consiglio annunciò l'inizio della battaglia del grano. La campagna aveva lo scopo di far raggiungere l'autosufficienza dell'Italia dall'estero per quanto riguardava la produzione del frumento (la cui importazione era causa diretta del 50% del deficit della bilancia dei pagamenti) e, più in generale, di tutti i prodotti agricoli. Benché l'obiettivo della completa autosufficienza non venisse raggiunto, in termini d'incremento della produzione il successo fu cospicuo. L'agricoltura tuttavia perse redditività e si registrò una perdita di mercati d'esportazione per i prodotti agricoli più pregiati, dovuta al fatto che molte superfici destinate ad altre colture furono coltivate a cereali. Maggior fortuna ebbe il progetto della bonifica dei territori paludosi ancora presenti nella penisola italiana (tra cui l'Agro Pontino) realizzato tra il 1928 e il 1932. I nuovi comuni nacquero spesso in connessione con una particolare destinazione economica prestabilita (Carbonia, ad esempio, fu fondata per lo sfruttamento dei limitrofi giacimenti di carbone). Le bonifiche permisero anche l'attuazione di un'efficace programma sanitario che consentì di debellare la malaria, con risultati significativi anche contro la tubercolosi, il vaiolo, la pellagra e la rabbia. Il 21 giugno del 1925 si tenne il quarto e ultimo congresso del PNF, in cui Mussolini invitò le camicie nere ad abbandonare definitivamente la violenza. Molti elementi squadristi furono resi impotenti entro la fine dell'anno grazie alla riforma del sistema di polizia (e ciò permise il rafforzamento del potere dell'esecutivo) ma le vicende di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, conclusesi tragicamente nel principio del 1926, dimostrarono che le squadracce erano ancora attive. Il 18 luglio Italia e Jugoslavia firmarono il trattato di Nettuno per la definizione dei rispettivi confini in area dalmata; nello stesso periodo, a seguito della decisione di "italianizzare" l'Alto Adige, attuata spesso in maniera brutale (lo stesso Mussolini parlò di deportazione di massa delle minoranze linguistiche), il governo italiano pregiudicò per qualche tempo i rapporti diplomatici con l'Austria. Dopo una serie di alti contrasti fra il sindacato fascista e gli industriali, Mussolini giunse il 2 ottobre 1925 al Patto di Palazzo Vidoni, che rese la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali l'unico organo riconosciuto dalla Confindustria. Il 20 ottobre Mussolini nominò Cesare Mori prefetto di Palermo, con poteri straordinari e con competenza estesa a tutta la Sicilia, al fine di porre un freno al fenomeno mafioso nell'isola. Il «prefetto di ferro», anche attraverso metodi extralegali (fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto), con l'esplicito appoggio di Mussolini, ottenne significativi risultati, continuando la sua azione per tutto il biennio 1926-27. Fra le "vittime eccellenti" iniziarono a figurare anche personalità del calibro del generale di corpo d'armata Antonio di Giorgio, il quale riuscì ad ottenere un colloquio riservato con Mussolini, cosa che non impedì né il processo né il pensionamento anticipato dell'alto ufficiale. Ben presto però circoli politico-affaristici di area fascista collusi con la mafia riuscirono a indirizzare, tramite attività di dossieraggio, le indagini di Mori e del procuratore generale Luigi Giampietro sull'ala radicale del fascismo siciliano, coinvolgendo anche il federale Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell'isola. Cucco nel 1927 venne espulso dal PNF "per indegnità morale" e sottoposto a processo con l'accusa di aver ricevuto denaro e favori dalla mafia, venendo assolto in appello quattro anni dopo, ma nel frattempo il fascio siciliano era stato decapitato dei suoi elementi radicali. L'eliminazione di Cucco dalla vita politica dell'isola favorì l'insediamento nel PNF siciliano dei latifondisti dell'Isola, essi stessi affiliati, collusi o quantomeno contigui alla mafia. A questa azione si aggiunse quella delle "lettere anonime" le quali tempestarono le scrivanie di Mussolini e del ministro della Giustizia Alfredo Rocco, avvisando dell'esasperazione dei palermitani e minacciando rivolte se l'operato eccessivamente moralistico di Giampietro non si fosse moderato. Contestualmente il processo a Cucco si rivelò uno scandalo, nel quale Mori veniva dipinto dagli avvocati di Cucco come un persecutore politico e nel 1929 Mussolini decise di porre a riposo il prefetto Mori facendolo cooptare dal Senato del Regno. La propaganda fascista dichiarò orgogliosa che la mafia era stata sconfitta: tuttavia l'attività di Mori e Giampietro aveva avuto drastici effetti soltanto su figure di secondo piano, lasciando in parte intatta la cosiddetta "cupola" (composta da notabili, latifondisti e politici), la quale riuscì a reagire attraverso l'eliminazione di Cucco, e così addirittura installarsi all'interno delle federazioni del fascio siciliane. Alcuni autori sostengono che Mussolini avesse rimosso Mori perché nelle sue indagini si sarebbe spinto eccessivamente in alto, andando a colpire interessi e collusioni fra Stato e mafia. Questa tesi viene recisamente respinta da altri, come Alfio Caruso. Tra il 1925 e il 1926 furono varate le leggi fascistissime, ispirate dal giurista Alfredo Rocco. La legge 26 novembre 1925, n. 2029, sanciva che i corpi collettivi operanti in Italia (associazioni, istituti ed enti) erano tenuti, su richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza, a dichiarare statuti, atti costitutivi, regolamenti interni ed elenchi di soci e di dirigenti, pena, in caso di dichiarazione omessa o infedele, lo scioglimento del corpo medesimo, sanzioni detentive indeterminate e sanzioni pecuniarie da un minimo di 2.000 ad un massimo di 30.000 lire. In tal modo, il governo arrivò a disporre di una chiara mappa del tipo e del numero di associazioni non governative presenti. La legge 24 dicembre 1925, n. 2300, stabiliva che tutti i funzionari pubblici che avessero rifiutato di giurare fedeltà allo Stato italiano sarebbero dovuti essere destituiti. La legge 24 dicembre 1925, n. 2263, prevedeva che la dizione «presidente del consiglio» venisse mutata in «Capo del governo primo ministro segretario di Stato»; il «capo del governo» era nominato e revocato solo dal re ed era responsabile solo nei suoi confronti. I ministri diventavano responsabili sia verso il monarca che Mussolini. La legge sulla stampa del 31 dicembre 1925 riconosceva come illegali tutti i giornali privi di un responsabile riconosciuto dal prefetto (e, quindi, indirettamente da Mussolini). La legge 31 gennaio 1926, n. 100, attribuiva a Mussolini, in quanto capo del governo, la facoltà di emanare norme giuridiche. Con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, vennero eliminati dall'ordinamento municipale il consiglio comunale e il sindaco, quest'ultimo sostituito dalla figura del podestà, che esercitava le funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio comunale ed era nominato con decreto reale dal potere esecutivo. Il 3 aprile 1926 venne abolito il diritto di sciopero e si stabiliva che i contratti collettivi potessero essere stipulati solo dai sindacati legalmente riconosciuti dallo Stato; in tale contesto, l'8 luglio1926 venne costituito il Ministero delle Corporazioni, di cui Mussolini assunse la direzione. Nel frattempo, Mussolini impose all'Albania di Ahmet Zogu una forma non ufficiale di protettorato. Inoltre, l'Italia aderì al Patto di Locarno per la garanzia delle frontiere e la sicurezza generale. Nell'aprile 1926, con un discorso a Tripoli, Mussolini avanzò l'idea del mare nostrum (ovvero di una talassocrazia italiana sul mar Mediterraneo) e contrappose, per la prima volta, fascismo e democrazia. Sempre nel 1926, i confini della Libia vennero ridefiniti a favore dell'Italia, che acquistò, tra l'altro, il Fezzan. Sempre il 3 aprile venne fondata l'opera nazionale balilla (ONB), col compito di «riorganizzare la gioventù dal punto di vista morale e fisico», ovvero all'educazione spirituale e culturale e all'istruzione premilitare, ginnico-sportiva, professionale e tecnica dei giovani italiani tra gli 8 e i 18 anni. Nel 1927 tutte le altre organizzazioni giovanili furono sciolte per legge, ad eccezione della Gioventù Italiana Cattolica. Nel 1937 la ONB sarà sostituita dalla gioventù italiana del littorio (GIL). Il 18 agosto il duce tenne a Pesaro un discorso in cui proclamò che, per combattere la svalutazione, il cambio lira-sterlina sarebbe stato fissato alla fatidica «quota 90»: nel periodo conseguente a questa sua dichiarazione la lira continuò a cadere toccando quota 150 lire per una sterlina ma egli insisté che il cambio a 90 doveva essere conquistato a qualsiasi costo, per il prestigio personale e politico che ne avrebbero tratto lui, il fascismo e l'Italia; le conseguenze economiche per i cittadini non gli importavano. Il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi era conscio che ci si era spinti troppo in là (e in effetti i titoli borsistici caddero mentre i costi di produzione e i costi della vita aumentarono) ma Mussolini tenne duro e non volle ammettere di essersi sbagliato. Qualche anno dopo fu costretto ad accettare una massiccia svalutazione, ma a nessuno fu permesso di dire in pubblico che "quota 90" fu un errore. Intanto Mussolini rinunciò a qualsiasi forma di remunerazione pubblica per l'incarico di governo svolto. Giornali internazionali si contesero la sua firma e furono pronti a pagare in maniera rilevante i suoi articoli che, particolarmente negli Stati Uniti d'America, erano considerati di sommo interesse. Nel dopoguerra la vedova Mussolini provò a chiedere la reversibilità della pensione per l'attività svolta dal marito come capo del governo; gli enti previdenziali del dopoguerra risposero a Rachele Mussolini che non le spettava alcuna pensione di reversibilità: non a causa di un giudizio morale sull'azione dittatoriale svolta dal marito, ma per la semplice questione tecnica che Mussolini non aveva mai accettato alcuno stipendio pubblico. L'8 ottobre il Gran Consiglio varò il nuovo statuto del PNF, col quale furono abolite le elezioni interne dei membri del partito. Inoltre, il 12 ottobre Mussolini assunse il comando della MVSN. Il 5 novembre furono sciolti tutti i partiti al di fuori del PNF e si stabilì che la stampa era sottoponibile a censura. Furono introdotti il confino di polizia e la pena di morte per attentati perpetrati od organizzati a danno delle massime figure dello Stato e venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il 30 dicembre il fascio littorio venne dichiarato simbolo dello Stato. Il 15 gennaio 1927 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, fu accolto a Roma da Mussolini, che nel frattempo lanciò la campagna a sostegno della crescita demografica: gli scapoli furono tenuti a pagare una tassa speciale, in occasione dei matrimoni lo Stato elargì un premio in danaro agli sposi, e furono previsti prestiti, agevolazioni economiche (anche nel campo dell'educazione scolastica dei figli) ed esenzioni dalle tasse per le famiglie numerose (premi di natalità). Furono istituiti i gruppi universitari fascisti (GUF), per la formazione della futura classe dirigente. Il 21 aprile il Gran Consiglio approvò la Carta del Lavoro per la riforma dell'economia italiana in senso corporativo. Il 5 giugno, parlando al Senato, Mussolini affermò la linea del revisionismo in politica estera, dichiarando che i trattati stipulati dopo la prima guerra mondiale rimanevano validi, ma non erano da considerarsi eterni ed immutabili. Con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, venne l'istituzionalizzato il Gran Consiglio del Fascismo, ovvero il massimo organo del PNF (presieduto dal duce in persona), che fu riconosciuto come organo costituzionale supremo dello Stato. Il 15 gennaio 1928 venne fondato l'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) ente statale cui competeva in esclusiva la gestione del servizio pubblico radiofonico sul territorio nazionale. Nel 1944 verrà ribattezzato RAI (Radio Audizioni Italiane). Il 14 marzo Mussolini presentò alla Camera un disegno di legge di riforma (poi approvato), col quale propose la riduzione a 400 del numero complessivo dei deputati, i quali sarebbero stati eletti in un unico collegio nazionale; la confederazione nazionale dei sindacati fascisti e le associazioni culturali abilitate si sarebbero occupate della presentazione delle candidature. L'11 febbraio 1929 Mussolini pose termine alla decennale questione romana, firmando col cardinale Pietro Gasparri i patti lateranensi, ratificati alla Camera in maggio. Le elezioni del 24 marzo 1929, per il rinnovo della Camera dei Deputati, si risolsero in un plebiscito a favore di Mussolini. Gli elettori vennero chiamati a votare "sì" o "no" per approvare un "listone" di deputati deciso dal Gran Consiglio del Fascismo. La consultazione si tenne in un clima intimidatorio; la scheda con il "sì" è tricolore, e quella con il "no" semplicemente bianca, rendendo così riconoscibile il voto espresso. La partecipazione al voto fu del 90% e i voti favorevoli al "listone" furono pari al 98,4%. Il 2 aprile il duce incontrò il ministro degli esteri inglese Neville Chamberlain e, verso la fine dell'anno, la sede del Governo venne trasferita da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia. Nel 1930 l'Italia siglò un trattato di amicizia con l'Austria. Nel gennaio1931 Mussolini, in un'intervista al Daily Mail, affermò la necessità di una revisione dei trattati di pace della grande guerra. Il 9 luglio ricevette il segretario di Stato statunitense Henry Lewis Stimson, mentre in dicembre accolse il Mahatma Gandhi a Palazzo Venezia. Tra il 23 marzo e il 4 aprile 1932, il duce incontrò più volte Emil Ludwig, che ne scriverà in Colloqui con Mussolini. Dopo tredici ore di faccia a faccia (un'ora per ogni sera) Ludwig, che l'anno precedente aveva intervistato Stalin, definisce Mussolini «un grande uomo, molto più grande di Stalin». In questo periodo iniziarono ad allentarsi i suoi rapporti amorosi con Margherita Sarfatti, cui tuttavia continuò ad essere legato. D'altra parte, agli inizi del 1932, aveva incontrato per la prima volta Claretta Petacci. Il 12 aprile venne presentata, al salone internazionale dell'automobile di Milano, la nuova FIAT Balilla, che nelle intenzioni di Mussolini avrebbe dovuto essere l'automobile di tutti gli Italiani; a partire da quell'anno ne fu infatti favorita la diffusione, che tuttavia non raggiunse mai i risultati sperati (una simile iniziativa venne poi adottata anche da Adolf Hitler con la Volkswagen). In giugno, sull'Enciclopedia Treccani venne pubblicata la voce Fascismo, firmata da Mussolini e scritta con la collaborazione di Giovanni Gentile; vi si spiegava la dottrina propria del partito fascista. In occasione del decennale della rivoluzione fascista, fu inaugurata 28 ottobre la via dell'Impero (attuale via dei Fori Imperiali) e furono riaperte le iscrizioni al PNF, chiuse dal 1928. Il 18 dicembre Mussolini inaugurò Littoria (futura Latina), la prima delle "città nuove" costruite nell'Agro Pontino, bonificato negli anni precedenti. Il 29 marzo 1933 Mussolini incontrò a Roma il Ministro della Propaganda tedesco Joseph Goebbels. Per iniziativa di Mussolini il 7 giugno venne firmato a Roma ilpatto a quattro tra Italia, Francia, Regno Unito e Germania, col quale questi stati si assunsero la responsabilità del mantenimento della pace e della riorganizzazione dell'Europa nel rispetto dei principi e delle procedure previste dallo statuto della SdN. Sempre nel 1933 venne creato l'Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS), che assunse dal 1943 la denominazione di INPS, un ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e a gestione autonoma con lo scopo di garantire la previdenza sociale ai lavoratori. In quegli anni ebbe origine del primo vero sistema pensionistico italiano: a carico dell'INFPS fu l'assicurazione (obbligatoria) contro la vecchiaia, estesa dai soli dipendenti pubblici (per i quali aveva il nome di pensione) a quelli privati. Nel medesimo anno la pluralità di Casse infortuni cui era deputata la tutela dei lavoratori contro gli infortuni sul lavoro (obbligatoria a partire dal 1898, seppur limitatamente ad alcuni settori) vennero unificate nell'Istituto Nazionale Fascista per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ("INFAIL"), ribattezzato INAIL nel 1943. Scopo dell'ente statale era quello di «esercitare l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (parte delle quali vennero equiparate giuridicamente agli infortuni sul lavoro), la riassicurazione di altri Enti autorizzati e assumere particolari funzioni e servizi per conto di essi». Il 5 febbraio 1934 vennero istituite le 22 corporazioni. Nel 1934 si tennero inoltre i primi littoriali della cultura e dell'arte e venne istituita, nell'ambito della terza edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, la Coppa Mussolini, premio antesignano del Leone d'oro. Il 14 marzo Mussolini incontrò a Roma il cancelliere austriaco Dollfuss e il Capo del Governo ungherese Gyula Gömbös per discutere una revisione degli assetti territoriali nei Balcani. Il 17 marzo venne concluso un "patto a tre" con Ungheria e Austria in funzione anti-tedesca e anti-francese (Protocolli di Roma). Le elezioni del 25 marzo 1934, per il rinnovo della Camera dei Deputati – tenute con lo stesso schema del "listone" unico già adottato nel 1924, con scheda tricolore per il "sì" e bianca per il "no" – si risolsero in un nuovo plebiscito: aumentò il numero dei partecipanti e i voti contrari risultarono 15.201 (lo 0,15%). La legge 22 marzo 1934 n. 654 per la tutela della maternità delle lavoratrici e la legge 26 aprile 1934 n. 653 per la tutela del lavoro della donna e del fanciullo stabilirono il diritto alla conservazione del posto di lavoro per le lavoratrici incinte, un periodo di licenza prima e dopo il parto, e permessi obbligatori per l'allattamento (per le aziende con più di 50 operaie vi era l'obbligo di predisporre un locale per tale scopo). La legge 24 dicembre 1934 n. 2316 stabiliva la creazione dell'ONMI (Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell'Infanzia); l'ente poteva anche finanziare istituzioni private operanti nei medesimi campi. Nel 1935 si ha l'istituzione del sabato fascista. Il 14 e 15 giugno Mussolini e Hitler si incontrarono a Stra e a Venezia, i colloqui verterono principalmente sulla questione austriaca (il cancelliere tedesco puntava all'annessione dell'Austria). Tuttavia, i rapporti tra i due restarono tesi, anche in seguito al fallito colpo di Stato in Austria (col quale la Germania nazionalsocialista intendeva procedere all'annessione del paese) che portò alla morte di Dollfuss. La situazione si risolse dopo che Hitler desistette dal suo proposito. Il 21 agosto Mussolini incontrò Kurt Alois von Schuschnigg, successore di Dollfuss. Il 6 settembre, a Bari, prese posizione nei confronti della politica estera nazionalsocialista e dalle dottrina razzista hitleriana, proclamando che «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà a talune dottrine d'Oltralpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto». Il trattato tra Italia ed Etiopia del 1928, sottoscritto con il placet della Gran Bretagna, aveva fissato la frontiera tra la Somalia italiana e l'Etiopia lungo una linea distante 21 miglia dalla costa del Benadir e parallela alla stessa. Pretendendo di agire sulla base di detto accordo (mentre gli etiopi ritenevano che nell'accordo si intendessero "miglia imperiali", più corte delle miglia nautiche), gli italiani costruirono nel 1930 un forte nell'oasi di Ual-Ual, nel deserto di Ogaden, e lo fecero presidiare da truppe somale, comandate da ufficiali italiani. L'oasi fu scelta dai militari italiani quale luogo da presidiare in mancanza di altre posizioni idonee in pieno deserto. Nel novembre 1934 truppe regolari etiopi, di scorta a una commissione mista inglese-etiope per la delimitazione delle frontiere, contestarono alle truppe italiane lo sconfinamento. I britannici, per evitare incidenti internazionali, abbandonarono la commissione e le truppe italiane ed etiopi rimasero accampate a poca distanza le une dalle altre. Nei primi giorni di dicembre, in circostanze mai chiarite, un combattimento tra italiani ed etiopi costò la vita a 150 soldati etiopi e a 50 soldati italiani (somali). Mussolini chiese delle scuse ufficiali nonché il pagamento di un'indennità da parte del governo etiope, conformemente a quanto stabilito in un trattato siglato tra Italia ed Etiopia nel 1928. Il negus Hailé Selassié, avendone la possibilità in virtù del medesimo accordo, decise di rimettersi alla Società delle nazioni (2 gennaio). Per far luce sulla vicenda, questa si impegnò in un arbitrato, temporeggiando; tuttavia, i rapporti italo-etiopi ne risultarono irrimediabilmente compromessi e Mussolini si appellò all'episodio come motivo per minacciare la guerra e con questo far pressione su francesi e britannici. Sconfinamenti di reparti militari abissini si erano già verificati precedentemente: ad esempio, il 4 novembre 1934 quando il consolato italiano a Gondar era stato attaccato da gruppi armati etiopici. Del pari erano stati frequenti i deliberati sconfinamenti di truppe italiane. Le tensioni italo-etiopiche erano dovute al disegno italiano di unificare territorialmente Eritrea e Somalia, a spese dell'Etiopia, e al desiderio etiopico di conquistare uno sbocco sul mare. Deve inoltre tenersi presente che l'Etiopia era uno dei pochissimi stati africani indipendenti, ossia non controllato da una delle potenze coloniali europee: uno Stato ideale per le mire espansionistiche di Mussolini. Tra il 4 e il 7 gennaio 1935, Mussolini incontrò a Roma il ministro degli esteri francese Pierre Laval: vennero firmati accordi in virtù dei quali la Francia si impegnava a cedere all'Italia la Somalia francese (attuale Gibuti), a riconoscere le consistenti minoranze italiane presenti in Tunisia (che era stata oggetto di rivendicazione da parte italiana) e ad appoggiare diplomaticamente l'Italia in caso di una guerra contro l'Etiopia. Laval e Mussolini speravano così in un reciproco avvicinamento fra Italia e Francia, al fine di dar vita ad un'alleanza in funzione anti-nazista. Il 16 gennaio Mussolini assunse la direzione del Ministero delle Colonie. Il 19 gennaio la Società delle Nazioni riconobbe «la buona fede» di Italia ed Etiopia nell'incidente di Ual Ual e decise che il caso dovesse essere trattato tra le due parti interessate; tuttavia, il 17 marzo gli abissini presentarono un altro ricorso, appellandosi all'articolo XV dell'organizzazione. Nella conferenza di Stresa (vedi Fronte di Stresa), svoltasi tra l'11 e il 14 aprile, Italia, Regno Unito e Francia condannarono congiuntamente le violazioni del trattato di Versailles da parte della Germania. L'8 giugno a Cagliari, di fronte all'ostilità mostrata in tal senso dalla Gran Bretagna, Mussolini rivendicò il diritto dell'Italia ad attuare una propria politica coloniale. Il 18 settembre, in un articolo pubblicato sul Morning Post, egli garantì che non sarebbero stati colpiti gli interessi francesi e inglesi nell'Africa orientale. Il 2 ottobre annunciò la dichiarazione di guerra all'Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia. Attaccando il paese africano, membro della Società delle Nazioni, Mussolini aveva violato l'articolo XVI dell'organizzazione medesima: «se un membro della Lega ricorre alla guerra, infrangendo quanto stipulato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alle proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no». Per questo motivo, la Società delle Nazioni, espressione principalmente della volontà della Francia e del Regno Unito (i due stati più forti e influenti), condannò l'attacco italiano il 7 ottobre. Gli Stati Uniti d'America invece, pur condannando l'operazione italiana condannarono anche che le sanzioni imposte fossero state votate anche da Francia e Gran Bretagna, a loro volta possessori di imperi coloniali. Il 31 ottobre 1937 inaugurò la nuova città di Guidonia, importante polo strategico di ricerche aeronautiche con il DSSE, e Pontinia il 13 novembre. Il 18 novembre l'Italia venne colpita dalle sanzioni economiche (nonostante queste non fossero state applicate contro il Giappone nel 1931 in occasione dell'invasione della Manciuria e contro la Germania nel 1934 per la tentata annessione dell'Austria) imposte dalla Società delle Nazioni - approvate da 52 stati con i soli voti contrari di Austria, Ungheria e Albania - in risposta alle quali vennero promossi i programmi economici autarchici. Le sanzioni risultarono comunque inefficaci, poiché numerosi paesi, pur avendole votate ufficialmente, mantennero comunque buoni rapporti con l'Italia rifornendola di materie prime. La Germania nazista è uno di questi e la guerra d'Etiopia rappresenta l'inizio dell'avvicinamento tra Mussolini e Hitler. Già del 1935 le sanzioni non vennero applicate completamente da tutti gli stati membri della società delle nazioni, il 15 luglio 1936 furono abolite. La guerra in Etiopia sarebbe stata ostacolata nel caso in cui la Gran Bretagna avesse avuto un atteggiamento più risoluto, atteggiamento che non ebbe poiché consapevole di avere concesso all'Italia fascista, con l'Accordo navale anglo-tedesco, il pretesto per la guerra stessa, e perché forse avrebbe voluto salvaguardare il fronte di Stresa. Le linee di rifornimento italiane passavano di fatti per Suez, e un blocco del Canale da parte britannica avrebbe reso proibitiva la logistica italiana attraverso il periplo dell'Africa. Memore della bruciante sconfitta subita ad Adua dalle truppe italiane, e consapevole della forza e degli armamenti (forniti per anni anche dalla Germania) a disposizione degli abissini, Mussolini seguì in prima persona sia la preparazione, sia lo svolgimento delle operazioni militari, che in soli sette mesi condurranno alla distruzione delle forze armate di uno degli ultimi Stati indipendenti d'Africa, erede dell'antico Impero etiopico. Per assicurarsi una rapida vittoria, Mussolini, esaminate le richieste dei vertici militari, arrivò a triplicare l'entità di uomini e mezzi: nel maggio del 1936 si trovarono così schierati sul teatro di guerra quasi mezzo milione di uomini (inclusi 87.000 àscari), 492 carri armati, 18.932 automezzi e 350 aerei. Dell'arsenale a disposizione degli italiani facevano parte anche ingenti quantità di armi chimiche, proibite dalla Convenzione di Ginevra e sbarcate in gran segreto a Massaua: 60.000 granate all'arsina per artiglieria, 1.000 tonnellate di bombe all'iprite per aeronautica, e 270 tonnellate di aggressivi chimici per impiego tattico. Sin dall'inizio dei combattimenti, il 3 ottobre, Mussolini assunse la direzione delle operazioni e inviò frequenti ordini radiotelegrafati ai suoi generali impegnati sul campo (Rodolfo Graziani sul fronte Sud, Emilio De Bono e poi Pietro Badoglio su quello Nord), dettando loro linee e ordini operativi, fra cui quelli relativi all'uso delle armi chimiche, sul cui impiego egli aveva avocato a sé ogni decisione. Il primo ordine che contemplava l'impiego delle armi chimiche giunse da Mussolini a Graziani il 27 ottobre 1935, per preparare l'assalto alla piazzaforte abissina di Gorrahei, tuttavia furono sufficienti sei tonnellate di granate convenzionali per avere ragione dei suoi difensori il successivo 29. Graziani richiese poi a Mussolini l'autorizzazione all'uso delle armi chimiche per "operazioni difensive" (volte a fermare l'assalto dell'armata di ras Destà Damtù alle linee italiane a Dolo, a fine dicembre 1935) e l'ottenne prontamente e con ampio mandato, sino all'eliminazione dell'intera formazione nemica. Nello stesso periodo (tra il 22 dicembre 1935 e i primi di gennaio 1936), Badoglio ricevette l'ordine di impiegare sul fronte Nord le bombe d'aviazione contro gli abissini, passati all'offensiva nello Scirè. L'ordine, già in corso d'esecuzione (furono sottoposti alla micidiale pioggia di gas vescicanti anche i civili, il bestiame e i raccolti), venne sospeso per motivi politici in vista di una riunione della Società delle Nazioni prevista a Ginevra il 5 gennaio. Badoglio tuttavia ignorò l'ordine di sospensione e proseguì nei bombardamenti chimici sino al 7, e poi nuovamente il 12 e 18 gennaio. Il 19 gennaio Mussolini tornò ad autorizzare la guerra chimica, con queste parole: « Autorizzo Vostra Eccellenza a impiegare tutti i mezzi di guerra, dico tutti, sia dall'alto, come da terra. Massima decisione.» I bombardamenti chimici d'artiglieria e aerei proseguirono sia sul fronte Nord (sino al 29 marzo 1936) che su quello Sud (sino al 27 aprile), arrivando ad impiegare in totale circa 350 tonnellate di armi chimiche. In questo contesto, a fine gennaio, quando nonostante il largo impiego di armi e mezzi le armate italiane del fronte Nord erano in grave difficoltà (tanto che Badoglio, premuto dalle forze di ras Cassa Darghiè era sul punto di ordinare l'evacuazione di Macallè), Mussolini non esitò a prospettare al suo generale l'impiego di ulteriori armi chimiche. Badoglio espresse la propria netta contrarietà, facendo presente a Mussolini le reazioni internazionali che questa scelta avrebbe provocato e il proprio timore circa le conseguenze incontrollabili dell'uso di un'arma mai sperimentata prima; il "duce" recepì tali obiezioni e il 20 febbraio ritirò la proposta. L'uso delle armi chimiche venne nascosto all'opinione pubblica italiana, e Mussolini ordinò di smentire come animate da sentimenti "anti-italiani" le poche denunce sul loro impiego che apparvero sulla stampa internazionale. Il crimine verrà a lungo negato con decisione, anche dopo la fine del fascismo, persino da partecipanti alla guerra come Indro Montanelli, restando ai margini dell'immensa storiografia prodotta sulla figura di Mussolini. Il 7 febbraio 1996 l'allora Ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, sostenne davanti al Parlamento l'uso delle armi chimiche da parte italiana durante la guerra d'Etiopia. La conduzione della guerra nei confronti degli etiopici non si limitò all'impiego delle armi chimiche, ma fu condotta anche con altri strumenti, come l'ordine di non rispettare i contrassegni della Croce Rossa del nemico, fatto che portò alla distruzione di almeno 17 tra ospedali da campo (tra i quali uno svedese, ciò che causò il disappunto del duce per il danno politico che ne conseguì) e installazioni mediche abissine, o l'impiego di truppe di ascari libici di fede musulmana contro le armate e la popolazione cristiano-copta abissina. Le truppe libiche - appartenenti a tribù memori delle violenze subite dagli Àscari eritrei utilizzate contro i ribelli libici durante la guerra di Libia - si resero colpevoli di massacri sia nei confronti dei civili, sia dei prigionieri, tanto da spingere il generale Guglielmo Nasi ad istituire un premio di cento lire per ogni prigioniero vivo che gli fosse stato consegnato. I crimini proseguirono anche a guerra finita e almeno sino al 1940 nei confronti dei ribelli, contro la popolazione e anche contro i monaci abissini nei santuari cristiano-copti, che furono trucidati a centinaia a Debra Libanos e altrove. Benito Mussolini alle porte di Tripoli (Libia), il 20 marzo 1937, innalza la "spada dell'Islam", la cui elsa è in oro massiccio, e si proclama "protettore dell'Islam", prima di entrare in città alla testa di 2.600 cavalieri. Il 7 maggio 1936 Mussolini ricevette da Vittorio Emanuele III la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia. Il sovrano, nell'insignire il duce della massima decorazione militare del regno, riconobbe con parole altisonanti il ruolo diretto di guida svolto da Mussolini: «Ministro delle Forze armate, preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi.». Il 6 maggio, sempre dal balcone di Palazzo Venezia, annunciò la fine della guerra d'Etiopia e proclamò la rinascita dell'impero (il re d'Italia assunse il titolo di imperatore d'Etiopia). Nel suo discorso proclamò: «il popolo italiano ha creato col suo sangue l'impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi». Contestualmente inEtiopia, che nel 1935 era indicata dalla Società delle Nazioni come uno degli stati in cui ancora si trovavano schiavi in gran numero, venne abolita ufficialmente la schiavitù. La campagna abissina rappresentò il momento di massimo consenso del popolo italiano verso il fascismo. Mussolini stabilì che, nell'indicare la data sui documenti ufficiali e sui giornali, occorresse scrivere l'anno a cominciare dal 28 ottobre 1922 (tale disposizione era già in uso dal 31 dicembre 1926) affiancato da quello dalla fondazione dell'impero (ad esempio, il '36 era indicato come «anno 1936, XIV dell'Era Fascista, I dell'Impero»). Il 4 luglio la Società delle Nazioni decretò terminata l'applicazione dell'articolo XVI e le sanzioni caddero il 15 dello stesso mese (l'unico stato che si oppose fu il Sudafrica); Mussolini ottenne, per la guerra vittoriosa, il titolo di Primo maresciallo dell'Impero (30 marzo 1938). Il 9 giugno affidò al genero Galeazzo Ciano il Ministero degli Esteri. Il 24 luglio 1936 si accordò con Hitler per l'invio di contingenti militari in Spagna a sostegno di Francisco Franco, il cui colpo di Stato del 18 luglio aveva scatenato la guerra civile spagnola. Il figlio di Mussolini, Bruno, partecipò alla guerra come capo di una squadriglia aerea. Il 1º novembre annunciò con un discorso la creazione (sancita il 24 ottobre) dell'Asse Roma-Berlino (non si trattava ancora di una vera alleanza militare, che venne stipulata solo col patto d'acciaio). Il 2 gennaio 1937 venne siglato il cosiddetto gentlemen's agreement tra Italia e Regno Unito, col quale si definirono i diritti di entrata, uscita e transito nel Mediterraneo e si stabilì di evitare la modifica dello «status quo relativo alla sovranità nazionale dei territori del bacino del Mediterraneo», Spagna inclusa. Tale accordo fu confermato dal Patto di Pasqua del 16 aprile 1938. Il 20 marzo, nell'oasi di Bugàra vicino a Tripoli, ricevette dal capo berbero Iusuf Kerbisc la "spada dell'islam", un manufatto dorato, simbolo dell'approvazione di una parte della società libica verso il regime mussoliniano. Il 21 aprile inaugurò Cinecittà, concepita come sede dell'industria cinematografica italiana, consistentemente finanziata dal governo in quegli anni (risale al 1937 il primo colossal italiano: Scipione l'Africano). Il 22 aprile incontrò a Venezia il cancelliere austriaco Schuschnigg e si dichiarò non contrario all'Anschluss dell'Austria con la Germania. Sempre in aprile incontrò il ministro dell'aeronautica tedesco Hermann Göring e il ministro degli esteri tedesco Von Neurath. Il 25 e il 29 settembre incontrò Hitler, prima a Monaco e poi a Berlino. Il 6 novembre l'Italia aderì al Patto Anticomintern, siglato precedentemente tra Germania e Giappone in funzione anti-sovietica. Il 3 dicembre 1937 venne stipulato aBangkok un trattato di amicizia, commercio e navigazione col Siam (attuale Thailandia). L'11 dicembre annunciò l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni. Accolse, tra il 3 e il 9 maggio 1938, Hitler, il quale era venuto in visita in Italia. Grazie alla mediazione mussoliniana, di fronte all'eventualità dello scoppio di un conflitto tra il blocco anglo-francese e la Germania, il 29 e 30 settembre si tenne la Conferenza di Monaco. Ad essa erano presenti Mussolini, Hitler, Daladier per la Francia e Chamberlain per la Gran Bretagna; venne riconosciuta alla Germania la legittimità della sua politica in Cecoslovacchia. Mussolini venne festeggiato come «il salvatore della pace» per aver scongiurato il conflitto. Tra l'11 e il 14 gennaio 1939, a Roma, incontrò Chamberlain e il ministro degli esteri inglese Frederik Halifax. Il 19 gennaio 1939 la Camera dei deputati venne soppressa e sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. In aprile il duce ordinò l'occupazione e l'annessione dell'Albania; l'Italia già godeva di una forma non ufficiale di protettorato sul paese da molti anni, e l'«invasione» fu presumibilmente dovuta alla volontà mussoliniana di dimostrare all'alleato tedesco la propria forza. La stabilità della dittatura fascista è in gran parte da ascriversi alla capacità di Mussolini di generare attorno alla propria figura un forte consenso. L'abilità mostrata nel rendere la sua personalità oggetto di vero e proprio culto si rifletté non solo nell'approvazione che la società italiana a lungo gli mostrò, ma anche nell'ammirazione che riuscì a guadagnarsi presso numerosi capi di Stato stranieri, intellettuali e, più in generale, presso l'opinione pubblica internazionale, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Da questo punto di vista Mussolini divenne un modello di ispirazione per molti futuri dittatori, soprattutto Hitler, ma anche per molti politici di spicco di importanti stati democratici. La popolarità di Mussolini trova probabilmente la sua origine nell'insoddisfazione del popolo italiano nei confronti delle classi dirigenti liberali per via dei trattati di pace, ritenute dai più sfavorevoli, che l'Italia aveva dovuto accettare alla fine della prima guerra mondiale, nonostante gli oltre 650.000 morti e i sacrifici enormi sopportati dal Paese. Non a caso, Gabriele D'Annunzio parlò di «vittoria mutilata». L'Italia guadagnò territorialmente solo parte di ciò che le era stato promesso col patto di Londra e ciò, unito al generale malcontento post-bellico e alla terribile crisi economica dell'immediato dopoguerra, fece crescere il desiderio di un governo forte. Mussolini fu abile a sfruttare tale situazione nonché la paura del cosiddetto "pericolo rosso", accresciutasi durante il biennio rosso: si presentò come il restauratore dell'ordine e della pace sociale, teso alla «normalizzazione» della situazione politica. Da questo punto di vista, molti squadristi fascisti intransigenti criticarono la collaborazione (nel 1922-1924) del PNF a livello governativo con i vecchi partiti, nonché il fatto che fossero rimasti in carica molti dei questori e dei prefetti che erano stati estranei, se non ostili, al fascismo. A partire dal 1925, con la promulgazione delle cosiddette leggi fascistissime e l'inizio della dittatura, ogni forma di collaborazione coi vecchi partiti fu abbandonata e gli stessi sciolti. Il consenso fu poi alimentato grazie al controllo sulla stampa e sul mondo culturale italiano. Mussolini, in quanto giornalista, conosceva bene il potere della stampa, e di conseguenza fece in modo di poterlo controllare. Nei suoi Colloqui con Emil Ludwig giustificò la censura imposta ai giornali con il fatto che nelle liberaldemocrazie i giornali non sarebbero più liberi, ma obbedirebbero solo ad un'oligarchia di padroni, differenti dallo Stato: partiti e finanziatori plutocratici. Inoltre, ogni forma di dissenso sgradita a Mussolini venne repressa attraverso l'OVRA, il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, e l'uso massiccio del confino politico. Tuttavia, Mussolini tollerò – e costrinse i suoi a tollerare – alcune "voci fuori dal coro" (come ad esempio Salvemini, Croce, Bombacci) tanto per alimentare la propria immagine di uomo forte ma non di tiranno, quanto per mantenere aperti canali di dialogo anche con l'antifascismo militante. Mussolini dimostrò di avere una personalità carismatica, come testimoniano i discorsi tenuti di fronte a «folle oceaniche», e una notevole abilità oratoria, che attinse in parte dall'esempio dannunziano. Egli incrementò la sua popolarità presentandosi come «il figlio del popolo», ricorrendo all'organizzazione e all'irreggimentazione delle masse, chiamate di continuo a partecipare ad iniziative di varia natura, ma anche grazie all'appoggio di molteplici intellettuali di spicco (Gabriele D'Annunzio, Mario Sironi, Ezra Pound, ifuturisti, Giovanni Gentile) e di uomini di grandi capacità di governo. Mussolini seppe sfruttare abilmente, come mai prima era stato fatto in Italia, i nuovi mezzi di comunicazione (la radio, il cinema e i cinegiornali) nonché i successi sportivi conseguiti dall'Italia fascista (come i Mondiali di calcio del 1934 e del 1938, oltre al titolo mondiale dei pesi massimi conquistato da Primo Carnera), che furono entrambi ampiamente utilizzati in funzione propagandistica. A questi Mussolini unì i primati aeronautici conquistati dall'Italia (le trasvolate atlantiche, la conquista del Polo Nord, i primati di velocità per idrocorsa) e quelli navali (il transatlantico Rex). Mussolini riuscì spesso a interpretare correttamente la volontà della maggioranza del popolo italiano, attuando importanti interventi di tipo sociale, sanitario, previdenziale, economico e culturale. Occorre inoltre sottolineare come la politica di potenza inaugurata dall'Italia fascista fosse vista con favore da gran parte della popolazione. Mussolini mirava a fare dell'Italia un paese temuto e rispettato, restaurando i fasti dell'Impero romano, recuperando i territori irredenti e realizzando il controllo italiano sul mediterraneo (il mare nostro). Questa politica – troncata dallo scoppio della seconda guerra mondiale – non produsse i risultati sperati, e ottenne solo di isolare l'Italia dai suoi ex alleati dell'Intesa, spingendola ad una sempre più stretta – e definitiva – alleanza con la Germania. Hitler considerò Mussolini suo maestro: « [...] concepii profonda ammirazione per il grand'uomo a sud delle Alpi che, pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti col nemico interno dell'Italia ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi di questa Terra è la decisione di non spartirsi l'Italia col marxismo ma di salvare dal marxismo, distruggendolo, la sua patria. A petto di lui, quanto appaiono meschini i nostri statisti tedeschi! E da quale nausea si è colti al vedere queste nullità osar criticare chi è mille volte più grande di loro!» (Adolf Hitler, Mein Kampf, cap. XV. trad. Andrea Irace). Churchill, nel 1933, lo definì «il più grande legislatore vivente» (soprattutto in relazione alla promulgazione del nuovo codice penale, varato nel 1930 dal ministro Alfredo Rocco e tuttora vigente) e «un grande uomo» ancora nel 1940. Il 13 febbraio 1929, Pio XI, a due giorni dai Patti Lateranensi, tenne un discorso a Milano ad un'udienza concessa a professori e studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che fece passare alla storia la definizione di Benito Mussolini come «uomo della Provvidenza» (mentre invece il Pontefice aveva indicato nel Capo del governo italiano un più neutrale "l'uomo che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare"): « Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. E allora? La soluzione non era facile, ma dobbiamo ringraziare il Signore di averCela fatta vedere e di aver potuto farla vedere anche agli altri. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa; tutto un viluppo di cose, una massa veramente così vasta, così complicata, così difficile, da dare qualche volta addirittura le vertigini. E qualche volta siamo stati tentati di pensare, come lo diciamo con lieta confidenza a voi, sì buoni figliuoli, che forse a risolvere la questione ci voleva proprio un Papa alpinista, un alpinista immune da vertigini ed abituato ad affrontare le ascensioni più ardue; come qualche volta abbiamo pensato che forse ci voleva pure un Papa bibliotecario, abituato ad andare in fondo alle ricerche storiche e documentarie, perché di libri e documenti, è evidente, si è dovuto consultarne molti. Dobbiamo dire che siamo stati anche dall'altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l'incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo » a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio.» (Pio XI, allocuzione Vogliamo anzitutto). Pio XI gli conferì l'Ordine dello Speron d'oro nel 1932; molti in Europa, nel 1933, lo chiamarono «il salvatore della pace»; lo stesso Franklin Delano Roosevelt gli riservò commenti lusinghieri;[213] Pio XII lo definì «il più grande uomo da me conosciuto e tra i più profondamente buoni». Lo scrittore americanoEzra Pound, che incontrò di persona Mussolini nel 1933, lo celebrò nel libro "Jefferson and/or Mussolini". A proposito della capacità del duce di edificare attorno a sé un notevole consenso, significativa tra le altre è l'opinione espressa dal giornalista Enzo Biagi in "Lui, Mussolini": «Mussolini è stato un gigante; considero la sua carriera politica un capolavoro. Se non si fosse avventurato nella guerra al fianco di Hitler, sarebbe morto osannato nel suo letto. Il popolo italiano era soddisfatto di essere governato da lui: un consenso sincero». Mussolini inizialmente aveva espresso disapprovazione nei confronti della politica razzista espressa dal nazionalsocialismo. Tuttavia, a partire dal 1938, in concomitanza dell'alleanza con la Germania, il regime fascista promulgò una serie di decreti il cui insieme è noto come leggi razziali, che introducevano provvedimenti segregazionisti nei confronti degli ebrei italiani e dei sudditi di colore dell'Impero. Furono letti per la prima volta il 18 settembre 1938 a Trieste da Mussolini dal balcone del Municipio in occasione della sua visita alla città. Fra i diversi documenti e provvedimenti legislativi che costituiscono il corpus delle cosiddette leggi razziali figura il manifesto della razza, o più esattamente il manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato una prima volta in forma anonima sul Giornale d'Italia il 15 luglio 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza e ripubblicato sul numero 1 de La difesa della razza il 5 agosto 1938. Il 25 luglio, dopo un incontro tra i dieci redattori della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del PNF Achille Starace - dalla segreteria politica del partito viene comunicato il testo definitivo del lavoro, completo dell'elenco dei firmatari e delle adesioni, aderenti e simpatizzanti del PNF. Al regio decreto legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fece seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo; tale dichiarazione venne successivamente adottata dallo stato sempre con un regio decreto legge che porta la data del 17 novembre. Fra il 1943 e il 1945, il governo della Repubblica Sociale Italiana dichiarò gli ebrei «stranieri appartenenti per la durata della guerra a nazionalità ostile» e procedette al concentramento di numerose persone di religione ebraica, in particolare nel campo di prigionia di Fossoli. In territorio italiano sotto controllo tedesco, nella Risiera di San Sabba, vicino Trieste, sorse un campo prigionia che funse anche da luogo di raccolta per il trasporto degli ebrei nei campi di concentramento tedeschi. Nel campo le autorità tedesche compirono uccisioni di antifascisti locali e al suo interno fu anche installato un forno crematorio per eliminare i corpi dei prigionieri deceduti o giustiziati. « Combattenti di terra, di mare, e dell'aria! Camicie Nere della Rivoluzione e delle Legioni, uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno di Albania. Ascoltate! [...] La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo.» Il 22 maggio 1939 Galeazzo Ciano, ministro degli esteri italiano, firma il Patto d'Acciaio con la Germania, che sancisce ufficialmente la nascita di un'alleanza vincolante italo-tedesca. In merito alla guerra scriveva, il 31 marzo 1940: « ... è solo l'alleanza colla Germania, cioè con uno Stato che non ha ancora bisogno del nostro concorso militare e si contenta dei nostri aiuti economici e della nostra solidarietà morale, che ci permette il nostro attuale stato di non-belligeranza. ... L'Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci. Il problema non è quindi di sapere se l'Italia entrerà o non entrerà in guerra perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la di­gnità, la nostra entrata in guerra... Ma circa il quando, cioè la data, nel convegno del Brennero si è nettamente stabilito che ciò riguarda l'Italia e soltanto l'Italia.» (Benito Mussolini, Roma, 31 marzo XVIII). Il 30 maggio Mussolini incarica il generale Ugo Cavallero di recapitare ad Hitler un memoriale, in cui afferma che la guerra è inevitabile, ma che l'Italia non sarà pronta ad intraprenderla prima di 3 anni. Nonostante le iniziali rassicurazioni in merito, la Germania invade la Polonia il 1º settembre, determinando l'inizio del conflitto. Mussolini dichiara la «non belligeranza», grazie alla quale lo Stato italiano si manterrà momentaneamente fuori dalla guerra. Il 10 marzo 1940 Mussolini accoglie a Roma il ministro degli esteri tedesco Joachim von Ribbentrop e il successivo 18 marzo incontra Hitler al Brennero, ricevendo da entrambi forti pressioni ad entrare in guerra al fianco della Germania. Il 16, il 22, il 24 e il 26 aprile riceve messaggi da Winston Churchill, da Paul Reynaud, da Pio XII e da Roosevelt, i quali gli chiedono di rimanere neutrale. Addirittura Churchill, rimasto grande ammiratore di Mussolini, gli garantisce che, in caso avesse mantenuto l'Italia neutrale, la Gran Bretagna avrebbe sostenuto al termine del conflitto tutte le aspirazioni territoriali italiane, come la Tunisia e Nizza. Di fronte agli straordinari e inaspettati successi della Germania nazista tra l'aprile e il maggio del 1940, Mussolini ritiene che gli esiti della guerra siano oramai decisi, e, sia per poter ottenere eventuali compensi territoriali, sia per timore di un'eventuale invasione nazista dell'Italia se quest'ultima non si fosse schierata apertamente al fianco della Germania (come ebbe poi a spiegare lo stesso Mussolini), il 10 giugno dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Alla contrarietà e alle rimostranze di alcuni importanti collaboratori e militari (fra cui Pietro Badoglio, Dino Grandi, Galeazzo Ciano e il generale Enrico Caviglia) Mussolini avrebbe risposto: « Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative.» Sul fronte con la Francia, le truppe italiane assunsero inizialmente un atteggiamento difensivo, sia per la mancanza di un'adeguata artiglieria e contraerea (non vi era stato il tempo di mobilitare tutti i reparti necessari all'avanzata), sia per la riluttanza ad attaccare i cugini d'oltralpe. Conseguentemente, i primi a prendere l'iniziativa furono gli avversari: aerei britannici, decollati da aeroporti francesi, bombardano Torino nella notte tra l'11 e il 12 giugno. Come ritorsione, aerei italiani bombardano le basi militari francese di Hyères e Tolone. Il 14 la zona industriale di Genova venne bombardata e, di conseguenza, l'esercito italiano ricevette l'ordine di passare decisamente alla contro-offensiva, programmata per il 18. Gli Italiani attaccano quindi Biserta, Bastia e Calvi. Copertina di un numero del 13 maggio 1940 di Newsweek (3 settimane prima dell'entrata in guerra dell'Italia), che ritrae Mussolini con il titolo: "Il Duce: uomo-chiave del Mediterraneo". Il 22 giugno la Francia firma l'armistizio con la Germania. Il 18, dopo che in territorio alpino si erano avuti solo marginali scontri tra truppe anglo-francesi e italiane, Mussolini partecipa ad un vertice a Monaco di Baviera con Hitler per discutere dell'inaspettata e improvvisa resa: le condizioni di pace richieste dal duce (ossia l'occupazione e amministrazione di Corsica,Tunisia, Somalia francese e del territorio francese sino al Rodano, la concessione di basi militari a Orano, Algeri e Casablanca, la consegna della flotta e dell'armata aerea e la denuncia dell'alleanza col Regno Unito) vengono solo parzialmente accolte, in quanto furono riconosciute all'Italia solo le richieste di occupazione. Il 24 giugno la Francia firma l'armistizio con l'Italia, riconoscendole, oltre alla richieste di occupazione, anche la cessione di una porzione di territorio francese di confine e la smilitarizzazione di una fascia larga 50 miglia lungo il confine franco-italiano e libico-tunisino. Di fronte alla notizia di un imminente sbarco in Inghilterra dei tedeschi (Operazione Leone Marino), Italo Balbo, governatore della Libia, riceve l'ordine di avanzare verso l'Egitto, protettorato inglese (25 giugno). Ma il 28, mentre sorvola Tobruch bombardata dagli inglesi, venne abbattuto dalle batterie antiaeree italiane, che lo avevano scambiato per un nemico. Le iniziali parziali vittorie si rivelano tuttavia effimere, poiché la guerra si prolunga oltre il previsto, rivelando l'impreparazione, la disorganizzazione e le deficienze dell'esercito italiano. In Africa, nel dicembre 1940 gli inglesi danno vita ad una vigorosa contro-offensiva che porterà, tra l'altro, alla conquista dell'Africa Orientale Italiana entro il giugno 1941. Le ultime truppe italiane si arrenderanno a Gondar il 21 novembre. La superiorità numerica e tecnologica degli inglesi e la progressiva perdita d'iniziativa della marina italiana non possono che condurre alla disfatta. In seguito, gli scontri tra le due marine nemiche si limiteranno, da parte italiana, alla guerra sottomarina, alla protezione delle rotte di rifornimento tra la Sicilia e la Libia, a sporadici tentativi di intercettazione di convogli inglesi sulla rotta Gibilterra-Alessandria d'Egitto e ad operazioni temerarie compiute da mezzi d'assalto (quali i MAS, i «barchini» - piccole barche dotate di siluri e mitragliatrice che causarono l'affondamento di molte navi inglesi- e i «maiali» ossia piccoli sommergibili). Il 27 settembre 1940 Italia, Germania e Giappone si uniscono nel Patto Tripartito, cui aderiranno anche nell'ordine, nel corso della guerra, Ungheria (20 novembre 1940), Romania (23 novembre), Slovacchia (24 novembre), Bulgaria (1º marzo 1941) e Jugoslavia (27 marzo). Il 4 ottobre 1940 Mussolini incontra Hitler al Brennero per stabilire di comune accordo una strategia militare; tuttavia, il 12 ottobre i tedeschi prendono controllo della Romania, sita nella zona di influenza italiana e ricca di giacimenti petroliferi, senza avvisare gli Italiani. Conseguentemente, Mussolini decide di imbarcarsi in una «guerra parallela» a fianco dell'alleato tedesco, al fine di non dipendere troppo dall'iniziativa militare e politica di Hitler; sempre convinto che la Gran Bretagna sarebbe scesa presto a patti col führer e che il principale fronte di guerra sarebbe così stato chiuso. Il 19 ottobre il duce gli invia una lettera in cui comunica la sua intenzione di attaccare la Grecia. Hitler si reca a Firenze il 28 ottobre, per dissuadere Mussolini dall'impresa, ma questi lo avvertirà, assumendo un atteggiamento simile a quello avuto dall'alleato con l'aggressione alla Romania, che l'attacco era già iniziato da alcune ore. L'attacco alla Grecia si conclude in un disastro: la stagione invernale e il territorio montuoso ostacolano ogni tentativo d'avanzata, anche a causa dell'equipaggiamento del tutto inadeguato in dotazione alle truppe italiane. L'esercito greco, rafforzato dall'arrivo di oltre 70.000 militari inglesi, si rivela inoltre più agguerrito e organizzato del previsto; anche l'appoggio di numerose squadriglie aeree e navali britanniche risulta determinante. Gli Italiani sono costretti a ripiegare in territorio albanese, dove solo nel dicembre 1940 riescono a bloccare la contro-offensiva degli avversari, trasformando così il conflitto in una guerra di posizione. Il 19 e il 20 gennaio 1941, a Berchtesgaden, Mussolini incontra Hitler, il quale gli promette l'invio di contingenti tedeschi in Grecia e in Africa del Nord a sostegno delle truppe italiane lì presenti, che d'ora in poi dipenderanno sempre più dall'aiuto del potente alleato. L'incontro rappresenta il definitivo abbandono da parte italiana della strategia della «guerra parallela» (rivelatasi insostenibile e fallimentare), e si traduce in una conduzione del conflitto sempre più conforme alle direttive e agli interessi nazionalsocialisti, ovvero in una sorta di «guerra tedesca». Il 9 febbraio la marina britannica bombarda Genova. L'11 febbraio il duce incontra Francisco Franco a Bordighera per convincerlo ad entrare in guerra a fianco delle forze dell'Asse, ma fallisce nel suo intento. A partire dal 12 febbraio giungono in Libia gli aiuti militari promessi dal Führer: i Deutsche Afrikakorps, composti principalmente di mezzi corazzati ("panzer") e da rinforzi aerei, sotto il comando di Erwin Rommel. Rivestendo de facto il ruolo di comandante supremo delle truppe italiane nella regione (seppur ufficialmente fosse un sottoposto del comandante superiore delle Forze Armate in Africa generale Italo Gariboldi), la «volpe del deserto» riesce rapidamente a riorganizzarle e a guidare un'efficace offensiva (cominciata il 24 marzo) contro le armate britanniche del generale maggiore Richard O'Connor, che nel frattempo avevano conquistato la Cirenaica (Operazione Compass). Entro maggio le truppe dell'Asse riacquisiscono il controllo della Libia (eccettuata Tobruch, che resiste al lungo assedio – cominciato il 10 aprile – grazie alla presenza di una forza di occupazione inglese), respingono un tentativo di contro-offensiva (l'Operazione Brevity) e conquistano una porzione di territorio egiziano di confine. In conseguenza delle sconfitte subite, il comando delle truppe del Regno Unito verrà affidato al generale Claude Auchinleck; questi comanderà, nel novembre e nel dicembre, una grande offensiva (l'Operazione Battleaxe) con lo scopo di alleviare l'assedio di Tobruch, ma fallirà nel suo intento. Il 27 marzo in Jugoslavia, che solo due giorni prima aveva aderito al Patto Tripartito, gli inglesi organizzano con successo il colpo di Stato del generale nazionalista serbo Dušan Simović (il reggente Paolo viene esiliato e il Ministro degli Esteri e il Primo Ministro vengono destituiti). Il nuovo governo jugoslavo firma un trattato di amicizia con l'Unione Sovietica (5 aprile). Di fronte al rischio portato dall'eccessivo rafforzamento della presenza inglese nei Balcani e da un'eventuale alleanza in funzione anti-Asse della Jugoslavia con l'Unione Sovietica, la Germania, l'Ungheria e la Bulgaria attaccano la Jugoslavia. Nel medesimo giorno anche l'Italia le dichiara guerra. L'avanzata italiana si rivela un successo in area slovena e in Dalmazia e la Jugoslavia capitola rapidamente (17 aprile). Pietro II fugge a Londra. L'Italia ottiene la maggior parte della costa dalmata e la provincia di Lubiana, mentre il Kosovo viene annesso all'Albania italiana. Nel frattempo, le truppe italiane, dopo mesi di stallo, riprendono ad avanzare in Albania (13 aprile), che viene totalmente riconquistata in pochi giorni, e in Epiro. Sempre nel mese di aprile, le armate italiane e tedesche sferrano congiuntamente un nuovo attacco alla Grecia, che ben presto firma la resa con la Germania (21 aprile). Mussolini, che si sente umiliato a causa dell'esclusione dell'Italia dal trattato di pace, pretende di essere rispettato. Per ordine di Hitler, la cerimonia della firma viene quindi ripetuta due giorni dopo anche in presenza di autorità italiane (23 aprile). Il 3 maggio, truppe italo-tedesche sfilano ad Atene e il 1º giugno cadeCreta, ultimo avamposto nemico rimasto nella regione. Nonostante la conquista dei Balcani fosse dovuta esclusivamente all'intervento delle forze germaniche, Mussolini ottenne il diritto di occupare le isole Ionie e la maggior parte della Grecia, che non rientravano nella zona d'influenza tedesca. Il 2 giugno del 1941 Mussolini incontra nuovamente Hitler, che il 22 ordina l'attacco all'Unione Sovietica (operazione Barbarossa). In luglio viene inviato in Russia il CSIR (composto di 58.800 soldati al comando del generale di corpo d'armata Giovanni Messe), come sostegno dell'alleato tedesco. Il 25 agosto, nel Quartier generale tedesco a Rastenburg, nella Prussia orientale, il Duce passa in rassegna le truppe accanto a Hitler. Il 7 dicembre la flotta giapponese attacca Pearl Harbor, base militare statunitense, determinando l'entrata in guerra degli Stati Uniti. Il 12 dicembre l'Italia dichiara guerra agli Stati Uniti, seguendo l'iniziativa dell'alleato tedesco che aveva assunto lo stesso provvedimento il giorno precedente. Il 18 dicembre un'incursione italiana nel porto di Alessandria d'Egitto causa ingenti danni alla marina britannica. A partire dal 15 febbraio 1942 giungono in Russia numerosi rinforzi italiani a sostegno dell'avanzata tedesca: entro 5 mesi vengono inviati oltre 160.000 soldati. Il 9 luglio il CSIR viene affidato alla guida del generale Italo Gariboldi (che sostituisce il precedente comandante, il generale Giovanni Messe) e muta il proprio nome inARMIR ("ARMata Italiana in Russia"), che arriverà a contare più di 200.000 uomini. L'esercito italiano si distingue per coraggio sul fronte sovietico, in particolar modo a Stalino, tuttavia appare in tutta la sua evidenza l'inadeguatezza e l'arretratezza dell'equipaggiamento in dotazione alle truppe. La battaglia di Stalingrado si rivela decisiva per il destino della campagna di Russia e, più in generale, per le sorti della guerra: il 2 febbraio 1943 le forze tedesche accerchiate nella città sulVolga si arrendono. Il corpo di spedizione italiano viene sconfitto a partire dal 16 dicembre 1942 nella seconda battaglia difensiva del Don; costretto ad una sfibrante ritirata nella neve subisce perdite ingenti di uomini e materiali costringendo i comandi italo-tedeschi a ordinarne il ritiro dal fronte. I superstiti faranno rientro in patria tra l'aprile e il maggio 1943: oltre 60.000 saranno i soldati ufficialmente dispersi, in gran parte prigionieri che moriranno negli anni seguenti nei campi di detenzione sovietici. Il 29 aprile 1942 Mussolini incontra Hitler a Salisburgo: durante questo colloquio i due capi di governo si accordano per scatenare a breve una grande offensiva in Africa settentrionale. Tra il 26 maggio e il 21 giugno le truppe dell'Asse si rendono protagoniste di una vittoriosa avanzata in Libia (battaglia di Ain el-Gazala), che porta, tra l'altro, alla caduta di Tobruch (20 giugno), assediata da oltre un anno. Le armate di Erwin Rommel si trovano a soli 100 chilometri circa da Alessandria d'Egitto, che, secondo le previsioni dei plenipotenziari italiani e tedeschi, avrebbe dovuto esser raggiunta in poco tempo. Il 29 giugno Mussolini parte per la Libia, dove si trattiene sino al 20 luglio. Tra l'1 e il 29 luglio si combatte la Prima battaglia di El Alamein: le truppe italo-tedesche tentano invano di sfondare le linee difensive inglesi. Fra il 31 agosto e il 5 settembre fallisce, nella battaglia di Alam Halfa, l'ultimo tentativo di sfondamento delle armate del Patto Tripartito. Nellaseconda battaglia di El Alamein (combattuta tra il 23 ottobre e il 3 novembre) le truppe del Commonwealth del generale Bernard Law Montgomery (che in agosto aveva sostituito al comando il generale Claude Auchinleck) sconfiggono gli avversari, costringendoli a un disastroso ripiegamento. L'avanzata inglese si rivela incontenibile: l'8 novembre 1942 con l'operazione Torch le truppe anglo-americane sbarcano in Marocco e in Algeria (amministrate fino ad allora dalla Francia di Vichy, stato teoricamente neutrale), la Libia viene rapidamente perduta (il 23 gennaio 1943 cade Tripoli), e tra il 19 e il 25 febbraio 1943 le forze italo-tedesche vengono nuovamente sconfitte nella battaglia del passo di Kasserine, combattuta in Tunisia (che l'Asse aveva fatto occupare in gennaio). Il 13 maggio le ultime truppe dell'Asse, al comando del generale Messe, si arrendono. Mussolini stesso dà l'ordine a Messe di accettare la resa, e contestualmente nomina Messe maresciallo. Nel novembre e nel dicembre 1942, Mussolini, abbattuto e depresso, si lascia sostituire da Ciano in due colloqui con Hitler. Il 2 dicembre, dopo 18 mesi di silenzio e conscio dei recenti rivolgimenti, torna a parlare al popolo italiano da Palazzo Venezia. Dal 7 al 10 aprile 1943 Mussolini incontra Hitler a Klessheim (nei dintorni di Salisburgo). Sempre più pessimista sull'esito della guerra, gli propone di giungere ad un armistizio coi sovietici, al fine di concentrare gli sforzi sugli altri fronti di guerra. Il Führer rimane irremovibile sulle sue posizioni. Hitler ha capito che Mussolini vuole tirare fuori l'Italia dal conflitto, ma se acconsentisse creerebbe un precedente cui si appellerebbero tutte le nazioni dell'Asse. Intanto in Italia si diffondono pressioni sul re affinché licenzi Mussolini e si rivolga agli anglo-americani, anche attraverso la mediazione della Santa Sede. Tali richieste provengono soprattutto da ambienti militari, per i quali la guerra è ormai perduta. Sta maturando anche nelle alte sfere del regime il convincimento che se il re allontanasse Mussolini dal governo, al popolo italiano sarebbe risparmiata una catastrofe maggiore. Berlino viene messa a conoscenza di questi tentativi di fronda dagli informatori dislocati sulla penisola. La notte tra il 9 luglio e il 10 luglio gli anglo-americani sbarcano in Sicilia, avanzando nell'isola. Gli eserciti alleati sviluppano una doppia azione: cominciano a risalire il Paese dal sud e lo bombardano al nord. Il 13 luglio un gruppo di gerarchi guidato da Roberto Farinacci si riunisce per decidere il da farsi. In una seconda riunione il 16 luglio, essi chiedono la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, non più riunitosi dal 1939. L'Italia è stata da poco invasa dalle truppe alleate e Mussolini decide di scrivere a Hitler per manifestare all'alleato l'impossibilità per l'Italia di continuare il conflitto. Ma il Führer lo prende in contropiede annunciandogli la sua venuta in Italia per incontrarlo di persona. Il vertice è previsto dal 19 luglio al 21 luglio 1943 nei pressi di Feltre (BL), nella villa del senatore Achille Gaggia. L'intenzione di Mussolini è dire a Hitler che l'Italia è «costretta a cercare una via d'uscita dall'alleanza e dalla guerra». Tuttavia, di fronte al Führer, che mette chiaramente le carte in tavola e lo inchioda alle sue responsabilità, rimane in silenzio. Il vertice, che doveva durare tre giorni, si risolve in tre ore e mezzo. Mussolini spiega così il suo stato d'animo dopo il fallimento del vertice di Villa Gaggia, replicando alle voci che lo sollecitavano a portare l'Italia fuori dal conflitto: «Credete forse che questo problema io non lo senta agitarsi da tempo nel mio spirito travagliato? Ammetto l'ipotesi di sganciarsi dalla Germania: la cosa è semplice, si lancia un [messaggio via] radio al nemico. Quali saranno le conseguenze? Eppoi, si fa presto a dire sganciarsi dalla Germania. Credete forse che Hitler ci lascerebbe libertà d'azione?» Di ritorno dall'incontro con Hitler, è sconvolto dal bombardamento su Roma, avvenuto proprio durante l'incontro e di cui è stato informato immediatamente assieme ad Hitler. La capitale è stata attaccata da una flotta di circa 200 aeroplani, che ha colpito soprattutto la zona di San Lorenzo. Il 21 luglio Mussolini concede la convocazione del Gran Consiglio per sabato 24, e ordina di non divulgare la notizia agli organi di stampa. Il 22 (giovedì) si reca in mattinata dal Re per il consueto colloquio, durante il quale gli riferisce dell'incontro con Hitler e della convocazione del G.C. Si esaminano i pro e i contro di un eventuale mutamento di alleanze. Viene paventata l'ipotesi che la Germania voglia annettersi i territori conquistati dall'Italia in seguito alla prima guerra mondiale(Alto Adige, Istria, Fiume e Dalmazia). I due convergono sulla decisione di trarre l'Italia fuori dal conflitto, lasciando l'Asse alla sua sorte, ma il presupposto indispensabile è che il Duce lasci il potere. Il Re ricorda infatti a Mussolini che dopo la conferenza di Casablanca la sua presenza al governo è considerata un ostacolo a qualsiasi trattativa con gli anglo-americani. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno riceve e prende in esame l'ordine del giorno (corredato dalle firme dei gerarchi che lo sostengono) cheDino Grandi intende presentare alla seduta del Gran Consiglio. Lo definisce "inammissibile e vile". Poi riceve in udienza Grandi in persona. I due discutono gli ultimi avvenimenti politici, poi l'ordine del giorno. Grandi esorta Mussolini a rassegnare volontariamente le dimissioni. Il Duce lo ascolta senza lasciar trasparire nessuna emozione. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio, in segreto, si apre una lunga seduta del Gran Consiglio che si concluderà alle prime ore del giorno successivo (25 luglio), con l'approvazione dell'ordine del giorno presentato da Dino Grandi. Viene di fatto approvata l'esautorazione di Mussolini dai suoi incarichi di governo. La votazione, seppur significativa (in quanto votata dai massimi rappresentanti del Partito), non aveva de iure alcun valore, poiché per legge il Capo del Governo era responsabile del proprio operato solo dinanzi al Sovrano, il quale era l'unico a poterlo destituire. La mattina di domenica 25 luglio, dopo essersi recato regolarmente nel suo studio di Palazzo Venezia per occuparsi degli affari correnti, Mussolini chiede al sovrano di poter anticipare l'abituale colloquio del lunedì, e accetta di presentarsi da questi, giungendo insieme al suo segretario Nicola De Cesare alle ore 17 a Villa Savoia (oggi Villa Ada). Vittorio Emanuele III comunica a Mussolini la sua sostituzione con Pietro Badoglio, garantendogli l'incolumità. Mussolini non era però al corrente delle reali intenzioni del monarca, che aveva posto sotto scorta il Capo del Governo e aveva fatto circondare l'edificio da duecento carabinieri. Il tenente colonnello Giovanni Frignani, che coordinava l'operazione, espone telefonicamente ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa gli ordini del re. I carabinieri fanno salire Mussolini e De Cesare in un'autoambulanza della Croce Rossa Italiana, senza specificargli la destinazione ma rassicurandolo sulla necessità di tutelare la sua incolumità (pomeriggio del 25 luglio). In realtà, Vittorio Emanuele III aveva ordinato di arrestare Mussolini. Secondo alcuni autori il re fu spinto a questa decisione anche al fine di salvare il destino della propria dinastia, che rischiava di essere considerata definitivamente compromessa col fascismo. L'armistizio fra l'Italia e gli Alleati firmato il 3 settembre e reso noto la sera dell'8 senza delle precise istruzioni per le truppe italiane, lascia nella confusione più totale un Paese già allo sbando. L'Italia si spacca, in quella che è stata poi definita una guerra civile, tra coloro che si schierano con gli Alleati (che controllano parte del Meridione e la Sicilia), e coloro che invece accettano di proseguire il conflitto a fianco dei tedeschi (che hanno intanto occupato gran parte della penisola, incontrando una debole resistenza da parte delle truppe italiane dislocate alle frontiere e nei pressi di Roma e di altre località). Frattanto il re, con parte della famiglia, Badoglio e i suoi principali collaboratori, fugge in Puglia, ponendosi sotto la protezione degli ex nemici: lì costituisce un governo sotto supervisione alleata, che dichiarerà guerra alla Germania il 13 ottobre. Mussolini, subito dopo il suo arresto, è dapprima trattenuto in una caserma dei carabinieri a Roma. Su sua richiesta, Badoglio pensa di trasferirlo alla Rocca delle Caminate, ma il prefetto di Forlì, Marcello Bofondi, fascista della prima ora, sentito telegraficamente, si oppone recisamente, sostenendo, in un tal caso, di non poter garantire l'ordine pubblico. Così Mussolini viene invece trasportato nell'isola di Ponza (dal 27 luglio), ma i tedeschi sono sulle sue tracce. Per depistarli, viene portato sull'isola della Maddalena (7 agosto-27 agosto 1943) e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, in un luogo ritenuto inattaccabile dall'esterno. Mussolini, che si sente ormai finito, tenta di uccidersi tagliandosi le vene, ma si procura solo ferite superficiali e viene medicato. Il 12 settembre venne liberato da un commando di paracadutisti tedeschi (Fallschirmjäger-Lehrbataillon) guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny a capo dell'Operazione Quercia. Mussolini venne tradotto in Germania, dove il 14 settembre incontra Hitler a Rastenburg. Questi lo invita a formare unarepubblica protetta dai tedeschi. Il 18 settembre, da Monaco Mussolini pronuncia alla radio il suo primo discorso dopo l'arresto del 25 luglio: « ... Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete...» Dopo aver fatto un'ampia esposizione su ciò che stava avvenendo in Italia, addossa la responsabilità della sua destituzione al Re, ai generali e ai gerarchi fascisti, che accusò di alto tradimento. Alla fine del discorso annuncia la ricostituzione dello Stato, delle sue Forze armate e del partito fascista, con la nuova denominazione di Partito Fascista Repubblicano ("PFR"). Mussolini ritorna in Italia il 23 settembre e costituisce un nuovo governo, che si riunisce per la prima volta il 27 settembre alla Rocca delle Caminate (residenza di Mussolini a Predappio, dal 1927). Di fatto la neonata Repubblica Sociale Italiana (RSI) è uno Stato controllato soprattutto dai tedeschi e a Mussolini viene concessa poca libertà di azione. Solo sull'ambito economico e sull'organizzazione militare dei soldati italiani aderenti alla RSI, Mussolini e i suoi gerarchi hanno una certa autonomia. Hitler intanto aveva posto sotto il diretto controllo del Reich l'intera area nord-orientale dello stato italiano (ovvero le province di Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana e Zara) nonché i territori precedentemente italiani o sotto il controllo italiano al di fuori della penisola (le truppe tedesche nei giorni immediatamente successivi all'armistizio di Cassibile occuparono l'Albania, che essendo unita all'Italia tramite la corona dei Savoia fu dichiarata "indipendente" e gli ustascia si annessero d'arbitrio alla Dalmazia, esclusa Zara). Tra il 23 e il 27 settembre 1943 Mussolini si insedia a Gargnano, sul lago di Garda (tuttavia la maggior parte degli uffici governativi è distribuita in località limitrofe, fino a Brescia). L'agenzia di stampa ufficiale si installa a Salò, da cui il nome non ufficiale di "Repubblica di Salò", a causa dell'intestazione dei comunicati radiostampa. Il 14 novembre si tiene a Verona la prima assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, durante la quale viene redatto il Manifesto di Verona, ovvero il programma di governo del PFR. Mussolini (che ricopre la carica di "duce, capo del governo" della repubblica de facto, essendo tale carica prevista nel manifesto ma non essendo stata da lui assunta in forza di elezioni) annuncia che verrà rimandata al termine del conflitto la convocazione di un'assemblea costituzionale per la redazione della costituzione della RSI, della quale si era prefigurata la convocazione il 13 ottobre. L'8 dicembre viene costituita con decreto la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), posta al comando di Renato Ricci. In essa confluiscono parte degli effettivi dei Reali Carabinieri (corpo che viene disciolto), della Polizia dell'Africa Italiana e della MSVN (mai ufficialmente disciolta sino a tale data). Inoltre alcune migliaia di reclute italiane sono inviate in Germania per essere addestrate e formare quattro divisioni (Divisione Alpina Monterosa, San Marco, Littorio e Italia). Tra l'8 e il 10 gennaio 1944 si tiene il processo di Verona, nel quale vengono giudicati i gerarchi "traditori" che si erano schierati contro Mussolini il 25 luglio 1943: tra questi, viene condannato a morte il genero del duce, Galeazzo Ciano. Non è noto se Mussolini non avesse voluto salvare la vita al marito di sua figlia (nonché dei suoi ex collaboratori) oppure se non avesse effettivamente potuto influire sui verdetti del tribunale giudicante, data la pesante ingerenza tedesca. È invece quasi certo che le istanze di grazia presentate dai condannati non furono inoltrate direttamente a Mussolini per volontà di Alessandro Pavolini, il quale da un lato voleva impedire un eventuale "cedimento sentimentale" del duce e il conseguente placet alla grazia, e dall'altro intendeva risparmiare al duce l'angoscia della scelta, per lui "obbligata". Il 21 aprile il duce si incontra con Hitler a Klessheim, e il 15 luglio si reca in Germania per ispezionare le quattro divisioni italiane che gli ufficiali tedeschi stanno addestrando. Il 20, giorno dell'attentato di von Stauffenberg rivede Hitler per l'ultima volta. Il 16 dicembre, al Teatro Lirico di Milano, pronuncia il suo primo e ultimo discorso pubblico dalla costituzione della RSI. Parla delle "armi segrete" tedesche, di cui Hitler gli avrebbe dato prova, e della possibilità di mantenere "la valle del Po" con le unghie e coi denti. Inoltre afferma la volontà della RSI di procedere alla socializzazione dell'Italia. Nell'aprile 1945, sempre più isolato e impotente, dopo che il fronte della Linea Gotica ha ceduto e le forze tedesche in Italia sono ormai in rotta, Mussolini si trasferisce a Milano. Il 25 aprile, ottiene un incontro con il cardinale Ildefonso Schuster, che sta tentando di mediare con il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) la resa delle forze fasciste, nella speranza di evitare ulteriori spargimenti di sangue. Tuttavia l'indecisione di Mussolini e l'intransigenza delle parti rendono impossibile qualsiasi accordo. I comandi delle SS tedesche (generale Wolff), poco prima dell'arrivo del duce, fanno sapere al cardinale di non aver più bisogno di lui, avendo essi nel frattempo stretto un patto separato con gli Alleati (all'oscuro di Hitler, ovviamente) e con uomini vicini al CLN. Appresa da Schuster la notizia, Mussolini si sente tradito e definitivamente abbandonato anche dai tedeschi, interrompe la discussione e lascia precipitosamente l'arcivescovado. Nonostante il parere contrario di parte del suo seguito, Mussolini decide quindi di lasciare Milano. I motivi della decisione non sono del tutto chiari (nei giorni precedenti si era parlato di un'ultima resistenza in un possibile "ridotto della Valtellina").Vi è chi ritiene che fosse stato concordato un incontro segreto con emissari alleati provenienti dalla Svizzera, ai quali Mussolini si sarebbe dovuto consegnare portando con sé importanti documenti.[senza fonte] Alcuni sostengono che se l'intento fosse stato solo quello della fuga, Mussolini avrebbe potuto utilizzare il trimotore SM79 pronto all'aeroporto di Bresso, con il quale alcuni personaggi minori della RSI e parte della famiglia Petacci ripararono in Spagna il 26 aprile. Si è anche supposto che Mussolini, nell'improbabilità di uscirne indenne, volesse a tutti i costi evitare di cadere nelle mani degli Alleati, pur nella consapevolezza che se fosse finito in mano ai partigiani sarebbe stato certamente giustiziato. Nel tardo pomeriggio del 25 aprile, la colonna di Mussolini parte dalla Prefettura alla volta di Como, per poi proseguire quasi subito verso Menaggio, lungo la sponda occidentale del lago (anziché verso la più sicura sponda orientale, come proposto dal capo del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini). Mussolini trascorre l'ultima notte da uomo libero pernottando in un albergo del piccolo comune di Grandola, a pochi chilometri dal confine svizzero. Il giorno dopo Mussolini, insieme a pochi fedeli e a Claretta Petacci, che lo aveva frattanto raggiunto, ridiscende verso il lago. Sulla statale Regina si unisce ad una colonna della contraerea tedesca in ritirata e alla colonna di Pavolini, che arrivato a Como in mattinata aveva subito proseguito lungo il lago. La colonna viene fermata a Musso alle ore 6:30 dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" al comando di Pier Luigi Bellini delle Stelle "Pedro". Dopo lunghe trattative, si giunge all'accordo che i tedeschi possono proseguire dopo una perquisizione, mentre gli italiani devono essere consegnati. Mussolini viene convinto dal tenente SS Birzer, incaricato di custodirlo dal suo comando poco prima della partenza da Gargnano, a nascondersi su un camion tedesco indossando un cappotto da sottufficiale e un elmetto. Dopo pochi chilometri la colonna viene fermata a Dongo e, durante l'ispezione, Mussolini viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri "Biondino" e subito arrestato dal vice commissario Urbano Lazzaro "Bill". Nel municipio di Dongo viene interrogato e in serata, per sicurezza, viene trasferito a Germasino, nella caserma della Guardia di Finanza. Durante la notte viene ricongiunto con Claretta Petacci e insieme si pensa di trasferirli a Brunate per poi condurli in un secondo tempo a Milano, ma durante il percorso numerosi posti di blocco convincono gli accompagnatori Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Pietro" e Giuseppina Tuissi "Gianna" a desistere e a trovare una diversa destinazione. Per questo vengono portati a Bonzanigo e ospitati presso amici. «Qui Radio Milano liberata!» (Comunicato di Radio Milano, che in seguito annuncerà la cattura e la successiva esecuzione di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi fascisti.). Pochi giorni prima era stato emesso un comunicato del CLN nel quale si esprimeva la necessità di una rinascita sociale e politica dell'Italia, attuabile solo attraverso l'uccisione di Mussolini e la distruzione di ogni simbolo del partito fascista. Il documento era a firma di tutti i componenti del CLN (Partito comunista, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Democrazia del Lavoro, il Partito d'Azione, la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale Italiano). La decisione di dar corso pratico al comunicato fu presa da coloro che detenevano Mussolini nell'arco di poche ore, in un contesto in cui era molto difficile mettersi in contatto con Roma e far riunire il Comitato di Liberazione Nazionale. I partigiani che lo avevano catturato informarono (usando il telefono di una centrale idroelettrica) il comando di Milano, che mandò subito un reparto di partigiani appena arrivati dall'Oltrepò Pavese e alcuni emissari politici (Aldo Lampredi, Pietro Vergani e Walter Audisio). Secondo Raffaele Cadorna, nell'impossibilità di contattare il CLN venne presa la decisione che facesse il miglior interesse dell'Italia. Cadorna sosteneva che se Mussolini fosse stato consegnato agli Alleati ne sarebbe scaturito un processo a un intero ventennio di politica italiana, nel quale sarebbe stato difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle del suo condottiero. Nel conseguente discredito, l'eventuale sopravvivenza di Mussolini non avrebbe avuto nessuna utilità. La mattina del 28 aprile Leo Valiani portò a Cadorna un ordine di esecuzione a firma del CLNAI, riferendogli che si trattava della decisione raggiunta da Valiani medesimo insieme con Luigi Longo, Emilio Sereni e Sandro Pertini la sera precedente: uccidere Mussolini senza processo, data l'urgenza. L'esecuzione avvenne il 28 aprile 1945. Mussolini fu fucilato assieme a Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra in via XXIV Maggio, in corrispondenza del muretto del cancello di Villa Belmonte, a 21 km da Dongo. I tempi e i modi dell'esecuzione furono dettati anche dalla volontà di evitare interferenze da parte degli alleati, che avrebbero preferito catturare Mussolini e processarlo davanti ad una corte internazionale. Nel frattempo a Dongo, un altro gruppo del reparto di partigiani delle Brigate Garibaldi sopraggiunti dall'Oltrepò Pavese fucilava i gerarchi del seguito di Mussolini, tra i quali il filologo Goffredo Coppola (allora rettore dell'Università di Bologna),Alessandro Pavolini (segretario del PFR), Nicola Bombacci (che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia e aveva successivamente aderito alla RSI), il Ministro dell'economia Paolo Zerbino, il Ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma e Marcello Petacci (fratello di Claretta) che si era unito alla colonna a Como nel tentativo di dissuadere la sorella dal seguire Mussolini. I corpi di Mussolini e degli altri giustiziati furono poi trasportati a Milano, dove arrivarono in serata. In via Fabio Filzi quando da poco erano superate le 22 Walter Audisio e i suoi uomini vennero fermati a un posto di blocco da sappisti della Pirelli Brusada appartenenti alla 110ª Brigata Garibaldi che volevano ispezionare l'autofurgone in cui erano contenuti i corpi. Al rifiuto di Walter Audisio seguirono lunghi momenti di tensione, risolti solo con l'intervento del Comando generale. I corpi arrivarono così in piazzale Loreto verso le 3 della notte. Vennero scaricati nello stesso luogo in cui il 10 agosto 1944 erano stati fucilati e lasciati esposti al pubblico quindici partigiani (come rappresaglia per un attentato non rivendicato). Sappisti della 110ª Brigata Garibaldi montarono la guardia fino alle 7 del mattino. La gente accorsa ben presto in piazza prese ad insultare i cadaveri, infierendo su di loro con sputi, calci, spari e altri oltraggi, accanendosi in particolare sul corpo di Mussolini. Il servizio d'ordine, composto di pochi partigiani e vigili del fuoco, decise quindi di appendere i corpi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina. Ai cadaveri si aggiunse poco dopo quello di Achille Starace (già segretario del PNF ma caduto in disgrazia e privo di cariche nella RSI) fermato per le strade di Milano mentre faceva jogging e fucilato alla schiena dopo un processo sommario. Passate alcune ore, su pressione delle autorità militari alleate preoccupate per la tutela dell'ordine pubblico, i corpi furono trasportati all'obitorio. Il cadavere di Mussolini fu sottoposto ad un'approfondita ricognizione; quello della Petacci fu solo composto in una bara. L'uccisione di Mussolini e della Petacci, e la decisione di esporre i corpi al pubblico ludibrio, ricevettero successivamente numerose critiche anche da parte di esponenti della Resistenza antifascista. Lo stesso Ferruccio Parri, capo del CLN, definì la vicenda "uno spettacolo da macelleria messicana" e Pertini dichiarò: «A Piazzale Loreto l'insurrezione si è disonorata». Ancora oggi alcuni si interrogano sulla legittimità dell'accaduto e sulle motivazioni che vi condussero. Non è tuttavia possibile esprimere una valutazione univoca e oggettiva, che non tenga conto delle circostanze e del contesto storico. Il solo dato di fatto che si può osservare è che in Italia non fu celebrato un processo giudiziario nei confronti dei gerarchi fascisti paragonabile a quello tenutosi a Norimberga contro il nazismo. Nell'aprile del 1946 la salma di Mussolini fu trafugata dal Cimitero di Musocco da un gruppo di fascisti del Partito Democratico Fascista, capitanati da Domenico Leccisi. Il corpo fu portato a Madesimo e successivamente alla Certosa di Pavia. Dopo la restituzione alla famiglia, nel 1956, la salma fu traslata nella cappella di Predappio. La caduta di Mussolini e il timore del risorgere nell'immediato dopoguerra di tendenze neofasciste determinò l'introduzione del reato di apologia del fascismo. Il pensiero politico. « La libertà senza ordine e disciplina significa dissoluzione e catastrofe.» (Da un discorso pronunciato nell'atrio del municipio di Torino da Mussolini, 24 ottobre 1923). Nel 1932, presumibilmente insieme a Giovanni Gentile (o comunque sotto la sua influenza), Mussolini scrisse la voce fascismo per l'enciclopedia Treccani, in cui precisava la dottrina del suo partito. Il 20 aprile 1945, pochi giorni prima dell'ultimo disperato e vano tentativo di fuga verso la Germania, e tre giorni prima del suo ultimo discorso pubblico tenuto davanti ai fedelissimi raccolti nel cortile della Prefettura di Milano, Mussolini concesse la sua ultima intervista. Interlocutore era il direttore del Popolo di Alessandria, Gian Gaetano Cabella. In realtà, più che di un'intervista si trattò di un monologo del Duce del fascismo, quasi un suo atto testamentario. Di questa intervista dà conto il libro Mussolini. Duce si diventa, pubblicato a firma di Remigio Zizzo. L'esordio, lapidario, di Mussolini fu un Intervista o testamento?. Siamo stati i soli ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania; mandai – affermava Mussolini – le divisioni al Brennero; ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. [...] Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo gli fu impedito, è la conclusione a cui il capo del fascismo, ormai avviato al declino, giunse. Lasciate passare questi anni di bufera. Proseguiva poi Mussolini: Un giovane sorgerà. Un puro. Un capo che dovrà immancabilmente agitare le idee del Fascismo. [...] Non so se Churchill è, come me, tranquillo e sereno. Ricordatevi bene: abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e degli speculatori. Essi non hanno voluto che ci fosse data la possibilità di vivere. Se le vicende di questa guerra fossero state favorevoli all'Asse, io avrei proposto al Führer, a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale [...] Mi hanno rinfacciato la forma tirannica di disciplina che imponevo agli Italiani. Come la rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli Italiani vorranno essere ancora un popolo e non un agglomerato di schiavi. Mussolini ammise che non vi fu un principio ispiratore preciso che portò alla nascita del movimento, che originò da un bisogno d'azione e fu azione. Proprio per questo motivo, durante tutto il ventennio, il Fascismo si caratterizzò per la coesistenza al suo interno di istanze e correnti di pensiero minoritarie fortemente differenti e apparentemente poco conciliabili tra loro. Emblematico, da questo punto di vista, è il programma di San Sepolcro, col quale il movimento dei Fasci di Combattimento si presentò alle elezioni del 1919. In esso erano espresse proposte fortemente progressiste, molte delle quali furono poi man mano abbandonate dal movimento entro l'ottobre 1922 (tra queste l'originale carattere antimonarchico e anticlericale del fascismo, che avrebbe pregiudicato ogni compromesso con la monarchia italiana e col clero), per essere poi riaffermate, anche se prevalentemente solo a livello propagandistico, dal Partito Fascista Repubblicano. Il fascismo sansepolcrista chiese la concessione del suffragio universale, una riforma elettorale in senso proporzionale, la riduzione dell'età di voto a 18 anni e dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere, i salari minimi garantiti, la gestione statale (o meglio da parte di cooperative di lavoratori) dei servizi pubblici, la progressività della tassazione, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi, l'eliminazione della nomina regia del Senato e la convocazione di un'assemblea che permettesse ai cittadini di scegliere se l'Italia dovesse essere una monarchia o una repubblica. Riprendendo quanto accennato sopra, la nota dominante del pensiero mussoliniano fu l'attivismo (questo fu uno dei principali motivi per i quali il fascismo esaltò l'intraprendenza e la vitalità della gioventù - facendo di "Giovinezza" il proprio inno - e l'idea di un uomo agonisticamente attivo e preparato): non conta ciò che si è fatto, ma ciò che vi è ancora da fare. A tal proposito, le principali ambizioni del fascismo furono: la rifondazione dell'Impero romano, attraverso una politica aggressiva di potenza (la guerra è «positiva» perché «imprime un sigillo di nobiltà al popolo che l'affronta»), per mezzo della quale l'Italia avrebbe dovuto assurgere al ruolo di guida e modello per le altre nazioni a livello politico, economico e spirituale. A tale scopo si insistette sulla necessità di un esercito forte e ben strutturato (pur non riuscendo a raggiungere in tal senso un risultato concreto). Emblematica, sotto questo punto di vista, è la volontà mussoliniana, ampiamente propagandata; la creazione di un «italiano nuovo», eroico, dotato di senso di appartenenza alla nazione, in grado con la propria azione di forgiare la storia, inserito in uno Stato che ne riassume le aspirazioni (fu Mussolini a definire gli italiani «un popolo di santi, di eroi e di navigatori»). Ciò si sarebbe dovuto realizzare attraverso il completo superamento dell'individualismo e della connessa concezione individualista della libertà: l'individuo deve esplicare la propria libertà non in modo egoistico, in una prospettiva concorrenziale con gli altri soggetti, ma in modo ordinato e disciplinato, concependosi come parte di una collettività (la nazione italiana incarnata dallo stato fascista) indirizzata verso un fine comune e non divisa dall'odio classista (fu abbandonato il concetto socialista di «lotta di classe»). A tal fine, si affermò la necessità di rinsaldare il sentimento di appartenenza nazionale attraverso l'esaltazione dello spirito patriottico italiano e della storia d'Italia. Dunque, l'interesse dello stato prevale su quello dei singoli in nome del raggiungimento del bene comune; esso ha una propria missione e consapevolezza: esaltare l'essenza nazionale. Il fascismo si doveva esaurire non nello Stato fascista, ma nello Stato di tutti gli italiani. Il superuomo, ecco la grande creazione nietzscheana, scrisse Mussolini su «Il Pensiero Romagnolo» nel 1905. Nietzsche fu l'unico filosofo che Mussolini studiò veramente. Ne fu ammaliato in gioventù e dalla sua dottrina del superuomo trasse il senso da dare alla rivoluzione fascista; l'unificazione di tutte le terre considerate "italiane" in un'unica nazione italiana, proponendo il movimento fascista come soluzione della questione dell'Irredentismo e della Vittoria mutilata (mediante l'annessione anche violenta delle terre irredente) e conseguentemente (essendo l'obiettivo originario del Risorgimento l'unificazione dei territori italiani in un unico stato) come il "coronamento del risorgimento". Emerge quindi come il fascismo si sia caratterizzato, nella sua concreta realizzazione storica, come un movimento autoritario, nazionalista e antidemocratico. Nel 1931 Mussolini esplicitò il proprio rifiuto della democrazia, definendo la disuguaglianza come «feconda e benefica» e in "Dottrina del Fascismo" scrisse che «regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete». Da ultimo, è importante sottolineare come il fascismo fu sempre considerato dai suoi aderenti un movimento rivoluzionario, trasgressivo e ribelle (emblematico in tal senso il motto «me ne frego») in radicale contrasto col liberalismo dell'Italia pre-fascista. Pur avendo all'inizio tutelato gli interessi della borghesia industriale, Mussolini respinse ogni ipotesi di collusione con essa. I principali discorsi, nei quali esternò le sue idee furono: Discorso di Udine (20 settembre 1922); Discorso del bivacco (16 novembre 1922); Discorso del 3 gennaio 1925; Discorso della riscossa (16 dicembre 1944). Mussolini aveva due fratelli minori: Arnaldo ed Edvige. Nel 1915, con rito civile, sposò a Treviglio Rachele Guidi, figlia della nuova compagna di suo padre. Mussolini e Rachele si unirono successivamente con rito cattolico il 28 dicembre 1925. Rachele e Benito Mussolini ebbero cinque figli: Edda (1910-1995), sposatasi con Galeazzo Ciano il 24 aprile 1930; Vittorio (1916-1997); Bruno (1918-1941), ufficiale pilota, morto il 7 agosto 1941 in un incidente aereo; Romano (1927-2006), noto pianista jazz; e Anna Maria (1929-1968). Alessandra Mussolini, figlia di Anna Maria Villani Scicolone, sorella minore dell'attrice Sophia Loren, e di Romano Mussolini, è una nipote del Duce. A Mussolini vengono attribuite diverse amanti, particolarmente durante il periodo giovanile. Tra le amanti accertate, le più conosciute rimangono Margherita Sarfatti, scrittrice e intellettuale ebrea che nel 1925 pubblicò in Inghilterra una famosa biografia di Mussolini, e, per ultima, Claretta Petacci, che volle condividere la sua sorte durante gli ultimi giorni della Repubblica Sociale Italiana e che venne fucilata con lui. Anche se il numero effettivo delle donne con cui intrattenne relazioni non è certo, si ipotizza che ebbe almeno quattro figli illegittimi: un maschio sarebbe nato a Trento nel 1909 da una giovane socialista, Fernanda Oss Facchinelli, e il bambino non sarebbe vissuto che pochi mesi. Di lui, col tempo, si sarebbe perso anche il nome. Un secondo figlio illegittimo, di nome Benito Albino, lo avrebbe avuto da un'altra ragazza trentina, Ida Dalser, che egli avrebbe sposato, e Mussolini lo avrebbe riconosciuto come figlio naturale dandogli il proprio cognome. Tuttavia né l'atto del presunto matrimonio né quello del presunto riconoscimento sono noti. Una terza figlia, di nome Elena Curti, sarebbe nata negli anni venti a Milano da Angela Curti Cucciati. Elena divenne la segretaria di Alessandro Pavolini e assistette Mussolini fino alla sua cattura a Dongo. Un quarto figlio, maschio, sarebbe nato nel 1929 da Romilda Ruspi, presunta rivale di Claretta Petacci nel ruolo di amante, ma di questo bambino non si sono mai avute notizie precise, così come lui stesso, se è vero che è stato concepito ed è nato, non ha forse mai saputo chi fosse suo padre. Romilda era già coniugata e sono invece note le vicende di suo marito, esiliato in Francia.

IL DUCE COMUNISTA.

Il Socialismo/Comunismo è una ideologia cattiva, così come l’Islam è una religione cattiva. Socialisti e mussulmani hanno un credo di avversione contro i loro nemici ed usano violenza e prevaricazione per affermare i loro valori.

I Socialisti/Comunisti, così come i Mussulmani, mirano al potere assoluto al netto della democrazia. Sono talmente intolleranti che il nemico lo scovano addirittura nel loro interno. Ecco che si moltiplicano, come le cellule, in miriadi di fazioni, correnti, sub partiti. La loro disgregazione è solo lotta per il potere.

Il Fascismo è l’immagine allo specchio del Socialismo/Comunismo talmente brutta agli occhi di chi la guarda, che la stessa parte riflessa nega che sia essa stessa rappresentata.

Purtroppo la verità e questa: non esiste destra e sinistra, ma esiste una parte moderata e liberale ed una parte reazionaria. Gli estremisti, dunque, son figli di una sola stirpe.

La scissione dell’anima Socialista/Comunista ai tempi di Mussolini fu indotta dalla scelta di consegnare o meno la nazione ad una potenza straniera, ossia l'Urss.

Mussolini Socialista/comunista era un nazionalista. I suoi avversari erano decisi a consegnare la patria in mano a Stalin ed all'Unione Sovietica.

Benito l’italiano. Il compagno ateo Mussolini raccontato in un’urticante biografia, scrive il 10 Novembre 2013 Nicholas Farrell - Giancarlo Mazzucca su “Il Tempo”. Ateo alla Eugenio Scalfari. Antipartito alla Beppe Grillo. E finanziato (come lo furono gli antifascisti) dai servizi di Sua Maestà. Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?». La sera del 26 marzo, alla Maison du Peuple di Losanna, Mussolini tenne un contradditorio con Alfredo Tagliatatela (un pastore evangelista di Roma) sull’esistenza di Dio davanti a 500 persone. Fu proprio in quel dibattito che egli prese un orologio, dando a Dio dieci minuti di tempo perché lo fulminasse. Di seguito venne stampato a ricordo della serata e in poche centinaia di copie un opuscolo dal titolo L’Uomo e la Divinità. Nel testo del discorso, documento ormai quasi introvabile, Mussolini aveva sottolineato: «Quando noi affermiamo che “Dio non esiste” intendiamo, con questa proposizione di negare l’esistenza del dio personale della teologia; del dio adorato – sotto vari aspetti e con modi diversi – dai devoti di tutto il mondo; del dio che dal nulla ha creato l’universo, dal caos, la materia, del dio degli assurdi e delle ripugnanze alla Ragione umana. […] Noi pensiamo che l’Universo, lungi dall’essere opera del dio teologico e clericale – non è che la manifestazione della materia, unica, eterna, indistruttibile, che non ha avuto mai principio, che non avrà mai fine». «La vita, dunque, la vita, nel suo significato universale, non è che una combustione perenne d’energie eternamente nuove […]. Ma ciò che più ripugna alla Ragione umana è il fatto inconcepibile della potenza creatrice del dio che dal “nulla” crea il tutto, dal caos l’Universo. […] L’ipotesi di una creazione dal nulla rappresenta l’infanzia del pensiero filosofico ed è in assoluta opposizione con tutte le leggi della chimica e della fisica […]. La Religione è una malattia? Molti eminenti scienziati hanno sostenuto e sostengono che la Religione è una illusione, un fenomeno morbido del genere delle nevrosi e dell’isterismo. Certo che la religione è una malattia psichica, del cervello: è una contrazione e una coartazione dell’individuo il quale, se profondamente religioso, si presenta a noi come un anormale […]. Se l’epidemia religiosa non si manifesta in tutti con forme patologiche la causa deve ricercarsi nel fatto che non tutti hanno allo stesso grado d’intensità il sentimento religioso e non tutti ne fanno la preoccupazione costante della loro vita. Ma la malattia è allo stato latente e può dare, sotto speciali circostanze, quelle crisi di cui è piena la storia. Riassumendo diremo che l’“uomo religioso” è un anormale e che la “Religione” è causa certa di alcune “malattie epidemiche dello spirito” per le quali è necessaria la cura degli alienisti». Fu dopo Caporetto che Mussolini ricevette anche il denaro inglese, proveniente da Sir Samuel Hoare, per sostenere il suo giornale. Il Tenente-Colonnello Hoare, più tardi Viscount Templewood, era arrivato in Italia nell’estate del 1917 come comandante della British Military Mission, ovvero l’agenzia dei servizi segreti inglesi. All’epoca, il titolo abbreviato dei servizi segreti britannici era “MI5”, cioè: non c’era la distinzione successiva fra MI5 (spionaggio domestico) e MI6 (spionaggio agli esteri). La sede della British Military Mission in Italia era a Roma in Via delle Quattro Fontane ma aveva uffici anche a Milano, Genova e Torino. In tutto, aveva un organico di 65 persone (compresi i segretari) e in Italia rimase dal gennaio 1917 all’agosto 1919, quando la Mission fu chiusa. L’archivio privato di Hoare (1880-1959) venne donato dalla sua famiglia al Manuscripts Department della biblioteca dell’università di Cambridge nel 1960 e contiene centinaia di documenti ufficiali “top secret” riguardo al suo soggiorno in Italia. Hoare non doveva tenere questi documenti nel suo archivio personale ma restituirli al War Office (Ministro di guerra). Nonostante ciò quei documenti erano coperti lo stesso, fino a tempi recenti, dal segreto di Stato e perciò non disponibili ai ricercatori. Gran parte degli archivi dei servizi segreti britannici prima degli anni Venti sono stati distrutti, o persi. Quindi, i documenti nell’archivio di Hoare, relativi agli anni in cui era una spia, sono molto preziosi e per quanto ci risulta, quelli sul periodo del suo servizio in Italia negli ultimi 18 mesi della Prima Guerra Mondiale sono rimasti finora inediti. Il ruolo della British Military Mission in Italia fu principalmente di minare i tentativi crescenti per l’abbandono della guerra da parte dell’alleato italiano in quel momento così critico del conflitto quando la sconfitta dei poteri democratici e la vittoria di quelli imperiali sembravano davvero essere alle porte – e anche allo stesso tempo chiaramente di sostenere qualunque forza politica in Italia voleva invece continuare a combattere i tedeschi e gli austriaci. Ormai aperti agli studiosi, i documenti relativi alle sue attività da capo-spia in Italia nell’archivio di Hoare a Cambridge ci forniscono con un ritratto affascinante l’Italia tra il 1917 e il 1918 e lo stato d’animo del popolo italiano. Già, nei mesi prima del disastro di Caporetto, c’erano stati dei tentativi «molti gravi» in Italia, scrive Hoare al suo capo a Londra Maggiore-Generale Sir George MacDonogh, il Director of Military Intelligence presso il War Office. Tentativi pilotati da tre forze formidabili– «finanziaria, socialista e clericale» – il cui scopo era di costringere l’Italia a fare la pace con il nemico. Secondo Hoare, in una nota a Londra in data 7 ottobre 1917, «senza dubbio» questo movimento era diretto da «personalità del Vaticano» e delle banche del Vaticano come la Banca Ambrosiana ma anche di quelle sotto controllo tedesco come la Banca Commerciale Italiana. In un’altra nota il capo-spia inglese liquidò con disprezzo Eugenio Pacelli, il nunzio papale a Monaco, come «un filo-tedesco convinto». Così, dal gennaio del 1918, i servizi segreti inglesi cominciarono a dare un sostegno finanziario regolare a Il Popolo d’Italia di Mussolini. Cinquanta sterline al mese possono sembrare a noi, al giorno d’oggi, pochissime ma c’è da ricordare il tasso di cambio fra la lira italiana e la sterlina britannica nel 1918: 30,30 lire alla sterlina (sarebbe salito a 90 lire nel 1922, e 144 lire nel 1926). Quindi, cinquanta sterline nel 1918 erano 1.515 lire – al mese. Lo stipendio mensile di Mussolini quando faceva il maestro era di 65 lire, mentre da direttore de La Lotta di Classe di 120 lire, dell’Avanti! di 500 lire. Nel 1900 si cantava “Mamma mia dammi cento lire” (i soldi necessari per andare a cercare la fortuna in America). Nel 1938 si canterà “Se potessi avere mille lire al mese”. Il motivo principale dei finanziamenti inglesi agli interventisti in generale nel 1918 e al giornale di Mussolini in particolare era semplice (come lo era anche per i finanziamenti francesi agli stessi gruppi): di tenere l’Italia al loro fianco, e a quello dei francesi, sul campo di battaglia contro il Male. Mussolini non aveva più fatto parte di alcun partito politico da quando era stato espulso dal Partito Socialista nel 1914. Il 9 marzo 1919, su Il Popolo d’Italia, annunciò la decisione di fondare, il successivo 23 marzo, un «antipartito», ovvero un movimento, i «Fasci italiani di Combattimento». Un movimento aveva una forza di attrazione più ampia di un partito. Era più spontaneo – più simile a una folla – più versatile e meno propenso a diventare corrotto e impotente come tutti i partiti esistenti in Italia. La riunione del 23 marzo, inizialmente destinata a svolgersi al Teatro Dal Verme, in Via San Giovanni sul Muro, si tenne invece, considerando la partecipazione al di sotto delle aspettative, nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza Industriale in Piazza San Sepolcro. All’epoca a malapena notata dalla stampa, la riunione di San Sepolcro assunse in seguito fama leggendaria. Lo scopo dell’incontro era quello di riunire tutti i gruppi rivoluzionari fautori della guerra in una sola organizzazione. Molti di questi gruppi già si autodefinivano «fasci». Tra le oltre 120 persone presenti c’erano futuristi (compreso Marinetti), sindacalisti rivoluzionari, ex soldati, un certo numero di nazionalisti e anche repubblicani – esponenti del partito guidato da Pietro Nenni, il vecchio amico e avversario faentino di Mussolini. C’era anche il veronese Aldo Finzi, uno dei sette piloti che avevano partecipato al mitico volo su Vienna di D’Annunzio nell’agosto 1918, che era ebreo non praticante. Inizialmente, Finzi fu un fascista incallito ed ebbe anche incarichi importanti nei primi governi fascisti negli anni Venti. Dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti nel 1924 la sua stella precipitò: non a causa del suo essere ebreo, ma a causa del suo squadrismo a oltranza. Rimase fascista fino alla sua espulsione dal partito nel 1942 e poi, dopo la caduta di Mussolini nel 1943, collaborò con i partigiani. Venne arrestato a Roma dove viveva e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il 24 marzo 1944 fu tra i 335 italiani (di cui 75 ebrei) fucilati dai nazisti a Roma nella strage delle Fosse Ardeatine. Il fascismo, c’è da dire, non fu per niente antisemita fino alla sua alleanza fatale con il nazismo nella seconda metà degli anni Trenta. Anzi. Tantissimi dei 50 mila italiani ebrei, come Finzi, come la Sarfatti, furono fascisti appassionati – fino alle leggi razziali del 1938. Quei fascisti della prima ora presenti all’adunata del 23 marzo provenivano da ogni classe, anche dalla nobiltà. Non è possibile dire per certo e con precisione quante persone vi fossero. Una volta che i fascisti ebbero preso il potere, il numero di coloro che affermavano di essere stati presenti quel giorno ammontava a varie centinaia. Nella sua autobiografia del 1928, Mussolini disse che c’erano 54 partecipanti; la Sarfatti, in Dux del 1926, sostiene, invece, 145. Era presente anche lei quel giorno e avrebbe affermato: «Centoquarantacinque persone riunite in una mediocre sala presa in affitto […] in un palazzo fuori mano della vecchia Milano, nella malinconica piazza del Santo Sepolcro: simbolico nome di catacomba. Tra quel centinaio di brava gente, i nomi più noti non arrivavano ai dieci».

QUELLA GUERRA CHE IL DUCE NON AVREBBE MAI VOLUTO COMBATTERE. Scrive il 22/08/2013 “Dietro le Quinte”. Un anno prima della presa del potere da parte di Hitler in Germania, Mussolini svela, nel discorso tenuto a Torino, le insidie che si celano dietro le clausole del trattato di pace che aveva chiuso la I Guerra Mondiale: dichiara la necessità che alla Germania venga permesso di riportarsi alla pari, sotto ogni punto di vista, con le altre nazioni d’Europa e sostiene l’obbligo da parte degli stati europei di favorire e sostenere tale processo, pena la fuoriuscita dello stato tedesco dalla Società delle Nazioni e lo sviluppo di nuove pericolose tensioni. Il Duce mette quindi in guardia da ciò che si sarebbe poi puntualmente e drammaticamente verificato. Si dice sempre che Mussolini fu co-responsabile dello scoppio della II Guerra Mondiale, ma se la Società delle Nazioni avesse fatta propria la politica dell’Italia fascista probabilmente si sarebbe potuto evitare sia l’ascesa del nazismo, sia il nuovo orribile bagno di sangue. Ma la domanda è: le demo-plutocrazie alleate volevano davvero evitare la guerra? Oppure le conseguenze del primo conflitto mondiale avevano portato a dei risvolti storici da esse non previsti, come la nascita di un sistema, quello fascista, che, essendo per loro potenzialmente letale, doveva essere distrutto ad ogni costo e quindi anche al prezzo di una nuova e tragica strage? Non sarebbe quindi un caso l’atteggiamento strumentalmente ostile tenuto da Inghilterra e Francia nei confronti dell’Italia in occasione dell’invasione dell’Etiopia. Operando in questo modo esse spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler e il Duce, resosi conto dell’incompatibilità tra il sistema fascista e quello liberale tipico delle altre potenze occidentali, accettò un’alleanza forzata con chi, apparentemente, dichiarava la propria avversione nei confronti di un sistema che già evolveva verso forme capitalistiche moderne. L’epilogo è noto, ma il successo più clamoroso delle demo-plutocrazie occidentali sarà quello ottenuto grazie alla mistificazione storica, con l’attribuzione all’Italia fascista di una buona porzione di responsabilità nello lo scoppio del conflitto. Risultato? Il fascismo, dai più ora considerato come il “male assoluto” ma che in realtà rappresenta l’unico e vero sistema realmente alternativo al capitalismo, è stato messo in condizioni di non nuocere, almeno fino a quando la realtà storica rimarrà forzatamente nascosta…

Arrigo Petacco. Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini. Nicola Bombacci, il comunista in camicia nera ucciso dai “liberatori”.

Introduzione: Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini. Diversi in tutto: uno violento, l’altro mite; uno donnaiolo, l’altro monogamo; uno fondatore del Partito fascista, l’altro fondatore del Partito comunista… Benito Mussolini e Nicola Bombacci condussero due vite parallele, ma non si odiarono mai. La loro amicizia, nata sui banchi di scuola, superò ostacoli e avversità, e terminò tragicamente a Dongo, il 28 aprile 1945, davanti ai mitra spianati dei partigiani. Nell’intreccio dei loro destini c’è mezzo secolo di storia italiana. Ma, mentre di Mussolini sappiamo ormai quasi tutto, il suo amico-nemico Nicola Bombacci, personaggio scomodo per la destra quanto per la sinistra, finora è rimasto nell’ombra. Ma chi era Bombacci? Chi aveva “tradito” per meritare la morte?

Commento: L’ottimo e intellettualmente onesto Arrigo Petacco, col pretesto di illustrare al grande pubblico un’importante figura storica condannata dalla vulgata antifascista (soprattutto comunista) alla damnatio memoriae, offre al lettore uno spaccato di R.S.I. colpevolmente trascurato dalla storiografia corrente. Viene alla luce, più che la storia della vita di Nicola Bombacci, fautore della scissione del Partito Comunista d’Italia dal PSI, consumatasi nel celeberrimo Congresso di Livorno del 1921, il “filo rosso” che il Duce del Fascismo pare non aver mai spezzato col proprio passato, tanto da farlo prepotentemente riemergere negli epici 600 giorni della Repubblica, denominata appunto “Sociale”. Nicola Bombacci, amico d’infanzia del poco più giovane e molto più celebre – almeno oggi – futuro Duce, aveva sostenuto memorabili campagne per il trionfo del Socialismo in Italia, divenendo il nemico numero uno dei Fascisti ante e post Marcia. Negli anni del Ventennio aveva subito persecuzioni politiche, soprattutto da parte dei cosiddetti “intransigenti”, ma non aveva mai perso la profonda stima e benevolenza del vecchio amico Benito. La sua lunga e bionda barba, come recitavano gli stornelli degli Squadristi, sarebbe dovuta servire a produrre “…spazzolini per lucidar le scarpe a Benito Mussolini!”. Eppure quest’uomo, stimato membro del COMINTERN, vicino a Lenin e a Zinov’ev, protetto dai Sovietici come loro inviato in Italia, infervorato tribuno della sovietizzazione della penisola, non aveva mai smesso di sognare l’”unione delle due Rivoluzioni”, di Roma e di Mosca, anche se non sarebbe mai stato capace di tradire la propria Patria per raggiungere tale scopo. Nonostante l’estrema povertà patita sotto il Regime e le persecuzioni politiche, si riavvicinò progressivamente a Mussolini, mentre via via emergeva il disinganno per la reale situazione dell’URSS, ormai schiavizzata sotto il tallone di Stalin. La tesi di fondo sostenuta da Petacco – che probabilmente risulterà particolarmente gradita alla “Sinistra Fascista” attuale – concerne il sostanziale permanere, in capo al Duce, durante tutto il corso della sua entusiasmante avventura politica, dell’intenzione di far trionfare l’originaria e autentica Idea Socialista, di cui era espressione il programma del Fascio primigenio. Al termine dell’avventura, i due “compagni” Benito e Nicola si ritroveranno sul Lago di Garda, in camicia nera, a studiare i piani di una Socializzazione che avrebbe dovuto realizzare tale ideale, piani bruscamente interrotti dal disastro militare. Finiranno entrambi a Piazzale Loreto. Nicola Bombacci, fucilato in quanto “supertraditore” (del Comunismo), verrà cancellato dalla storia per l’imbarazzante verità che la sua vicenda avrebbe svelato agli occhi degli operai italiani: l’unico vero Socialismo mondiale fu realizzato in Italia e portava la firma di Benito Mussolini. Recensione curata per Ilduce.net da: Luigi Vatta il 6 ottobre 2013.

Nicola Bombacci, il comunista in camicia nera ucciso dai “liberatori”, scrive Francesco Carlesi il 25 aprile 2016 su "Il Primato Nazionale". Oggi sono 71 anni di “liberazione”: la cultura ufficiale si scatena nelle celebrazioni e il mondo politico si ricompatta sotto la sempreverde bandiera dell’antifascismo. Ma il 25 aprile 1945, insieme al Duce non moriva solo la repubblica di Salò erede del Ventennio, ma anche una serie di esperienze e personaggi la cui traiettoria “fuori dagli schemi” è stata dimenticata. Uomini che avevano capito che dietro la caduta del fascismo si celava una trappola: la subordinazione dell’Italia a Stati Uniti e Unione Sovietica e la fine di ogni “sogno socialista”, di cui le riforme mussoliniane del ‘44 erano un piccolo quanto ardito esempio. Nicola Bombacci è stato il più fulgido e allo stesso tempo controverso simbolo di questo mondo, capace di compiere un itinerario unico, dal comunismo al fascismo sempre al motto di “Viva il socialismo!”. Un rivoluzionario e un dissidente nel vero senso del termine, perfettamente indicativo dei fermenti che hanno animato il nostro paese nella prima parte del secolo scorso. Passioni che oggi, stretti tra pregiudizi e gabbie mentali, fatichiamo incredibilmente a comprendere. Per questo vale la pena, proprio in questi giorni, ripercorre d’un fiato la vita e le idee di Nicolino, come era soprannominato dai compagni Bombacci. Romagnolo e socialista come Mussolini, fu un importante esponente dell’ala massimalista del Psi. La sua strada e quella del futuro Duce si divisero in occasione del primo conflitto mondiale: Bombacci si schierò contro l’intervento, allineandosi stranamente per una volta alle scelte ufficiali dei capi del socialismo italiano, con cui spesso era in polemica. Al termine della guerra divenne addirittura segretario del partito, per poi fondare il Partito Comunista d’Italia nel 1921. Anche qui si distinse per le posizioni anticonformiste: prima appoggiò entusiasticamente l’occupazione dannunziana di Fiume, poi propugnò l’avvicinamento del Fascismo all’Urss, nel nome dell’anticapitalismo che caratterizzava entrambe le rivoluzioni. Si trattava di un personaggio scomodo sia per i fascisti avviati alla conquista del potere quanto per i suoi stessi compagni di partito, da cui fu espulso nel 1927. Togliatti, dall’alto della sua cieca ortodossia, addusse quale motivazione la colpa di non essere abbastanza marxista e di volere “tutto e subito”. Secondo lui un vero comunista non avrebbe dovuto affidarsi all’ “azione diretta” di marca soreliana, ma creare le condizioni per lo sviluppo ed il crollo del sistema capitalista. Curioso che Togliatti non si avvedesse del fatto che l’Urss, ove lui risiedeva ed il comunismo era al potere, fosse all’epoca della Rivoluzione d’Ottobre uno Stato post-feudale. Ma per Bombacci gli spiragli politici non erano del tutto chiusi. Mussolini aveva riconosciuto ufficialmente l’Urss nel 1924, tra i primi leader europei. Questa scelta, dettata soprattutto da interessi economici, fu accolta con entusiasmo dal fondatore del Partito Comunista d’Italia, che cercò, tra molte difficoltà, di portare il suo contributo ideale all’interno del dibattito culturale italiano. Interessanti a questo proposito le sue posizioni riguardo al corporativismo ed alla Guerra d’Etiopia. Egli riconobbe alla politica economica fascista una maggiore efficacia rispetto ai provvedimenti attuati in Urss, apprezzando i primi risultati raggiunti dal regime. Ancor più sorprendente la sua lettura del conflitto coloniale italiano, che Bombacci descrisse come il naturale proseguimento sul piano geopolitico del conflitto tra “popoli giovani” e plutocrazie capitaliste. Una tesi che portava alla mente le teorizzazioni del capo dei nazionalisti italiani Enrico Corradini, riassumibili nell’equazione: “proletari contro capitalisti = lotta di classe; popoli poveri contro popoli ricchi = nazionalismo”, datata 1910. Nel 1936 l’impegno di Nicolino fu finalmente riconosciuto grazie all’uscita della rivista “La Verità” (traduzione della Pravda sovietica), da lui diretta e punto di incontro di molti esponenti del vecchio mondo socialista. È in questo stesso periodo che Palmiro Togliatti pubblica il famoso “appello ai fratelli in camicia nera”, in cui cerca un terreno d’incontro tra comunisti e fascisti sul programma di S. Sepolcro del 1919. Nel frattempo una personalità del calibro del filosofo Ugo Spirito, che vedeva di buon occhio un avvicinamento tra le due rivoluzioni, aveva dato il suo contributo elaborando la teoria della “corporazione proprietaria”, auspicando il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, per la definitiva distruzione delle logiche del sistema capitalista. E poi come non menzionare il tentativo di Ivanoe Bonomi, membro storico del parlamentarismo prefascista, di fondare l’ “Associazione socialista nazionale”, assieme agli ex deputati Bisogni, D’Aragona e Caldara, disposti a collaborare con il regime. Una serie di fermenti quanto mai interessanti e degni di nota, anche se allo scoppio della Guerra di Spagna i rapporti tra Italia ed Urss tornarono più che mai tesi. Pochi anni dopo, nel momento del breve idillio Stalin-Hitler, fu proprio “La Verità” (che continuerà ad uscire pressoché ininterrottamente fino al 1943, nonostante l’avversione degli intransigenti Farinacci e Starace) ad esprimersi favorevolmente a questa convergenza, in un’Italia fascista comprensibilmente disorientata. Già dieci anni prima “Roma e Mosca o la vecchia Europa?” era stato l’intrigante titolo di un lungo dibattito sulle colonne di “Critica Fascista”. “Eppure giorno verrà, in cui il sovieto, permeandosi di spirito gerarchico e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale”, scrisse Walter Mocchi su “La Verità” del 13 ottobre 1940. Ma la guerra andò in una direzione totalmente differente, fino al disastro del 1943 e la rinascita del Fascismo con la Rsi, Bombacci, che non ebbe mai la tessera del Pnf, si schierò da subito con la decisione che lo caratterizzava: “Duce, già scrissi in “La Verità” nel novembre scorso – avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di Voi – sono oggi più di ieri con Voi. Il lurido tradimento del re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i componenti di una destra pluto-monarchica del ’22″, affermò perentoriamente in una lettera a Mussolini. L’analisi sopra contenuta conteneva grani di verità: liberati dalle “forze della reazione” (la “destra” interna opportunista e conservatrice), i fascisti stilarono i 18 punti di Verona e diedero inizio alla socializzazione, per lasciare ai posteri un messaggio di civiltà. Le realizzazioni furono comprensibilmente incomplete, per ovvi motivi di tempo e l’ostilità di taluni esponenti di governo e dei tedeschi. Inutile dire che Bombacci si batté entusiasticamente a favore delle riforme, impegnandosi non solo nelle fabbriche ma anche nelle politiche della casa. A questo proposito si impegnò per la stesura e l’attuazione del rivoluzionario punto 15 del Manifesto di Verona: “Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il partito iscrive nel suo programma la creazione di un ente nazionale per la casa del popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto. Come primo compito, l’ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie». Il “canto del cigno” di Bombacci avvenne nel marzo 1945, quando a Genova tenne un comizio a cui accorsero ben trentamila operai, nonostante la fine della Repubblica Sociale fosse ormai questione di giorni. Erano ancora in tantissimi a voler ascoltare le parole rivoluzionarie di questo “combattente sociale”, le cui scelte furono spesso controcorrente ma mai opportunistiche. Quando morì accanto al Duce, gridò in faccia ai suoi assassini il motto della sua vita: “Viva il socialismo!”. E così proprio lui, quello del “me ne frego di Bombacci/ e del sol dell’avvenire” cantato dai giovani fascisti, scelse di dare tutto al fianco di Mussolini, nel nome del riscatto sociale di una nazione intera. Nel dopoguerra non pochi esponenti (tra quelli rimasti, viste le vendette dei partigiani) di quella “sinistra fascista” che aveva avuto mirabili esempi nei sindacati e nei Guf, confluirono nel Pci, opportunisticamente alla ricerca di quadri competenti per il partito. Il Msi invece nacque tenuto ostaggio dalla “destra”, come ha riportato nei suoi scritti Giuseppe Parlato. Ed infatti, in assenza di colui che aveva saputo tenere in equilibrio le diverse tendenze durante il Ventennio, i “continuatori” del fascismo troppo spesso fecero scelte non in linea con il loro passato. Ma questa è un’altra storia. Francesco Carlesi

PIETRO INGRAO COMPIE 100 ANNI, PRIMA FASCISTA POI COMUNISTA, LA BOLDRINI LO INDICA COME UN ESEMPIO DI COERENZA DEMOCRATICA, scrive il 31 marzo 2015 Valerio Melcore. Auguri a Pietro Ingrao che compie 100 anni. Uno dei più longevi uomini politici italiani. Nato della provincia di Latina da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Di lui si sa quasi tutto, è noto per essere stato all’interno del PCI uno dei compagni più duri. Ha ricoperto diversi e prestigiosi incarichi sia nel Partito comunista che nel Parlamento italiano. Quel che invece non viene detto, per ovvi motivi, e che da giovane, nonostante le tradizioni antifasciste della sua famiglia, aderì con entusiasmo al Fascismo. Tanto è vero che il secondo premio di poesia ai littoriali della cultura dell’anno XIII° và ad un ventenne del GUF di Roma, Pietro Ingrao, per la poesia STAGIONE, il testo viene pubblicato dal giornale di Telesio Interlandi “Quadrivio”. Il 16 settembre 1934 vince, ai bagni di Lucca, il premio di G. Ciano “I poeti del tempo di Mussolini”. Il 28 aprile 1935 partecipa ai Littoriali del 1935 con il GUF di Littoria, in qualità di fiduciario del GUF di Formia. Risulta 10°, dopo Liugi Longo, al Convegno di Organizzazione Politica del Partito Nazional Fascista, del 1935. Come scrive lo storico Aldo Giannuli sul suo blog: “Eterno secondo ai littoriali fascisti della cultura, Pietro Ingrao appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e che scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si tratta di un tema a lungo eluso, direi esorcizzato, dal Pci, come da tutti i partiti antifascisti, che avevano nel proprio seno, chi più chi meno, uomini passati per il medesimo cammino. E se ne comprende il motivo: il bisogno di presentare la nuova classe politica repubblicana in totale rottura con il passato fascista, reagendo con gelido disprezzo alla pubblicistica fascista (ad esempio “Italia fascista in piedi!” di Nino Tripodi) che sottintendeva, invece, conversioni opportunistiche all’antifascismo. Questo portava alla rimozione del tema ed all’enfatizzazione dell’antifascismo come negazione assoluta ed incontaminata del fascismo. In realtà le cose non stavano così (ne riparleremo) e il fascismo seminò concetti, che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana. La cosa non deve né stupire né scandalizzare (come invece accade ad una recente pubblicistica, cito per tutti il lavoro di Mirella Serri “I Redenti” che pure si basa su un’ottima ricerca d’archivio): la storia ha i suoi tornanti e le culture politiche sono corsi d’acqua che spesso si contaminano, magari attraverso passaggi carsici.” Ma leggiamo ancora sul blog aldogiannuli.it . “Ingrao, in particolare, fu influenzato dalla figura e dal pensiero di Giuseppe Bottai, il maggior intellettuale del regime (Fascista) ed, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni: dalle sue riviste presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post fascista ed antifascista, come Salvatore Quasimodo, Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Luigi Salvatorelli, Giorgio Spini, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale e decine di altri. E diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza. Quella di Bottai fu una sorta di serra degli eretici, della quale, eretico egli stesso, si compiacque. E proprio questo tratto di dirigente politico-intellettuale con vocazione all’eterodossia fu, forse inconsapevolmente, quello che affascinò il giovane Ingrao. Ad avvicinare queste due figure inconsuete del Novecento italiano, non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza (per la verità, più spiccata nel secondo che nel primo), una certa sofisticatezza intellettuale, l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca. Ma da questi stessi tratti discesero per entrambi anche il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio.” Insomma Pietro Ingrao fu tante cose prima Fascista poi Comunista, essere definito, come ha fatto la Boldrini, “un esempio di coerenza democratica”, forse non sarebbe piaciuto neanche a lui. Auguri a questo anziano politico del passato millennio.

Benito Mussolini Socialista, Italia Comunista, ovvero: il Biennio Rosso, scrive Homer (Daniele Novati). Ho sempre pensato con un certo interesse ad un Mussolini ancora socialista prima della Grande Guerra (come del resto era, e pure direttore dell'Avanti) e ancora socialista dopo di essa. Le agitazioni postbelliche di tipo rosso del 1919-1920 in Italia sono molto forti e hanno un peso specifico notevole. Tra l'altro il PSI nel novembre del 1919 era il primo partito con il 32% delle preferenze, quasi tutte le fabbriche del nord erano occupate e più di 400000 lavoratori occuparono gli stabilimenti del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova). Mussolini, da socialista convinto si lancia con entusiasmo nella lotta di classe, che sfocia rapidamente in una guerra civile, ma andiamo con ordine:

1918: Il 4 Novembre l'Italia forza l'Austria Ungheria all'armistizio. Intanto in Russia crescono i fermenti bolscevichi, che iniziano a prendere il paese in mano con aspri combattimenti contro le forze “Bianche” e le truppe delle nazioni borghesi. L'Ala Massimalista del Partito Socialista prende la maggioranza su quella Riformista, ben salda nelle mani di Serrati, alla quale aderisce anche Mussolini, sebbene la minoranza riformista Turatiana sia ancora forte e la crescente corrente comunista guadagna sempre più consenso.

1919: Si aprono i lavori della Conferenza di Versailles: l'Italia ottiene Trento, Bolzano, Trieste e parte dell'Istria, ma non Fiume. Forte delusione nazionalista, e aumentata dal carovita e dal ritorno dei reduci dal conflitto, la situazione si fa esplosiva. I Sovietici conquistano l'Estonia in Gennaio, si ritirano da essa nel tardo gennaio e ad inizio febbraio invadono la Ucraina e la occupano, e a metà del mese dichiarano guerra alla Polonia. In Marzo Lenin e Trotskij aprono i lavori della Terza Internazionale Comunista, che chiede l'espulsione dell'ala riformista dal PSI. In questo mese l'Ungheria si costituisce come repubblica socialista; e Benito Mussolini, sempre più fervente massimalista, tendente al comunismo ormai organizza le Squadre di Autodifesa Operaia (SAO) a Milano. In Aprile la Baviera si rende indipendente dalla Germania e diviene una repubblica socialista: sullo slancio del momento è proclamata a Milano una Repubblica Socialista Milanese, il cui triumvirato è composto dallo stesso Mussolini, Serrati e Turati (un componente per ogni corrente del partito, sebbene i Comunisti ormai stiano assorbendo i Massimalisti). Gramsci fonda l'Ordine Nuovo, giornale della corrente Comunista del PSI, che esorta alla lotta. Il Governo Orlando cade in seguito alle agitazioni nelle fabbriche e nelle campagne del Nord, dove i “Rossi” sono molto forti, gli succede Nitti, che proclama lo stato d'assedio a Milano, Genova e Bologna. In Maggio la Germania schiaccia i socialisti rivoluzionari bavaresi e in luglio è restaurata la monarchia in Ungheria, con la reggenza dell'Ammiraglio Horthy. In settembre, reduci, arditi, nazionalisti e teste calde (circa 2500 volontari) attaccano Fiume sotto il comando di D'Annunzio, vengono massacrati dall'Esercito Italiano. La città verrà assegnata all'Italia insieme a Zara e a numerose isole e località dalmate nel 1920. Ad Ottobre, nella Bologna sotto stato d'assedio la corrente comunista è maggioritaria ed espelle i riformisti dal partito, assorbendo la linea Massimalista al proprio interno nasce il nuovo Partito Comunista d'Italia. Le nuove linee guida sono quelle rivoluzionarie e gli operai si armano. Si diffonde capillarmente nelle città il movimento mussoliniano, che organizza ovunque gruppi di difesa delle fabbriche sotto occupazione, con il solo compito di cacciare le forze governative.

1920: Forze Comuniste e Socialiste Rivoluzionarie arrivano ad occupare l'intera Milano, parti di Torino (con la FIAT in mano agli operai dal tardo dicembre), numerose fabbriche in tutto il Nord, la Città di Bologna e vaste porzioni di Romagna e Toscana. I Governativi e i movimenti nazionalisti che si riconoscono nella tentata Impresa di Fiume sono la reazione agli scioperi e alle occupazioni. A Milano il 2 Febbraio si costituisce il governo provvisorio della neonata Repubblica Socialista d'Italia nella quale il socialista rivoluzionario Mussolini è vice commissario generale. Il Commissario Generale è il comunista Amadeo Bordiga. In Luglio, dopo agitazioni rivoluzionarie nel Triveneto le forze nazionaliste di Francesco Giunta bruciano l'Hotel Balkan a Trieste, in tutta risposta le forze rivoluzionarie occupano numerose città venete come Verona e Monfalcone, e la stessa Trieste. La rivoluzione prosegue e si diffonde anche nel Centro Sud, i braccianti si ribellano in tutta la Puglia e la Sicilia, mentre a Canneto Sabino (RI) i Carabinieri sparano sui braccianti che chiedevano una revisione del contratto colonico lasciando undici morti sul terreno. La figura del Re è sempre più compromessa agli occhi della popolazione e il governo Liberal-Popolare minaccia d'espellere i deputati del ex-PSI dal parlamento. Alla seduta successiva tutti i deputati socialisti rivoluzionari e comunisti si dimettono dalla carica e dichiarano decaduto lo stato monarchico italiano. Molti di loro vengono catturati. A macchia d'olio, nel tardo 1920 i Rivoluzionari controllano quasi tutta l'Emilia-Romagna e le Marche odierne, la Bassa Lombardia con Milano, Torino, Genova e numerose località liguri, L'entroterra veneto tra Verona e Treviso, oltre a importanti città friulane come Monfalcone, Cividale, Pordenone e Trieste. La Toscana è quasi del tutto in mano ai rivoluzionari e aree agricole di Puglia, Lazio, Abruzzo e Sicilia sono cadute in mano ai ribelli. Gli Alleati dell'Intesa si affrettano a sostenere i nazionalisti quando si accorgono che il Re è ormai totalmente senza poteri, il governo liberal-popolare è debolissimo e l'esercito è allo sbando, con diserzioni vicine al 40% del totale. Per loro è troppo tardi, le forze nazionaliste dannunziane vengono sconfitte nella Bassa Veneta da una sommossa popolare in seguito al tentato omicidio del deputato Matteotti, riconosciuto come animatore delle lotte nel Polesine. Il consenso verso i nazionalisti è al minimo storico e la fiducia nella monarchia è quasi del tutto un ricordo, i vecchi alleati si presentano restii ad un intervento e perciò la situazione volge rapidamente a favore dei Comunisti e dei Socialisti Rivoluzionari, che si preparano a controllare tutto o quasi il Norditalia nel 1921.

1921: A Livorno si apre il primo congresso del Partito Comunista: ne emergono le importanti figure di Gramsci, Terracini e Bordiga, senza contare quella ingombrante del capo delle SAO, Benito Mussolini. Dal congresso nasce il nuovo giornale di partito, il Comunista, e la linea di condotta di avvicinamento all'URSS; iniziano le collettivizzazioni, gli espropri e il passaggio nel Centro Nord ormai sotto controllo Comunista ad un'economia socialista con elementi della NEP Leninista. Si programma inoltre l'apertura a Milano della nuova Università Proletaria per tutti coloro che saranno meritevoli d'un istruzione superiore anche se non nelle loro possibilità. Il Governo Provvisorio della Repubblica Socialista d'Italia è riconosciuto dall'URSS. Vengono organizzate regolari elezioni nei vari Gruppi Sociali (Soviet) dell'Italia Rivoluzionaria: ne emerge un monocolore comunista a parte la presenza del Socialista Rivoluzionario Mussolini che ottiene il Commissariato della Lotta, (Ministero della Difesa), mentre Gramsci lo sostituisce come Vice Commissario del Popolo, e Bordiga è confermato Commissario Generale del Popolo. La Linea guida del nuovo governo è dura: espropri agli agrari, cessione del controllo delle fabbriche ai Gruppi Sociali di Lavoro (GSL) degli Operai, passaggio della terra alle Comunità Agricole Sociali (CAS), riforma economica, concessione della giornata lavorativa di otto ore, delle malattia, della maternità e della previdenza sociale. Dal punto di vista militare, le SAO confluiscono nel ben più ampio e progettato esercito, l'Armata Rossa Italiana. La Repubblica Socialista controlla tutto il Norditalia in giugno e insedia suoi Commissari del Popolo nelle Prefetture, la Armata Rossa di Mussolini sta schiacciando i nazionalisti e i realisti che si difendono ancora in Valtellina e Carnia, mentre in Toscana, Marche ed Emilia Romagna la situazione è ormai sotto controllo degli insorti. Più a sud dei CAS sono sorti nel Basso Lazio, in Abruzzo, in Puglia e Sicilia, mentre GSL tengono sotto controllo diverse industrie nelle città di Bari, Taranto, Palermo e Napoli. I Liberal-Popolari che controllano ormai solo Roma, la Sardegna, parti dell'Umbria e della Campania, e vaste zone del meridione sono ormai debolissimi e al governo Nitti è sostituito da Facta. Vittorio Emanuele II chiede il supporto degli ex alleati della Prima Guerra Mondiale, ma questi non si vogliono impegnare in un conflitto direttamente, e rispondono picche sebbene stiano aiutando con armi, munizioni e supporto logistico i nazionalisti che si annidano nel Nordest. L'Alto Adige, appena annesso si dichiara per plebiscito austriaco e caccia gli Italiani in Trentino, l'Austria vede la regione dichiararsi indipendente anche se la Società delle Nazioni la assegnerà all'Austria nel 1925. In Novembre le prime riforme diventano operative: la creazione dei GSL non causa molti problemi a causa delle fabbriche occupate fin dal tardo 1919, per quanto riguarda la creazione dei CAS si hanno maggiori problemi perché spesso gli agrari usano delle milizie di sbandati, teste calde e nazionalisti esagitati per difendere le proprie terre e così molte volte bisogna ricorrere alle armi. La giornata lavorativa di otto ore e 15 giorni di malattia vengono riconosciuti ai lavoratori, nei GSL e nei CAS il diritto di voto diviene a suffragio universale, anche femminile. Si progetta la riorganizzazione del governo del territorio, con GSL e CAS riuniti in un'entità più grande, il Settore (Comune) a loro volta riuniti in una nuova suddivisione chiamata Zona (Circondario), che ha un Commissariato del Popolo come centro principale (Prefettura e Provincia). Forze Francesi vengono scoperte nel tentativo di invadere la Valle d'Aosta e le Valli Piemontesi, perciò scoppia la guerra tra Italia Rivoluzionaria e Francia. In quest'anno migrano dall'Italia rivoluzionaria circa duecentomila membri della Borghesia, Agrari e Nobili, ma anche semplici nazionalisti. I Rivoluzionari battono i Francesi a Susa e a Ventimiglia, cacciandoli fuori dai confini nazionali e arrivando ad occupare Mentone e Modane. La Francia riconosce la Repubblica Socialista, che ritira le forze dalla Francia, sebbene Mussolini sia fermamente contrario e chiedeva di estendere la rivoluzione proletaria anche a quei paesi italiani fuori dall'Italia stessa. I successi della riorganizzata Armata Rossa portano alla conquista di Viterbo, Perugia e Teramo, mentre nel Sud la rivolta si fa sempre più accesa.

1922: Viene fondato a Monza l'Istituto Superiore d'Industrie Artistiche, Achille Ratti viene eletto Papa, mentre il 3 Aprile Stalin diviene Segretario del PCUS. Forze Rivoluzionarie marciano su Roma, Re Vittorio Emanuele si imbarca su un piroscafo ad Ostia e si rifugia in Sardegna con il suo entourage. Le forze dell'Armata Rossa guidate da Mussolini sfilano nei Fori Imperiali, mentre nel sud la resistenza monarchica e nazionalista è piegata con la forza, con le vittorie rivoluzionarie del Novembre 1922 a Modugno e a Sibari. I pochi realisti rimasti, i nazionalisti, gli agrari e la borghesia, ma anche numerosi cristiani fuggono dall'Italia Socialista, che si estende dalle Alpi alla Calabria, mentre il Re controlla Sardegna e Sicilia. L'Italia è riconosciuta dalla Svizzera, mentre Squadre di Autonomi conquistano San Marino e ne dichiarano l'annessione all'Italia. Nel tardo 1922 Mussolini tenta il colpo di mano per diventare Dittatore del Popolo, ma né Gramsci, né Bordiga, né Matteotti gli permettono di compierlo e così Mussolini, l'idolo dell'esercito ed eroe della rivoluzione è costretto a fuggire dal proprio paese in Svizzera. (Si noti l'analogia con Trotskij, sebbene quest'ultimo non tentò mai di assumere la leadership dell'Unione Sovietica). A Dicembre i rivoluzionari hanno terminato la suddivisione del paese in zone, settori, gruppi sociali di lavoro e comunità agricole sociali, istituendo le elezioni del Commissariato Generale nel Maggio 1923. Regno Unito, Repubblica di Weimar e numerosi paesi sudamericani, oltre al Commonwealth riconoscono la Repubblica Socialista Italiana. Sul piano delle riforme viene organizzato un abbozzo di previdenza sociale sotto il Commissario alle Necessità Popolari Terracini, vengono nazionalizzati i beni stranieri sul suolo italiano, con il disappunto Inglese, viene inoltre varato il Primo piano quinquennale, con il fine di aumentare la produzione industriale e di raggiungere l'autonomia agricola. Dal punto di vista diplomatico dopo i vari riconoscimenti del nuovo stato italiano, il Commissario agli Esteri, Palmiro Togliatti, si reca a Mosca per conferire con il neo segretario del PCUS Stalin, riguardo una alleanza dei due paesi socialisti in funzione antiborghese e anticapitalistica. Alcune collettivizzazioni nel Centro Sud si rivelano più difficili del previsto e diversi scontri avvengono tra i pochi piccoli proprietari e i braccianti. In quest'anno abbandonano il paese circa trecentomila persone, mentre la guerra civile ha ucciso circa quattrocentomila persone.

1923: Riorganizzazione ulteriore all'interno dello Stato, viene fondata la città di Garibaldi (la nostra Imperia), vengono aboliti ufficialmente i partiti differenti dal PCI il 10 febbraio sono sciolti dal commissariato Bordiga, che stava in quel periodo concludendo il proprio mandato popolare: si presentano quattro “liste” alle elezioni del Maggio 1923:

- Sinistra (candidato Commissario Amadeo Bordiga), posizioni molto internazionaliste, vuole una abolizione del centralismo democratico dell'URSS adottato finora e l'adozione del sistema del centralismo organico, che consisteva nell'utilizzo delle varie cellule del partito in modo quasi biologico e simbiotico che partecipano insieme al tutto e quindi alla organizzazione e gestione dello stato.

- Centro (candidato Commissario Antonio Gramsci), posizioni più moderate riguardo l'internazionalismo, sebbene sia molto importante questa componente all'interno della corrente, moderatamente approva una bolscevizzazione ulteriore del partito e del paese. Sostiene il centralismo democratico Leninista.

- Destra (candidato Commissario Angelo Tasca), posizioni meno forti e apertura ad una possibile creazione di liste non comuniste e quindi non del PCI. Antistalinista e con posizioni vicine alla vecchia ala massimalista.

- Ex-Socialisti (candidato Commissario Giacinto Menotti Serrati), ultimi superstiti degli ex-massimalisti, fortemente antistalinisti, posizioni tiepide verso Lenin, per un ritorno alla democrazia popolare e un'attuazione meno dura della rivoluzione.

I voti delle 167 Zone esistenti si distribuirono in questo modo:

- 87 Commissari per la Sinistra (52,09%)

- 41 Commissari per il Centro (24,55%)

- 25 Commissari per la Destra (14,97%)

- 14 Commissari per gli Ex-Socialisti (8,39%)

Questo comportò la rielezione di Bordiga per la terza volta a Commissario Generale del Popolo, come Vicecommissario venne scelto Palmiro Togliatti, alle Necessità Popolari (Lavoro, Sanità, Scuola) venne posto Grieco, alla Lotta (Difesa,Ordine Pubblico) Terracini,  agli Esteri Antonio Gramsci. In Germania il nazionalsocialista Adolf Hitler prende il potere del Lander di Baviera, vincendo le elezioni con il NSDAP.

1924: Muore Lenin, gli succede Stalin. Cordoglio di tutto il PCI e del governo Socialista Italiano. Nasce il giornale dell'Unità, fondatore il Commissario agli Esteri Gramsci. Il commissario di Rovigo, componente del gruppo Ex-Socialista, Giacomo Matteotti viene ucciso da forze della sinistra del PCI, crisi politica; la Sinistra perde una ventina di commissari che si dimettono in seguito alle indagini, che li ritrovano collusi, Bordiga mantiene il governo, ma è costretto a concedere numerosi compromessi al Centro Gramsciano, che porta a termine il proprio piano di partecipazione democratica al partito e quindi al governo del paese. Homer

Ed ecco ora la continuazione di Ainelif: (Pivo Squash)

1925: Il plebiscito che anni prima aveva sancito il ritorno del Trentino Alto-Adige all'Austria è impedito da una reazione di alcuni soldati italiani posizionati in Lombardia e Veneto che occupando le strade di Trento appendono la bandiera italiana con la falce e il martello sul municipio. Il governo di Vienna invita gli Italiani a ritirarsi dalla regione altoatesina e si affida alle sanzioni della SdN, sperando che essa sappia domare lo spirito irredentista della rossa Italia; ma l'Armata Rossa Italiana il 3 gennaio ben riammodernata quasi al livello delle grandi potenze occidentali travolge le fanterie austriache sul confine ed entra prima a Trento e poi a Bolzano dove è cancellata ogni segnaletica germanica e perseguitata duramente la tedescofilia; l'Austria, uno dei paesi più sconfitti della Prima Guerra Mondiale non può che accettare e rimanere muta di fronte alla riannessione italiana del Trentino Alto-Adige, successivamente la Repubblica Socialista Italiana esce dalla Società delle Nazioni che vi era entrata pochissimi anni prima. Il Commissario Bordiga esautora il Parlamento e dichiara di volersi impossessare delle colonie d'oltremare di Libia, Eritrea, Dodecaneso e Somalia; ma difetta del problema di bolscevizzare l'intero corpo militare italiano ed eliminare il rimanente Regno Sabaudo ridotto alle sole Sicilia e Sardegna. Inizia l'instaurazione di una dittatura comunista nazionale, come la definisce Togliatti "Via Italiana al Socialismo" che è incaricato da Bordiga di sciogliere ogni partito politico che non sia di ispirazione radicale di sinistra; le SAO mussoliniane compiono stragi efferate in Emilia-Romagna nei confronti di nobili ed aristocratici che rifiutano al dover rinunciare ai propri beni e titoli, è il caso dei Visconti e Sforza che sfuggono alle persecuzioni sempre in Francia e Austria. Per quanto riguarda le elezioni, una speciale legge le abolisce sostituendole con dei plebisciti popolari; il Commissario del Popolo però è vista come una carica politica debole, quasi facilmente corruttibile e deponibile dalle forze "reazionarie" esterne occidentali così, il Ministro degli Interni, Gramsci crea il Gran Consiglio del Popolo, formato dai massimi esponenti del Partito.

1926: Alcide De Gasperi, il nuovo segretario del Partito Popolare Italiano aizza i partigiani cattolici nel loro movimento clandestino anticomunista Giustizia e Libertà, una formazione che riunisce anche i Liberali; in più lo stesso leader cattolico centrista ha preso la cittadinanza a Parigi insieme al repubblicano Randolfo Pacciardi e a monarchici come Italo Balbo e il celebre poeta Gabriele d'Annunzio. L'Italia Socialista viene ad essere in conflitto con la Spagna di Miguel Primo De Riviera appoggiato dal Re Alfonso XIII di Borbone per l'abisso ideologico e politico; il Frent Popular spagnolo è finanziato dal regime comunista italiano al fine di sovvertire il sistema politico iberico e trovare un forte alleato. Il governo portoghese per non cadere ad una rivoluzione rossa dà la propria accondiscendenza ad Antonio De Oliviera Salazar, che a Lisbona trasforma la debole repubblica portoghese in regime fascista. Hitler costruisce un regime totalitario nazista dove promulga le prime leggi razziali a danni di ebrei, comunisti, e democratici, la Baviera diventa uno degli stati più ricchi del Mitteleuropa.

1927: Il regime dittatoriale staliniano avvicina la R.S.I. alle politiche moscovite, ma Bordiga nega un'influenza politica sovietica su quella italiana. Mussolini dopo essersi ripreparato in territorio svizzero con purghe delle SAO diventa Alto Generale dell'Armata Rossa Italiana che con il consenso del governo centrale inizia una guerra personale contro la monarchia sabauda sbarcando a Messina nel mese di maggio; i Siciliani sono in maggioranza anticomunisti ferventi e non accettano l'ascesa della R.S.I., i Savoia fomentano i banditi siculi e latifondisti sull'isola contro l'Armata Rossa Italiana che commette crimini fuori dal comune e impicca Salvatore Giuliano (nella Timeline più vecchio) a Palermo dopo aver conquistato ogni angolo della Trinacria. In pochi mesi, gli incrociatori italiani circondano la Sardegna, il Re Vittorio Emanuele III chiamato satiricamente dai rossi "Re Sciaboletta" non si arrende e difende per mare e per terra la sua residenza a Cagliari dove l'11 agosto viene fucilato per ordine del nuovo Dittatore del Popolo, Benito Mussolini che ha provveduto ad emarginare Amedeo Bordiga nel ruolo di Commissario delle Colonie d'Oltremare dopo che i Savoia sono stati dichiarati decaduti; nella notte fra il 13 e il 14 agosto, il legittimo erede al trono Umberto II con Maria Josè del Belgio fuggono a Londra con i più fedeli monarchici e l'avvocato reale Falcone Lucifero. L'esercito italiano provvede ad occupare tutte le colonie oltre il Mediterraneo, con migliaia di deportazioni di oppositori libici ed abissini al comunismo nazionalista del "Duce". Trattato di mutua non-aggressione di Addis Abeba tra Repubblica Socialista d'Italia e l'Impero Abissino in ottobre. In Albania, Zogu instaura una repubblica eleggendosi presidente a vita e poi autoproclamandosi re, inimicandosi la vicina Italia che cerca nuove zone dove esportare la rivoluzione.

1928: in marzo occupazione di Tirana da parte delle truppe italiane, alcuni navigli entrano nelle baie di Durazzo e Valona bombardando la costa per impaurire gli Albanesi che hanno provveduto ad organizzare sotto dettatura del Re Zog I una guerriglia civile sulle montagne destinata a dilungarsi oltre questo anno. Sanzioni da parte della SdN all'Italia che si riavvicina all'Unione Sovietica e alla Repubblica Popolare Tedesca; la Baviera Hitleriana e la Polonia di Pilsudki il 3 febbraio si alleano militarmente nel Patto Monaco-Varsavia con la visita del Fuhrer bavarese nella capitale polacca. Il Re Paolo II di Jugoslavia posiziona alcune sue legioni militari ai confini albanesi insieme alla Grecia che vede a rischio la propria integrità territoriale nella penisola balcanica. 1929: Venerdì Nero negli USA, si scatena la Grande Depressione con il crollo di Wall Street a New York; milioni di elettori statunitensi non fidandosi dei partiti della sinistra americana che alcune voci infangano accusandola di voler instaurare un regime comunista nel Nordamerica danno la propria fiducia ai Repubblicani di Herbert Hoover, simpatizzante dei regimi autoritari di destra europei, è sconfitto il simpatizzante stalinista Franklyn Delano Roosvelt dei Democratici. In seguito alla crisi falciatrice che devasta anche i Paesi scandinavi, in Norvegia il Re Olaf dà il proprio consenso al nazionalista Vidkun Quisling che provvede ad annunciare prima ad Alesund e poi ad Oslo la costituzione dell'Impero Norvegese, rivale delle vicine Danimarca e Svezia.

1930: In questo anno, i disastri della Grande Depressione si sentono maggiormente in tutta l'America e in Europa. In Francia le proteste operaie e contadine a Lione, Parigi e Marsiglia si dimostrano più violenti ed aggressivi; il governo italiano vedendo la situazione prende contatti con Maurice Thorèz, capo dei Comunisti Francesi per sovvertire la Terza Repubblica, il premier Andrè Tardieu estromette la sinistra radicale dall'Assemblea Nazionale di Parigi provocando una grave scissione politica oltrechè una crisi senza precedenti. Stalin vorrebbe fornire a Thorèz equipaggiamenti sovietici per scatenare una guerra civile in Francia ed eliminare la "presenza reazionaria". In Spagna, il Re Alfonso XIII vede l'incapacità politica di De Riviera e lo licenzia, i problemi principali del paese sono ancora evidenti e alle elezioni municipali i movimenti di sinistra repubblicana del Frent Popular guidati dal "Lenin spagnolo" Francisco Largo Caballero e da Juan Negrìn in aprile ottengono un grande successo elettorale. La monarchia grida ai brogli ed Alfonso XIII non abdica e dunque non prende nemmeno la strada per l'esilio, rimane sul trono e più determinato che mai si ostina a voler un democratico referendum; i comunisti più estremisti non accettano compromessi con lo stato borghese; l'8 giugno scoppia la Guerra Civile Spagnola anticipatamente alla nostra Timeline, il vicino Portogallo sotto il regime di Salazar non interviene ma è favorevole alla vittoria dei Franchisti, che si sono riuniti sotto l'emblema falangista e di destra di Francisco Franco Bahamonde, già governatore delle Canarie. Totale annientamento degli ultimi ribelli libici nel Fezzan da parte della poderosa operazione militare varata dal Generale Graziani per italianizzare la Libia, la dinastia dei Senussi ripara a Il Cairo.

1931: Manifestazioni studentesche di protesta a Washington contro il presidente Hoover che in segreto aveva visitato la Monaco di Hitler rimanendo impressionato dall'architettura nazista e dai suoi progetti politici. L'Armata Rossa Italiana occupa il Canton Ticino ricevendo minacce economiche e sanzioni dalla Svizzera e dalla SdN. Mussolini annuncia insieme a Stalin in visita a Roma di dichiarare guerra alla Falange franchista e sostenere i repubblicani, viene approvato dal Gran Consiglio del Popolo l'invio di ingenti soldati italo-sovietici in Spagna. Il 20 agosto Edouard Herriot, Premier di Francia, incapace di reggere le sorti di estremi fanatismi che si contendono il potere del paese si ritira dalla vita politica e dà il posto governativo con un plebiscito speciale in Parlamento a Henri-Philippe Pètain, già prossimo alla pensione ed eroe militare nel primo conflitto mondiale contro i Tedeschi. Col suo esercito personale dei Maquis (in questa Timeline sono la versione delle SS in francese) aveva annientato 50.000 soldati civili che si erano schierati con il Front Populaire.

1932: Iniziano le prime riprese economiche negli USA, il proibizionismo degli anni '20 si dilunga anche in questo decennio provocando l'accrescimento di opposizione e delinquenza, specialmente negli stati federali meridionali. Fallito attentato a sfondo comunista a Pètain a Lione, il Maresciallo proclama la Quarta Repubblica Francese, mettendo fuori legge il Partito Comunista e quello Socialista, Léon Blum rimane ucciso dall'assalto dei Maquis alla sede della sinistra nazionale, Thorèz invece fugge a Mosca prendendo la cittadinanza russa. Il Regno Unito condanna gli assalti petainisti aldilà della Manica e simpatizza per i democratici di sinistra affinchè rimettano in sesto la democrazia, Ramsay MacDonald, Primo Ministro britannico laburista emargina il BUF (British Union of Fascists) ed esilia in Irlanda il loro capo Oswald Mosley. In giugno, l'Impero Norvegese vara le leggi razziali sul modello bavarese, Quisling inoltre invia qualche contingente militare in aiuto ai Franchisti.

1933: Con l'annuncio di Pètain di voler difendere il suolo francese dal comunismo, all'inizio dell'anno all'Eliseo proclama il Terzo Impero di Francia sotto la sua stessa corona, Imperatore dei Francesi e Gran Maresciallo, vengono abolite le libertà fondamentali, e sostituite le normali elezioni con plebisciti come accadeva sotto Napoleone III. Repubblica Popolare Tedesca e R.S.I. intensificano i rifornimenti ai repubblicani spagnoli che entrano il 19 aprile dello stesso anno a Madrid abolendo la monarchia e cacciando dal trono Alfonso XIII; i Franchisti si accalcano ai confini francesi e portoghesi per sfuggire alle persecuzioni rosse, nasce la Seconda Repubblica o Repubblica Socialista Spagnola; iniziano durissime ripercussioni contro cattolici, anticomunisti e preti in tutto il paese che provocheranno la morte di circa 6800 religiosi e quasi un milione di civili, Francisco Franco si ritira in esilio negli USA. Mentre in Ucraina si scatena una carestia disastrosa che provocherà decine di milioni di morti, il regime staliniano saldamente al Cremlino deporta chi non va a genio al Conducator russo nei campi di internamento siberiani chiamati "gulag". Il Ministro degli Esteri britannico, Neville Chamberlain si reca a Monaco per convincere Hitler a non annettere l'intera Austria alla Baviera, cosa che avviene a marzo con l'entrata delle truppe naziste a Vienna, avviene l'Anchluss, "l'Appeasement" fallisce miseramente e il leader dei Conservatori, Winston Churchill condanna lo stesso Chamberlain come un incapace.

1934: Secondo incontro tra Mussolini e Stalin a Trieste con gli sguardi degli Esteri di Togliatti e Molotov, nasce il Cominform come alleanza tra paesi socialisti, vi entra anche la Germania; la Spagna invece si astiene. I Giapponesi impongono nello stato collaborazionista di Manciuria una monarchia sotto l'ultimo Imperatore della Cina, Pu Yi che nel 1911 a soli cinque anni aveva abdicato e lasciato il trono; l'esercito Manciù, filonipponico occupa la Mongolia in primavera venendo in conflitto con l'Unione Sovietica che posiziona ai confini asiatici alcune sue legioni militari. Chiang Kai-Shek, l'erede delle idee popolari di Sun Yat-Sen, primo presidente cinese, ritorna nella scena politica a Pechino prima rendendosi amici gli apparati governativi e i Signori della Guerra, con questi appoggi prende il potere, e crea la Repubblica Nazionale Han, usando l'esercito del Kuomintang come polizia segreta e repressiva. La Norvegia occupa Reykjavík e tutta l'Islanda, il regime di Quisling discrimina pesantemente gli Inuit, non conformi alle discendenze vichinghe e quindi "divine". 

IL DUCE ISLAMISTA.

Benito Mussolini alle porte di Tripoli (Libia), il 20 marzo 1937, innalza la "spada dell'Islam", la cui elsa è in oro massiccio, e si proclama "protettore dell'Islam", prima di entrare in città alla testa di 2.600 cavalieri.

Il Duce amico dell'islam (persino nel cognome). C'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto, scrive Giancarlo Mazzuca, Venerdì 05/08/2016, su “Il Giornale”. Sotto i colpi dei micidiali attentati perpetrati dai terroristi dell'Isis, ora l'Europa intera, nonostante le parole del Papa, guarda all'Islam con sentimenti d'odio e di grandissima paura. Ma c'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi, pur tra luci ed ombre, di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto. Un grande «feeling» che venne propiziato dall'affettuosa amicizia che il futuro duce intrattenne, quando era ancora direttore dell'Avanti!, con la giornalista Leda Rafanelli di fede musulmana. E che, poi, culminò con il matrimonio di Tripoli del 20 marzo 1937, testimone di nozze Italo Balbo, quando un impettito Mussolini, in sella a un magnifico puledro, sguainò la famosa spada dell'Islam ricevuta in dono dai berberi. Quell'immagine è diventata il simbolo di un lungo corteggiamento nato nel 1919, prima ancora della Marcia su Roma, con la pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Quella conferenza più che un trattato si rivelò, infatti, un vero e proprio «diktat» non solo per la Germania sconfitta, ma anche per l'Italia che, pure, quella guerra l'aveva vinta. A ispirare lo spirito di rivalsa nei confronti dell'asse franco-inglese era stato Gabriele D'Annunzio, il Vate della «vittoria mutilata» e il protagonista dell'impresa di Fiume, che mise il Belpaese sullo stesso piano del mondo arabo da sempre in conflitto con le potenze coloniali. Pur con le dovute differenze, il nazionalismo che cominciava a serpeggiare in una parte dell'Europa era della stessa matrice di quello che già si respirava sulla «quarta sponda». Revanscisti gli uni, revanscisti gli altri, divenne quasi naturale cercare punti d'incontro. Se la conquista dell'Etiopia venne presentata - i due amici-nemici Mussolini e D'Annunzio in primis - come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani, il «bel suol d'amore», Tripoli, diventò il terreno fertile per rinsaldare quell'intesa cordiale che oggi sembra davvero una grandissima utopia. Nel 1939, infatti, il governatore Balbo, nonostante i dissapori con il duce, fece ottenere la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B. Ci furono, in quegli anni, tanti punti d'incontro: se già nel 1934 Radio Bari cominciò a trasmettere programmi in lingua araba perché la comunicazione era un pallino del duce, i rapporti commerciali con i Paesi dell'Islam divennero intensi tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano. Parallelamente, dalle parti della Mezzaluna, si diffusero movimenti giovanili che guardavano al fascismo con particolare interesse, dalle Falangi Libanesi al Partito Giovane Egitto, dalle Camicie Verdi a quelle Azzurre. Anche allora, comunque, non tutti si trovarono d'accordo sull'innamoramento per gli «infedeli»: a parte il malumore di qualche alto prelato, è il caso di Leo Longanesi, romagnolo come Mussolini e amico della prim'ora, che, all'indomani dell'«incoronazione» del duce con la spada dell'Islam, sentenziò: «Sbagliando s'impera». Eppure, piccola curiosità, il fatto che Benito fosse amico del mondo musulmano starebbe nel cognome stesso: secondo un'ipotesi, non del tutto infondata, Mussolini deriverebbe da muslimin, plurale di muslin che, in arabo, significa musulmano. Strani gli scherzi del destino...

I COMUNISTI NON MUOIONO MAI.

A Budapest morì il comunismo Ma i comunisti sono ancora vivi. La repressione della rivolta ungherese fu l'inizio della fine dell'impero sovietico, scrive Francesco Perfetti, Domenica 23/10/2016, su “Il Giornale”. La rivolta di Budapest del 1956 fu la prima grande crepa nel muro eretto a difesa dell'impero costruito, passo dopo passo attraverso l'instaurazione delle democrazie popolari, dal comunismo. Quei dodici giorni che sconvolsero le sorti dell'Ungheria e che commossero il mondo occidentale furono l'evento che, come avrebbe poi detto Richard Nixon, segnò «l'inizio della fine dell'impero sovietico». La sanguinosa repressione sovietica dell'eroica sollevazione ungherese ebbe effetti disastrosi per l'immagine dell'Urss. Il filosofo marxista Jean-Paul Sartre dovette ammettere che, dopo i massacri di Budapest, «mai in Occidente i comunisti si erano trovati così isolati» dopo un periodo che aveva visto i russi «in vantaggio quasi in ogni campo» al punto che «sembrava che sarebbero usciti vincitori dalla Guerra fredda». Le giornate di Budapest non erano piovute dall'alto. All'inizio di giugno di quello stesso anno, il 1956, il New York Times aveva reso noto il discorso pronunciato da Kruscev pochi mesi prima al XX congresso del Pcus: il cosiddetto «rapporto segreto» che denunciava i crimini dello stalinismo e condannava il culto della personalità. Poi, qualche tempo dopo, c'erano state, prima, la rivolta di Poznan che aveva assunto presto il carattere di una manifestazione anti russa e, poi, le giornate dell'ottobre polacco che si erano concluse con il ritorno al potere di Wladislaw Gomulka, a suo tempo destituito da Stalin con l'accusa di deviazionismo ideologico, e che avevano finito per avallarne l'immagine non tanto di un dirigente comunista riformista, quanto piuttosto di un leader nazionale il cui avvento significava la fine dello stalinismo. La cosiddetta «destalinizzazione», insomma, era già divenuta una realtà. Su che cosa sia stata davvero la «destalinizzazione» ha scritto pagine illuminanti François Furet nel suo capolavoro storiografico intitolato Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo (1995) che rimane tuttora un testo imprescindibile per comprendere la dinamica e l'esito fallimentare dell'utopia rivoluzionaria in tutte le sue manifestazioni. Ha scritto, dunque, Furet: «La destalinizzazione non è né una filosofia, né una strategia, né un'idea, né un programma. Il termine non ha avuto e non ha che un potere di dissoluzione, un potenziale di disordine. Come riesame del passato ha messo in causa l'ideologia e il terrore, le due risorse del regime sovietico». E ha concluso affermando che «il bilancio di quell'anno capitale nella storia del comunismo è duplice: inizio della disgregazione del blocco e fine del mito unitario di cui esso era portatore». In effetti, l'insurrezione di Budapest mostrò appieno il fallimento del progetto politico di Kruscev che, attraverso la «destalinizzazione», puntava, come ha osservato ancora Furet, a «rafforzare l'autorità morale dell'Unione Sovietica» e, attraverso la «coesistenza pacifica», a fare dell'Urss il «centro della dinamica di progresso destinata a ridurre come una pelle di zigrino la parte del mondo rimasta sotto il giogo dell'imperialismo». La denuncia dei crimini di Stalin, infatti, estese «il sospetto dall'accusato all'accusatore» mentre l'affievolirsi della minaccia bellica privò la centralizzazione di una delle sue principali motivazioni. La storia delle eroiche giornate di Budapest è una storia epica scritta con il sangue da operai e studenti i quali, insieme a donne e intellettuali, imbracciarono i fucili per riconquistare la libertà e il cui sogno fu brutalmente interrotto dai carri armati sovietici, di un regime cioè che, nonostante la «destalinizzazione», conservava intatta la sua essenza criminale. Essa, tuttavia, è anche una storia che rivela le ambiguità degli Stati Uniti (e, più in generale, dell'Occidente), che solo a parole furono solidali con i rivoltosi e che, in nome della ragion di Stato e del realismo politico, si preoccuparono di non alterare il fragile equilibrio dei rapporti con Mosca. Negli stessi giorni nei quali gli eroici insorti ungheresi si sacrificavano sulle barricate in nome di una libertà da conquistare, in un'altra calda area geopolitica era scoppiata la crisi di Suez: Nasser aveva nazionalizzato la Compagnia del canale, le truppe israeliane intervennero insieme a quelle inglesi e francesi, ma gli americani ne imposero il ritiro di fronte alla minaccia di un intervento sovietico nella zona. L'ombra della guerra del canale - che sanzionò la fine dell'eurocentrismo, la consacrazione del bipolarismo Usa-Urss e la riduzione delle potenze europee al rango di potenze regionali - si proiettò, così, in un cinico e opportunistico do ut des, sulla rivolta di Budapest lasciando soli, al loro destino, gli ungheresi. Tuttavia il sacrificio degli insorti non fu vano. Non solo aprirono gli occhi molti intellettuali comunisti europei ma cominciò a rafforzarsi, nelle coscienze di milioni di individui oppressi dalle democrazie popolari, quell'anelito di libertà che avrebbe portato, passando per la Primavera di Praga e per Solidarnosc, alla caduta del muro di Berlino e alla fine dei regimi basati sul cosiddetto socialismo reale. Sotto questo profilo, le eroiche giornate di Budapest costituiscono ancora oggi un monito: se è vero, infatti, che il comunismo storico è finito è anche vero che l'utopia rivoluzionaria, come l'araba fenice, può sempre risorgere, sotto altre spoglie, dalle sue ceneri.

Ungheria, 60 anni fa si spegneva il sogno del socialismo dal volto umano. Il processo di democratizzazione avviato dal premier comunista riformatore Imre Nagy fu soffocato nel sangue dalle forze armate sovietiche. Oggi quella rivoluzione viene commemorata in tono minore: il leader nazionalconservatore Orbán non vuole mettere a repentaglio l'amicizia con Putin, scrive Andrea Tarquini il 22 ottobre 2016 su “La Repubblica”. Tutto cominciò nello splendido centro storico di Budapest sessant'anni fa, oggi il mondo dei Millennials non lo sa o lo ha dimenticato. Le straordinarie immagini del'Istituto Luce forse ci risveglieranno la memoria. Ungheria, 23 ottobre 1956. I cecchini della AVH, Allam védelmi hatosàg, l'odiata e temuta polizia segreta, cominciarono all'improvviso a sparare sulla grande folla della manifestazione pacifica per la democratizzazione, voluta dagli studenti in appoggio al premier comunista riformatore Imre Nagy. Sangue, morti per le strade, reazioni esasperate e violente della piazza. E poche ore dopo tutto precipitò: guidate dal giovane, “smart boy” comunista riformatore anche lui, il generale Pàl Maléter, le forze armate nazionali si schierarono con gli insorti, e indussero l'Armata rossa alla ritirata. Ungheria '56, sessant'anni dopo: oggi quello splendido paese mitteleuropeo è libero, membro di Ue e Nato. Eppure il popolare premier nazionalconservatore Viktor Orban sembra preferire commemorazioni low profile, per quella che fu una delle prime rivoluzioni democratiche di quell'Europa sottoposta allora all'Impero sovietico. Perché Orbàn - attaccato dalla Ue per limitazioni pesanti alla libertà di media e corte suprema e alla divisione dei poteri, accusato dalle ong per la linea dura anti-migranti e la riabilitazione del dittatore Miklòs Horthy autore delle prime legge razziali antisemite e principale alleato di Hitler nell'Operazione Barbarossa, l'attacco all'Urss - oggi è il miglior amico del presidente russo Vladimir Putin nella Ue e nella Nato: ammira il suo modello autoritario. Ungheria, 60 anni dopo: anniversario triste, commemorato male, senza tutto il rispetto dovuto alla Memoria. Budapest, 23 ottobre 1956. Nell'Europa divisa dalla guerra fredda tra mondo libero e Impero del Male, il paese era allo sfascio: economia un tempo mitteleuropea in rottami, fame diffusa, classe media e imprese distrutte, mercato nero quotidiano, oltre centomila prigionieri politici in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. Torture ed esecuzioni segrete divenute pratica quotidiana nelle carceri della AVH. Così non possiamo continuare, dissero in riunioni del Comitato centrale Nagy, Maléter, i loro seguaci. Chiesero le dimissioni dei vertici del regime. La gente fu con loro, decise di rischiare in piazza. Sapendo bene che il premier Nagy non aveva il controllo di polizia e servizi. I cecchini spararono, la collera esplose. Guerra civile improvvisa negli splendidi boulevard di Budapest, invano il regime chiese l'intervento dell'esercito. Nel suo stato maggiore alla caserma Killian, Pàl Maléter dette ai soldati l'ordine di schierarsi con il popolo. "Lo ricordo ancora, lui l'amore della mia vita, deciso a rischiare tutto", mi confessò anni dopo sua moglie Judit, una Vivien Leigh ungherese. Reazione decisa, immediata: soldati e insorti contro la AVH e contro le veloci ma deboli prime reazioni dell'Armata rossa occupante. Violenze in piazza, anche linciaggi degli agenti della AVH riconosciuti dai cittadini come i torturatori bestiali di ieri. E le statue del regime abbattute ovunque, ovunque la bandiera nazionale col buco al posto dell'emblema comunista imposto da Mosca. Sembrò una vittoria, l'Armata rossa dopo i primi scontri con i soldati di Maléter si ritirò. Lasciò quasi tutto il territorio magiaro. Vennero le settimane della libertà. Nagy e il suo governo si misero subito al lavoro su progetti di riforme radicali: sistema socialista ma con libere elezioni, diritto alla neutralità, amnistia, diritto a lasciare il Patto di Varsavia, l'alleanza militare imposta dal Cremlino ai paesi occupati e ridotti a colonie sfruttate come il Congo lo fu dal Belgio. Vennero i giorni e le settimane della Grande illusione, Orbàn oggi preferisce non parlarne troppo per non inimicarsi l'amico e compagno di modello autoritario Vladimir Vladimirovic Putin. Illusioni alimentate irresponsabilmente dall'Occidente: gli ungheresi liberi a termine contarono su un aiuto. Che sarebbe stato impossibile, salvo scatenare la terza guerra mondiale. "I sogni muoiono all'alba", scrisse allora Indro Montanelli, straordinario cronista da Budapest libera per quelle poche settimane. L'Impero colpì ancora. Invano il presidente jugoslavo Tito cercò di consigliare a Mosca, e anche a Nagy, moderazione e ricerca di compromesso. Alla fine a Tito, leader del solo paese socialista indipendente da Mosca e in buoni rapporti col mondo libero (la Jugoslavia), non restò altro che proclamare l'allarme rosso militare e offrire a Nagy asilo nell'ambasciata jugoslava a Budapest. I sogni muoiono all'alba: nella prima settimana di novembre venne spietato e sanguinario il contrattacco dell'Armata rossa, si sentiva umiliata dai soldati di Maléter e aveva sete di vendetta. Decine di Panzerdivisionen, centinaia di migliaia di soldati dei corpi scelti, squadriglie e squadriglie di caccia Mig e bombardieri Iljushin carichi di bombe incendiarie, assaltarono all'alba Budapest e tutta l'Ungheria. Resistenza disperata, nemico troppo più forte, due settimane di combattimenti. Migliaia o forse decine di migliaia di morti, le statistiche furono poi in mano al regime di Janos Kàdàr, il proconsole imposto. Due settimane di combattimenti disperati, stupri in massa da parte degli invasori, fuga in massa di circa mezzo milione d'ungheresi a piedi verso l'Austria che tanti dei migliori scrittori della vitale, splendida letteratura magiara raccontarono poi in libri pubblicati non in patria. Il peggio venne dopo. Centinaia, o più, di persone torturate, stupri ed esecuzioni in carcere. Fino all'inganno perfido teso da Kàdàr a Nagy e a Tito: 'consegnati, ti perdoneremo'. Tito diffidava, Nagy si fidò e finì processato e impiccato. Nei decenni successivi, Kàdàr comprò il consenso del paese sconfitto con consumismo (pagato con un iperindebitamento con l'Occidente) e con una censura ammorbidita per cineasti, scrittori, intellettuali, giornalisti. Ungheria 1956, la rivoluzione vinta ma feconda, scrisse il grande François Fejto, intellettuale e storico immigrato. Nagy e Maléter furono esempio per le speranze di riformare il socialismo di Alexander Dubcek a Praga (stroncate anche quelle da un'invasione sovietica), poi della voglia di libertà dei dissidenti cecoslovacchi attorno a Vaclav Havel, e ancor più di Solidarnosc, il movimento democratico polacco che avviò la fine dell'Impero. Ci conoscemmo negli anni della guerra fredda, Fejto e io, quando una fine dell'oppressione sembrava a noi occidentali impossibile, ma non a lui né all'altro grande intellettuale ungherese scappato dopo il '56, Pàl Lendvai, poi alta sfera del Financial Times. Li rincontrai in quell'estate indimenticabile del 1989 al solenne funerale-riabilitazione di Imre Nagy, loro a fianco di Judit la vedova indomabile e fiera. A quella cerimonia il discorso più coraggioso fu tenuto da un giovane allora dissidente liberal, Viktor Orbán: "Fuori le truppe sovietiche occupanti". Bei ricordi, ma lontani. Orbàn, abilissimo trasformista è divenuto popolare premier nazionalconservatore al potere dal 2010. Riforme costituzionali, limiti a media, corte suprema, e secondo le ong occupazione dello Stato da parte del partito del premier (Fidesz) e amicizie ferree con gli oligarchi che lo appoggiano. Realtà diversa dai sogni di Nagy e Maléter che morirono all'alba. Oggi nei libri di testo di Storia magiari Orbàn e Horthy sono celebrati come patrioti più di Nagy e Maléter. Alla cerimonia ufficiale del resto oltre al presidente polacco non dovrebbero essere presenti altri leader di paesi democratici. Una foto di gruppo con Orbàn non piace a molti. Peccato per la memoria dell'eroico '56. E nessuno oggi nell'Ungheria di Orbàn in prima fila nel no ai migranti ricorda che allora i migranti, i fuggiaschi da guerra, orrore, violenze e morte erano ungheresi.

Quelle parole clandestine che ci insegnano coraggio e libertà. Una mostra racconta la dura lotta degli scrittori per non farsi schiacciare dalla dittatura sovietica, scrive Matteo Sacchi, Domenica 25/09/2016, su "Il Giornale". Succedeva di nascosto, anche se lo sapevano tutti. Il luogo deputato per farlo nelle scalcinate case popolari dell'Unione sovietica, come racconta il premio Nobel Svetlana Aleksievic nel suo libro Tempo di seconda mano, era spesso la cucina, la stanza più vivibile e calda della casa. Qualcuno estraeva da un nascondiglio uno o più samizdat e si iniziava a leggere e, magari a discutere, cercando di sussurrare per non farsi sentire da fuori. A leggere col gusto del proibito, perché la letteratura era vietata dallo Stato, quasi fosse una droga. A leggere ciò che non era gradito al Pcus e che non poteva essere stampato. Questi libri clandestini (ma a volte erano semplici opuscoli) venivano chiamati samizdat che, letteralmente, vuol dire «pubblicato da sé». Il termine fu coniato dal poeta Nikolaj Glazkov per l'edizione autopubblicata delle sue raccolte degli anni '40. Le copertine riportavano la definizione «sam-sebja-izdat» (edizione di me stesso medesimo). Darne una definizione univoca però è quasi impossibile, questi testi circolavano sui più diversi supporti. A volte qualcuno copiava a mano. A volte c'era un ciclostile, più tardi le fotocopie. Il metodo più usato era la carta carbone. Ma anche con questi (...) (...) sistemi rudimentali un libro, un pamphlet, un singolo comunicato poteva fare il giro del Paese, scatenando le furie del Cremlino. Sul finire degli anni '50 si dedicarono a questo pericoloso «gioco» autori che adesso sono dei veri e propri classici: Ginzburg, Bukovskij, Galanskov. C'era poi chi aveva deciso di rischiare anche più grosso. Pubblicando all'estero libri che erano stati «pensati per il cassetto». Come Andrej Donatovic Sinjavskij o Julij Markovic Daniel' che cercarono di proteggersi con lo pseudonimo. Ricevendone in cambio processi e galera. A ricostruire questo mondo sotterraneo, che ha dato speranza a milioni di cittadini sovietici, è una piccola mostra all'università Statale di Milano che inaugura domani. Si intitola: Dalla censura e dal samizdat alla libertà di stampa. Urss 1917-1990. Questa raccolta di immagini (non ci sono ovviamente i delicatissimi originali, ma tavole che li riproducono) è stata creata dal Memorial Mosca e dalla Biblioteca statale di storia della federazione russa, con la curatela di Boris Belenkin e di Elena Strukova, e con un progetto grafico che si deve a Pëtr Pasternak. Presenta un florilegio, che va dalla rivoluzione d'Ottobre sino alla perestrojka, dei protagonisti e dei documenti dell'opposizione al regime sovietico, dando risalto a questo fenomeno di letteratura clandestina unico nel suo genere. Una resistenza fatta quasi solo di parole perché a tutti era chiaro che battere il regime nell'immediato era impossibile. Come ha scritto lo stesso Bukovskij lo scopo era un altro: «Non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: Io ho fatto tutto quello che ho potuto». Ecco allora riemergere dai dieci tabelloni della mostra una serie infinita di piccole rivolte, anche molto diverse tra loro. C'è il samizdat puramente letterario che ebbe il suo momento di massimo fulgore tra gli anni '50 e gli anni '80. La società, dopo la morte di Stalin e il XX Congresso del 1956, cercò un'alternativa al monopolio dello Stato sulla cultura. Il samizdat della prima generazione del disgelo fu alimentato da un boom poetico senza precedenti: tutti a leggere su dattiloscritto Cvetaeva, Gumilëv, Mandel'tam, Pasternak, Achmatova. Poi iniziarono a circolare testi più politici di denuncia dello stalinismo come la lettera a Stalin di Fëdor Raskol'nikov, espatriato dall'Urss. Ai testi sull'epoca staliniana si aggiunsero saggi di politologia sul ruolo dell'Unione Sovietica e sul suo futuro. Uno più diffusi fu il saggio di Andrej Amal'rik Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984? (1969). Visto com'è andata non era una domanda peregrina e la previsione è sbagliata di poco. Ma c'era anche un samizdat dei diritti umani e un samizdat religioso...Se il regime aveva gettato l'Unione sovietica in un'era di ignoranza «pre-Gutenberg», in cui la censura annientava il ruolo della stampa, i diffusori di samizdat si ritagliarono un ruolo da nuovi amanuensi. Ed era una rivolta non solo politica, ma anche prettamente spirituale. Basti pensare che per via di carta copiativa circolavano anche capolavori assoluti: Il Maestro e Margherita, Il Dottor ivago, Arcipelago Gulag, Vita e destino. E fu proprio questa imponente produzione di samizdat, trovando la via dell'Occidente, a generare un effetto boomerang. Gli editori di qua dalla Cortina iniziarono, oltre che a promuovere le traduzioni, a dare veste tipografica ai testi originali e anche a rispedirli clandestinamente in Urss (questi testi reimportati erano più propriamente chiamati tamizdat). Così queste «copie» smisero di essere singole punture di spillo, trasformandosi in qualcosa che il regime non poteva più ignorare. Come spiega Sergio Rapetti nell'introduzione italiana all'e-book che verrà realizzato a partire dalla mostra, si arrivò al punto che il capo del Kgb Andropov si trovò a riferire preoccupato ai suoi colleghi del Comitato centrale che il biologo ores Medvedev e un suo conoscente nella città di Obninsk (Kaluga) avevano «dattilografato in varie copie il romanzo inedito di A. Solenicyn Il primo cerchio per distribuirlo tra i ricercatori della città». Oppure si trasformò in una questione di Stato il fatto che sempre più persone avessero iniziato a ricopiare Requiem di Anna Achmatova. Fu la follia di questa assurda caccia alle poesie, ai dischi importati di nascosto dall'Occidente che dimostrò in modo evidente che lo stalinismo non era mai morto davvero, nonostante l'effimero disgelo di Kruscev. Basta scorrere i pannelli della mostra per rendersi conto di quanto, anche con i suoi successori, continuasse lo strapotere del partito unico. Ma questa cappa ormai diventava sempre più insostenibile a tratti persino ridicola. Sino a spingere Mikhail Gorbaciov ad ammettere che così non era più pensabile vivere. Durante il periodo della perestrojka tutto iniziò a cambiare. All'inizio dell'87 i condannati per pubblicazione e diffusione di samizdat riottennero la libertà. La stampa non autorizzata cessò di essere un crimine. Era l'inizio di un nuovo mondo. Ma questo inizio deve molto a quegli amanuensi clandestini. E non parliamo solo degli scrittori, ma di tutti i lettori che rischiarono in proprio per diffondere, se non la libertà, la speranza della libertà. Matteo Sacchi

Hobsbawm, ideologia forte e verità breve. I massacri stalinisti, l'attacco dell'Urss alla Finlandia, la repressione di Budapest: tutto "riletto" in chiave marxista, scrive Alberto Indelicato, Lunedì 25/03/2013, su "Il Giornale". Stranamente Eric Hobsbawm (1917-2012) sembra dar ragione, con varie limitazioni, a Ernst Nolte quando scrive: «Alcuni apologeti del fascismo hanno probabilmente ragione quando sostengono che Lenin generò Mussolini e Hitler», ma si affretta ad aggiungere: «È completamente illegittimo sostenere che la barbarie fascista fu ispirata alle, e imitata dalle, asserite barbarie della Rivoluzione Russa». Asserite? Vediamo subito che cosa ordinava Lenin ai comunisti di Penza l'11 agosto 1918: «Impiccate assolutamente e pubblicamente non meno di cento kulak, ricchi e succhiatori del sangue del popolo, e pubblicate i loro nomi; togliete loro tutto il grano e preparate delle liste di ostaggi». È inutile aggiungere che l'operazione andava fatta «in via amministrativa», come si usava dire, senza processi né alcuna garanzia legale. Poche settimane dopo si calcola che le vittime della repressione seguita all'attentato di Fanya Kaplan siano state 20mila. La repressione fu ordinata dallo stesso Lenin convalescente (Memorandum a N. Krestinski del 3 settembre 1918). Ma Hobsbawm non amava i documenti, o almeno certi documenti. Un'altra prova ci è fornita da come spiega l'insuccesso dei negoziati del 1939 tra Mosca e gli anglo-francesi per opporsi alla minacciata invasione tedesca della Polonia. Secondo Hobsbawm «i negoziatori di Stalin chiesero vanamente (agli anglo-francesi, ndr) che avanzassero proposte per operazioni congiunte nel Baltico» per combattere i tedeschi. Nel Baltico? No, i sovietici avevano chiesto di disporre di basi di partenza in Polonia, e i polacchi che conoscevano le intenzioni sovietiche avevano ovviamente rifiutato un simile aiuto interessato quanto pericoloso. Ma Hobsbawm si guarda bene dal dire che i negoziati per il patto di spartizione con la Germania che si sarebbe concluso a Mosca il 23 agosto erano cominciati molto prima di quelli con la Francia e la Gran Bretagna. Egli parla, ovviamente, dell'accordo Ribbentrop-Molotov, spiegato come lo strumento necessario per spingere alla guerra la Germania e la Gran Bretagna, che «si sarebbero dissanguate a vicenda, a vantaggio dell'Urss che intanto, con le clausole segrete, avrebbe ripreso i territori perduti con la rivoluzione; il calcolo si dimostrò sbagliato». Hobsbawm dimenticava che la sua difesa del patto, nel 1939 era stata diversa, allineata cioè alle tesi sovietiche di allora, che coincidevano con quelle tedesche, secondo cui gli aggressori della povera Germania, alleata dell'Urss, erano stati gli anglo-francesi. Quanto all'attacco sovietico alla Finlandia (la «guerra d'inverno, che costò all'Urss l'espulsione dalla Società delle Nazioni), essa era già stata spiegata in un tempestivo pamphlet da Eric Hobsbawm e Raymond Williams, suo compagno di partito, come una misura sovietica per «spingere un po' più lontano da Leningrado la frontiera» allo scopo di difendersi dall'invasione degli imperialisti britannici, allora in guerra con la Germania di Hitler. Anni più tardi Williams ammise che quel libello era stato compilato su ordine del partito comunista britannico, che aveva ricevuto ordini da Mosca. Hobsbawm non ricorse neppure a questa giustificazione per spiegare l'assurda tesi che aveva sostenuto con la sua autorità di storico. Con l'attacco tedesco l'Urss si riscoprì antifascista e addirittura «democratica». Ma le pene di Hobsbawm non erano finite. Alcune si limita a ignorarle, per «non dover contraddire la sua militanza», ragione per cui i suoi lettori non sapranno nulla di un certo episodio svoltosi a Katyn e dintorni costato la vita a 20mila polacchi. L'insurrezione di Varsavia nel 1944 fallì - ci spiega - perché «prematura», anche se le truppe sovietiche erano a qualche chilometro e si astennero dall'intervenire, perché gli insorti si consideravano seguaci del governo in esilio a Londra e non di quello comunista sostenuto o meglio inventato da Mosca. Più in generale nel 1945 non vi fu la sovietizzazione dell'Europa orientale ma «la grande avanzata della rivoluzione globale». I sovietici non avevano intenzioni aggressive, anzi Stalin faceva una politica difensiva, tanto è vero che accettò Berlino occidentale come una enclave nella Germania, «sia pure con riluttanza» (delicata allusione al blocco di quella città durato un anno). Il muro di Berlino fu dovuto, sostiene Hobsbawm, alla paura reciproca. Questo spiega perché i cittadini tedesco-orientali correvano il rischio di una fucilata se fossero andati a vedere di che cosa si aveva paura dall'altra parte: insana curiosità punita diverse centinaia di volte con l'immediata pena di morte inflitta dai Vopos. Nel 1950 non vi fu - secondo lo storico marxista - un tentativo nordcoreano di annettere la Corea meridionale: Pyongyang soltanto stava «dilagando» (spreading) nel sud. «Ah, qu'en termes galants, ces choses-là sont mises!». È superfluo continuare a elencare le libertà che il defunto grande storico si prese con la verità. Egli afferma che Stalin non era totalitario; forse avrebbe voluto esserlo ma, secondo Hobsbawm, non ci riuscì per la resistenza di altri poteri non meglio specificati: chissà che cosa avrebbe fatto se ci fosse riuscito. Qualcuno ha affermato che almeno sulla repressione della rivolta ungherese del 1956 egli avrebbe espresso qualche riserva. È così? Ecco quel che scrisse: «Pur approvando con il cuore gonfio ciò che sta accadendo in Ungheria dobbiamo dire francamente che secondo noi l'URSS dovrebbe ritirare appena possibile le sue truppe da quel Paese». È inutile chiedersi in quale conto gli uomini del Cremlino abbiano tenuto l'amichevole consiglio dell'amico storico marxista. E sulla Cecoslovacchia? Qui egli fu chiaro: «Per quanto fragili i sistemi comunisti si siano dimostrati, soltanto un uso limitato, addirittura nominale di coercizione armata fu necessario per mantenerli dal 1957 al 1989». Com'è noto, l'uso limitato della coercizione esercitato dall'Urss sulla Cecoslovacchia consistette in un esercito di 27 divisioni per complessivi 400mila soldati e 6.300 carri armati. In definitiva, concludeva il Nostro, il comunismo era in realtà un «Illuminismo». Una virtù è tuttavia necessario riconoscere a Hobsbawm: quella della coerenza. Quando nel 1995 gli fu chiesto se l'aver appreso che il massacro di 15 o 20 milioni di uomini, donne e bambini nell'Unione Sovietica negli anni Trenta e Quaranta gli avesse fatto cambiare opinione, rispose orgogliosamente di no. Ciò significa, fu la domanda successiva, che valeva la pena uccidere tante persone? «Certamente», ripeté Hobsbawm.

Gli eroici "teppisti" di via Thököly. Molti avevano precedenti penali. Contesero ai russi la zona più pericolosa di Budapest, scrive Dario Fertilio, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale".  Sessant’anni fa, la sera del 29 ottobre 1956, all’insaputa l’uno dell’altro, si incrociarono i destini di Palmiro Togliatti e István Klauber, un oscuro sfaccendato ungherese. Mentre il capo del Pci inviava un telegramma a Mosca sollecitando l’invasione sovietica - «La mia posizione è che il governo ungherese si muoverà irreversibilmente verso una direzione reazionaria» - nella questura del XIV distretto di Budapest, in un freddo pungente, István Klauber si arruolò nella nascente Guardia Nazionale. Nominalmente elettricista, in realtà si era fatto mantenere dalle amiche prima di finire in un campo di prigionia del regime. Perché prese la decisione fatale? Probabilmente per gusto di sfida e desiderio di riscatto. Klauber era il capo riconosciuto di una banda di «teppisti», quasi tutti con precedenti penali, abituati a riunirsi nei dintorni della stazione ferroviaria Keleti. Nello stanzone, dove quella sera erano radunati i volontari, i suoi compagni si riconoscevano a distanza fra ex poliziotti, universitari, operai e borghesi. Di età compresa tra i venti e i quarant’anni, in maggioranza condannati per reati comuni, avevano portato con sé alcune amiche già incappate nelle retate della buoncostume: una compagnia da bettola. Per loro, alla pari degli altri ignari presenti, era già scattato il conto alla rovescia innescato dalla lettera di Togliatti: li aspettavano o l’arresto o l’esilio o la morte. Fa uno strano effetto, oggi, parlare di quei «teppisti» come di eroi. Ma strane sono le giravolte della storia: di loro si sarebbe saputo poco o nulla se lo storico László Eörsi (tradotto in italiano da Giuseppe Lian) non ne avesse pubblicato il diario delle imprese. Che cosa avrebbe pensato, Togliatti, se avesse incontrato questi pittoreschi nemici dell’impero comunista? Probabilmente avrebbe storto il naso di fronte a personaggi come Ferenc Ludányi, autista di autobus già congedato dall’esercito con l’accusa di furto; o Károly Keller, facchino un po’ protettore di prostitute e un po’ gigolò; o ancora József Németh, idraulico alcolista; oppure János Csermák, operaio colpevole di aver colpito un ufficiale sovietico in una bettola. Per non parlare di Ferenc Kovács, addetto alla pulizia delle fogne, o di Lajos Gál, borseggiatore. E c’erano poi le donne: Mária Magori, addetta alle pulizie; Irén Gál Sándorné Parák, bracciante; Jánosné Kálmán, operaia; Magdolna Jancsó, appena diciannovenne. Tutti di opinioni politiche vaghe, ma animati dal desiderio di «fargliela vedere, ai russi». Per prima cosa, requisirono un camion Csepel e, sventolando le bandiere nazionali, se ne andarono in giro a gridare slogan del tipo: «Abbasso l’Ávó!» (La polizia politica comunista). «Evviva Imre Nagy! Russi a casa!». Quindi occuparono un palazzo, il Közgazdasági Technikum di via Thököly: toponimo destinato ad accompagnarli per sempre. Perché fu in quella via che sfidarono gli invasori sovietici, disarmarono poliziotti e militari, eressero barricate all’incrocio con via Dózsa György, aprirono il fuoco dalle finestre con l’arsenale che avevano rastrellato: cinque o sei mitra, una decina di mitragliatrici e una settantina di fucili. Là, con l’aiuto delle donne, portarono la benzina presa da un distributore, ricavandone duecento bottiglie Molotov. Quando, la mattina del 4 novembre, si presentarono le truppe sovietiche, trovarono pane per i loro denti. Nell’inferno dei tiri incrociati, i carri cominciarono a saltare in aria, dato che tra le basi di via Thököly, ai numeri 42 e 44, c’era dell’esplosivo nascosto, comandato a distanza da uno spago, e fasce di granate brillavano al momento giusto. La strada era cosparsa di olio, in modo da far perdere aderenza ai blindati, che cominciarono a sbandare. E contro i veicoli vennero diretti getti di benzina attraverso tubi di gomma. Quelli furono i giorni dei ragazzi di Thököly, moderna incarnazione di quelli della via Pàl, ma con un che di maledetto, da «angeli con le mani sporche». Soltanto nei combattimenti del 6 novembre, secondo stime di Mosca, caddero intorno a via Thököly una cinquantina di ufficiali e soldati sovietici. Poi lo scontro assunse contorni crudi, barbarici: insorti e sovietici si inseguivano nelle cantine e nei tetti; i carri armati russi, pur bruciando, prendevano a cannonate le finestre; nella confusione alcuni negozi furono saccheggiati al grido: «Meglio noi che i russi!». Un gruppo di giornalisti italiani, durante una pausa dei combattimenti, riuscì a intervistare István Klauber, descrivendolo così: «Disteso su due poltrone, un colbacco di pelo in testa, un mantello stracciato, sporco di sangue che gli cola ancora da una ferita, tiene nella mano destra una lattina con del cognac, con la mano sinistra accarezza la canna del mitra. È una figura infernale e sublime, un eroe di Hemingway». Ma il picco emotivo fu raggiunto quando, la mattina del 5 novembre, una delle insorte, Jánosné Kálmán, proclamò di essere pronta ad andare a letto con il primo che avrebbe ucciso un soldato sovietico (e, a quanto se ne sa, mantenne la promessa). Continuarono così per quattro giorni, senza mollare un centimetro della via Thököly, facendo sparire i mezzi nemici distrutti e i corpi dei sovietici per non mettere sull’avviso quelli in arrivo, mezzo ubriachi per non pensare troppo alla loro sorte. Mentre la stampa occidentale si lanciava in descrizioni epiche («crocicchio infernale», «quadrivio fatale») i ragazzi della via Thököly riuscirono persino a lanciare un proclama alla radio di Budapest («Vogliamo restare degni della memoria degli eroi del ’48!») in cui, deposti i panni da teppisti, indossavano quelli degli eroi. Che cosa li animasse non è chiaro: forse una falsa voce sull’imminente arrivo di paracadutisti inglesi. Se ne presentarono, invece, di sovietici, e si combatté ancora duramente fino alla mattina del 9 novembre, quando i ragazzi della via Thököly, circondati da forze soverchianti, deposero le armi. In una decina, fra essi Klauber, riuscirono a riparare all’estero. La maggioranza del gruppo invece fu arrestata: dodici impiccati, gli altri - donne comprese - condannati a lunghi anni di prigione. A tutti, indipendentemente dalle fedine penali, l’Ungheria di oggi riconosce una sorta di «battesimo nazionale nel sangue».

Anche il Pci insorse Ma contro gli ungheresi. Napolitano, Ingrao e gli intellettuali? Schierati con i sovietici. Disumano il cinismo di Togliatti, scrive Giampietro Berti, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Sessant'anni fa, dal 23 ottobre al 10 novembre del 1956, vi fu in Ungheria un'insurrezione popolare contro il regime comunista repressa con l'uccisione di migliaia di insorti, mentre altre migliaia furono feriti, condannati e incarcerati. La rivolta, che seguiva altri tentativi di liberarsi dal pugno di ferro stalinista esteso a tutta l'Europa Orientale, repressi anch'essi nel sangue (Berlino Est, giugno 1953, e Poznan, giugno 1956), avvenne a sei mesi di distanza dalla denuncia di Chrucëv dei crimini di Stalin. Come è noto, il Pci avallò pienamente l'azione repressiva dei 150mila soldati e 2500 carri armati sovietici che falcidiarono ogni anelito di indipendenza e di libertà. A questo proposito è istruttivo ripercorre alcuni momenti di questo sostegno, sottolineando le spiegazioni che lo giustificarono. Sia per i dirigenti del partito, sia per gli intellettuali, il ritornello era sempre lo stesso: il fine giustifica i mezzi, ovvero la salvaguardia del socialismo supera ogni altra considerazione e assolve chi, in suo nome, compie ogni misfatto e ogni nefandezza. I contenuti di questo giustificazionismo «machiavellico», debitore di un'idea teleologica della storia che vede un solo percorso obbligato, il comunismo, possono essere riassunti in questo modo. Dal 1917 l'Unione Sovietica è accerchiata dai Paesi capitalistici e la dittatura, con la conseguente pratica del terrore omicida, non può essere giudicata prescindendo da questo contesto. Comunque, grazie alla sua esistenza, molti popoli del Terzo mondo, sottoposti all'imperialismo dell'Occidente, hanno potuto giungere all'indipendenza nazionale. L'avvento della rivoluzione d'ottobre e la costruzione del primo Paese socialista del mondo hanno costituito un'oggettiva barriera contro lo strapotere del capitalismo internazionale. Dal punto di vista ideologico, si deve dire pertanto che è stato grazie al marxismo, se il comunismo è passato dal sogno alla realtà e a questa realtà è doveroso inchinarsi. Anche i non comunisti devono riconoscere l'importanza epocale del suo avvento. In conclusione, l'esistenza storica dell'Unione Sovietica deriva, indubitabilmente, dalla giustezza della concezione marxista, con la logica conseguenza che marxismo, comunismo e stalinismo vanno visti come entità intercambiabili, essendo la stessa cosa. Stalin rimanda a Lenin e Lenin rimanda a Marx, per cui, per converso, il marxismo giustifica il leninismo, il leninismo giustifica lo stalinismo. Tutti i veri comunisti non possono che essere stalinisti. Per questo, una volta scoppiata l'insurrezione, Palmiro Togliatti sollecitò il Pcus a intervenire militarmente e alla Conferenza mondiale dei partiti comunisti, tenutasi a Mosca nel novembre dell'anno successivo, votò a favore della condanna a morte dell'ex presidente del consiglio ungherese Imre Nagy, definendo perfino «lotta eroica»...la repressione. In quell'occasione, stando alla testimonianza di János Kádár, il «Migliore» si cimentò in una prova di autentico cinismo, avendo chiesto allo stesso Kádár di rinviare l'esecuzione a dopo le elezioni politiche italiane del 25 maggio 1958. La richiesta fu accolta e Nagy venne impiccato un mese dopo, il 16 giugno. Pietro Ingrao scrisse: «Bisogna scegliere: o per la difesa della rivoluzione socialista o per la controrivoluzione bianca, per la vecchia Ungheria fascista e reazionaria». Giorgio Napolitano argomentò che «l'azione sovietica, oltre che a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ha contribuito in maniera decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss, ma a salvare la pace nel mondo». Luigi Longo ricordò che i carri armati erano stati mandati allo scopo di garantire e consolidare «le conquiste dei lavoratori». Umberto Terracini dichiarò: «Le truppe sovietiche sono intervenute a scudo dei combattenti per la costruzione del socialismo. Questo fatto non può che trovare unanime appoggio e solidarietà in tutti i veri democratici italiani». Alla Camera dei deputati Giancarlo Pajetta lanciò il grido: «Viva l'Armata Rossa!». Gli intellettuali comunisti e filocomunisti non furono da meno. Usarono la tecnica, tipicamente totalitaria, di non entrare nel merito delle accuse, ma di demonizzare come borghesi, fascisti, reazionari e oscurantisti tutti coloro che sostenevano la rivolta. Concetto Marchesi negò ogni valore agli insorti perché «un popolo non rivendica la sua libertà tra gli applausi della borghesia capitalistica e le celebrazioni delle messe propiziatorie». Lucio Lombardo Radice definì i rivoltosi degli «assassini». Augusto Monti rimproverò «quei socialisti e perfino quei comunisti che uniscono le loro voci al coro dei muggiti borghesi». Lo stesso Monti dichiarò che l'Ungheria «s'apprestava a essere la più vasta incubatrice d'un più vasto neofascismo non più italiano ma europeo». Carlo Salinari bollò i rivoltosi come personaggi «coscientemente controrivoluzionari»: sì, certo, il socialismo non si poteva imporre «a colpi di cannone», ma questi servivano a difendere «le sue conquiste fondamentali». Antonio Banfi accusò Imre Nagy di essere rimasto inerme di fronte «alle violenze terroristiche scatenate dai rappresentanti del vecchio nazismo alimentato dalla tradizione feudale e clericale». Luigi Pintor biasimò il socialdemocratico Paolo Rossi per aver manifestato il proprio cordoglio per l'impiccagione di Nagy, senza «dire una parola sui torturatori algerini»; rimproverò i democristiani di essersi «sbracciati per l'esecuzione dei capi rivoltosi in Ungheria», mentre tacevano «dei crocefissi che abbelliscono le galere spagnole», creando così «un fronte politico con i fascisti repubblichini». L'Unità assimilò Saragat ai «cani arrabbiati» americani che «sognavano la bomba atomica sul Cremlino». Infine, vi fu anche chi affermò il falso. Tra i molti, ricordiamone alcuni. Ranuccio Bianchi Bandinelli sostenne che non esistevano prove documentarie, se non qualche «fotomontaggio», dei «massacri sovietici», mentre «i massacri anticomunisti sono stati documentati ampiamente». Velio Spano parlò di «teste di comunisti mozzate ed esposte come trofei sulle picche». Giuseppe Boffa richiamò l'attenzione sulle migliaia di quadri del Partito comunista ungherese «assassinati, squartati, impiccati, decapitati, bruciati vivi dalle squadre di rivoltosi più ferocemente oltranzisti e fascisti». L'Unità denunciò che in Ungheria «aerei provenienti dall'Occidente portanti armi per i rivoltosi sarebbero già atterrati in diverse località». Sarebbero stati questi esponenti - e altri simili - l'originale espressione della «via italiana» (democratica), non soggetta a Mosca, del socialismo (!).

Quelli che... «il Migliore» era un democratico (solo un po' stalinista). La storia non ha fatto sconti al leader comunista, gli storici invece sì: infatti cercano di rivalutarlo, scrive Giampietro Berti, Mercoledì 20/08/2014, su "Il Giornale".  Il 21 agosto di cinquant'anni fa moriva a Yalta (Crimea) Palmiro Togliatti, figura primaria del comunismo italiano e internazionale. Se ci si domanda cosa rimane oggi della sua opera, non si può che rispondere in modo negativo. Naturalmente siamo ben lontani da sottovalutare la sua importanza storica, ma essa non presenta alcunché di benefico e di positivo. È stupefacente perciò osservare che, dopo il catastrofico fallimento del comunismo, fallimento a cui anche Togliatti ha dato il suo peculiare contributo, vi sia ancora da parte di alcuni studiosi l'ostinata volontà di rivalutarne il pensiero e l'azione, attivando verso di lui una sorta di storicismo giustificazionista. Non ci interessa demonizzare la figura di Togliatti, però non possiamo non contestare l'esito di questa operazione, che si risolve, per quanto riguarda la seconda parte della sua vita, nell'insostenibile tesi della democraticità del PCI e, appunto, del suo leader, Palmiro Togliatti. Ricordiamo qui la ristampa, con prefazione inedita di Togliatti e il partito di massa (Castelvecchi) di Donald Sassoon; l'epistolario di Togliatti degli anni 1944-1964, La guerra di posizione in Italia (Einaudi), a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco, con prefazione di Giuseppe Vacca; la nuova edizione della biografia Togliatti di Giorgio Bocca (Feltrinelli), con prefazione di Luciano Canfora; e anche qualche intervento giornalistico, tra cui ricordiamo, nei mesi passati quello di Francesco Piccolo, Rivalutare Togliatti apparso su La lettura , inserto del Corriere della Sera. Il nocciolo comune di questa tesi, sia pur articolata da ogni autore con interpretazioni e sfumature diverse, si riassume nel giudizio secondo cui il comunismo italiano, diversamente da qualsiasi altro comunismo europeo, avrebbe fornito un contributo decisivo alla nascita e al mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Ora non c'è dubbio che con la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo i comunisti, insieme con altre forze politiche, ebbero il merito di portare l'Italia sulla via della libertà dopo vent'anni di dittatura. Affermare però che essi, a cominciare dallo stesso Togliatti, fossero animati da uno spirito democratico è del tutto fuorviante. In realtà, grazie alla collocazione dell'Italia nell'ambito occidentale, i comunisti furono costretti a rinunciare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e contro la società borghese e ad accettare la liberal-democrazia. Rivendicarono perciò, in quanto comprimari artefici della Resistenza, dell'Assemblea Costituente e della successiva Costituzione, la legittimazione democratica del loro partito. Fecero, cioè, di necessità virtù, e dunque non furono dei veri democratici. Rimasero sempre prigionieri di una concezione strumentale del rapporto tra democrazia e socialismo. Vista l'impossibilità di conquistare il potere politico, Togliatti, infatti, avviò la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale, con una pressante egemonia culturale (università, scuola, editoria, giornali), che si tradusse nella condanna della società liberale e borghese: una riserva di fondo che non venne mai meno. Ecco dunque la «doppiezza» togliattiana, che se da un lato portò il PCI a non sovvertire il regime esistente, dall'altro lo spinse continuamente a predicare la sua trasformazione in senso comunista, senza mai giungere ad una rottura definitiva con l'Unione Sovietica, da cui continuò a ricevere sino all'ultimo anche un ininterrotto aiuto finanziario. È necessario ricordare l'avallo di Togliatti, e di quasi tutti i comunisti italiani, al colpo di Stato in Cecoslovacchia (1948), alla repressione sanguinosa della sollevazione popolare di Berlino Est (1953) e di quella ungherese (1956)? Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con alcuni distinguo, i comunisti italiani continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Così come Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, allo stesso modo, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, tanto quanto il leninismo giustificava lo stalinismo: tranne rarissime eccezioni, tutti i comunisti erano stalinisti, a cominciare proprio da Togliatti. Centinaia di migliaia di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent'anni testimoniato la deferenza verso il dittatore. Questa incapacità di uscire dall'universo stalinista spiega perché non vi sia stata in Italia alcuna Bad Godesberg, vale a dire una socialdemocratizzazione capace di sradicare il PCI dal suo ceppo leninista. Ancora nel 1978, in un'intervista a la Repubblica, Enrico Berlinguer poteva parlare della «ricca e permanente lezione leninista». La «via italiana al socialismo» concepita da Togliatti, vale a dire la pretesa di superare la democrazia liberale con una democrazia superiore, era una strategia destinata al fallimento. Non a caso essa è poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era avversa ad ogni ratio e ad ogni ethos liberali. Disegni politici che hanno fatto perdere all'Italia qualche decennio di maturità democratica e che oggi, di fronte alle macerie del comunismo, appaiono per quello che erano: dinosauri convissuti per qualche tempo con la modernità. Pretendere, con le cosiddette «riforme di struttura», di fuoriuscire dal capitalismo mantenendo al contempo la democrazia; di avviare una politica anti-capitalista all'interno di un sistema capitalista, era una quadratura del cerchio che solo chi aveva fatto propria la concezione miracolistica della dialettica (marxista) poteva pensare di sciogliere. Come aveva già profetizzato quarant'anni fa Augusto Del Noce, il partito proletario di massa creato da Togliatti si è trasformato nel frattempo in un radicalismo culturale di massa, i cui quadri dirigenti sono stati salvati ora da un ex democristiano. Come tutti i marxisti, Togliatti nutriva la profonda convinzione di possedere la verità, per cui considerava con grande disprezzo e fastidiosa sufficienza tutti coloro che non erano comunisti. Abbiamo poi visto chi aveva ragione.

La storia non ha fatto sconti neanche al «Il Migliore». Lenin accese la scintilla Stalin bruciò ogni cosa Togliatti raccolse le ceneri. Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti, scrive Giampietro Berti, Martedì 08/04/2014, su "Il Giornale". Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano. Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate. Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico. Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.

Il mistero di Togliatti resiste ancora. Palmiro Togliatti non aveva carisma e appeal popolare, ma è stato il comunista italiano più lucido e lungimirante (altro che Berlinguer), scrive Marcello Veneziani, Giovedì 21/08/2014, su "Il Giornale".  I suoi armadi erano davvero pieni di scheletri: nella guerra di Spagna, nell'Urss - dove furono uccisi centinaia di italiani antifascisti rifugiati durante il fascismo - sul caso Gramsci, e poi in Italia e nelle foibe...Nel dopoguerra fu un ministro della giustizia accorto, dispose l'amnistia ai fascisti e fu pronto a ogni compromesso, con la Chiesa, il capitale, la monarchia, gli ex fascisti. Resta un mistero: dal fascismo Togliatti contribuì a importare norme ritenute reazionarie come il Concordato e il Codice Rocco, ma affossò l'unico abbozzo di socialismo e di rivoluzione per superare il capitalismo: la socializzazione delle fabbriche, la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle aziende. Gli alibi per cancellarla furono due: era stata prodotta dal fascismo di Salò e si fondava sulla collaborazione e non sulla lotta di classe. Contro la socializzazione si era creato nel '44 uno strano fronte: capitalisti (ed è comprensibile), comunisti e nazisti. Vedi il caso della Fiat. Togliatti lasciò cadere l'unica traccia di socialismo da cui poteva partire la rivoluzione sociale. Un'eco blanda è nell'articolo 46 della Costituzione voluto dai cattolici. Togliatti restò sempre dentro la linea staliniana e gli accordi di Yalta che non prevedevano la rivoluzione comunista in Italia. E proprio a Yalta Togliatti morì come oggi, 50 anni fa.

Gramsci leninista perfetto Altro che erede di Gobetti. La rilettura azionista pecca di realismo: il pensatore sardo in carcere teorizzò un sistema totalitario. Anche se diverso da quelli che lo avrebbero stritolato, scrive Marcello Veneziani, Sabato 27/04/2013, su "Il Giornale". Tutta l'opera di Antonio Gramsci è stata il poderoso tentativo di tradurre il marx-leninismo in italiano. Per compiere questa traduzione, Gramsci mobilita la storia d'Italia e i suoi principali teorici, da Machiavelli a Gioberti, da Gentile a Croce, dai sociologi delle élites alla letteratura nazionale. Le sue idee chiave, i suoi concetti cardine derivano da Lenin. Perfino l'adozione della via nazionale al comunismo e della democrazia come fase transitoria verso la dittatura del proletariato derivano da Lenin, anzi furono ascoltati dalla sua viva voce, nel corso della permanenza di Gramsci a Mosca tra il 1922 e il 1923, mentre in Italia andava al potere Mussolini. Gramsci si propose di far combaciare il Principe di Machiavelli col Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. I due traduttori del marxismo in filosofia della praxis sono per Gramsci Georges Sorel e Giovanni Gentile. Sorel è citato all'esordio della sue Noterelle su Machiavelli come l'autore che eleva il Principe a Mito, cioè a creazione della «fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva». Gentile, invece, è il filosofo che reinterpreta Marx, anzi per Gramsci «è il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero lo sviluppo ultimo dell'idealismo». Era il 1918, e poco dopo Gramsci, Tasca e Togliatti daranno vita a Ordine Nuovo, una rivista di marxisti gentiliani. Il riferimento a Gentile poi sparisce e nei Quaderni dal carcere si fa critico perché Gentile è diventato il filosofo del fascismo. Resta l'impronta gentiliana nella visione gramsciana dello stato pedagogico e totalitario, nel primato del noi, nella centralità della cultura, nell'identità di teoria e prassi, filosofia e politica, nella riforma morale, intellettuale e civile. Ma i riferimenti a Sorel e Gentile non tradiscono il leninismo, anzi sono ambedue rigorosamente iscritti dentro il leninismo: Gentile fu l'unico filosofo vivente citato positivamente da Lenin nel suo profilo di Marx (riferimento poi cancellato da Togliatti nella traduzione italiana del 1950). E di Sorel, alla sua morte, si contesero le spoglie Mussolini e Lenin che lo consideravano ambedue maestro e precursore. È curioso pensare che il perimetro Marx-Sorel-Gentile-Machiavelli unisca Gramsci a Mussolini. Li separerà la lotta di classe che in Mussolini si fa lotta tra le nazioni. Anche il nazionalpopolare è di marca russo-leninista e Gramsci lo traduce nella linea giobertiana e gentiliana; ma sostituisce l'ispirazione romantica e risorgimentale dei primi con l'impronta illuministica e rivoluzionaria. Il progetto di Gramsci è portare l'illuminismo alle masse, tramite il partito giacobino, nuovo Principe, che per Gramsci s'incarna nel Partito Comunista. Quel partito giacobino che, a suo dire, mancò al tempo del Risorgimento privando l'unità di una direzione progressiva. Il giacobinismo riporta Gramsci a Lenin e alla linea radicale dell'illuminismo e lo separa da Sorel e da Gentile, che furono antigiacobini. Il pensiero di Gramsci non divorzia da Lenin neanche quando teorizza l'egemonia, ferma restando la meta della dittatura del proletariato, o quando definisce il partito totalitario erede rivoluzionario del Principe. Gramsci pensa a Lenin quando oppone il cesarismo progressivo dei bolscevichi al cesarismo regressivo dei fascisti, la violenza progressiva degli uni alla violenza reazionaria degli altri, il totalitarismo espansivo dei primi al totalitarismo repressivo. Ma chi stabilisce quel che è progressivo e quel che è regressivo, la violenza terapeutica e quella sistematica, il totalitarismo buono e quello cattivo? Il Partito: «ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o nell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita». Mirabile sintesi di un processo che porta dal relativismo all'assolutismo: non esistono valori oggettivi né principi superiori, ma tutto è commisurato all'utilità del soggetto-principe che decide sui princìpi, sui valori, sulla morale. E dunque uno stesso atto può diventare legittimo o illegale, ammissibile o inammissibile, eroico o infame, morale e immorale, vero o falso se compiuto dal Principe o dai suoi nemici. Quanto abbia inciso questa concezione, relativista e assolutista al tempo stesso, sull'ideologia dell'intellettuale Collettivo, il partito, e dei singoli militanti, è ancora sotto i nostri occhi. Precorrendo la svolta giudiziaria dei nostri anni, Gramsci scrive sull'Avanti! torinese del 18 febbraio 1920: «il controllo della forza armata dovrebbe passare dalle mani del governo nelle mani di un potere indipendente dal governo e dal parlamento, nelle mani dell'ordine giudiziario, divenuto potere attraverso un'assemblea costituente». Un regime dei giudici, insomma. Sempre nello stesso scritto, Gramsci critica lo Stato unitario italiano con gli stessi argomenti dell'odierna vulgata antirisorgimentale. Per Gramsci «lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti» (Il Lanzo ubriaco, ne L'Ordine Nuovo, Einaudi, 1954). Il destino tragico di Gramsci ebbe un risvolto paradossale: una dittatura ostile lo costrinse al carcere, una dittatura comunista lo avrebbe eliminato; e in mezzo ai due regimi totalitari, Gramsci teorizzava in carcere un altro sistema totalitario. Senza il carcere, Gramsci avrebbe probabilmente guidato una scissione nel Partito Comunista. La fortuna di Gramsci culminò nell'Italia degli anni Settanta, dopo Togliatti. Poi sorsero due letture revisioniste di Gramsci: a sinistra il cosìddetto gramsciazionismo, ovvero un Gramsci letto come la prosecuzione di Gobetti, una versione radical-liberal che sbarcò anche negli Usa. Dall'altra parte sorse il gramscismo di destra che coglieva l'idea gramsciana di conquistare consenso e potere tramite la conquista della cultura. La matrice era gentiliana o nell'idealismo militante del primo '900 e Gramsci teorizzava in carcere quel che lo stesso Gentile e Bottai realizzavano nel fascismo. Il progetto fu ripreso nel dopoguerra da Togliatti che gettò le basi all'egemonia culturale del Pci; dopo il '68 mutò in egemonia della sinistra radical giacobina. Resta viva di Gramsci la lucidità intellettuale di una visione ideologica che rilegge la storia, il pensiero e la letteratura; il primato civile della cultura, la centralità del nazional-popolare, la fragilità del fisico unita al vigore eroico del suo pensiero, la tenerezza dei suoi sentimenti intimi. Tra le sue struggenti lettere ai famigliari ce n'è una scritta a sua madre Peppina per l'onomastico. Era il 1934 e non avevano detto a Nino che sua madre era morta un anno e mezzo prima. Il Natale prima aveva ricevuto un pacco di biscotti e lui aveva spiegato ai carabinieri «li ha fatti certamente mammà», non sapendo che era deceduta da tempo. Il carcere negò a Gramsci la verità anche nella sfera degli affetti più cari.

La "via italiana al socialismo"? Un vicolo cieco. Una raccolta di scritti di Enrico Berlinguer dimostra il carattere illiberali della sinistra. Di ieri e di oggi, scrive Giampietro Berti, Mercoledì 20/03/2013, su "Il Giornale". «Noi vogliamo arrivare a realizzare qui, nell'Occidente europeo, un assetto economico, sociale, statale non più capitalistico, ma che non ricalchi alcun modello e non ripeta alcuna delle esperienze socialiste finora realizzate e che, allo stesso tempo, non si riduca a consumare esperimenti di tipo socialdemocratico, i quali si sono limitati alla gestione del capitalismo». In questa frase - tratta dalla famosa intervista rilasciata nell'agosto del 1978 da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari sul leninismo - sono riassunte tutte le premesse fallimentari della via italiana al socialismo (intervista e altri articoli ora contenuti in Enrico Berlinguer, La passione non è finita, Einaudi, pagg. 174, euro 12, a cura di Miguel Gotor). Si dirà: Non si può impiccare un uomo per una frase. Sì, se fosse così; però questa non è una semplice frase perché esprime il concetto-chiave della strategia per la realizzazione del socialismo in Italia, via peraltro già tracciata da Togliatti all'indomani della seconda guerra mondiale. Il rifiuto aprioristico di una Bad Godesberg, vale a dire di una vera socialdemocratizzazione, porta la «terza soluzione» al fallimento, dato che il capitalismo risulta inseparabile dalla forma politica liberal-democratica che quasi sempre lo accompagna: negli ultimi centocinquant'anni abbiamo conosciuto in tutto il mondo regimi politici a struttura capitalistica senza liberal-democrazia, ma non abbiamo conosciuto alcun regime liberal-democratico senza una base socio-economica capitalistica. Si tratta, insomma, della quadratura del cerchio perché mette in evidenza l'impossibilità per il comunismo italiano di fuoriuscire dal capitalismo pretendo, al contempo, di mantenere la democrazia; e di potere avviare, sempre al contempo, una politica anticapitalista all'interno di un sistema capitalista. Nelle pagine di La passione non è finita si può toccare con mano queste insuperabili contraddizioni. Berlinguer, e con lui tutti i comunisti italiani, una volta preso atto che non si poteva giungere alla «società senza classi», secondo le indicazioni marxiste dell'abbattimento rivoluzionario della società capitalista, furono costretti a inventarsi, per l'appunto, una via italiana al socialismo. Di qui la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale - con una pressante egemonia culturale (Università, scuola, editoria, giornali, magistratura, ecc.) e, per logica conseguenza, l'attivazione etico-politico di tale impostazione, riassumibile nella condanna morale della società borghese. Ecco dunque le proposte di un «trattamento» interno del capitalismo basate sulla critica del consumismo edonistico, che di fatto si traduceva nel «mettere a dieta» tutto il sistema produttivo e distributivo con la conseguente mortificazione di ogni logica di sviluppo economico e sociale. L'austerità proposta da Berlinguer altro non era, infatti, se non la volontà di attuare un sistematico salasso sulla libera impresa e sul libero mercato; salasso che, se vincente, avrebbe snaturato completamente il sistema produttivo e distributivo, tagliando le gambe a ogni propulsione, con il risultato inevitabile di creare una povertà generalizzata. Siamo qui, in altri termini, al mito nefasto secondo cui una riduzione dello sviluppo economico porta a una maggiore umanizzazione della società (mito oggi riproposto, ad esempio, sotto la forma del radicalismo ecologico da Serge Latouche con l'idea della decrescita); mito, si badi bene, che implica sempre una qualche forma di pianificazione economico-politica, che a sua volta conduce al potenziamento dello Stato sulla società. Si tratta di un moralismo che dimostra in modo inequivocabile la sostanziale incapacità dei comunisti di fronteggiare e di gestire la modernità, dato che questa, ridotta all'osso, si può sintetizzare in una sola parola: individualismo. Vale a dire una concezione della vita che è stata espressa nel modo più compiuto proprio dalla società borghese. Ci si domanda qui: come è possibile pensare che tutto ciò - allora come adesso - possa essere considerato ancora attuale e proponibile? In realtà questa condanna morale - svolta in modo anche strumentale per mantenere viva negli adepti la fede nel «totalmente altro» (il capitalismo, comunque, è il male e va perciò condannato) rende evidente la mancanza di un reale, credibile modello economico-sociale alternativo al sistema vigente. È un'insufficienza che di fatto porta all'affossamento della «società aperta», tanto da sfociare, non a caso, nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo (l'organico incontro fra comunisti e cattolici di sinistra), la cui natura era e resta irrimediabilmente avversa a ogni ratio e a ogni ethos liberali, essendo nient'altro che l'abbraccio mortale - per i cittadini italiani - fra due chiese. L'austerità, il cosiddetto «sviluppo sostenibile», il compromesso storico, la democrazia organica, la questione morale sono state e sono tutte versioni di un unico registro profondamente anti-liberale: la volontà di mettere le mani sulla libertà dell'individuo, un vizio micidiale di cui i comunisti allora, e i post comunisti oggi, non sono riusciti e non riescono a liberarsene, essendo parte integrante del loro Dna.

Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri

Dalla politica al moralismo La brutta fine della sinistra, scrive Giampietro Berti, Giovedì 07/07/2016, su "Il Giornale". È possibile governare politicamente le passioni, e in modo particolare le passioni politiche, indirizzandole verso pratiche e obiettivi che rafforzino la democrazia? Di più: è auspicabile che il mondo politico cosiddetto progressista metta mano alla vita mentale e culturale degli individui per distoglierli da vizi e da sentimenti nocivi, al fine di risvegliare in essi quelli positivi del bene comune? In Passioni e politica, scritto a quattro mani da Paul Ginsborg e Sergio Labate (Einaudi, pagg. 130, euro 12) rispondono di sì. Propongono cioè un governo politico delle passioni nella prospettiva di unire ciò che nell'epoca contemporanea è separato, vale a dire il sociale e l'individuale. La bestia nera dei due autori, infatti, è il neo-liberismo, demonizzato perché sarebbe alla base della costante devastazione dei valori comunitari. Si ripete così, con altre modalità, lo schema della sinistra antiriformista, già presente negli anni Sessanta, quando nel suo lessico era ricorrente il termine neo-capitalismo per indicare l'affermarsi delle seduzioni negative del consumismo, ovvero quell'inizio di partecipazione al benessere delle masse popolari che, integrate nel «sistema», venivano distolte dal compito primario della lotta di classe. Il capitalismo, in qualunque modo si manifesti - oggi sotto la forma neo-liberista - rimane la vera minaccia costante alla vita democratica; convinzione, questa, fondata sulla negazione dell'evidenza, perché il capitalismo è inseparabile dalla forma politica liberal-democratica che quasi sempre lo accompagna. Conosciamo, infatti, regimi politici a struttura capitalistica senza liberal-democrazia, ma non conosciamo alcun regime liberal-democratico senza una base socio-economica capitalistica. Assistiamo, con questo testo (ma ce ne sono decine dello stesso tono), all'ennesimo contraccolpo della sconfitta del marxismo, sconfitta che ha portato una parte della sinistra alla metamorfosi del rivoluzionarismo. Questo, infatti, è passato dal piano sociale al piano morale, anzi alla deriva moralistica, la quale si presenta come volontà di purificazione e di rigenerazione volta a liberare gli esseri umani dallo spirito egoistico.

Se i guerriglieri entrano in Vaticano. Condannata da Ratzinger nel 1984, la Teologia della Liberazione ha trovato nuove sponde perfino nel Prefetto Müller, scrive Carlo Lottieri, Sabato 10/10/2015, su "Il Giornale". Quella teologia della liberazione che negli anni Sessanta e Settanta aveva visto molti sacerdoti dell'America Latina benedire gruppi armati di orientamento marxista, subendo poi la condanna del cardinale Joseph Ratzinger (allora prefetto della Congregazione della Dottrina della Chiesa), sta conoscendo una nuova primavera. L'11 settembre 2014 papa Francesco ha ricevuto in udienza il successore di Ratzinger, monsignor Gerhard Müller, accompagnato da Gustavo Gutierrez, ideologo del movimento. E in seguito vi sono state altre occasioni di riavvicinamento con le gerarchie cattoliche. Un volume di Julio Loredo dal titolo Teologia della Liberazione. Un salvagente di piombo per i poveri (edito da Cantagalli e in vendita al prezzo di 34 euro) reagisce dinanzi a tutto ciò. L'autore è un cattolico tradizionalista peruviano che nel 1973 fu costretto a lasciare il suo Paese, oppresso dalla dittatura marxista del generale Velasco Alvarado, dopo che aveva partecipato a una campagna proprio contro la teologia della liberazione, vicina al regime. Molte pagine del libro erano già state scritte nei decenni scorsi, ma l'autore le aveva tenute nel cassetto. Nel 1984 la condanna vaticana di questa teologia marxista aveva indotto molti a lasciare la Chiesa e altri a rivedere le proprie posizioni; e in seguito vi era stato il venir meno del socialismo reale. La questione poteva sembrare superata. La recente crisi finanziaria ha invece riportato in auge il marxismo, dato che la responsabilità prima è stata addossata al libero mercato. È dentro questo scenario che una nuova versione della teologia della liberazione è tornata sulla scena: con meno kalashnikov sotto braccio e più retorica pauperista. Il risultato è che oggi un connubio tra cattolicesimo e marxismo è gradito a tanti. Se alcuni anni fa Fidel Castro dichiarò che «la teologia della liberazione è più importante del marxismo per la rivoluzione in America Latina», numerosi teologi di alto livello ritengono che il socialismo sia in grado di aiutare la liberazione dei più deboli. A questo punto, il vero problema non sono più i Gutierrez o i Leonardo Boff. Per l'autore del volume se si vogliono studiare le radici della teologia della liberazione bisogna cogliere i legami tra il modernismo, il cristianesimo sociale e gli orientamenti cattolico-liberali, ma anche il dissolversi della società occidentale nell'età postmoderna. Così, larga parte del volume ricostruisce i cambiamenti culturali conosciuti dal cattolicesimo negli ultimi secoli. Loredo collega strettamente perfino la «Nouvelle Théologie» (Jean Danielou, Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar) agli esiti marxisti latinoamericani, vedendovi «una versione radicale e politicizzata della nuova teologia europea». Per comprendere i preti guerriglieri si deve allora «capire quanto si ispirino ai maestri europei, specialmente francesi e tedeschi. Essi hanno costruito su principi modernisti e neo-modernisti, hanno condito il tutto con l'ideologia marxista, salvo poi applicare il risultato alla concreta situazione del loro continente negli anni Sessanta». Alla base di questa corrente ideologica vanno comunque individuati due errori maggiori, che Loredo sottolinea con forza: l'uno di carattere teologico e l'altro di ordine socio-economico. Il primo era stato focalizzato da Ratzinger quando aveva evidenziato come nella teologia della liberazione la centralità non sia più per Dio e nemmeno per la persona umana: al cuore ci sono i movimenti, le battaglie politiche (anche armate), le rivendicazioni economiche. La liberazione di cui si parla è l'affrancamento da istituzioni ingiuste e soprattutto dal capitalismo, fonte di ogni sofferenza. La condanna della Chiesa nasceva dalla consapevolezza che non si possa abbracciare il materialismo storico senza, al tempo stesso, accoglierne l'immanentismo. Come afferma uno dei fondatori del movimento, il brasiliano Hugo Assman: «Il punto di partenza contestuale di una Teologia della liberazione è la situazione storica di dipendenza e di oppressione in cui versano le popolazioni del Terzo Mondo». Queste parole svelano l'altro errore: il rigetto della libertà individuale, della proprietà, del diritto a contrattare liberamente. Perché nonostante la vernice anarcoide il cattolicesimo socialista è dominato da logiche autoritarie. Il ritorno dei teologi della liberazione è però il segnale di una malattia più ampia, che riguarda la Chiesa e l'umanità nel loro insieme. D'altra parte lo stesso Müller ha affermato che quando ci si confronta con il marxismo bisogna riconoscere che «non esiste una teoria alternativa capace di spiegare meglio i fenomeni e i fatti relativi allo sfruttamento, alla povertà e all'oppressione, una teoria che possa porre in atto una strategia di reale cambiamento». Tesi che erano appannaggio di pochi preti confusionari provenienti da Brasile o Colombia, oggi sono professate dalle più alte gerarchie cattoliche. Questo vuol dire che la situazione è davvero seria e le conseguenze potrebbero essere devastanti.

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro».

L'inconfessabile continuità tra sindacato fascista e Cgil. La storia esemplare delle acciaierie di Terni mostra quanto i consigli operai della RSI abbiano influenzato l'organizzazione comunista nel dopoguerra, scrive Luca Gallesi, Sabato 18/05/2013, su "Il Giornale". Ci sono luoghi comuni che solo la lenta e paziente azione del tempo riesce a scalfire. A nulla vale la realtà dei fatti o il ricordo dei testimoni: certe convinzioni sono postulati, verità rivelate, indiscutibili e inconfutabili. Di queste assolute certezze, la storia del Novecento è ricca di esempi soprattutto a proposito degli aspetti «sociali» del fascismo, ovvero i suoi rapporti col mondo del lavoro. Contrariamente a quello che generalmente si crede, infatti, ci fu - ed ebbe un ruolo importante - anche un sindacalismo fascista, figlio del sindacalismo rivoluzionario, ma non solo. Agli studi specialistici di Pietro Neglie e di Giuseppe Parlato, autori rispettivamente di importanti saggi sul passaggio di autorevoli dirigenti sindacali fascisti nelle file della CGIL e sulla sinistra fascista, si aggiunge ora, su questo tema, un ulteriore, notevole contributo di Stefano Fabei, Fascismo d'acciaio. Maceo Carloni (Mursia, pagg. 366, euro 22), dedicato alla storia, appassionante e poco studiata, della cosiddetta «Manchester d'Italia». Parliamo della città di Terni, sede ancora oggi di importanti stabilimenti siderurgici, dove il fascismo attuò, anche durante la RSI, una efficace politica di tutela dei diritti del lavoratore. Città industriale e operaia per eccellenza, Terni viene immediatamente presa sotto l'ala protettrice del fascismo, che la eleva al rango di capoluogo di provincia, trasformandola in un gigantesco conglomerato non solo siderurgico, ma anche elettrominerario, chimico e meccanico. Lo sviluppo industriale è seguito, sin dal 1922, dall'importante gerarca Tullio Cianetti e poi dal protagonista di questo libro, Maceo Carloni, un operaio che, attraverso lo studio e la buona fede, si era fatto strada fino ai vertici del Sindacato Fascista; il suo archivio è una delle fonti principali di Fabei, che ne ricorda con pagine commoventi l'assassinio, a opera di commissari politici comunisti, rimasto vergognosamente impunito. A proposito della politica sociale fascista, anche a Terni, dove la RSI governa legittimamente fino al 13 giugno 1944, vengono elette le commissioni di fabbrica, organi di cogestione della politica degli stabilimenti, che saranno presi a modello dalla CGIL nel dopoguerra per costituire i consigli di gestione. In una lettera di Longo a Togliatti del 31 marzo 1945, la politica del PCI viene chiaramente esposta: «non siamo contro in principio alle varie istituzioni in questione (vale a dire delle mense popolari, delle cooperative aziendali e della socializzazione), ma solo perché sono fasciste». Quindi aggiunge: «boicotteremo con tutti i mezzi le elezioni delle commissioni interne fasciste, ma è evidente che a liberazione avvenuta procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie». In realtà, come dimostra Fabei, il PCI, almeno a Terni, accettò che nelle commissioni della Repubblica Sociale Italiana venissero eletti elementi comunisti e socialisti, un fatto minimizzato (quando non ignorato) dalla storiografia ufficiale, che sorvola anche sulla politica nazionale perseguita dagli operai - fascisti e antifascisti insieme - contro le pretese dell'alleato germanico. Del resto, nell'agosto 1936, Togliatti in persona aveva lanciato l'appello ai «fratelli in camicia nera» per la «salvezza dell'Italia e la riconciliazione del popolo italiano!»… Alla fine del conflitto, il CLNAI avrebbe voluto salvare, defascistizzandolo, il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, ma i vincitori della guerra, ossia gli Alleati, non tollerarono nulla che avesse anche soltanto un vago sentore di socialismo; così, tra le primissime iniziative del neonato governo antifascista ci fu l'abrogazione della legge sulla socializzazione che, anche se non aveva «disseminato la valle del Po di mine sociali», dava evidentemente molto fastidio. Ai comunisti non resta altro che adeguarsi: la rivoluzione è rimandata a tempi migliori e ci si accontenta di cancellare, almeno dalla storia, se non dalla memoria, le imbarazzanti tracce della sinistra fascista.

DESTRA-SINISTRA.

La prima volta che in Italia fece capolino il termine "destra" fu in riferimento della Destra storica, che nasce con Cavour, composta principalmente dall'alta borghesia e dai proprietari terrieri e che governò il Paese dall'unità fino al 1876, con la fine del governo Minghetti, portando al risanamento del bilancio dello Stato. Le succedette la sinistra storica, che si sarebbe trasformata nella classe dirigente liberale. Con l'avvio sulla scena politica di socialisti e popolari, si qualificò "destra" la stessa ideologia borghese e liberale, a differenza di quella conservatrice, prevalente negli altri paesi. I liberali infatti negli altri paesi furono collocati a sinistra, ma in Italia, a causa del vuoto provocato dall'emarginazione politica dei cattolici contro-rivoluzionari, essi occuparono tutto: destra e sinistra (Galli della Loggia). Nel primo decennio del Novecento nacque il Partito Nazionalista Italiano, che rivendicava le regioni italiane ancora occupate da potenze straniere e che operò per l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale.

L'introduzione di destra e sinistra come localizzazioni dello spazio politico risale ai tempi della Rivoluzione Francese, quando nelle prime riunioni del parlamento a sinistra prendevano posto gli esponenti della corrente più rivoluzionaria e a destra invece si sedevano i componenti dei partiti filomonarchici. Successivamente la codificazione ideologica delle due contrapposte posizioni politiche si realizza nel pensiero dei seguaci del grande filosofo idealista W. F. Hegel, che dopo la morte si dividono in due scuole di pensiero contrapposte, dette la sinistra e la destra hegeliana; storicamente più importante la prima, i cui maggiori rappresentanti saranno Marx, Feuerbach e Stirner. Nel Parlamento dell'Italia unita abbiamo poi i raggruppamenti detti della destra e della sinistra storica. I primi governano nel primo quindicennio e sono gli eredi della visione politica liberale di Cavour, mentre i secondi incarnano gli ideali democratici di Mazzini e Garibaldi. Con l'avvento dei moderni partiti di massa, sul finire dell'Ottocento, la sinistra diventa lo spazio politico in cui sono collocati i partiti socialisti (riformisti e massimalisti - questi ultimi sono la estrema) e, dopo il 1921, in Italia il partito comunista. In questa fase a sinistra si collocano anche gli esponenti del partito radicale. Il "fascismo movimento" delle origini non era per nulla collegato alla destra tradizionale di inizio secolo. Lo spazio a destra verrà invece occupato, agli inizi del '900, dal partito nazionalista e successivamente dal partito fascista. Quest'ultimo verrà sciolto e dichiarato non ricostituibile dopo la seconda guerra mondiale. Questo quadro rimarrà più o meno stabile fino alla fine del Novecento, perdendo però gradualmente la capacità di rappresentare quelle differenze di valori e visione politica che ancora Norberto Bobbio vi riconosceva.

Concludendo chi è di sinistra vuole trasformare la realtà e per farlo si appella ai valori di uguaglianza e giustizia.

Chi è di destra vuole tendenzialmente conservare la realtà esistente, cioè tutelare gli interessi consolidati, garantendo la libertà di autorealizzazione di ciascun individuo.

Così Giorgio Gaber irrideva gli stereotipi sottostanti alla coppia oppositiva.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate è da scemi più che di sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

I bluejeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare sono di merda più che di sinistra

Ma cos'è' la destra cos'è la sinistra

L'ideologia l'ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l'ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni venti un po' romano è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

L'ideologia l'ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perchè

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è se c'è chissà dov'è

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione che va bene per sinistra e destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra

Destrasinistra Destrasinistra Destrasinistra Destrasinistra Destrasinistra. Basta !!!!

Destra e sinistra? La tecnopolitica vuole rottamarle. Gruppi di potere con una concezione élitaria della democrazia sognano d'infliggere il colpo di grazia al sistema dei partiti, scrive Stenio Solinas, Martedì 12/02/2013, su "Il Giornale". Da qualche mese la destra e la sinistra hanno ripreso a frequentare le stanze del dibattito intellettuale. Libri e articoli ne ripropongono la distinzione/contrapposizione in nome della sua funzionalità, pur se al momento di scendere dall'empireo delle idee alla concretezza della realtà, saggisti e giornalisti sono costretti ad ammettere che, politicamente parlando, sotto quei vestiti manca il corpo che li indossi. Fantasmi, insomma. Fra lamenti sulla destra che non è mai apparsa, e la sinistra che è scomparsa, il dibattito suona un po' surreale, aggravato dal fatto che, sempre politicamente parlando, sia la destra sia la sinistra mirano al centro, luogo geometrico che per i politologi, si sa, non è mai esistito, «raggruppamento artificioso - scriveva mezzo secolo fa Maurice Duverger - della parte destrorsa della sinistra e della parte sinistrorsa della destra». Questo dirigersi verso un «non luogo» è emblematico: non sapendo più bene da dove si proviene né dove si vuole andare si finisce nella no man's land, la terra desolata di nessuno. Un bel libro, La sinistra è di destra (Rizzoli, pagg. 236, euro 11) permette di spiegarci meglio. Il suo autore, Piero Sansonetti, è stato a lungo all'Unità, di cui arrivò a essere condirettore, ha poi diretto Liberazione, oggi si divide fra il quotidiano Calabria ora e il settimanale Gli Altri, una vita professionale insomma all'interno di una sinistra che nel frattempo è diventata destra e con la quale, è chiaro, lui non vuole avere niente a che spartire. Solo che Sansonetti non ne vuole sapere nemmeno di quella sinistra cui aderì ancora ragazzo, e che solo la caduta del Muro di Berlino distrusse come pensiero e come prassi. Il comunismo, ammette, era sbagliato, anzi, c'è proprio «un errore genetico del marxismo», economicismo + autoritarismo + liberalità come suoi elementi connaturati. Bene, si dirà, benvenuto fra i socialisti riformisti. Peccato che nel frattempo quest'ultimi siano scomparsi e il riformismo, inteso come «una tendenza politica che punta a ottenere delle leggi che cambiano i rapporti economici e di potere a favore dei ceti meno abbienti», si sia trasformato nel suo opposto, ovvero «una tendenza politica che pone al vertice dell'interesse generale l'interesse della produzione e dell'impresa e della competitività». È ciò che fece Tony Blair in Inghilterra, allineando la sinistra moderata al modello liberista e in pratica uccidendo la prima in cambio dell'esercizio del potere. Solo che vent'anni dopo quel modello liberista post-comunista è entrato in crisi, e infatti lo viviamo sulla nostra pelle, ma non si può dire «abbiamo scherzato, torniamo a dove eravamo prima». La storia non ripassa mai lo stesso piatto. Qual è allora la sinistra di Sansonetti? La sua, viene voglia di dire: libertaria, non moralista né giustizialista, egualitaria, ma attenta al merito, non statalista, riformatrice nel profondo delle istituzioni nazionali, favorevole all'autonomia e alla supremazia del Politico, interclassista... È di sinistra, la sinistra di Sansonetti? Non mi sembra, ma non essendo di sinistra posso sbagliarmi. È certo però che Sansonetti non è di destra, ma qui si apre un altro misunderstanding culturale. Per Sansonetti «è difficile considerare un successo della sinistra il fatto che il ritiro di Berlusconi sia stato seguito dalla salita al potere di Monti e di un governo che, dal punto di vista economico e sociale, sicuramente è più di destra di quello precedente. Già, forse è stato proprio Monti il capolavoro di Berlusconi», sulla falsariga del resto di ciò che è avvenuto in passato, quando nell'alternanza al governo con Romano Prodi era proprio il centro-sinistra ad attuare «la gestione delle parti più scorbutiche e più di destra del suo \ programma: le leggi che danno il via libera alla precarizzazione, le liberalizzazioni, la riduzione delle pensioni, le norme contro l'immigrazione». Berlusconi incarna dunque la destra, e pazienza se il diretto interessato lo nega. Se però lo negano anche i puristi della destra, le cose si complicano: non è un conservatore, non è un tradizionalista, non è un reazionario, come si fa a definirlo di destra? Il fatto che sia o si professi liberale, non aiuta: il liberalismo sta anche a sinistra. Il fatto che sia e si professi capitalista, nemmeno. Lo era anche Engels, lo è anche De Benedetti... Come accade per la sinistra di Sansonetti, c'è una destra ideale che non si riconosce nella destra reale e che contemporaneamente però deve fare autocritica sulla propria storia: ineguaglianza, gerarchia, autorità, legge, ordine, radicamento, tradizione, nazione, bastano a comporre un universo valoriale in grado di guidare la modernità? Non mi sembra, ma non essendo di destra posso sbagliarmi. Nel libro di Sansonetti ci sono intuizioni interessanti, per esempio la nuova natura del leaderismo: «Una volta il leader era il mezzo per fare affermare il partito, ora il partito è un mezzo per affermare il leader», altra pietra tombale della coppia destra-sinistra. Resta però fuori dall'analisi un punto. Abbiamo applaudito al Novecento che sanciva la fine delle ideologie e, in virtù della globalizzazione, il dover ridefinire i confini e gli spazi nazionali, ma non abbiamo pensato che anche la democrazia parlamentare propria ai sistemi liberali proveniva da lì, era figlia di quel mondo e non gli sarebbe sopravvissuto se non trasformandosi. Voti e partiti, da soli, non sarebbero più bastati e, al di là della destra e della sinistra, è proprio questo che sta avvenendo: un'idea di democrazia depoliticizzata, elitaria e tecnocratica, in cui il cittadino consumatore cede la sovranità popolare a un mandarinato sempre più transnazionale, nella speranza che in cambio lo preservi da una crisi di modello di sviluppo cresciuta di pari passo con il venir meno dei sistemi politici tradizionali. È una depoliticizzazione tanto reale quanto negata dai diretti interessati, ovvero i partiti, eccezion fatta per quello del professor Monti. Il riformismo montiano mira a bypassare la destra e la sinistra nel nome di un centrismo transnazionale e riformista, ma per farlo deve avere la non belligeranza di forze per le quali la contrapposizione destra -sinistra è rimasta ormai l'unica ragion d'essere. È la strada giusta? Non mi sembra, ma non essendo né democratico né tecnocratico posso sbagliarmi.

La sinistra è di destra. Autore Sansonetti Piero. Quali sono oggi le idee e i principi identitari della sinistra? Una domanda alla quale è diventato impossibile rispondere: nessuna idea espressa negli ultimi anni sembra diversa da quelle della destra. Secondo Piero Sansonetti, però, non si tratta di una generale caduta delle ideologie: è un problema solo italiano, frutto di cinquant'anni in cui la sinistra si è disinteressata della riflessione politica dedicandosi a una "stalinista" quanto inutile corsa al potere, alleandosi con entità esterne alla propria vocazione - da Moro alle Brigate rosse, da Blair alla magistratura - per nascondere il proprio vuoto di idee e scegliendo di affidarsi a leader destinati a regalare il Paese a Berlusconi. Attraverso retroscena inediti, riflessioni provocatorie e perfidi ritratti dei dirigenti degli ultimi cinquant'anni, Sansonetti, dopo aver vissuto in prima persona la delusione di questa deriva, porta alla luce i mali storici del nostro riformismo: l'incapacità di governare, l'inadeguatezza nell'elaborare una nuova visione politica, il rifiuto di misurarsi con la propria storia. E spiegando le ragioni di una crisi d'identità mai così grave come oggi, intende mostrare da dove ripartire per costruire una nuova sinistra, finalmente in grado di rispondere alle sfide della modernità.

LA SINISTRA È DI DESTRA - PIERO SANSONETTI. Recensione di Giovanni Basile. Da Napolitano a Bersani, via Veltroni, Craxi, D’Alema, Renzi, la cronaca da dietro le quinte di una classe dirigente che ha sacrificato al potere ideali, vocazione, uomini. E pur di vincere, è diventata di destra. Che la sinistra abbia smarrito la propria identità e assomigli sempre più alla destra potrebbe essere una sensazione. Chi lo dice apertamente, però, è Piero Sansonetti - ex condirettore de l’Unità ed ex direttore di Liberazione, oggi alla guida di Calabria Ora – con questo libro corrosivo nei confronti di quell’ectoplasma attuale chiamato ancora sinistra. Anche i compagni di punta, dunque, realizzano che Pd e dintorni non fanno più da tempo il proprio mestiere. Mancano idee, visioni politiche, una classe dirigente capace e coraggiosa. Quando siedono all’opposizione appaiono sterili e poco convincenti. Pochi risultati e tante beghe interne da cortile quando invece governano. In compenso, la sinistra pare trovarsi assai più a proprio agio con banche, tentate scalate e operazioni finanziarie disinvolte. L’importante è, comunque, vincere, conquistare il potere, o almeno provarci, visti i deludenti risultati ottenuti da vent’anni in qua. Sansonetti elabora la sua analisi partendo da due eventi importanti: il crollo del muro di Berlino e l’avvio dell’inchiesta “Mani pulite”. Da qui il racconto di un testimone diretto: fatti, uomini, curiosità dai tempi della “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria al Pd di oggi. Le schermaglie tra i democratici e Sel sembrano evocare quelle negli anni Ottanta tra i socialisti di Craxi e i comunisti di Berlinguer. L’autore grida più volte che gli "stalinisti", cioè coloro che antepongono il potere a tutto il resto, rappresentano il connotato più marcato della sinistra italiana. Trascurando la propria aspirazione riformatrice e innovatrice, la linea politica risulta essere sempre meno riconoscibile rispetto a quella della destra. Soprattutto è evidente l’incapacità di reinterpretare una nuova forma di capitalismo - il capitalismo non lo si può certo eliminare -, non più asservita soltanto alle fredde leggi di mercato e profitto, ma compatibile con le esigenze primarie delle persone e delle società in generale. Sansonetti parla chiaro, con coraggio, senza girare intorno alle parole: il suo è lo sfogo lucido e onesto di un intellettuale organico a quell’area politica. Pubblicato da Rizzoli a gennaio 2013, La sinistra è di destra è un libro molto interessante, che un’intera classe dirigente - soprattutto con targa Pd - dovrebbe avere l’umiltà di leggere, ricco di spunti su cui discutere, confrontarsi, riflettere. Uno su tutti: l’ammissione da parte del Nostro dell’uso talvolta strumentale della giustizia per fini politici – riconosciuto di recente persino da Antonio Ingroia. Saggio mordace che probabilmente non porterà voti alla squadra di Bersani - pura casualità la pubblicazione in piena campagna elettorale? -, espressione invece di un malessere avvertito da più d’uno a sinistra, fra militanti, elettori e simpatizzanti. Lettura suggerita agli amanti della polemica politica di sostanza.

Quando la sinistra diventa "di destra", scrive Maurizio Bonanni su "L’Opinione” il 6 aprile 2013. “La Sinistra è di Destra”? Piero Sansonetti elimina il punto interrogativo, argomentando il suo punto di vista nel libro dal titolo omonimo, pubblicato per la collana Bur di Rizzoli. L’autore, nella sua veste di ex caporedattore e, poi, di vicedirettore del quotidiano “L’Unità” (organo storico del Partito Comunista Italiano), attraversa tutta la storia moderna e recente della sinistra italiana, narrando i retroscena e i personaggi di primo piano di quella che fu la “Casta” di Botteghe Oscure e non solo. Interi capitoli prendono, infatti, i nomi e i cognomi di figure illustri: Veltroni, Craxi, D’Alema, Di Pietro, Matteo Renzi e (soprattutto.) Silvio Berlusconi. Lo schema narrativo percorre una curva chiusa, una sorta di ellisse, con i due fuochi posizionati nel 1917 e nel 1989. L’introduzione chiarisce fin dall’inizio il punto di partenza, individuando le ragioni fondamentali della Caporetto della sinistra italiana. Sansonetti fa un resoconto giornalistico, a tutto tondo, di almeno 40 anni di storia patria intensamente vissuti, non lasciandosi mai contaminare dal rischio di conformismo e mantenendo intatta la sua indipendenza di giudizio. Tralasciando i tratti prettamente biografici dell’opera (tutti davvero imperdibili, essendo brillantemente narrati da una fonte diretta), il saggio enuncia la sua urticante tesi attraverso, sostanzialmente, tre pilastri: Tangentopoli; Berlusconi; la Matrice Giustizialista. Con la prima, termina la parabola storica dei due Partiti-chiesa (Dc; Pci) e del Psi di Craxi. In particolare, si rimuovono in radice i loro legami con il territorio e, con essi, anche i percorsi più virtuosi della funzione politica di prossimità. Dopo il ’94, scompaiono sezioni e scuole di partito; viene meno la capacità di presa in carico delle esigenze minute della gente e, quindi, la capillarizzazione stessa del dialogo e dello scambio “up-down”, umano, culturale (e “clientelare”, ma solo in ultima istanza) tra base e vertici politici, che legava a doppio filo rappresentanti e rappresentati: «I Partiti erano «sangue e merda», ma erano anche spirito, anima, sapere di massa». Contrariamente al pensiero dominante della sinistra e del centro “montiano”, Sansonetti riposiziona Berlusconi (solo “B.”, in seguito.) in una cornice storica oggettiva, negando quella forza dei pregiudizi che imprigiona, ieri come oggi, i suoi antagonisti politici e “mediatici” (vedi il quotidiano “La Repubblica” e Rai Tre), in una sorta di fanatismo autolesionista. B. è trattato alla stregua di un vero “epifenomeno” politico, che introduce cambiamenti fondamentali e irreversibili, sia nel “modus operandi”, che nel costume della politica italiana, scalzando, in primo luogo, la Fiat e Agnelli dai salotti “buoni” della Grande Borghesia italiana. Il ciclone Berlusconi stravolge le precedenti leggi della politica, capovolgendo la funzione della leadership interna ai partiti (che divengono apparati serventi -praticamente “padronali” -, a sostegno esclusivo del Capo indiscusso) e “americanizzando” televisivamente le regole del confronto con i suoi antagonisti politici. Né ora, né allora la Sinistra ha capito che (lett.) “B. era un avversario come un altro, e che bisognava battersi con lui, accettando il suo diritto a muoversi dentro il «suo» sistema di valori e contrapponendogli il «proprio»”. E, invece, la Sinistra che fa? Si fonde nel suo nocciolo stalinista, che ammette uno e un solo sistema di valori, facendo proprio, “per default”, quello di B.! Ed è così che “berlusconismo” e “antiberlusconismo” divengono facce di una stessa medaglia! Mentre B. introduce e afferma il suo riformismo “parallelo” -che va in senso inverso a quello della tradizione socialdemocratica-, trasformandolo in una tendenza liberale, i suoi avversari si limitano semplicemente a contemplare il proprio “ombelico ideologico”, rinunciando a formulare qualsiasi strategia alternativa: «Il riformismo tradizionale socialista si è "arreso", rinunciando a esistere, a proporre». B. è tutt’altro che un reazionario: «La sua caratteristica fondamentale è "l’innovazione"», e i suoi avversari non l’hanno capito, scambiandola per reazione! E qui si inserisce un ragionamento profondo e devastante di Sansonetti sulla follia giustizialista della sinistra, in funzione anti-B.! Perché, in fondo, «il nemico, per lo stalinismo, è ossigeno». E nulla importa se, per perseguirlo, occorra indossare l’ermellino e sposarsi alle frange più reazionarie che invocano il ricorso catartico e liberatorio alle manette. Per la sinistra, prigioniera da sempre della sua matrice stalinista, la lotta politica non è una competizione di idee, ma la conquista del «Potere», come suo fine unico! Dopo il 1998, nel momento stesso in cui D’Alema doma B. e lo estromette dal Palazzo, decide anche di fare sue le politiche di B., perché non sa come sostituirle. Cioè, di fatto, rinuncia al riformismo: «Anzi, ribattezza riformismo una nuova politica di destra, che punta a spingere lo sviluppo del Paese sulla base di un aumento e non di una riduzione delle disuguaglianze sociali!». Questo perché, in fondo, la sinistra non ha voluto e saputo affrontare, senza tabù, le vere ragioni del fallimento del comunismo, pur di salvare l’ideale marxista dell’orizzonte collettivista che, nella sua visione di comodo, non andava confuso con un mero fatto di "cronaca", come quello rappresentato dal crollo del regime sovietico. Capito il ragionamento?

L’inciucio tra i giornali non è una vecchia storia dei tempi di Mani Pulite. C’è anche oggi, scrive il 23 Gennaio 2013 il Correttore di Bozze su "Tempi". Il Fatto riporta uno stralcio del nuovo libro di Piero Sansonetti in cui si spiega come nel 1993 i grandi quotidiani concordassero le uscite per delegittimare i politici. E ora non è molto diverso. Il Fatto quotidiano la ammorbidisce sotto un titolo quasi generico: “1993, l’inciucio tra i giornali”. Forse sarebbe stato più calzante un “La macchina del fango di Tangentopoli raccontata da uno dei suoi protagonisti”, o eventualmente un accenno al “mezzo golpe mediatico-giudiziario del ’93”. Comunque la sostanza c’è tutta, nell’edizione odierna del giornale diretto da Antonio Padellaro. Ed è tutta ciccia estratta dalle pagine di La sinistra è di destra (Rizzoli), il nuovo libro di Piero Sansonetti, giornalista di sinistra, già direttore di Liberazione, all’epoca dei fatti (1992-1994) vice di Walter Veltroni all’Unità. Nel brano proposto dal Fatto, Sansonetti spiattella con tanto di nomi, cognomi e testate tutta la verità sulla gioiosa macchina editoriale che contribuì ad abbattere la Prima Repubblica a colpi di titoloni e indiscrezioni giudiziarie. All’epoca, racconta l’ex vicedirettore del quotidiano del Pci, «l’alleanza tra la Stampa, Repubblica, il Corriere della Sera e l’Unità (ai quali si associarono, con un ruolo del tutto ancillare, altre testate, come il Messaggero e, alla fine, anche il Giornale di Montanelli) non era una cosa generica. Era molto concreta: il pomeriggio, verso le sette – sempre! – partiva un giro di telefonate tra i direttori, o i vice, o i capiredattori. Si discuteva su come aprire i giornali, quali notizie mettere in prima pagina, che taglio dare ai commenti e tutto il resto». A guidare l’allegra brigata manettara era, continua Sansonetti, «l’asse di ferro tra Walter Veltroni e Paolo Mieli, allora direttore della Stampa. Diciamo che comandavano loro, e se c’erano dissidi alla fine decidevano loro». Uno strano plotone di esecuzione mediatica che oggi qualche magistrato fantasioso potrebbe ribattezzare P1, o comunque P qualcosa. E che secondo Sansonetti contava «oggettivamente molto. I partiti erano completamente delegittimati. I giornali assunsero una funzione di supplenza. Non solo erano loro a decidere le carriere politiche, a imporre le dimissioni degli indiziati e via dicendo. Ma avevano diritto di veto anche sulle leggi». E qui, a titolo di esempio, il cronista ricorda il caso del decreto Conso, «varato per depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti. Poteva avere effetti clamorosi su Tangentopoli, perché “avrebbe ridotto di molto le aree della punibilità”. Sarebbero rimasti sul tappeto solo i casi di corruzione personale». Ebbene, la mattina del decreto Conso, rivela Sansonetti, «telefonò all’Unità Cesare Salvi, importante deputato del Pds e responsabile giustizia del partito. Salvi propose di scrivere un articolo nel quale appoggiava il decreto Conso. Gli dicemmo di sì». Poi, però, «alle sette del pomeriggio, quel giorno, toccò a me fare il solito giro delle telefonate. Parlai con Mieli, con Mauro, con Polito, e tutti raccontarono del diluvio di fax di protesta che stava inondando tutte le redazioni. Mieli non aveva dubbi: bisognava stroncare il decreto. Era inevitabile. Walter Veltroni non era al giornale. Lo chiamai e gli dissi delle telefonate. Dovevamo cambiare linea, l’articolo di Salvi non andava bene. Lui fu d’accordo e m’incaricò di chiamare Salvi. Lo feci. Anche Salvi fu d’accordo, accettò di cambiare il suo articolo e di farlo diventare una critica feroce al decreto. Il titolo di tutti i giornali fu: Cercano il colpo di spugna!. Voi non ci crederete, ma era proprio così: concordavamo anche i titoli».

Ps. Ora, prima di archiviare questa storia edificante nella sezione “Correva l’anno”, sarebbe meglio provare a verificare se davvero della famigerata alleanza tra i giornaloni italiani resti ormai solo questa foto quasi ingiallita sfoderata da Sansonetti, o se piuttosto non sia diventata pura routine, legge non scritta, tradizione italiana. Da ripescare, in questo senso, la curiosa intercettazione scodellata sempre dal Fatto quotidiano il 5 novembre scorso. L’indagine è quella su Finmeccanica e gli intercettati sono il presidente Giuseppe Orsi e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, è una sera di maggio 2012 e i due sono a cena insieme, parlano della notizia di sei Maserati che secondo il Corriere della Sera sarebbero arrivate allo stesso Orsi in cambio di un elicottero e appalti. Ma a ben vedere tutto ciò è solo incidentale, quel che conta è lo scambio di battute riprodotto qui sotto.

Orsi È uscito l’articolo sul Corriere (…) un articolo cattivissimo!

Gotti Tedeschi. E di chi era?

O. Di Rizzo.

GT. Ah! Sì, me l’ha segnalato Fenu (…), l’importante che tu esci da questa vicenda benissimo.

O. Io sto uscendo abbastanza bene.

GT. No, molto te lo dico (…) ho parlo con tutti ecco, e poi soprattutto, De Bortoli, sappilo! Ha dato… l’ordine, di tutelarti! L’hai notato eh? (…)

O. De Bortoli io mi sono incazzato veramente, l’ho detto a Rizzo: guarda adesso io non chiamo De Bortoli però poi glielo dice, perché, due pagine, quattro colonne in prima pagina, due pagine interne su una telefonata alle dieci di sera! Senza che facciate la verifica! Beh, dico, non si fa neanche ai peggiori nemici, ma che cazzo t’è venuto in mente? Lui m’ha detto: guardi, è molto semplice, alle dieci di sera qualcuno ha fatto uscire quell’informazione lì (…), che lei è indagato, che c’ha la Maserati eccetera, noi abbiamo chiamato Repubblica, Repubblica ha detto: lo pubblico; e noi abbiamo dovuto pubblicare… Se no prendevamo un buco di qualche migliaio di copie.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

Comunismo e Nazi-Fascismo figli degeneri del Socialismo. Il comunismo, come ideologia, si prefigge l’estinzione delle classi con il supporto della massoneria; il Nazi-Fascismo si prefigge l’eliminazione delle razze con l’aiuto della massoneria.

La Mano Nascosta che ha Fatto Storia (Hidden Hand), scrive The Vigilant Citizen. Traduzione a cura di Anticorpi.info. I dipinti e le immagini dei grandi uomini del passato rivelano un elemento che li accomuna. Può essere solo un caso il fatto che molti di essi nascondessero una mano mentre posavano per i dipinti che li ritraevano? Improbabile. In questo post esamineremo l'origine massonica della "mano nascosta" (hidden hand) e i potenti personaggi che si fecero ritrarre nell'atto di compiere tale segno. Ricordo quando la mia docente di storia cercava di spiegarci come mai Napoleone fosse frequentemente raffigurato con una mano sotto la camicia. Le motivazioni ufficiali sono elencate nelle seguenti righe:

"Sono state avanzate numerose teorie per spiegare perché Napoleone sia stato tradizionalmente raffigurato con la mano nel panciotto. Ad esempio: un'ulcera allo stomaco, la carica dell'orologio, una malattia della pelle, il fatto che all'epoca fosse ritenuto scortese tenere le mani in tasca, un cancro al petto, una mano deforme, una bustina profumata nel panciotto, il fatto che i pittori non amino dipingere le mani." Tom Holmberg

A meno che tutti i personaggi citati in questo articolo avessero una ulcera gastrica o una mano deformata, al gesto di nascondere la mano si deve attribuire un significato specifico. Che in effetti c'è. La maggior parte delle persone che usano questo segno sono membri della massoneria. Considerando la grande importanza di tale gesto nei rituali massonici e che tutte le elite facessero parte della massoneria o comunque sapessero cosa fosse, è impossibile che la continua riproposizione di questo gesto sia semplicemente il risultato di una coincidenza. La mano nascosta è infatti un simbolo ricorrente nei rituali del grado massonico Royal Arch, ed i leader mondiali se ne servono per comunicare agli altri iniziati dell'ordine: "Questo è ciò a cui appartengo, ciò in cui credo e per il quale sto lavorando." Il grado Royal Arch (13° grado del Rito Scozzese o 7° del Rito di York) è noto anche come Mason of the Secret. Raggiunto questo grado, si dice che gli iniziati ricevano le grandi verità massoniche.

"Fino al Royal Arch gli iniziati sono familiarmente denominati confratelli, e mantenuti in uno stato di profonda ignoranza. Dal Royal Arch in poi i membri sono denominati compagni, e hanno diritto a una spiegazione esauriente sui misteri dell'ordine. Tale differenziazione concorda con la nota abitudine di Pitagora di rubricare i propri allievi praticamente alla stessa maniera. Dopo una sospensione condizionale di cinque anni, gli allievi erano ammessi alla presenza del precettore, il quale si rivolgeva a loro come "compagni" cui era consentito conversare con lui liberamente. Prima di tale termine il maestro impartiva i suoi insegnamenti da dietro uno schermo." John Fellows, Inchiesta su Origini, Storia e Tenore della Massoneria

"Accedendo al Royal Arch si apprendono meravigliose nozioni che non potrebbero essere eguagliate da qualsiasi istituzione umana." George Oliver, Lezioni sulla Massoneria

È a questo punto che l'iniziato impara il sacro nome di Dio.

"Un grado più augusto, sublime e importante di quelli che lo precedono, che è, infatti, il culmine e la perfezione dell'antica Massoneria. Esso lascia nella nostra mente la convinzione della esistenza di un Dio senza inizio e senza fine - la grande e incomprensibile Alfa e Omega - e ci ricorda la riverenza che dobbiamo al suo Santo nome." George Oliver, Monumenti Storici

Tale Santo nome è Jahbulon, combinazione di parole che significano "dio" in siriaco, caldeo ed egiziano.

"JEHOVAH. Tra le varie versioni di questo nome sacro in uso tra le diverse nazioni della terra, tre in particolare meritano l'attenzione dei massoni di grado Royal Arch:1. JAH, riscontrabile nel Salmo 68, v. 4.2. BAAL o BEL. Questa parola indica un signore, padrone o possessore, ed è stata applicata da molte nazioni d'oriente per indicare il Signore di tutte le cose, il Maestro del mondo.3. ON. Era il nome con cui JEHOVAH veniva venerato tra gli egiziani." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Il rito di iniziazione a tale grado rievoca il ritorno a Gerusalemme dei tre più eccellenti massoni, dopo la prigionia in Babilonia. Evitando di esaminare l'intera cerimonia e il relativo simbolismo, ad un certo punto del rito viene chiesto all'iniziato di imparare una parola segreta e un segno della mano che incarni il passaggio di un "velo." L'immagine sulla destra raffigura il segno che simboleggia il passaggio al Secondo Velo, come documentato nel libro Rituali Massonici di Duncan.

"Il Maestro del Secondo Velo: devi essere tre eccellenti maestri, poiché più in là non puoi arrivare senza la mia parola, segno, ed esortazione. Le mie parole sono Sem, Japhet, e Adoniram; il mio segno è questo: (portando la mano al petto), esso imita ciò che Dio diede a Mosè, quando Egli gli ordinò di spingere la mano in seno e poi, estraendola, la mano divenne bianca e lebbrosa come la neve. La mia parola di esortazione è la spiegazione di questo segno, e si trova negli scritti di Mosè, Quarto capitolo dell'Esodo: “E il Signore disse a Mosè: Poni ora la tua mano in grembo. E lui mise la mano in seno, e quando la tirò fuori, ecco che la sua mano era lebbrosa come la neve." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Come detto, il gesto della mano è ispirato dal verso 4:6 dell'Esodo. In questo passaggio biblico il cuore ("petto") rappresenta ciò che siamo in base alle nostre azioni. Si può pertanto interpretarlo come: sei ciò che fai. Il significato simbolico di questo gesto potrebbe spiegare il motivo per cui è così largamente utilizzato dai più celebri massoni. La mano nascosta consente agli altri iniziati di sapere che la persona raffigurata fa parte della fratellanza segreta, e che le sue azioni sono ispirate alla filosofia massonica. La mano che esegue le azioni è celata dietro il bavero, il che simbolicamente si riferisce alla natura occulta delle azioni massoniche. Ecco alcuni uomini celebri che utilizzarono il segno della mano nascosta.

NAPOLEONE BONAPARTE. Napoleone (1769-1821) fu un leader militare e politico francese, dalle cui azioni scaturì la politica europea nel XIX secolo. Iniziato presso la loggia dell'Army Philadelphe nel 1798. I suoi fratelli Giuseppe, Luciano, Luigi e Girolamo, erano tutti e quattro massoni. Cinque dei sei membri del Gran Consiglio dell'Impero erano massoni, come lo erano sei dei nove funzionari imperiali e 22 dei 30 Marescialli di Francia. Lo studioso di cultura massonica J.E.S. Tuckett affronta così la questione: "Strano che le prove riguardanti l'appartenenza di Napoleone alla fratellanza massonica non siano mai state esaminate in dettaglio, poiché la questione è di estremo interesse e - alla luce del ruolo notevole che questo straordinario uomo ebbe negli affari del continente europeo." Nel saggio su Napoleone e la Massoneria, Tuckett scrive: "Ci sono prove inconfutabili secondo le quali Napoleone conoscesse la natura, la finalità e la struttura della Massoneria; nozioni che approvava e praticava per promuovere i propri scopi." J.E.S. Tuckett, Napoleone e la Massoneria (fonte) Si dice anche che Napoleone facesse ricorso a poteri occulti. Quando nel 1813 fu sconfitto a Leipzip, un ufficiale prussiano scoprì una "stanza dei segreti" appartenente al condottiero corso, nella quale era custodito il libro del Destino e degli Oracoli. In principio questo libro fu scoperto in una delle tombe reali di Egitto nel corso di una spedizione militare francese del 1801. L'imperatore ne commissionò la traduzione ad uno studioso e antiquario tedesco. Da quel momento in poi, l'Oraculum diventò uno dei beni più preziosi di Napoleone. Lo consultava in molte occasioni e si dice che abbia "costituito uno stimolo per le sue imprese speculative di maggior successo."

KARL MARX. Karl Marx è noto per aver fondato il comunismo moderno. Benché alcuni massoni neghino questa possibilità,sembra che sia stato un massone di 32 grado della loggia del Grande Oriente. Marx si fece portavoce del movimento ateo e socialista d'Europa. Sosteneva il principio secondo cui la fase successiva alla sostituzione delle monarchie con le repubbliche socialiste sarebbe dovuta essere la conversione delle stesse in repubbliche comuniste.

GEORGE WASHINGTON. George Washington fu uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, ed è considerato 'il più importante massone americano.' Charles Willson scovò questo dipinto di un Washington all'età di 52 anni. Notate la posizione dei piedi: essi formano una piazza oblunga. La posizione dei piedi è molto importante nel simbolismo massonico.

WOLFGANG AMADEUS MOZART. Mozart è uno dei più prolifici e influenti compositori di sempre. Fu massone, iniziato nella loggia austriaca Zur Zur Wohltätigkeit il 14 Dicembre 1784. Numerose sue opere contengono degli importanti elementi massonici. Prima tra tutte Il Flauto Magico, del tutto basata su principi massonici. Di seguito, alcune composizioni create da Mozart per le logge massoniche:

Lied (canzone) "Gesellenreise, da utilizzare durante l'assunzione di nuovi operai."

Cantata per tenore e coro maschile Die Maurerfreude ("The Mason's Joy").

La funerea musica massonica (Maurerische Trauermusik).

Due canzoni per celebrare l'apertura del "Zur Hoffnung Neugekrönten":

Cantata per tenore e pianoforte, Die ihr die Weltalls Schöpfer ehrt unermesslichen.

La piccola cantata massonica (Kleine Freimaurer-Kantate).

IL MARCHESE DE LAFAYETTE. De Lafayette fu massone di 33 grado. Secondo quanto sostenuto da Willam Denslow nell'opera 10.000 Massoni Famosi, Lafayette era un ufficiale francese, che partecipò come generale alle guerra di indipendenza americana e fu tra i leader della Guardia Nazionale francese durante la sanguinosa rivoluzione. Fu anche nominato Gran Commendatore onorario del Supremo Consiglio di New York. Più di 75 organismi massonici negli Stati Uniti portano il suo nome.

SALOMON ROTSCHILD. Salomon Rothschild è stato il fondatore del ramo viennese della famiglia di Mayer Amschel Rothschild. La famiglia più potente del mondo ha molto influenzato le politiche di Germania, Francia, Italia e Austria. I Rothschild sono tra i creatori del sionismo e dello Stato di Israele. Il loro potere si è propagato ben oltre i confini della loggia massonica. Si dice facciano parte delle 13 linee di sangue degli "Illuminati." Il recente edificio della Corte suprema di Israele - finanziato dai Rothschild - conferma il ricorso al simbolismo massonico da parte di tale famiglia.

SIMON BOLIVAR. Noto come El Libertador (il Liberatore), Simon Bolivar è considerato il George Washington del Sud America. E' entrato in massoneria presso Cadice, in Spagna, per poi essere iniziato al Rito Scozzese a Parigi ed essere nominato templare in Francia nel 1807. Bolivar ha fondato e servito come comandante la loggia Protectora de las Vertudes No.1 in Venezuela. Il paese della Bolivia porta il suo nome. Bolivar fu anche presidente della Colombia, del Perù e della Bolivia nel 1820. Apparteneva alla loggia Ordine e Libertà No. 2, in Perù. Notate nell'immagine la posizione dei suoi piedi e lo schema a scacchiera del pavimento, anch'esso massonico.

JOSEPH STALIN. Il regno del terrore di Stalin in Unione Sovietica provocò la morte di milioni di suoi connazionali. Spesso nelle foto si fece ritrarre facendo il gesto della mano nascosta. Non esistono documenti ufficiali che dimostrino la iniziazione di Stalin alla Massoneria. Naturalmente, i dittatori come Stalin riuscivano a controllare tutte le informazioni circa se stessi ed i loro affari, rendendo difficile provare alcunché in un senso o nell'altro. Il segnale della mano nascosta però fornisce un indizio della sua appartenenza ad una fratellanza occulta.

ALTRI PERSONAGGI: Mazzini, Cavour, Henry Varnum Poor (Standard & Poor's), Franklyn Pierce.

Come si è visto, i leader con la "mano nascosta" hanno avuto una grande influenza sulla storia del mondo ed è stato confermato che molti fossero massoni. Questo gesto è un dettaglio ancora largamente trascurato, che allude all'abbraccio della filosofia occulta da parte del leader. Una volta compreso questo fatto e riconosciuta l'immensa influenza che questi leader hanno avuto sul corso della storia, possiamo cominciare a comprendere la forza nascosta che attualmente guida l'attuale mondo internazionale. I membri di queste confraternite avranno anche mantenuto opinioni diverse e aderito a fazioni differenti (comunismo contro capitalismo), ma la filosofia di fondo, le convinzioni e gli scopi ultimi erano comuni: l'avvento di una Età dell'illuminismo. Naturalmente, ogni ricercatore serio è già a conoscenza del ruolo della massoneria nel dispiegarsi della storia mondiale. Il segno della mano nascosta usato da numerosi personaggi storici è semplicemente l'espressione di questa realtà poco nota. Come affermò Confucio: "Il mondo è governato da segni e simboli, non da leggi e frasi." Articolo in lingua inglese pubblicato sul sito The Vigilant Citizen

Lo scopo della massoneria è il trionfo del Comunismo. Pubblicato da "Neovitruvian". Secondo CG Rakovsky i massoni “devono morire per mano della rivoluzione, raggiunta grazie alla loro cooperazione”. Fu uno dei fondatori dell’Internazionale Comunista, ambasciatore sovietico a Parigi e Londra, e capo di Stato dell’Ucraina. “Il vero segreto della massoneria è il suicidio della massoneria come organizzazione, e il suicidio fisico di ogni importante massone.” Questa rivelazione proviene da un interrogatorio della polizia stalinista nel 1938 dal titolo “La Sinfonia rossa”, un documento non originariamente concepito per il pubblico. By Henry Makow Ph.D. (Trascrizione da Des Griffin, Fourth Reich of the Rich, p. 254, on-line) Tradotto da “Neovitruvian” . “So tutto questo non perche` sia un massone, ma poiché appartengo a Loro ‘” [gli Illuminati] dice Rakovsky, un collega di Leon Trotsky arrestato per aver complottato contro Stalin. L’obiettivo di Rakovsky è quello di convincere Stalin, un nazionalista, a collaborare con l' “internazionale comunista-capitalista. La massoneria è la più grande società segreta al mondo con oltre cinque milioni di membri, di cui tre milioni negli Stati Uniti. E ‘strumentale nella cospirazione totalitaria. Nei Protocolli dei Savi di Sion, l’autore (forse Lionel Rothschild, 1808-1879) scrive: “La muratoria Gentile funge ciecamente da schermo per noi e per i nostri obiettivi, ma il piano d’azione rimane per tutto il popolo un mistero sconosciuto …. Chi e che cosa è in grado di rovesciare una forza invisibile?” (Protocollo 4)”. Ancora egli scrive, «dovremo creare e moltiplicare le logge massoniche … assorbire in loro tutti che sono di primo piano nella attività pubblica e coloro che possono tornarci utili, perché in queste logge troveremo il nostro centro per l’intelligence e le attività di influenza …. Le trame politiche più segrete ci saranno note e cadranno sotto le nostre abili mani manipolatorie… Noi sappiamo quale è la meta finale … mentre i goyim non sanno nulla … “(protocollo 15) Nel suo interrogatorio, Rakovsky dice che milioni affollano la Massoneria per ottenere un vantaggio. “I governanti di tutte le nazioni alleate erano massoni, con pochissime eccezioni.” Tuttavia, il vero obiettivo è “creare tutti i presupposti necessari per il trionfo della rivoluzione comunista, questo è lo scopo evidente della massoneria, ma è chiaro che tutto questo va fatto con vari pretesti, ma sempre attraverso i loro ben noti slogan [Libertà, Uguaglianza, Fraternità]. Hai capito?” (254) I massoni dovrebbero ricordare la lezione della Rivoluzione francese. Anche se “hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione, sono stati consumati da essa…” Dal momento che la rivoluzione richiede lo sterminio della borghesia come classe, [così tutta la ricchezza andrà dagli Illuminati nelle vesti dello Stato] ne consegue che i massoni devono essere liquidati. Quando questo segreto viene rivelato, Rakovsky immagina “l’espressione di stupidità sul volto di qualche massone quando si rende conto che deve morire per mano dei rivoluzionari. Urlerà e vorrà riconosciuti i suoi servizi nella rivoluzione! E ‘ uno spettacolo in cui si può morire … ma di risate!” (254) Rakovsky si riferisce alla massoneria come una bufala: “Un manicomio, ma in libertà” (254) In Russia nel 1929, ogni massone che non era ebreo venne ucciso insieme alla sua famiglia, secondo Alexey Jefimow (“Chi sono i governanti della Russia?» P.77) Come massoni, altri richiedenti per l’ammissione nella “utopica masterclass umanista” (neocons, i liberali, i sionisti, i gay e le attiviste femministe) potrebbero trovarsi in una brutta sorpresa. Probabilmente infatti verranno messi da parte una volta che adempiranno al loro scopo. Quando l’interrogatore fece pressioni su Rakovsky per avere informazioni su importanti Illuminati che gli si sono avvicinati con una iniziativa, Rakovsky era sicuro che almeno due di essi fossero morti: Walter Rathenau il ministro degli Esteri del Wiemar, e Lionel Rothschild. Dice che Trotsky era la sua fonte di informazione. Altre sono speculazioni: “Come istituzione, la banca di Kuhn Loeb & Company di Wall Street: [e] le famiglie Schiff, Warburg, Loeb e Kuhn, io dico le famiglie, al fine di sottolineare diversi nomi dal momento che sono tutti collegati … attraverso matrimoni, i Baruch, i Frankfurter, gli Altschul, i Cohen, i Benjamin, gli Strauss, i Steinhardt, i Blom, i Rosenman, i Lippmann, i Lehman, i Dreyfus, i Lamont, i Rothschild, i Lord, i Mandel, i Morganthau, gli Ezekiel, i Lasky.” (272) Consentendo ai banchieri il privilegio di creare denaro, abbiamo creato un vampiro insaziabile. Se si potesse produrre soldi, immaginate la tentazione di possedere e controllare tutto, anche il pensiero! Questo è il senso ultimo del comunismo. Rakovsky fa riferimento alla Grande Depressione del 1929 come ad una “rivoluzione americana”. Essa è stata deliberatamente provocata dagli Illuminati a scopo di lucro, per demolire lo “stereotipo americano” e conquistare il potere politico. “L’uomo per mezzo del quale hanno fatto uso di tale potere fu Franklin Roosevelt. Capisci? … In quell’anno, 1929, il primo anno della rivoluzione americana, nel mese di febbraio, Trotsky lasciò la Russia, l’incidente avvenne in ottobre… Il finanziamento ad Hitler fu concordato nel mese di luglio, 1929. Pensi che tutto questo sia una coincidenza? In questo momento si stavano preparando per la presa del potere negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica: lì tramite una rivoluzione finanziaria, e qui [in Russia] con l’aiuto della guerra [Hitler, Seconda Guerra Mondiale] e la sconfitta che doveva seguire.” (273) Rakovsky propose che Stalin collaborò con gli Illuminati, La prima condizione è che si fermasse con le esecuzione dei seguaci di Trotzky. Poi saranno stabiliti “diverse zone di influenza” dividendo “il Comunismo formale da quello reale.” Ci saranno “concessioni reciproche di aiuto per un periodo, mentre il piano è in corso di svolgimento … Appariranno persone influenti a tutti i livelli della società, anche molto alti, che aiuteranno il Comunismo…” (276) Rakovsky delineò il piano degli Illuminati di fondere il comunismo e il capitalismo. In ogni caso, gli Illuminati controlleranno tutta la ricchezza e il potere. “A Mosca c’è il Comunismo: A New York, il capitalismo, tesi e antitesi. Analizziamo entrambi. A Mosca c’è un comunismo soggettivo ma [oggettivamente] un capitalismo di Stato…a New York il capitalismo è soggettivo, ma oggettivamente si tratta di comunismo. (276) Nel caso del comunismo, lo Stato possiede le corporazioni, i banchieri e lo Stato. Nel caso del capitalismo, i banchieri controllano le corporazioni, e le corporazioni controllano lo Stato. In ogni caso, in Occidente, è necessario un capitalismo monopolistico, con crescente controllo politico e culturale simile a quello della Russia sovietica. The Red Symphony conferma che i nostri leader politici e culturali sono per lo più creduloni o traditori. Il sovvertimento degli Stati Uniti fa parte di un piano per la tirannia mondiale. Una cabala occulta di banchieri è dedita a schiavizzare l’umanità. La maggior parte delle religioni e gruppi sono stati sovvertiti dal piano degli Illuminati per dominare il mondo e usurpare tutta la sua ricchezza, come indicato nei protocolli. Il denominatore comune è la Massoneria. Una manifestazione dell’emergente tirannia luciferina Rothschild è il design massonico del nuovo edificio della Corte Suprema israeliana, sopra. La maggior parte dei massoni ed ebrei non sono a conoscenza di questo piano, si sarebbero opposti, e sono essi stessi vittime. L’accusa di “antisemitismo” è utilizzata per distrarci dal vero problema, la creazione di uno stato di polizia globale dedicato alla proiezione della ricchezza, della perversità e della potenza dei cabalisti in ogni sfera della vita. La “guerra al terrore” è utile a questo controllo autoritario. Che cosa stanno progettando se l’obiettivo è uno stato di polizia con tanto di confisca delle armi da fuoco? Un’altra Grande Depressione? Una Guerra civile? Un gulag americano? Un attacco nucleare o biologico “terrorista”? L’11 settembre dimostra che sono in grado di macellare americani senza alcun rimorso. Siamo nati all’80esimo minuto di una partita di calcio e la squadra di Dio non se la sta cavando bene. Gli Illuminati hanno definito Dio in termini privi di senso e quindi lo hanno bandito dal nostro universo. Dio è sinonimo di ideali spirituali. Invece di elevarci spiritualmente, ci hanno degradato e trasformato in animali, per servire meglio gli Illuminati.

Massoneria e Socialismo. Le radici occulte del socialismo, scrive Jean Vandamme l'8-27 luglio 2010 su "Centro San Giorgio". Se la tesi di dottorato di Nicholas Nicholas Goodrick-Clarke intitolata "The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology: The Ariosophists of Austria and Germany, 1890-1935" (The Aquarian Press, Wellingborough 1985) mostra l'influenza preponderante delle Logge nella genesi del nazionalsocialismo, lo stesso si può dire per il comunismo, il quale è solamente una forma radicale dell'ideologia socialista. Resta tuttavia da spiegare perché questi regimi totalitari si sono liberati dalla tutela delle Logge per poi osteggiarle. Allo stesso modo, ci si può legittimamente chiedere quale interesse abbia avuto la Massoneria a produrre tali mostruosità. Questo articolo ci propone alcune risposte a partire da citazioni estratte da testi massonici sull'argomento.

Gli iniziati dietro ogni ideologia - Introduzione di VLR. È bene sapere che nazisti e massoni avevano qualcosa in comune. Ecco nuova luce sulle ragioni della loro reciproca ostilità. Il fenomeno dei rapporti delle Logge con l'estrema destra è cosa nota da molto tempo: già il massone René Guénon (1886-1951) 2, nella sua lettera del 12 ottobre 1936 a R. Schneider, affermò a proposito di Benito Mussolini (1883-1945): «D'altronde, corrisponde a verità il fatto che (Mussolini) era massone, e - dettaglio divertente - la camicia nera con cui fece il suo ingresso a Roma gli era stata offerta dalle Logge di Bologna» 3. La questione merita di essere approfondita ma, certamente, tutto accadde come se si fosse prodotto uno scisma all'interno di ciò che può essere definita «la Chiesa Iniziatica»:

- da un lato, le obbedienze classiche, vicine all'internazionalismo e all'egualitarismo;

- dall'altro, alcune Logge come la Società Thule, l'Ordine del Nuovo Tempio, l'Ordo Templi Orientis (O.T.O.) 4, e altre organizzazioni gnostiche, élitarie, spesso fondate su un'inasprita ideologia razzista. L'opera di Nicholas Goodrick-Clarke ha l'immenso merito di rivelare che dietro ai movimenti politici del XX secolo, si nascondevano spesso dei guru, ossia degli Alti Iniziati. In definitiva, se si osservano gli avvenimenti tenendo conto di questo fattore nascosto, ci si accorge che la Rivoluzione, sotto le sue diverse maschere, non è nient'altro che una colossale manipolazione dei popoli per mezzo delle ideologie. L'internazionalsocialismo è mostruoso tanto quanto il nazionalsocialismo. Stalin (1878-1953), Mao (1893-1976) e Pol Pot (1928-1998) non hanno nulla da invidiare ad Adolf Hitler (1889-1945). In ciò non c'è niente di stupefacente: questi fratelli-nemici hanno le stesse origini iniziatiche.

Le origini massoniche del socialismo. Tutti coloro che dubitano di tale filiazione dovrebbero consultare il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie («Dizionario della Massoneria»), pubblicato da Daniel Ligou (Parigi 1987). Quest'opera autorizzata è molto istruttiva. Da essa, apprendiamo che tra i numerosi massoni, che furono gli apostoli del socialismo, figurano:

- Il conte de Saint-Simon (Claude-Henry di Rouvroy; 1760-1825). «Il fondatore del sansimonismo era stato iniziato nel 1786 alla Loggia "L'Olympique de la Parfaite estime", all'Oriente di Parigi e alla Società Olimpica» (pag. 1079);

- Pierre Leroux (1797-1871). «Filosofo, giornalista e scrittore socialista, tipografo, membro della Costituente del 1848 poi della Legislativa. Membro della Loggia "Les Droits de l'Homme", Oriente di Grasse» (pag. 695).

- Louis-Auguste Blanqui (1805-1881). Secondo il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie, il famoso teorico socialista fu «membro degli "Amis de la Vérité" ("Amici della Verità") intorno al anni 1830, e del "Temple des Amis de l’Honneur Français" ("Tempio degli Amici dell'Onore Francese") nel 1842» (pag. 141).

- Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Il padre del socialismo francese, prima amico e poi avversario di Karl Marx (1818-1883), venne iniziato «non senza avere esitato» per molto tempo «l'8 gennaio 1847, alla Loggia di Besançon "Spucar", come riportato anche nell'opera "De la justice dans la Révolution et dans l'Église" ("La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa"; 1858). La sua iniziazione è celebre soprattutto per il fatto che Proudhon, alla terza domanda d'ordine, "Doveri dell'uomo verso Dio", rispose: "La guerra"»! (pag. 967).

- Louis Blanc (1811-1882). «Militante repubblicano, poi socialista, membro del Governo provvisorio del 1848, deputato di Parigi nel 1871, poi senatore. Blanc venne iniziato in esilio, alla Loggia "Les Sectateurs de Menés ("I Seguaci di Menés"), all'Oriente di Londra, prima del 1854, data nella quale gli venne conferito il 93º Grado del Rito di Memphis e Oratore del Supremo Consiglio di questo Grado» (pagg. 140-141).

- Mikhail Bakunin (1814-1876). «Il principe Mikhail Bakunin, anarchico russo, nato l'8 maggio 1814 a Premoukhino (oggi Kalinine), venne educato da un padre massone, un aristocratico liberale che sosteneva di avere assistito alla presa della Bastiglia [...]. Divenuto massone nel 1845 [...], Bakunin si era avvalso di questa qualità nel 1848, ma non si sa molto sulla sua iniziazione [...]. Giunto a Parigi nel 1844, frequentò Lamennais, George Sang, Michelet, Nicolas Herzon e il "Fratello" Louis Blanc» (pag. 102).

- Lenin (Vladimir Ilyich Ulyanov; 1870-1924). «Vladimir sarebbe stato iniziato alla Loggia "L'Union de Belleville", all'Oriente di Parigi, prima della guerra del 1914. Ma essendo andati perduti gli archivi di questa Loggia, non si possiedono tracce formali dell'appartenenza di Lenin alla Massoneria. Tutto ciò che si sa con certezza è che Ulyanov fu amico di "Montehus” (1872-1958), un cantante antimilitarista che, precisamente, era membro della Loggia "L'Union de Belleville" nello stesso periodo» (pag. 693). Sapete a chi si deve L'lnternationale, questo canto rivoluzionario diventato l'inno internazionale dei partiti socialisti e comunisti, e che fu anche l'inno sovietico fino al 1936? Ce lo dice il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie (pag. 954): ad un massone!

- Eugène Pottier (1816-1887), «anarchico francese, nato nel 1816, partecipò alle Rivoluzioni del 1830, del 1848 e del 1871. Fu sindaco del dipartimento dell'IIe sotto la Comune di Parigi. Condannato a morte, si rifugiò in Belgio, in Inghilterra e in America dove venne iniziato nel 1875 alla Loggia "Les Égalitaires" ("Gli Egualitari"), fondata a New York dai proscritti della Comune. Ritornato in Francia nel 1887, volle farsi regolarizzare affiliandosi alla Loggia parigina "Le Libre Examen" ("Il Libero Esame"), ma l'autore dell'Internazionale morì alcuni giorni dopo» (pag. 954). Di fatto, è attestato storicamente che Pottier compose nel 1871 la poesia che fu messa in musica da Pierre Degeyter (1848-1932) nel 1888 ed eseguita per la prima volta lo stesso anno per la festa dei lavoratori di Lille.

Massoneria e comunismo. Anche se, come abbiamo visto, non si può affermare con certezza che Lenin fosse massone, una cosa è certa: tra la Massoneria e il socialismo radicale - il comunismo - non c'è vera opposizione. L'incompatibilità proclamata nel novembre 1922 al IV Congresso dell'Internazionale non deve ingannarci. In Francia, ad esempio, numerosi fondatori del giovane Partito Comunista erano massoni:

- Ludovic-Oscar Frossard (1889-1946), Segretario generale del giovane Partito Comunista Francese, ma ostile alla «bolscevizzazione» del Partito, sconfessato dall'Internazionale a causa del suo atteggiamento al II Congresso del Partito Comunista Francese, e per il suo rifiuto della 22ª condizione di Mosca (il Kominternl'humanité vietò l'appartenenza alla Massoneria), si dimise il 1º gennaio 1923. Creò allora il Partito Comunista Unitario (PCU, che nel 1924 divenne, dopo fusione con altri gruppi dissidenti, l'Unione Socialista Comunista).

- André Morizet (1876-1942). Membro fondatore del Partito Comunista, fu ostile alla 22ª condizione di Mosca, che vietava l'appartenenza alla Massoneria di cui era membro (Grand'Oriente di Francia). Escluso dal Komintern nel gennaio del 1923, con Ludovic-Oscar Frossard, per le stesse ragioni, uscì dal Partito Comunista Francese ed entrò nell'l'Unione Socialista Comunista rimanendovi fino al 1927.

- Antonio Coen (1885-1956). Iniziato alla Gran Loggia, membro dell'ufficio del Partito Comunista, dal quale si staccò dopo il IV Congresso dell'Internazionale. Alcuni anni più tardi, divenne Gran Maestro della Gran Loggia di Francia.

- Zéphirin Camélinat (1840-1932). Tesoriere della Section Française de l'Internationale Ouvrière («Sezione Francese dell'Internazionale Operaia»; SFIO), si riunì ai maggioritari comunisti del Congresso di Tours nel 1920, e favorì la nascita del comunismo in Francia. Nel 1921, egli vendette le azioni del giornale L'Humanité, (fondato da Jean Jaurès), al Partito Comunista Francese. Nel 1924, fu candidato alle elezioni presidenziali, ed ottenne ventun voti sull'insieme dei deputati e dei senatori. Malgrado le condizioni di Mosca, fu la sola personalità del Partito Comunista Francese ad essere al tempo stesso membro del Komintern e della Massoneria.

- Charles Lussy (1883-1967). Fin dalle elezioni legislative del 1914, egli difese i colori della Section Française de l'Internationale Ouvrière. Dopo la Grande Guerra, entrò nell'Humanité, poi seguì la maggioranza del Partito di Jean Jaurès (1859-1914) nella sua adesione all'Internazionale comunista. Rimase nel Partito Comunista per due anni. All'inizio del 1923, Lussy lasciò il Partito Comunista Francese, e dopo una breve parentesi con l'Unione Socialista Comunista, tornò al Partito Socialista.

- Marcel Cachin (1859-1958). Padre fondatore del Partito Comunista, direttore del giornale L'Humanité, fu iniziato alla Massoneria nella Loggia La Concorde Castillonnaise.

- Antoine Ker (1886-1923). Sostenitore della III Internazionale, assistette, nel dicembre 1920, al Congresso di Tours e venne eletto nel Comitato Direttivo del Partito Comunista. Collaborò all'Humanité e a La Vie Ouvrière («La vita operaia»), e venne incaricato di curare i rapporti tra il Partito Comunista Francese, il Partito Comunista Tedesco e l'Internazionale. In questa cornice, andò a Mosca. Rimase in collegamento col Partito fino alla sua morte, ma «si sarebbe dimesso» dalla Massoneria.

Ma ce ne sono tanti altri, come Ho Chi Min (1890-1969), il liberatore-oppressore comunista del Vietnam. Nel n° 256 della rivista L'Histoire, Jacques Dalloz - che ha dedicato un'opera a tale questione - scrive: «Alcuni vietnamiti venuti in Francia, soprattutto per studiare, si fecero iniziare a Parigi o nelle città universitarie del Sud. Tra essi, il futuro Ho Chi Min. All'inizio dell'anno 1922, il giovane comunista si presentò per l'iniziazione alla Loggia della capitale "La Fédération Universelle" ("La Federazione Universale"), raccomandato dall'incisore Roger Boulanger […]. Nel dicembre dello stesso anno, la IV Internationale condannò la Massoneria, "un'istituzione segreta della borghesia radicale": un paradosso che non sembrò disturbare affatto il futuro dirigente vietnamita […]. Nell'agosto 1945 […], altri massoni andarono al potere, come Hoang Minh Giam, che i responsabili francesi consideravano a quel tempo l'eminenza grigia di Ho Chi Min, e che partecipò ai suoi governi per molti anni […]. La fine della guerra in Indocina portò un nuovo colpo alla Massoneria locale. Già moribonda, la Fratellanza tonchinese si spense col passaggio al comunismo del Nord Vietnam. L'installazione del nuovo regime portò - come negli altri Paesi comunisti - alla scomparsa della Massoneria. In questo caso, l'iniziazione di Ho Chi Min non fece alcuna differenza» 5. Tutto porta dunque a pensare che tra comunismo e Massoneria si è prodotto un movimento simile a quello che Goodrick-Clarke constata tra il nazismo e le Logge: sia un affrancamento progressivo dalla loro tutela, e in seguito un'ostilità, o addirittura una persecuzione di queste società di pensiero, considerate - a buon diritto - come il fermento di altre ideologie concorrenti. Ci si può chiedere, dunque, per quale motivo le Logge abbiano suscitato ideologie contrapposte, col rischio, nelle loro forme radicali, di una persecuzione degli stessi massoni. Tenteremo di dare una spiegazione a questo dilemma alla luce di testi massonici sull'argomento.

L'unità fondamentale di tutti i «Fratelli». Ma - diranno gli scettici - come spiegare l'esistenza di certe obbedienze massoniche nei Paesi capitalisti che si sono dichiarate più volte ostili al comunismo? Ciò dimostrerebbe che i massoni non hanno una visione globale dell'avvenire dell'umanità. Ogni obbedienza lavorerebbe unicamente per conseguire gli scopi della nazione alla quale appartiene. Errore! Un testo fondante come le Costituzioni di Anderson (1723) proclama che riunendo gli uomini di tutti gli orizzonti la Massoneria persegue lo scopo di diventare «il centro d'unione e lo strumento per stringere un'amicizia sincera tra gli uomini che altrimenti sarebbero rimasti continuamente estranei». L'obiettivo è noto: l'instaurazione di un Governo Mondiale. Ciò è rivelato da quell'altro testo fondamentale che è il Discorso di Ramsay (1737): «I nostri antenati, i crociati (i Templari; N.d.R.), vollero riunire in una sola fratellanza gli individui di tutte le Nazioni. Quale obbligo abbiamo verso questi uomini superiori che hanno immaginato un'istituzione il cui unico scopo è la riunione degli spiriti e dei cuori per renderli migliori e per formare col passare del tempo una Nazione Spirituale in cui, senza derogare ai diversi doveri che esige la diversità degli Stati, si creerà un Popolo nuovo che, riunendo numerose nazioni, li cementerà attraverso i legami della virtù e della scienza».

Ideologie «opposte» come strumenti di «progresso». Importa poco se questi uomini, una volta usciti dalle Logge, siano appartenuti a partiti politici o persino a Paesi antagonisti. Una volta reclutati, avranno avuto in comune certi principî che hanno fatto sì che, pur combattendosi tra loro, hanno collaborato alla Grande Opera, vale a dire all'edificazione della civiltà massonica mondiale. Un simile modo di procedere è efficace: si chiama dialettica. Non sono io a dirlo, ma Oswald Wirth (1860-1943), uno dei teorici ufficiali della Massoneria: «Il due è il numero del discernimento, che procede per analisi, stabilendo incessanti distinzioni sulle quali nessuno potrebbe basarsi. Lo spirito che nega di fermarsi in questa via si condanna alla sterilità del dubbio sistematico, all'opposizione impotente, alla contestazione continua [...]. Il due rivela il tre, e il Ternario non è che un aspetto più intelligibile dell'unità. La Tri-unità di ogni cosa è il mistero fondamentale dell'iniziazione intellettuale. Il massone, che orna la sua firma con tre punti in forma di Triangolo, lascia intendere che sa riportare, attraverso il Ternario, il Binario all'unità. Si si è realmente elevato all'altezza del punto che domina gli due altri, non si perderà mai nelle vane discussioni, perché percepirà senza difficoltà la soluzione che si sprigiona da un dibattito contraddittorio. Giudicando dall'alto senza il minimo pregiudizio e in tutta libertà di spirito, otterrà la luce dallo scontro dell'affermazione e della negazione». Ecco dunque chiarita la filosofia massonica: di due tesi (o di due forze) opposte, si utilizza la risultante che farà avanzare la causa. Avrete notato, en passant, l'analogia profonda con l'ideologia marxista. Nel libro Idéalisme et matérialisme dans la conception de l’Histoire («Idealismo e materialismo nella concezione della Storia»), il socialista Jean Jaurès rivendica la filiazione del socialismo dai sistemi filosofici massonici di Immanuel Kant (1724-1804) e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), considerati come tali dai massoni:

- Per Kant, lo sapete tutti, il problema filosofico consiste espressamente nel trovare la sintesi delle affermazioni contraddittorie che si presentano allo spirito dell'uomo: l'Universo è limitato o infinito? il tempo è limitato o infinito? La serie delle cause è limitata o infinita? Tutto è sottomesso all'universale e inflessibile necessità, o c'è spazio anche per la libertà delle azioni umane? Tante tesi e antitesi, negazioni e affermazioni, tra i quali lo spirito esita. Lo sforzo del filosofia kantiana è tutto nella soluzione di queste contraddizioni, di queste antinomie fondamentali.

- Infine è Hegel ad enunciare la formula di questo lungo lavoro, dicendo che la verità è nella contraddizione: coloro che affermano una tesi senza opporgli una tesi opposta errano e sono schiavi di una logica ristretta e illusoria.

Credo sia inutile ricordare agli adepti la dottrina di Marx, il quale è stato un discepolo intellettuale di Hegel: lo dichiara lui stesso, lo proclama nella sua introduzione al Capitale; sembra che anche Friedrich Engels (1820-1895), per alcuni anni, a causa di quella tendenza che porta l'uomo il capitale - das kapital che ha vissuto per molto tempo in un luogo a ritornare verso le sue origini, si sia applicato nello studio approfondito di Hegel. Una sorprendente applicazione di questa formula dei contrari la si trova in Marx il quale constata «l'antagonismo delle classi, lo stato di guerra economica, che oppone la classe capitalista alla classe proletaria […]. Secondo la vecchia formula di Eraclito che Marx ama citare ("La pace è solamente una forma, un aspetto della guerra; la guerra è solamente una forma, un aspetto della pace"). Non bisogna opporre l'uno all'altro: ciò che oggi è lotta, domani sarà l'inizio della riconciliazione. Il pensiero moderno dell'identità dei contrari (che i massoni definiscono "coincidentia oppositorum"; N.d.T.) si ritrova ancora in quest'altra concezione ammirevole del marxismo: "L'umanità è stata condotta fin qui, per così dire, dalla forza inconscia della Storia […]. Ebbene, quando sarà realizzata la rivoluzione socialista, quando l'antagonismo delle classi sarà cessato, quando la comunità umana sarà in possesso dei grande mezzi di produzione secondo i bisogni conosciuti e constatati dagli uomini, allora l'umanità verrà stata strappata al lungo periodo d'incoscienza in cui cammina dai secoli, spinta dalla forza cieca degli avvenimenti, ed entrerà nella nuova era in cui l'uomo anziché essere sottomesso alle cose regolerà l'andamento cose […]. Per Marx, questa vita incosciente è la condizione stessa e la preparazione della vita cosciente di domani, e così è ancora la Storia si incarica di risolvere una contraddizione essenziale. Ebbene, mi chiedo se non si può, se non si deve, senza mancare allo spirito stesso del marxismo, spingere oltre questo metodo di conciliazione dei contrari, di sintesi dei contraddittori, e cercare la conciliazione fondamentale del materialismo economico e dell'idealismo applicato allo sviluppo della Storia». Dopo questa lettura, non ci si può trattenere dal pensare che il socialismo si è adeguato alla dialettica massonica e l'ha sistematizzata ed interpretata in modo particolare ed esclusivo. Notiamo, en passant, l'analogia profonda del pensiero massonico e di quello socialista per via del loro carattere messianico, prometeico e olista. Sottolineiamo anche il loro obiettivo comune: l'unità e l'autonomia dell'umanità. Tuttavia, se, nelle righe precedenti, Jaurès illustra il concetto di dialettica marxista, ignoriamo ancora quello della dialettica massonica.

Ordo ab chao, o la finalità dello Stato totalitario. Ed ecco un primo chiarimento. Commentando il motto massonico Ordo ab Chao («L'ordine a partire dal caos»), l'illustre massone René Guénon, rivela che, in realtà, le organizzazioni opposte vengono utilizzate come la «materia» dagli «Alti Iniziati» per farle concorrere alla Grande Opera: «Menzioneremo ancora, senza insistere oltremodo, un altro significato di un carattere più particolare che del resto è legato abbastanza direttamente a quello che abbiamo appena indicato, perché si riferisce tutto sommato allo stesso campo: questo significato si rifà all'uso, per farli concorrere alla realizzazione dello stesso piano d'insieme, di organizzazioni esterne incoscienti di questo piano, e apparentemente contrapposte le une alle altre, sotto un'unica direzione "invisibile" che è essa stessa al di là di tutte le opposizioni. In sé stesse, le opposizioni, grazie all'azione disordinata che producono, costituiscono certamente un tipo di "caos" meno apparente; ma si tratta precisamente di usare questo stesso "caos" prendendolo in qualche modo come la "materia" sulla quale si esercita l'azione dell0 "spirito" rappresentato dalle organizzazioni iniziatiche di ordine l'elevato e più "interiore" alla realizzazione dell'"ordine" generale, come, nell'insieme del "cosmo", tutte le cose che sembrano opposte tra loro non sono realmente, in definitiva, che elementi dell'ordine totale». Se le parole hanno un senso, questa si chiama manipolazione su scala continentale. Il risultato di queste manovre, accuratamente nascoste al profano, sarà, come si è visto, la creazione di un Governo Mondiale. E questo Superstato sarà totalitario. Il motto Ordo ab Chao non lascia su questo punto alcun dubbio: dopo il disordine (solve), sapientemente provocato sul piano nazionale e internazionale - disordine ottenuto adulando le passioni degli uomini e sviluppando ideologie contrapposte - verrà l'«ordine» massonico (coagula) che sarà brutale. A quelli che vorrebbero sapere ciò che gli Alti Iniziati pensano della Democrazia, consiglio la lettura dell'opera del massone René Guénon più esplicita su questo argomento, vale a dire La Crise du Monde Moderne («La Crisi del Mondo Moderno»), un libro fondamentale presso gli iniziati di estrema destra.

Conclusione. Forse qualcuno mi rimprovererà di aver fatto troppe citazioni. La natura stessa del mio scritto mi ha obbligato a farlo. Per essere creduti, bisogna portare delle prove, soprattutto in questo caso in cui la realtà sembra superare la fantasia. Ancora una volta ci viene presentata questa verità, ossia che tutte le ideologie sono figlie della Rivoluzione, e che tra esse e il cattolicesimo l'incompatibilità è totale. Terminerò con una citazione presa dalla Bolla In Eminenti, nella quale Papa Clemente XII (1652-1740) condannò, con estrema chiaroveggenza, fin dal 1738, la Massoneria: «Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalorano, alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni comunemente chiamate dei "Liberi Muratori" o "des Francs Maçons", o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e sètta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da sé stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette società o conventicole hanno prodotto tale sospetto nelle menti dei fedeli, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l'iscriversi a quelle aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell'infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce».

Massoneria e Comunismo. Il socialista Mussolini come vedeva nel 1919 il socialismo-comunismo: «Sulla Rivoluzione russa mi domando se non è stata la vendetta dell'ebraismo contro il Cristianesimo, visto che l'ottanta per cento dei dirigenti dei Soviet sono ebrei... La finanza dei popoli è in mano agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica.»

Il giornalista Mussolini e la finanza internazionale. Articolo pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 4 giugno 1919.

"I COMPLICI. I proletari evoluti e coscienti che gridano “Viva Lenin!” credendo di gridare “Viva il socialismo “, non sanno certamente ch'essi gridano “Abbasso il socialismo! “I falsi pastori che “mangiano e bevono” alle spalle delle masse sempre pronte a giurare, se non a morire, per gli ideali nuovi e lontani, danno ad intendere che quel che si è instaurato in Russia è socialismo. Colossale menzogna! In Russia si è stabilito il governo di una frazione del Partito socialista. In Russia i proletari lavorano come prima; sono sfruttati come prima perché devono mantenere una burocrazia innumerevole e succhiona, secondo la testimonianza non sospetta del capitano Sadoul; sono mitragliati come prima non appena osino insorgere contro il regime che li condanna alla schiavitù e alla fame; invece di uno czar ce ne sono, oggi, due, ma le forme e i metodi dell'autocrazia non sono affatto cambiati. Si capisce perfettamente che alcuni scrittori venuti dagli ambienti borghesi, abbiano delle simpatie per il bolscevismo. C'è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c'è. Non c'è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c'è niente che somigli ad un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. E' il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia. Questi uomini si chiamano Piekanoff, il maestro dei marxisti russi; si chiamano Kropotkin, l'apostolo dell'anarchia. La demolizione dei metodi di governo leninista non è opera del "Times", ma di un Axelrod, chiamato il decano dei socialisti russi; di un Souckhomline, collaboratore per lungo tempo dell' "Avanti". Il manifesto del Partito operaio russo e dei socialisti menscevichi, non sono stati stampati dal "Corriere della Sera", ma da "Critica Sociale". Non sono state inventate da noi "rinnegati" - che in questo caso (è strano ma vero!) difendiamo il socialismo!.- le pagine di Bernstein, di Kautsky, di Eisner, di Troelstra, di Branting e di infiniti altri socialisti, che si sono schierati contro la “caricatura del socialismo realizzatasi tra Pietrogrado e Mosca”. Non siamo noi, ma un dott. Totomianz, veterano della cooperazione russa che nell'ultimo numero della “Critica Sociale” di FilippoTurati, stampa queste parole eloquentissime: "I bolscevichi hanno creato, in fin dei conti, non già una vera democrazia bensì la denominazione della plebaglia, una oclocrazia che non si arresta davanti a nessun mezzo terroristico in una guerra di sterminio contro la borghesia e gli intellettuali." Infinite volte, e specialmente dopo il congresso di Berna, noi abbiamo prodotto documenti inconfutabili della vera natura del regime russo. Chi non ricorda la lettera di Alexeyev e quella della vedova di Plekanoff ? Noi riaffermiamo che il leninismo non ha niente di comune col socialismo, eppure i socialisti ufficiali italiani, con clamori minacciosi, chiamano al soccorso per salvare la Russia. Ma la Russia non ha bisogno di essere salvata, perché non corre pericolo alcuno. Chi sostiene il bolscevismo - ficcatevelo bene in testa, miei cari proletari! - non è la forza del popolo russo che subisce, dopo aver cercato di spezzarlo, quel regime di barbarie contro il quale sono più volte insorti e anarchici e socialisti rivoluzionari, con tentativi soffocati spietatamente nel sangue; chi sostiene il bolscevismo non è il famoso esercito rosso che esiste nelle carte di Trotzky, non nella realtà. Il giornale 'Humanité' del 30 maggio, reca la testimonianza imparziale del signor Paolo Birukoff, il quale, a proposito dell'esercito rosso, in cotal nonché significativa guisa si esprime: "Il popolo russo, così pacifico, detesta la guerra oggi, come ieri, come sempre. Oppone una resistenza accanita al reclutamento." Altro che entusiastica risposta agli ordini di mobilitazione, secondo ci narravano gli imbonitori dei crani proletari d'Italia. Il signor Birukoff dice qualche cosa di ancora più interessante: "Ci sono tanti disertori nell'armata rossa, quanti ce ne erano nell'esercito dello zar. Accade che un reggimento non arriva alla tappa designata perché tutti gli uomini si sono sbandati strada facendo..." Ed è questo esercito di sbandati che ferma Mannerheim e Kolcak? Mai più. Se Pietrogrado non cade, se Denikin segna il passo, gli che è così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli, In Russia l'80 per cento dei dirigenti dei "Soviets" sono ebrei, a Budapest su 22 commissari del popolo ben 17 sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe, per avventura, la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo? L'argomento si presta alla meditazione. E' possibile che il bolscevismo affoghi nel sangue di un "progrom" di proporzioni catastrofiche. La finanza mondiale è in mano degli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro ai fantocci di Parigi, sono i Rotschild, i Warnberg, gli Schyff, i Guggheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Cristo ha tradito l'ebraismo, ma, opinava Nietzsche in una pagina meravigliosa di previsioni, per meglio servire l'ebraismo rovesciando la tavole dei valori tradizionali della civiltà elleno-latina. Il bolscevismo é difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa é la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, si, la borghesia o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell'oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. Il capitalismo americano ha già ottenuto in Russia una concessione grandiosa. Ma ci sono ancora miniere, sorgenti, terre, officine che attendono di essere sfruttate dal capitalismo internazionale. Non si salta, specialmente in Russia, questa tappa fatale nella storia umana. E' inutile, assolutamente inutile, che i proletari evoluti ed anche coscienti, si scaldino la testa per difendere la Russia dei Soviets. Il destino del leninismo non dipende dai proletari di Russia o di Francia e meno ancora da quelli d'Italia. Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza. Gli eserciti antibolscevichi che di quando in quando sono colpiti da misteriose paralisi, saranno semplicemente travolgenti ad un momento dato che sarà scelto dai re della finanza. Gli ebrei dei Soviets precedono gli ebrei delle banche. La sorte di Pietrogrado non si gioca nelle steppe gelide della Finlandia; ma nelle banche di Londra, di New York e di Tokio. Dire che la borghesia internazionale vuole oggi assassinare il regime dei Soviets è dire una grossa menzogna. Se, domani, la borghesia plutocratica si decidesse a questo assassinio, non incontrerebbe difficoltà di sorta poiché i suoi “complici”, i leninisti, siedono già e lavorano per lei al Kremlino. MUSSOLINI".

Cospirazione ebrea in Russia. Si legge su "Avventismo Profetico" «La realtà del bolscevismo stesso, il fatto che tanti ebrei sono bolscevichi e che l'ideale del bolscevismo concorda su molti punti con il più sublime ideale del giudaismo — di cui una parte almeno forma la base dei migliori insegnamenti del fondatore del Cristianesimo — ha un grande significato. Ogni ebreo cosciente e riflessivo dovrà esaminarlo con molta attenzione». Il mondo ebreo, gennaio 1929

- La Massoneria è un’organizzazione capitalistica o comunistica? Questi due termini per gli agenti del potere occulto non esistono praticamente…Ebrei e massoni formano un tessuto compatto e potente: quindi per i Massoni come per gli Ebrei, capitalismo e comunismo sono mezzi per il potere pag. 153 

 -  Massoneria e Comunismo: due aspetti della stessa medaglia, cioè l’alto ebraismo occulto, 204 

- Raggiungere un governo mondiale sotto la maschera del socialismo, 16 

- 1848: gli ebrei entrarono nell’ arena politica direttamente ed assunsero un ruolo dominante… nei movimenti liberali. La rivoluzione del 1848 finì per identificarsi con l’emancipazione ebraica, 25 

- Con l’Internazionale e la Comune l’ebraismo uscì allo scoperto: gli ebrei … parteciparono potentemente all’ organizzazione del partito socialista, 26 

- La rivoluzione proletaria comunarda risparmiò scrupolosamente le proprietà degli ebrei, 26 

- The American Hebrew, 10/09/1920: “la rivoluzione bolscevica fu… opera del pensiero ebreo, del malcontento ebreo, dei piani ebrei, lo scopo dei quali era di creare un nuovo ordine nel mondo”, 27 

- “Non vi era una sola organizzazione politica (rivoluzionaria) in questo vasto impero che non fosse influenzata da ebrei o diretta da essi…Gli ebrei sono stati gli artefici della rivoluzione del 1917”, 29 

- B.Lazare (ebreo, 1934): “L’ ebreo Karl Marx, discendente da una serie di rabbini e di dottori, fu un talmudista lucido e chiaro … fu un logico, un ribelle, un agitatore, un aspro polemista, che prese il dono del sarcasmo e dell’invettiva dalle sorgenti ebraiche”, 27 

- 1919: notizie di un’organizzazione segreta ebraico-massonico, la Lega dei Fratelli Internazionali, fondata dall’ ebreo tedesco Mordechai, cioè Karl Marx, 150 

- L’ oro ebreo americano forgiò il bolscevismo e consacrò la rivoluzione d’ ottobre alla causa egemonica d’ Israele, 36 

- Chicago Tribune del 19/06/1920: “Trotzkij (ebreo) conduce i rivoluzionari ebrei al potere mondiale – il bolscevismo non è che un mezzo per i suoi fini”, 36 

- (Oggi) il compito del comunismo è terminato (caduto il 1989): lo scopo era quello di preparare la strada ad una socialdemocrazia universale, 37 

- La forza mondialista ebrea si manifesta nella rivoluzione russa: Lenin (sposato ad un’ebrea) e Kerenskj (34), Stalin, Kaganov, Beria, etc (segue lunghissima lista), 145 

- Cronaca di Londra 1919: “moltissimi ebrei sono bolscevichi e gli ideali del bolscevismo coincidono … con gli alti ideali del giudaismo”, 38 

- Il Comunista (aprile 1919): “la rivoluzione russa è stata firmata soltanto da mani ebree”, 38 

- Finanziamenti massonico-giudaici alla rivoluzione d’ ottobre, 33 

- Jakob Schiff, banchiere ebreo-americano, nell’ aprile 1918 ebbe a dichiarare pubblicamente che grazie al suo appoggio finanziario la rivoluzione russa era riuscita. Tratto dal libro di Meurin "LA SINAGOGA DI SATANA" 

Il comunismo mascherato dall'assenza di classi sociali è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro degli elitari. La sua origine proviene dal Talmud ebraico.  Gli obiettivi comunista diretti dalla volontà dell'élite, è eliminare la classe media per mezzo di assassini (guerre, fame ecc.) la confisca di tutti i loro beni e possedimenti, permettendo così di restare solo due classi - l'élite e gli schiavi! Il comunismo è la falsificazione finale di "umanità". E' il piano della salvezza - - - ma SENZA Dio. Dio ha promesso nella Sua Parola che alla fine regnerà la giustizia, che ci sarà pace nel Suo regno, e che tutte le persone sono uguali. I comunisti, un gruppo dominato dagli ebrei sionisti, affermano che porteranno la pace nel mondo. Ma la loro definizione di "pace" è l'eliminazione di ogni resistenza alle loro politiche, con qualsiasi mezzo necessario. Quando i comunisti si impadronirono del potere in Russia, dopo la sanguinosa guerra civile che durò dal 1917 fino al 1922, crearono immediatamente un'organizzazione Terroristica che utilizzarono contro il popolo della Russia. Primo si chiamò "CHEKA" (1917-1922), sigle in russo che significano Commissione Straordinaria Russa per combattere la Contro Rivoluzione e il Sabotaggio. Di seguito, il nome si cambiò in "GPU", sigla in russo per Amministrazione Politica di Stato. Dal 1922 al 1934 si trasformò in "OGPU", sigla dell'Amministrazione Politica dello Stato Unificata; posteriormente questi si sostituirono dal "lNKVD" - Commissariato del Popolo per Temi Interni - fino al 1960. In quell'anno tornò a cambiare nome, il quale si ricorda bene: "KGB", sigla di Comitato di Sicurezza per lo Stato. Dalla caduta della Germania nazista nel 1945, si è indottrinata la gente in tutto il mondo mediante libri, film e l'insegnamento nelle scuole, sulle orribili condizioni esistenti in Germania durante il regime di Hitler; e della maniera in cui le persone furono brutalmente arrestate, alcuni dopo essere stati torturati, uccisi e altri inviati in campi di lavoro forzato e in quelli di sterminio. Non metto in dubbio che successero cose orribili a molte persone, tra cui la popolazione civile tedesca, il quale soffrì sotto l'oppressione della Germania nazista. Tuttavia, quello che gli "educatori" in Occidente hanno omesso di menzionare in maniera adeguata, sono le atrocità commesse dai governanti comunisti nell'Unione Sovietica; che furono, nella maggioranza dei casi, molto peggiore. Se i Nazisti versarono fiumi di sangue, i macellai comunisti sparsero oceani di sangue. Perché ogni cristiano che vive in Occidente possa comprendere la brutalità della CECA, lasci che la illustri di seguito: Immaginate qualsiasi città degli Stati Uniti (o altrove), circondato da forze armate e tutte le strade completamente disabilitati. Queste forze entrarono nella città, catturando tutti quelli che lavorano per agenzie locali o federali. Senza alcuna prova, condotti nei principali centri commerciali, dove furono uccisi davanti a un pubblico inorridito. Tra queste persone ci sarebbero tutti i funzionari responsabili dell'applicazione della legge, i lavoratori delle poste, gli operatori di servizi sociali, ecc. Dopo l'obiettivo della CECA fu la scuola pubblica. Lì si catturano tutti i migliori insegnanti e studenti, che furono anche tutti fucilati. Poi fu il turno delle chiese, i pastori, diaconi, insegnanti della scuola di Domenica, individuati tutti i responsabili, furono uccisi senza processo. Dopo, tutti i professionisti, come medici, infermieri, ingegneri, direttori di giornali e altri scrittori, uomini d'affari furono catturati e fucilati nei parchi pubblici. Pertanto, tutte le persone considerate di ceto superiore o della classe media (borghesia), furono catturati e fucilati. La città non ebbe più alcun autorità e la Ceca mantenne lì una guarnigione, la quale svuotò le carceri e i prigioni, collocando i detenuti in posti direzionali per assicurarsi che il resto della popolazione avrebbe obbedito ai suoi nuovi dirigenti. Immaginate che questo succeda in tutte le città del paese dove vivete, senza che rimanga salva nemmeno la più piccola città o comunità. La nazione sarebbe come una persona decapitata, giacendo solo il cadavere. Questo è quello che l'Internazionale Comunista fece in Russia. Fu uno dei peggiori genocidi nella storia dell'umanità. Il paese russo, e quello Ucraino, fu violato e assassinato; e quelli che sopravvissero, lo fecero sotto le peggiori condizioni di schiavismo che l'uomo abbia mai visto. Non appena si creò la Ceca nel dicembre del 1917, la leadership comunista pubblicò una lista dei suoi nemici, i quali dovevano essere eliminati, cioè, assassinati. In alto alla lista c’erano i membri della nobiltà russa (anche donne e bambini), uomini d'affari, tutti gli insegnanti, funzionari di polizia, tutte le persone appartenenti al vecchio sistema giudiziario, tutti i membri delle organizzazioni della società civile, funzionari delle Forze armate precedenti, tutti i chierici, includendo sacerdoti ortodossi e pastori e dirigenti cristiani (battisti e pentecostali). I maestri della Scuola di Domenica hanno considerato i comunisti come una minaccia terribile. Furono obiettivi di sterminio anche gli studenti più in primo piano nelle scuole che - secondo loro - sarebbero diventati potenziali leader di una possibile insurrezione anticomunista. Quando l'inferno arrivò e le bande della Ceca irruppero nelle città e villaggi, sequestrarono i bambini e li condussero alla periferia delle città; lì furono brutalmente assassinati e sepolti nella fossa comune - molti erano ancora in vita mentre furono seppelliti. Le Unità della Ceca erano conformate da dirigenti comunisti ed ex detenuti delle prigioni russe, i quali eseguirono i massacri. Man mano che i bolscevichi continuavano a guadagnare più territorio, tutte le prigioni si andavano vuotando. La brutalità del genocidio dei più illuminati del popolo russo, sarà presentato nel giorno del Grande Giudizio, quando si mostrerà tutta la verità e sarà ristabilita la giustizia da parte del RE dei re, Gesù Cristo (Apocalisse 20:10-15). Sono sicuro che la maggioranza di quelli che stanno leggendo questi fatti le sarà difficile comprendere questa brutalità, perché non ha una "mente criminale". Gli spietati dirigenti comunisti avevano però l'obiettivo di schiacciare il popolo russo per sempre e distruggere qualunque tipo di possibile opposizione contro gli invasori comunisti. Quello che non vi hanno insegnato nella scuola, è che la rivoluzione comunista fu un'invasione straniera da parte di una maggioranza di EBREI RUSSI che furono allenati e formati in Germania, Svizzera, Inghilterra e negli Stati Uniti. In questi momenti alcuni tra i lettori possono diventare nervosi e pensare che quello che scriva è antisemita. Quella che racconto loro è la verità, che è stata rimossa da oltre cento anni, nascosta sotto il coperchio della "PAURA". Se si sforzano di comprovare i fatti storici reali, scopriranno che quella che dichiaro è verità. Ora, lasciatemi citare una fonte che non può essere smentita: il pastore rumeno Richard Wurmbrand, che ha sofferto molto per la sua fede sotto il regime comunista in Romania (Wurmbrand è nato ebreo, ma è diventato un cristiano - vedi Giovanni tre). Citerò i seguenti estratti da un suo piccolo libro, dal titolo "Chi era KARL MARX?", pagine 51 e 52: "Per completare il quadro, qualche parola in più su Moisés Hess, l'uomo che convertì Marx ed Engels all'idea socialista. C'è una lapide in Israele iscritta con le parole: "Moisés Hess, fondatore del Partito Tedesco Social-democratico". Nel Catechismo Rosso per il Popolo Tedesco, Hess espone le sue credenze. "Chi è nero"? Nero è il Clero... questi teologi sono i peggiori aristocratici... il chierico insegna i principi per opprimere il popolo nel nome di Dio. In secondo luogo, insegna al popolo a lasciarsi opprimere e sfruttare, nel nome di Dio. In terzo luogo, il più importante, (il clero) provvede per se stesso, con l'aiuto di Dio, una vita meravigliosa sulla terra, mentre consiglia al popolo di aspettare il cielo... "La bandiera rossa simboleggia la rivoluzione permanente fino alla vittoria completa delle classi lavoratrici in tutti i paesi civilizzati: La Repubblica Rossa... la rivoluzione socialista è la mia religione... gli operai, quando abbiano conquistato un paese, devono aiutare i suoi fratelli nel resto del mondo."

Questa era la religione di Hess (Ebreo) quando fece la prima stampa del Catechismo. Nella sua seconda edizione, aggiunse alcuni capitoli. Questa volta la stessa religione, ossia, la rivoluzione socialista, usa un linguaggio cristiano per accreditare se stessa tra i credenti cristiani. Insieme con la propaganda della rivoluzione, si alternano alcune parole circa il cristianesimo come religione di amore e di umanesimo. Il suo messaggio, però, deve essere chiarito: l'inferno non può essere sulla terra e nel cielo, nella vita ultraterrena. La società socialista è la realizzazione vera del cristianesimo. Così, Satana si maschera da angelo di luce.  Dopo che Hess, ebbe convinto Marx ed Engels all'idea socialista, affermando anzitutto che il suo scopo avrebbe "dato il calcio definitivo alla religione medievale" (il suo amico Georg Jung disse più chiaramente: "Sicuramente Marx disperderà Dio dal suo cielo "), un interessante sviluppo ebbe luogo nella vita di Hess, che aveva fondato il socialismo moderno, creò anche un movimento completamente diverso, una specifica forma di sionismo. Hess, il fondatore del socialismo moderno, il cui obiettivo è cacciare Dio dal "cielo", fu anche il fondatore di un tipo diabolico di Sionismo, quello che supponeva andava a distruggere il Sionismo corretto, il Sionismo di amore, di comprensione e di pace. Egli, che insegnerà a Marx l'importanza della lotta di classe, scrisse nel 1862 le sorprendenti parole: "La lotta per la razza è primaria, lo scontro di classe è secondario". Aveva infiammato l'animo della guerra di classe, fuoco mai estinto, invece di insegnare alle genti a cooperare per il bene comune. Questo stesso Hess, dunque, generò un Sionismo distorto, un Sionismo di lotta di razza, un Sionismo imposto per forza contro gli uomini che non siano della razza ebrea. Così come respingiamo il marxismo satanico, ogni ebreo o cristiano responsabile deve respingere questa diabolica perversione del Sionismo. Hess reclama Gerusalemme per gli ebrei, ma senza Gesù il Re degli Ebrei. Che necessità aveva Hess di Gesù? Scrive: "Ogni ebreo può trasformarsi in un Messia, ogni donna ebrea in una Madre Dolorosa". Allora, perché non fece dell'ebreo Marx un Messia, un Unto di Dio, invece di un uomo pieno di odio, tentando di cacciare a Dio dal cielo? Per Hess, Gesù è "un ebreo che i pagani divinizzarono come suo Salvatore". "Né Hess né gli ebrei sembrano avere bisogno di Lui". Pag. 56: Potrebbe aggiungersi che Hess non fu solamente la fonte originale del marxismo, e l'uomo che cercò di creare un Sionismo anti-Dio (Anticristo), ma anche il predecessore dell'attuale teologia del rivoluzionario Concilio Mondiale di Chiese e delle nuove tendenze nel cattolicesimo che parlano di salvazione. "Uno stesso uomo, quasi sconosciuto, è stato il portavoce di tre movimenti satanici: il comunismo, il Sionismo razzista e pieno di odio, e la teologia della rivoluzione”.  Nella pagina 11 di questo libro, il Pastore Wurmbrand cita una parte di un poema scritto da Karl Marx che s’intitola "il Violinista": " I vapori infernali salgono e riempiono la mente. Fino a che impazzisco e il mio cuore è completamente cambiato. Vedi questa spada? Il Principe delle Tenebre me la vendé." Biografia breve di Moisés Hess. Il suo nome completo era Moritz Moisés Hess, nato nel 1812 a Bonn, Germania, in una famiglia ebrea di ricchi industriali. Moisés morì a Parigi nel 1875 e fu sepolto in Israele. Fu cabalista e seguace di Jacob Frank. In "Judisches Lexicón", Berlino, 1928, pagine 1577/78, fu catalogata come un rabbino comunista e il padre del socialismo moderno. Hess lanciò nel 1841 il periodico "Rheinische Zeitung", e un anno più tardi fece capo di redazione a Karl Marx, che allora aveva 24 anni di età. Hess introdusse Marx in un ordine Massonico e lo convertì al socialismo e dopo al comunismo. Nel 1844, Hess presentò Friedrich Engels a Karl Marx. Engels era più giovane di Marx di due anni. Moisés Hess era anche membro degli Illuminati, e nel 1847 introdusse Marx ed Engels in quest’ordine satanico. Il ramo degli Illuminati al quale appartennero si chiamava "LEGA DEI GIUSTI" (più tardi chiamata LEGA DEI COMUNISTI). Quando posteriormente Karl Marx si trasferì a Londra con la sua famiglia, fu supportato, fino al momento della sua morte, da Nathan Rothschild. Se qualcuno avesse profetizzato nell'anno 1850 che il lavoro di questi tre Ebrei tedeschi qualche giorno condurrebbe alla formazione dell'Unione Sovietica e alla propagazione del comunismo che abbracciò oltre alla metà della popolazione mondiale nel suo momento culminante, nessuno lo avrebbe creduto. La stessa cosa si può dire di Maometto, il fondatore dell'Islam, e di tutti gli altri uomini indiavolati che hanno causato tanta morte e dolore nel mondo attraverso i suoi scritti e malvagi complotti. Oggigiorno, i cristiani non possono discernere le malvagità che questa gente demoniaca sta spargendo; malvagità il cui obiettivo è spingere in questi giorni, l'arrivo dell'Anticristo in questo mondo. Hess morì nel 1875; Marx, otto anni più tardi, nel 1883. Engels visse 12 anni più che Marx, morendo nel 1895. Ebbero però discepoli poderosi che si sarebbero convertiti in nomi importanti dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. Ventitré anni dopo la morte di Engels, Vladimir Lenin, la cui madre era ebrea, portò dalla Svizzera un gruppo di comunisti di diverse nazionalità. Questo gruppo attraversò Germania, Svezia e Finlandia fino ad arrivare a San Pietroburgo, in Russia. Con Lenin stava sua moglie ebrea Krupsakaya, la quale svolse un ruolo importante nella rivoluzione. Da New York approdò l'ebreo russo Lev Davidovich Trotzky (vero nome Lev Davidovich Bronstein) con 300 ebrei russi - ben allenati - che si prepararono a New York per convertirsi in ufficiali del futuro Esercito Rosso. A questi devono essere aggiunti altri 90.000 giovani ebrei russi che si erano esiliati temporaneamente in Siberia, o che erano fuggiti della Russia rifugiandosi in differenti paesi europei, allenandosi nell'attesa del momento della presa di potere in Russia. In Russia si unirono al giovane Stalin che era sposato con una donna ebrea. Non ho spazio per nominare tutti gli ebrei sotto la leadership di Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) e, dopo, Stalin. Questi, tuttavia, sono i più importanti: Lenin formò una "troica" (= trio), con Zinoview e Kamenev, entrambi ebrei. Nel 1922 il politburo era formato da Lenin, Zinoviev, Kamenev, Trotzky, Bukharin, Tomsky e Stalin. Quando Lenin morì nel 1924, Stalin si servirono di tutti loro fino a che finalmente li assassinò mediante i suoi agenti. In quest’articolo però, voglio concentrarmi nelle operazioni dell'intelligenza comunista. I seguenti uomini e donne - tutti ebrei - furono leader della Ceca nel 1918, anno quando cominciò il terrore: presidente, Félix Dzerzjinskij (Rufin), alias "L'Acciaio Félix". Direttori aggiunti: Jakov Peters, Sjklovskij, Kneifis, Zeistin, Krenberg, María Chaikina, Sachs, Leontevitj, Delafabr, Blumkin, Alexandrovitj, Zitkin, Zahlman, Ryvkin, Reintenberg, Fines, Goldin, Gelperstein, Knigessen, Deibkin, Schillenckus, E. Rozmirovithj, G. Sverdlov, Karlson, Deibol, Zakis, Janson, Sjaumjan, Seizjan, Fogel, Antonov, Jakov Sorenseon. In solo un anno, 320.000 chierici russi furono assassinati da questa "macchina per uccidere". Secondo i registri del KGB, che diventarono pubblici dopo il 1991, questa "macchina per uccidere" della Ceca sterminò 10.180.000 persone tra il 1918 e il 1920. La brutale guerra civile che l'ebreo Lenin scatenò per sottomettere la Russia, causò altri quindici milioni di morti. Durante la fame nera "provocata" dal 1921 al 1922, morirono altri 5.053.000 russi. Durante i quattro primi anni che Lenin stette nel potere, sterminò oltre trenta milioni di russi. Quando Stalin assunse il potere in Russia, Lazar Kaganovitj si convertì nella sua mano destra. Lazar nacque nel 1893, e alla precoce età di 21 anni si laureò nell'Accademia Ebrea Superiore Talmudica; dopo, l'anno seguente, fu nominato "Gran Rabbino" della Russia. Stalin aveva piena fiducia in Kaganovitj, il quale utilizzò la "macchina per uccidere" dell’Intelligenza per continuare ad ammazzare il popolo russo. Fu Kaganovitj quello che portò l'enorme fame nera del 1932-33, essendo le zone più colpite dell'Ucraina e del Caucaso settentrionale. Tutti gli agricoltori autonomi furono obbligati ad abbandonare le loro fattorie; alcuni di essi furono costretti a fare parte dei "kibbutz" che si denominò "kolchos" in russo. Stalin ordinò che la popolazione russa doveva diminuire; con questo poté vantarsi che non c'era disoccupazione nell'Unione Sovietica, che fu presentata agli occhi dell'Occidente come il "Paradiso" dei Lavoratori. Nel 1933, sei milioni di persone, tra uomini, donne e bambini, morirono di fame. Durante la primavera del 1933, ogni giorno morivano circa 25.000 persone in Ucraina. I sovietici provocarono quindici milioni di morti. Stalin incaricò di questo sterminio tre ebrei comunisti; Lazar Kaganovitj, Jakov Jakovlev (Epstein) e G. Kaminskij.Questi tre uomini decisero quanti agricoltori sarebbero rimasti nell'Unione Sovietica, e quanti altri sarebbero morti di fame o sarebbero stati avviati ai Gulag (campi di lavoro forzato). Lo Storico Valentyn Moroz del dell'Institute for Historical Review ha scritto: - "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la spinta vitale dello spirito nazionale ". La situazione fu tanto grave in Ucraina che nel 1934 si generalizzasse il cannibalismo e i bambini orfani furono condotti a centri specializzati, dove furono sacrificati e i suoi corpi spezzati e venduti alla popolazione. È anche importante evidenziare che Lev Trotsky guidò un'unità in Russia tra il 1929-1931, per pignorare le fattorie dei contadini obbligarli a lavorare in fattorie collettive. Affinché i lettori comprendano i danni causati al popolo russo, prestino bene attenzione in queste cifre fornite. Inoltre le bande di assassini comunisti sacrificarono 17,7 milioni di cavalli, 29,8 milioni di teste di bestiame, 10 milioni di vacche lattiere, 14,4 milioni di maiali e 93,9 milioni di pecore e capre. Il risultato di questa distruzione generalizzata dell'agricoltura in Russia e del suo bestiame per carne e latticini, fu che circa 15 milioni di russi morissero di fame. Queste cifre sono state prese dagli archivi ufficiali del KGB, disponibili dopo la caduta dell'Unione Sovietica nel 1991. Mentre scrivo queste linee, la mia anima piange profondamente man mano che immagino la sofferenza e la distruzione di tutta una nazione, e alle persone che persero perfino tutto quello che avevano, le loro vite, nelle mani di "uomini satanici". I Gulag erano campi di lavoro forzato, uguali o ancora peggiori, dei campi dei nazisti. Esisterono circa 3000 campi di lavoro, sparsi da Murmansk, fino all'ovest della Siberia. Secondo Alexander Solzhenitsyn, per il Gulag passarono tra quaranta e cinquanta milioni di persone tra gli anni 1928 e 1953. Nonostante l'antica Unione Sovietica si ruppe nel 1991, ancora esistono i Gulag. In ogni campo c'erano da 2.000 a 10.000 prigionieri. Non tutti i carcerati, purtroppo, arrivarono ai campi. Molte volte i treni si fermavano durante il tragitto, in pieno inverno e si obbligava a tutti i carcerati di scendere. In quel luogo li costringevano a svestirsi e li irrigavano con acqua gelata, mentre le guardie si burlavano, ridendo e gridando: "Vanno in fumo caldo". Come dire che, con questo tipo di trattamento, non potevano sopravvivere. Durante l'anno 1937, il Comitato Centrale Comunista, decise che la popolazione russa doveva essere soppressa ancora di più. Si ordinò al NKVD che sterminasse un numero di 268,950 persone. I dirigenti allora conclusero che il ritmo del massacro era troppo lento; è cosicché la quota di morti s’incrementò a 48.000 persone. Durante gli anni 1937-38 la NKVD fermò a sette milioni di carcerati politici, dei quali la cifra di assassinati arrivava a 40.000 il mese. I detenuti non avevano commesso nessun delitto. Le unità della NKVD circondavano quartieri e villaggi, e dopo, a caso, caricavano gente come bestiame. Col fine di accelerare il massacro, le casse dei camion che trasportano i carcerati erano ermeticamente chiuse, per permettere che fossero ammazzati con il gas. Come vede, il procedimento di morte con il gas era applicato ancora prima che lo usassero i nazisti. Vittime del comunismo giudaico... 

- URSS, 80 milioni di morti; 

- Cina, 65 milioni di morti (oggi non si sa...); 

- Vietnam, 1 milione di morti; 

- Corea del Nord, 2 milioni di morti; 

- Cambogia, 2 milioni di morti; 

- Europa dell'est, 2 milioni di morti; 

- America Latina, 150.000 morti; 

- Africa, 1 milione e 700.000 morti; 

- Afghanistan, 1 milione e 500.000 morti; 

-movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.

Il totale si avvicina ai 150 milioni di morti.

LA LISTA DELLE VITTIME E' STATA PRESA DA: Libro nero del Comunismo di Stéphane Courtois.

Nel Luglio del 1938, Lavrentii Beria, nato da una famiglia ebrea della Georgia nel 1899, fu nominato capo della NKVD. Beria si trasformò in uno dei peggiori assassini di massa della storia. Inoltre, era molto sadico e con orribili perversioni sessuali. Beria odiava i bambini, ed è per ciò che voleva inviarne il maggiore numero possibile ai campi di lavori forzati. Durante il mese di ottobre del 1940, la NKVD fermò attorno ad un milione di bambini, di età comprese tra i 14 e 17 anni. In città e villaggi, le unità del NKVD sequestravano semplicemente a caso i bambini, facendoli dopo sparire. Nel 1943 sequestrarono ed inviarono ai gulag circa due milioni di bambini. Secondo i registri ufficiali disponibili a Mosca, dopo la caduta del comunismo, circa 20 milioni di russi furono liquidati dai sicari, assassini, di Beria durante la guerra. I soldati e civili russi che erano stati catturati dai tedeschi e, dopo il 1945, obbligati a ritornare in Russia dai soldati nordamericani, furono trattati come nemici e posteriormente fucilati oppure inviati ai campi di lavori forzati. A titolo individuale, Beria utilizzò il suo potere affinché le sue pattuglie sequestrassero ragazze giovani e li conducessero ai suoi quartieri, dove li violava. Dopo che Beria soddisfaceva le sue perversioni sessuali, li assassinava. Ufficialmente Stalin si vantava dicendo che "Beria è per me ciò che Heinrich Himmler era per Adolf Hitler." Nel 1949, Stalin era irritato con la maggioranza degli ebrei con posizioni di leadership nell' Unione Sovietica. I leader ebrei avevano partecipato attivamente alla formazione dello stato d'Israele, canalizzando armi ed ebrei verso la Palestina. In un dibattito all'ONU nel 1948, furono congiuntamente l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti che, contro i britannici ed i francesi, forzarono la votazione affinché gli ebrei avessero un stato proprio: Israele. Stalin utilizzò il suo potere per ordinare la detenzione e l'esecuzione di centinaia di eminenti ebrei russi (una guerra tra ebrei). I leader comunisti ebrei avevano sufficienza forza per deporre a Stalin del suo carico di Segretario Generale del Partito comunista nel 1952. Stalin rispose fermando ad un gruppo di medici ebrei, tacciandoli di assassinare ai comunisti. Di seguito, attaccò tutti gli ebrei del politburo, come a tutti i membri che avevano mogli ebree, arrestandoli. Beria agì, ed i suoi agenti modificarono la medicazione di Stalin; e il 1° marzo del 1953, Stalin ricevé una dose letale di veleno che lo provocò un attacco cardiaco. Stalin perse la parola e tre giorni più tardi morì. Allora successe qualcosa di strano. Beria si trasformò nel capo dell'Unione Sovietica; ed il 23 marzo di 1953, ordinò che circa un milione di carcerati politici, rinchiusi nel GULAG, fossero messi in libertà. Il 27 maggio di 1953, suggerì che i sovietici abbandonassero la Germania Orientale e che la Germania potesse unificarsi. Volle anche consegnare i paesi baltici all'Occidente e ristabilire le autorità locali nell'Unione Sovietica. Allo stesso tempo, Beria cominciò a presentare relazioni pubbliche sui terribili assassini di massa ordinati da Stalin ed a rivelare la verità sul "culto di Stalin."  Allora, Bulganin, Malenkov e Kruschev, attraverso un colpo di Stato, assunsero il potere nell'Unione Sovietica e fermarono a Beria e sei dei suoi più vicini collaboratori. Si celebrò un finto processo nel dicembre del 1953, nel quale furono condannati a morte e fucilati. La persona più influente di Krusciov era Lazar Kaganovitj, ma pochi anni dopo fu cacciato dal potere e mandato in esilio negli Urali. Nel 1964 Krusciov fu costretto a ritirarsi. Questo ebreo russo simbolizza tutta la malvagità che l'uomo può arrivare ad essere. Suona ironico che, il 31 maggio del 1962, l'ufficiale nazi tedesco Adolf Eichmann sia stato eseguito nella forca di una prigione israeliana, dopo che lo si trovasse rifugiato in Argentina, passata la Seconda Guerra Mondiale. Agenti del Mossad israeliano andarono in Argentina; lì lo sequestrarono, lo tirarono fuori clandestinamente dal paese e lo portarono in Israele per giudicarlo per gli assassini in massa di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Eichmann ammise che era stato solo un amministratore del piano per la detenzione degli ebrei in Germania e nei paesi occupati dai tedeschi; e di inviarli a campi di lavoro dove la maggioranza di essi morì, ossia per malattia, per fame, per il duro lavoro, o semplicemente assassinati in seguito cremati. Eichmann si difese aggiungendo che eseguiva solo ordini, che era solo un ingranaggio nella catena di comando; che egli non era personalmente responsabile. Legittimamente, fu dichiarato colpevole dei crimini contro l'umanità fu impiccato e morì. Però, perché i dirigenti di differenti paesi non hanno elevato il grido verso il cielo contro Iván Serov; e, in particolare, perché la comunità ebrea non parla degli orrendi crimini di Serov? Qui espongo brevemente quello che questo uomo fece mentre viveva: all'età di 17 anni, Iván volle essere ufficiale dell'Esercito Rosso; ma dato che era basso - misurava solo 1,60 metri - entrò nelle Forze Sovietiche dell'Interno, dove realizzò funzioni di intelligenza. Siccome era astuto, divenne direttore della polizia segreta in Ucraina, sotto il comando diretto di Nikita Kruschev che a quei tempi era il segretario del partito Comunista in Ucraina. Iván Serov fu l'addetto della detenzione, deportazione ed assassinio di contadini ucraini durante i terribili anni di fame nera. Quando Stalin intervenne nella guerra civile spagnola (1936-1939), inviò a Serov per lavori di spionaggio e sterminio. Lavorò congiuntamente con individui che arrivarono ad essere comunisti famosi: Goumulka in Polonia e Tito in Yugoslavia. Nel 1939, quando congiuntamente Germania e l'Unione Sovietica attaccarono la Polonia, Serov fu inviato per occuparsi delle deportazioni e le esecuzioni. Serov si cambiò temporaneamente il nome con quello di "Generale Malinov". Un milione e mezzo di cittadini polacchi furono assassinati o deportati. Ci furono assassini di massa nel bosco di Katyn, nella periferia della città di Minsk; lì, 4,000 ufficiali polacchi furono assassinati e sepolti in fosse comuni. L'obiettivo era distruggere l'esercito polacco. Questo assassinio massiccio fu attribuito ai Nazisti, ma finalmente la verità uscì alla luce e si conobbe che fu opera della NKVD. Nel 1940, quando i paesi baltici furono occupati dall'esercito sovietico, Serov fu l'addetto della deportazione e l'esecuzione di un milione di persone in quei paesi. Nel suo infame ordine (001223) che è stato declassificato degli archivi di Mosca, scrisse le seguenti direttive: "Tutte le detenzioni devono farsi all'alba. La famiglia deve essere riunita in una sola stanza, vestita e con la cosa più elementare in quanto a bagaglio. Nella stazione di ferrovia devono separare gli uomini dalle sue mogli che non si vedranno mai più, spiegando loro che sarà fatto una visita medica in luoghi diversi. Tutti i treni devono essere fortemente custoditi. Dopo avere "tolto di mezzo a questi cittadini baltici", Serov fu premiato dietro l'ordine di Lenin. Durante il collasso della Germania, Serov fu inviato di nuovo in Polonia, dove, mediante inganno, potè "registrare" a 200.000 dei combattenti che lottarono per la libertà contro i tedeschi. Posteriormente furono fucilati o deportati nei Gulag. Sedici membri del governo polacco esiliato a Londra che volarono a Varsavia, furono arrestati e mandati a Mosca, e non furono mai più visti. Serov fu quindi inviato al Caucaso e in Crimea, dove schiacciò le rivolte e diresse più deportazioni e uccisioni. Successivamente, fu assegnato a Berlino Est, dove il suo dipartimento lavorò sul rapimento di scienziati tedeschi, congiuntamente con gli arresti di persone regolari da inviare al Gulag. Dopo la morte di Stalin, la cupola utilizzò a Serov per uccidere Beria ed i suoi collaboratori. A quei tempi, tutti i rami di intelligenza sovietica, eccetto il GRU, si fusero in una sola. Il suo primo direttore fu Serov. Circa 64.000 agenti dell'anteriore NKVD di Beria furono assassinati o deportati. Iván Serov Alexandrovitj fu il perfetto burocrate, senza nessun scrupolo in favore del carattere sacro della vita umana. L'unica ragione per la quale non è stato mai giudicato, fu perché ancora il regime al quale servì stava al potere e lo protesse. Dall'Europa no al reato di negazionismo per i crimini commessi dallo stalinismo. La Commissione Europea ha respinto una richiesta avanzata dai governi di Lituania, Lettonia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca di proibire e perseguire in tutto il territorio dell'Unione la negazione dei crimini staliniani esattamente come avviene con la Shoah. Il problema è trovare un accordo sulle orrende violenze che hanno insanguinato l'Europa orientale sotto il comunismo. La Russia si oppone all'equiparazione tra i massacri staliniani e quelli hitleriani e anche gli storici sono divisi. Un punto cruciale è la stessa definizione di genocidio, che comprende i tentativi di eliminare gruppi etnici o religiosi, ma non classi sociali. Fu già l'Urss di Stalin, nel 1948, ad opporsi all'introduzione di questa categoria in sede ONU. Bruxelles non è quindi riuscita a trovare un accordo nemmeno sulla natura delle deportazioni nei GULag. Dall'articolo "L’AMERICA VINTA", della D.ssa Lasha Darkmoon si legge tra l'altro: "L’orgia di morte, tortura e saccheggio che seguì il trionfo ebraico in Russia (dopo la Rivoluzione Bolscevica del 1917) non fu mai uguagliata nella storia del mondo. Gli Ebrei erano liberi di praticare le loro più fervide fantasie di omicidio di massa su vittime indifese. I cattolici furono trascinati giù dai loro letti, torturati e uccisi. Alcuni furono addirittura fatti a pezzi, un po’ alla volta, mentre altri furono marcati con ferri roventi, strappati gli occhi con dolori difficilmente immaginabili. Altri furono messi dentro a delle casse, all’interno delle quali venivano introdotti ratti affamati che si accanivano sui corpi. Alcuni furono inchiodati al soffitto per le mani o per i piedi e lasciati a penzoloni fintanto che sopraggiungeva la morte per sfinimento. Altri furono incatenati al pavimento e versato loro in bocca piombo bollente. Molti furono legati a dei cavalli e trascinati per le strade della città mentre la folla si accaniva su di loro con sassi e pedate fino alla morte. Le madri venivano portate nella pubblica piazza dove venivano strappati dalle braccia i loro bambini, i quali venivano buttai in aria per poi essere infilzati al volo sulla punta della baionetta. Le donne cattoliche gravide venivano incatenate agli alberi e i bambini strappati dal ventre materno. “Non dobbiamo mai dimenticare cosa successe quando gli ebrei erano una élite nemica nell’Unione Sovietica,” fa notare tristemente il Prof. Kevin MacDonald. “Il disgusto e il disprezzo per la gente tradizionale e la cultura della Russia fu un importante fattore nell’accanita partecipazione ebraica nei più grandi crimini del 20° secolo.” MacDonald si riferisce al genocidio sistematico di oltre 50 milioni di russi sotto il dominio di Lenin e Stalin: un periodo di assassinii di massa che attraversò ben 36 anni (1917-1953). La nuova elite americana, come ho evidenziato nella prima parte di questo articolo (L’America come Colonia Israeliana), è un elite ebraica. Esattamente come l’elite della Russia bolscevica e dell’Unione Sovietica stalinista. Ed è in sostanza un elite ostile che “detesta la nazione che governa.” Dobbiamo quindi stare in guardia. 

Putin al Museo Ebraico di Mosca: “Il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei guidati da false ideologie.

Putin: il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei. Parlando al Museo Ebraico di Mosca, il presidente russo ha affermato che tali politici sono stati guidati da false ideologie.

Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che almeno l’80 per cento dei membri del primo governo sovietico erano ebrei.

“Ho pensato a qualcosa solo ora: la decisione di nazionalizzare questa biblioteca è stata fatta dal primo governo sovietico, la cui composizione era perlopiù ebrea per l’80-85 per cento”, ha detto Putin lo scorso 13 giugno nel corso di una visita al Museo Ebraico e al Centro di Tolleranza di Mosca.

Putin si è riferito alla biblioteca del rabbino Joseph I. Schneerson, l’ultimo leader del movimento Chabad-Lubavitch. I libri, che vengono rivendicati dai rappresentanti Chabad negli Stati Uniti, sono stati spostati al museo di Mosca da questo mese.

Secondo la trascrizione ufficiale del discorso al museo, Putin ha continuato dicendo che i politici del primo governo sovietico a prevalenza ebraica “sono stati guidati da false considerazioni ideologiche ed hanno sostenuto l’arresto e la repressione di ebrei, cristiani ortodossi russi, musulmani e membri di altre fedi. Tutti sono stati raggruppati nella stessa categoria.

“Fortunatamente, tali visioni e percezioni ideologiche sono crollate. Ed oggi, stiamo essenzialmente restituendo questi libri alla comunità ebraica con un sorriso felice. “Ampiamente considerato come il primo governo sovietico, il Consiglio dei Commissari del Popolo è stata costituito nel 1917 ed era composto da 16 leader, tra cui il presidente Vladimir Lenin, il capo degli affari esteri Leon Trotsky e Stalin, che era a capo del Commissariato del Popolo delle nazionalità.

Il comunismo, mascherato dall'abolizione delle classi, è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro dell'élite ebrea. La sua origine è proprio uscita dal Talmud ebraico, e in sostanza tutti i leader importanti della rivoluzione bolscevica comunista erano ebrei, reclutati e finanziati dai banchieri sionisti ebrei di Wall Street a svolgere un ruolo fondamentale nella rivoluzione russa. Karl Marx era un Ebreo. Vladimir Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) era un Ebreo, così come circa l'80% di tutti i leader della rivoluzione bolscevica. «Sulla spada e il fuoco trionfò il giudaismo con il nostro fratello Carlo Marx, l'ebreo che ha il compito di realizzare quanto hanno ordinato i nostri Profeti, elaborando il piano conveniente per mezzo delle rivendicazioni del proletariato». Chi scrisse queste frasi? Un ebreo, naturalmente. Queste frasi possono, infatti, essere lette nel giornale ebreo Haijut di Varsavia, del 3 agosto 1928. Ciò che i bolscevichi, ebrei nella maggior parte, fanno oggi in Russia contro il Cristianesimo, non è che una nuova edizione di quanto fecero i massoni durante la rivoluzione francese. Gli esecutori sono diversi, ma la dottrina che li muove e li autorizza, nonché la suprema direzione e guida, sono sempre le stesse». Cardinale José Maria Caro, E., Arcivescovo di Santiago, Primate del Cile. El Misterio de la masoneria. Diffusione Editoriale, pag. 258

"Non sussiste ormai alcun dubbio sul fatti che gli ideatori del comunismo furono gli ebrei. Essi, infatti, sono stati non solo gli inventori, ma anche gli autori della dottrina su cui poggia quel mostruoso sistema che tiene aggiogato con potere assoluto la maggior parte dell'Europa e dell'Asia, che sconvolge le nazioni americane e si diffonde progressivamente in tutti i popoli, anche cristiani, del mondo. Il comunismo agisce come un cancro letale, si spande come un tumore maligno nelle pieghe più recondite delle nazioni libere. E sembra purtroppo che non esista un rimedio contro tanto male. Non solo, ma risulta altrettanto chiaro che sono gli ebrei gli inventori ed i dirigenti della pratica comunista, della sua efficiente tattica di combattimento, della sua insensibile e spietata politica inumana messa in atto, nonché della sua aggressiva strategia internazionale". Tratto da "Complotto contro la chiesa".

Il mondo crede che gli EBREI hanno il monopolio sul "Ricordo dell’Olocausto." Ma il presidente ucraino Viktor Yushchenko ha gettato gli ebrei una curva dedicando il 2008 come "Anno della Memoria Ucraina dell'Olocausto". Questo "ricordo dell'olocausto", ricorda l'omicidio per fame forzata di 6 milioni di cristiani ucraini, uccisi dai bolscevichi ebrei. Gli ucraini chiamano questo olocausto "Holodomor" che significa "carestia-genocidio." Naturalmente gli ebrei sionisti lo negano. Proprio come negano tutti i loro numerosi crimini contro l'umanità. Lo storico Valentyn Moroz dell'Institute for Historical Review ha scritto: "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la primavera dello spirito vitale nazionale ".

Massoneria e Fascismo. Mussolini e la massoneria. Stemma della Repubblica Sociale Italiana. Rito Simbolico Italiano, scrive Stefania Nicoletti. Il rapporto fra fascismo e massoneria è a dir poco ambiguo e, al di là dei proclami propagandistici di Mussolini, fu tutt’altro che conflittuale, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma. Il programma del movimento, per la parte sociale, si poneva il piano della massonica “democrazia del lavoro” e fu elaborato dal “fratello” Alceste De Ambris. Impossibile elencare qui tutti i fascisti massoni: sono davvero troppi, anche tra gli stessi fondatori dei Fasci di Combattimento nel 1919. Tra i più noti: Italo Balbo, Dino Grandi, Roberto Farinacci, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Giacomo Acerbo, Achille Starace. E Licio Gelli, la cui ascesa iniziò proprio in seno al regime fascista. Nel dopoguerra, nel carcere romano di Regina Cœli, il futuro fondatore della Loggia P2, che mai rinnegò il suo profondo credo fascista, condivise la cella e strinse amicizia con il principe Junio Valerio Borghese, l’autore del futuro tentato golpe del ’70. La Massoneria di Piazza del Gesù (Gran Loggia Nazionale d’Italia, di rito scozzese, separatasi dal Grande Oriente nel 1908), guidata in quegli anni da Raoul Vittorio Palermi, appoggiò l’ascesa del fascismo. Ma anche l’allora Gran Maestro del GOI Domizio Torrigiani augurò il successo al governo di Mussolini dopo la Marcia su Roma. In seguito, Palermi continuò ad appoggiare il fascismo, arrivando a conferire a Mussolini la sciarpa e il brevetto di 33esimo grado. Palermi figurò anche tra gli informatori dell’OVRA[vi], la polizia politica fascista. Torrigiani invece se ne discostò, pur continuando a mantenere presenze massoniche del GOI nei gangli finanziari dello Stato (emblematico il caso del massone Beneduce a capo dell’IRI). Se è vero ciò che diceva Antonio Gramsci, che la Massoneria fu il vero e autentico partito della borghesia italiana, non si fa fatica a capire come mai appoggiò l’ascesa al potere del fascismo. Il movimento di Mussolini, infatti, si presentava sia come anticapitalista (pur ricevendo finanziamenti dai più grandi gruppi industriali e bancari esteri, soprattutto francesi, inglesi e americani; ma, si sa, pecunia non olet), sia come antibolscevico, anticomunista e antiproletario. Mussolini, nei suoi discorsi demagogici, attaccava sia i grandi industriali sia i proletari. Si presentava quindi come il difensore della piccola e media borghesia, che fu infatti il maggiore sostenitore del fascismo, vedendo in pericolo i propri interessi economici dopo l’occupazione delle fabbriche nel cosiddetto “biennio rosso”. Si unirono così gli industriali del Nord e i latifondisti del Sud, che minacciati dalle lotte degli operai e dei braccianti, trovarono nel fascismo un naturale alleato. Nel blocco confluirono elementi dell’esercito e della burocrazia: quindi una parte non indifferente della base massonica italiana. Nel febbraio del 1923, Mussolini dette però il via a una campagna antimassonica, impartendo agli iscritti del Partito Fascista la direttiva di sciogliere ogni vincolo con le logge. Nel 1925 presentò una legge contro le associazioni segrete, la cosiddetta “Legge contro la massoneria”, che in realtà non cita mai esplicitamente la massoneria, ma parla solo di “associazioni segrete ed operanti anche solo in parte in modo clandestino od occulto e i cui soci sono comunque vincolati da segreto”. Infatti Antonio Gramsci, che in quell’occasione tenne il suo unico discorso alla Camera, ebbe a dire: «La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso. […] Poiché la massoneria passerà in massa al Partito Fascista e ne costituirà una tendenza.» Nel discorso alla Camera del 16 maggio 1925, Mussolini affermava che la società italiana era dominata da un manipolo di uomini mediocri, divenuti potenti solo perché massoni[x]. Ma in un’intervista tessé le lodi della massoneria tedesca, inglese e americana. Tre giorni dopo la legge fu approvata dalla Camera, con 289 sì e solo 4 no. Fra gli assenti al voto, i massoni Aldo Finzi e Dino Grandi. Lo stesso Dino Grandi che il 25 luglio 1943, spinto dai massoni americani (che ebbero un ruolo fondamentale nello sbarco degli Alleati in Sicilia), orchestrò la caduta di Mussolini presentando l’ordine del giorno che lo sfiduciò. E, a proposito di Gran Consiglio del Fascismo, c’è da sottolineare che i quattro quinti del Gran Consiglio che dichiarò fuori legge la massoneria erano formati da massoni. Mussolini sembrava irriducibile nei confronti della libera muratoria: era uno dei pochi socialisti a non aver indossato il grembiulino. Tuttavia affidava i destini finanziari e industriali del Paese a figure come Alberto Beneduce (suocero di Enrico Cuccia), socialista e massone, che il Duce scelse per creare l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, e in seguito per riorganizzare la Banca d’Italia. Dopo la legge del ’25, oltre ai massoni apertamente antifascisti, ci fu anche chi scelse la via della moderazione e del tiepidismo, rinunciando a esprimere qualsiasi forma di dissenso: così facendo, alcuni massoni continuarono a godere nella società italiana di posizioni anche altamente prestigiose. Questo è il caso, per esempio, oltre che del già citato Beneduce, anche del favorito di Giovanni Agnelli: Vittorio Valletta, direttore generale e amministratore delegato della Fiat dal 1929 al 1946, quando ne divenne presidente. Ma se il Duce, almeno a parole e negli atti pubblici e ufficiali, si scagliava contro la massoneria, non fu così duro nei confronti dei Rosa Croce. Una figura chiave nei rapporti tra Rosa Croce e Mussolini fu Giuseppe Cambareri. Teosofo, rosacruciano ed esoterista, si presentò quale antimassone, giacché i massoni erano ormai troppo invischiati nella politica e quindi contro-iniziati. Fu lui a proporre a Mussolini di utilizzare la “Fraternitas Rosicruciana Antiqua” quale strumento per attenuare l’isolamento dell’Italia, o quantomeno aggirare l’ostacolo delle sanzioni economiche deliberate dalla massonica Società delle Nazioni dopo l’aggressione italiana all’Etiopia. L’Italia era accusata di aver bombardato obiettivi civili, di aver fatto uso di gas asfissianti e di aver colpito bersagli protetti dalla (massonica) Croce Rossa. Il tentativo andò avanti per alcuni anni, almeno fino al 1938. Il 5 marzo 1937 Mussolini ricevette a Palazzo Venezia 120 rosacroce statunitensi dell’AMORC di Harvey Spencer Lewis. Attraverso la mediazione e l’attivismo di Cambareri molti antichi massoni tornarono a ronzare attorno ai poteri forti. Un percorso culminato nella massonica Conferenza di Monaco. Uno sguardo all’estero: il regime fascista di Mussolini fu sostenuto dagli anglo-americani fino a quando l’Italia entrò in guerra a fianco di Hitler (anch’egli finanziato da capitali esteri). Essere sostenuto dagli anglo-americani significa sostanzialmente essere sostenuto dalla massoneria anglo-americana, che è il vero governo-ombra. Solo per fare alcuni esempi: si sa già tutto sull’ “intensa simpatia” che il massone Winston Churchill nutriva nei confronti di Mussolini. Inoltre l’ambasciatore americano in Italia, William Philips, disse che Mussolini aveva “portato ordine dove c’era il caos”. Frase non casuale, dato che ricalca il motto massonico “ordo ab chao” (=“ordine dal caos”). Infine, i simboli. Fondamentali per capire sia la massoneria che il fascismo. Solo per fare un esempio, il sigillo del Rito Simbolico Italiano (formatosi ufficialmente a Milano nel 1876), oltre a contenere i soliti simboli massonici (stella, squadra, compasso), è costituito da un aquila che sovrasta un fascio littorio. Molto simile allo stemma della Repubblica Romana del 1848-49, e identico all’aquila con il fascio littorio che si trova al centro della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, lo Stato fantoccio creato dai nazisti e da Mussolini a Salò, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Un caso? Tra l’altro: “Rito Simbolico Italiano” =RSI. “Repubblica Sociale Italiana” =RSI. Ma questa sarà sicuramente una coincidenza…

Massoneria e Nazismo. Gli Stati Uniti d'America ed il Regno Unito, come è noto, a Norimberga, nel principale dei processi ai criminali dirigenti del nazismo, assunsero una posizione diversa da quella della Francia e dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Questi due paesi infatti rivendicavano che il processo fosse esteso ai protettori e finanziatori del nazismo, ai grandi banchieri ed industriali del nazismo, mentre la scelta dei giudici rimase legata alla volontà degli anglosassoni di condannare solo i diretti responsabili. Nel principale processo di Norimberga, ricordiamo, si ebbero 12 esecuzioni di altrettante condanne a morte.

Le origini occulte ed esoteriche del nazismo, scrive Pierluigi Tombetti. Il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi ha la sua origine in una delle tante associazioni, o bund, in cui il popolo tedesco tendeva naturalmente a riunirsi: questa si chiamava “Germanenorden” (Ordine dei Germani) e vide la luce il 12 marzo 1912 incorporando l’Hammer–Gemeinden (Lega del Martello) ed altri gruppi antisemiti. Il Germanenorden (GO) convocò nel maggio 1914 a congresso tutte le associazioni nazionaliste germaniche con lo scopo di creare una loggia antisemita segreta da contrapporre all’internazionale ebraica: in agosto i membri del “GO” erano già migliaia con oltre cento logge in cui le idee di List e Lanz von Liebenfels erano discusse ed apprezzate dai membri per il loro antisemitismo e per l’enfasi posta sulla ricerca dell’antica sapienza aria. Sarà nel 1916 che il GO acquisterà il suo elemento di spicco, Rudolf von Sebottendorff: giovane inquieto ed avventuroso, dopo essersi iscritto al politecnico di Berlino si imbarca e viaggia in tutto il mondo. Si ferma al Cairo dove si avvicina al misticismo e all’insegnamento iniziatico dei dervisci Mevlevi (cfr HERA n°31 pag.48). Da queste prime esperienze trae il nucleo dell’insegnamento iniziatico che perfeziona negli anni successivi a Costantinopoli dove rimane al servizio di Hussein Pasha come sovrintendente delle proprietà. Qui Sebottendorff frequenta la famiglia degli ebrei Termudi, ricchi studiosi della Qabbala e proprietari di una vasta biblioteca di testi alchemici e rosacrociani; entra a far parte della loro loggia del rito di Memphis ed elabora un sistema di meditazione e respirazione forzata con tecniche di posizionamento delle mani e del corpo che descriverà in “Die Praxis der alten Turkischen Freimaurerei” (1924). Questa sua attività spirituale si nutre anche della sapienza egizia poiché nel 1900 aveva visitato la piramide di Cheope a Giza, studiandone il significato cosmologico e numerologico, avvicinandosi così alla gnosi occulta delle teocrazie egiziane. Poco a poco Sebottendorff si convince che rune e misticismo islamico hanno un’origine comune e su questa idea continua i suoi studi elaborando una sorta di yoga sillabico, in cui dopo aver assunto speciali posture ed attuato una respirazione canalizzata e controllata, si ripetono alcune sillabe mistiche. Il suo sistema si propone di accumulare il più possibile la forza cosmica all’interno del corpo umano e indirizzarla in punti desiderati così da gustare sapori ed odori sottili fino alla percezione dell’ “ombra nera” che segna l’inizio di una nuova vita spirituale ed il discepolo riceve il nome di Loggia. Il passo successivo porta a gradi superiori di meditazione, fino alla visualizzazione interiore dei colori, qualcosa di simile agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che fu uno dei direttori spirituali a cui Heinrich Himmler attinse per le meditazioni SS a Wewelsburg. Le tecniche di Sebottendorff avevano come scopo il miglioramento dell’individuo fino a farlo divenire un essere spirituale completo secondo l’insegnamento della massoneria turca. Una sorta di Pranayama massonico. Sebottendorff tornerà in Germania nel 1913 e si affilierà al “Germanenorden”, diventando il responsabile della sezione bavarese. Con lui troviamo il giovane Walter Nauhaus, studioso di tradizioni esoteriche e cultura nordica ed altri esponenti di quella cultura germanica che mescola esoterismo e ricerca storica sulla scia di Guido von List che ricercano nella cultura ariana una superiore saggezza da contrapporre al potere ebraico in Germania. Se anche il GO era senza dubbio una loggia con intenti antisemiti e politici, non possiamo non riconoscere che un uomo dell’esperienza di Sebottendorff, con una fortissima base esoterica e sapienziale avrebbe apportato nuova linfa spirituale alla loggia bavarese. Le direttive della loggia erano chiare:

1) sarebbe entrato a farne parte solo chi poteva dimostrare la purezza del sangue fino alla terza generazione;

2) Si sarebbe compiuta un’opera di propaganda razziale con dimostrazione scientifica della decadenza dovuta a mescolanza con razze inferiori.

Per ribadire il carattere religioso e massonico dell’ordine, esaminiamo brevemente il rituale di iniziazione dell’ordine. La serata di iniziazione era un evento da frac e ogni nuovo fratello si sarebbe dovuto sottoporre ai controlli frenologici tramite il plastometro, uno strumento inventato da un frenologo di Berlino che prendeva le misure del cranio per verificare l’appartenenza alla pura razza ariana. Mentre i novizi attendevano nella sala attigua, nella sala della Loggia prendevano posto il Maestro sul suo scranno con baldacchino, protetto simbolicamente da due cavalieri in tunica bianca e con elmo adorno di corna. Di fronte sedevano il tesoriere e il segretario mentre l’araldo prendeva posto al centro della stanza. Dalla parte opposta al Maestro, nella zona denominata “Bosco del Graal” era seduto il Bardo e davanti a lui il Maestro di cerimonie in abito blu. Intorno sedevano i fratelli mentre un armonium e un pianoforte suonavano accompagnando un piccolo coro di “elfi della foresta”. Si cominciava con il Tannhaeuser di Wagner. A luce di candela i fratelli si facevano il segno della swastika levogira ed il maestro rispondeva allo stesso modo. I novizi venivano introdotti bendati mentre il Maestro spiegava loro la visione del mondo ario–germanica dell’Ordine e si accendeva la “sacra fiamma del bosco”. Il Maestro brandiva la lancia di Wotan e i due cavalieri incrociavano le spade sopra di essa; aveva luogo poi una serie di chiamate e risposte accompagnata dal Lohengrin e i novizi prestavano giuramento. Seguivano altri rituali in cui venivano personificate figure divine del pantheon germanico creando così un’atmosfera vicina sia al misticismo ariosofico che al rituale massonico. In “Prima che Hitler venisse”, Sebottendorff afferma che le opere di Guido von List e Lanz von Liebenfels “erano un pregevole patrimonio di dati non certo trascurabili, nonostante la mistica oltranzista” e dichiara che Philipp Stauff, noto per le sue ricerche sulle case runiche, riunì nella Associazione dei seguaci di List i simpatizzanti di quest’ultimo. La loggia berlinese della Società Guido von List si scisse e nel 1912 Stauff e i suoi collaboratori entrarono a far parte del Germanenorden. Abbiamo quindi tutti i motivi per affermare che il GO aveva al suo interno elementi guida (Stauff, Nauhaus, Sebottendorff, e altri) che approvavano e praticavano gli insegnamenti di Guido von List e Lanz von Liebenfels. Se aggiungiamo a questo gli esercizi di yoga massonico e la preparazione iniziatica di Sebottendorff che avrebbe influenzato poco a poco gli insegnamenti della loggia bavarese, dobbiamo ammettere che il GO era intriso di una sapienza esoterica che si esprimeva essotericamente con discorsi pubblici nazionalisti ed antisemiti, e attraverso l’organo ufficiale della loggia, “Runen”, (il primo numero uscì nel gennaio 1918) diretto da Sebottendorff che ne era il principale finanziatore. Tra l’altro le cerimonie importanti venivano svolte durante i giorni dei solstizi, come era costume tra gli antichi germani. Lo stemma della società includeva una swastika, secondo gli insegnamenti solari degli ariosofi che i membri sfoggiavano su una spilla. Gli aderenti al GO inoltre portavano un anello con rune con intento apotropaico: lo stesso anello (ideato da Weisthor, il consigliere – mago del Reichsfuehrer SS) che troveremo tra gli ufficiali superiori SS con rune e teschio all’esterno e la firma di Himmler all’interno. Sebotendorff era anche uno studioso di astrologia e preparava ponderosi oroscopi allo scopo di evidenziare il futuro del GO e della Germania. Il 18 agosto 1918 la loggia bavarese del “GO” cambia ufficialmente nome in Thule come copertura per le attività politiche. Thule Bund significa ritorno alla mitica età dell’oro nella zona di origine della civiltà aria. Le cerimonie di iniziazione richiamano alla mitica patria nordica e collegano il rituale massonico ad una religione wotanica solare evidente nei simboli swastika e nell’immagine di Odino sui fogli ufficiali della Loggia. Fra gli ospiti della Thule troviamo personaggi che avrebbero rivestito ruoli chiave nel partito nazista come Alfred Rosenberg, articolista del “Muenchener Beobachter” (il giornale della Thule che si sarebbe trasformato in “Voelkischer Beobachter”, il quotidiano del partito nazionalsocialista) il futuro ministro della cultura, Dietrich Eckart, il maestro spirituale di Hitler e Karl Hausofer Membri invece ne furono Rudolf Hess, occultista e studioso di esoterismo, grande amico di Hitler e Hans Frank, futuro governatore di Polonia. Ma come si giunge dalla Thule al partito nazista? Dopo il primo conflitto mondiale, Hitler, che aveva combattuto in trincea, tornò a Monaco dove lavorò come spia per la polizia locale che voleva raccogliere informazioni sui vari gruppi operanti in città. Nel settembre 1919 egli frequentò una riunione del “Deutsche Arbeiterpartei” (DAP – Partito dei Lavoratori Tedeschi) fondato all’interno del gruppo Thule il 5 gennaio 1919 dal fabbro Anton Drexler in una birreria di Monaco. Hitler rimase colpito dalle idee del nuovo partito che erano in perfetta sintonia con le sue e presentò ai suoi superiori un rapporto favorevole. Fece visita di nuovo al gruppo e si iscrisse con la tessera n° 7. Di lì a poco Hitler ne assunse la presidenza, il nome fu modificato in Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) e la Thule seppe di aver trovato il proprio capo e il proprio destino politico. Nella Thule Bund si instillava l’idea che le dottrine scientifiche dovessero piegarsi a dimostrare la veracità della dottrina della Razza superiore germaniche con studi ed esperimenti su animali e uomini: ritroviamo qui le idee degli ariosofi che saranno poi realizzate con la tipica precisione tedesca nelle accademie scientifiche SS durante il III Reich. La Thule aveva dunque come scopo la purificazione eugenetica di una élite destinata ad occupare i posti chiave nella guida di una nazione in cerca del sé; la stessa ideologia degli arconti, degli iniziati o dei gerofanti che veniva diffusa dalla corrente teosofica e ariosofica tra la seconda metà del XIX sec. e i primi anni del XX. Tuttavia alla base vi è una nostalgia delle origini, il senso della caduta dalla purezza originale al peccato (la commistione con razze inferiori) e la convinzione che il popolo ebreo rappresentasse la più colpevole di queste razze. A questo punto abbiamo gli elementi per affermare che la società Thule, da cui nasce il nazionalsocialismo come braccio politico, catalizza una corrente di pensiero che si origina da un’ansia religiosa, la Thule crea addirittura propri rituali all’interno della Loggia degli iniziati. In pratica, come nel caso dell’Ariosofia, stiamo assistendo alla nascita autonoma e spontanea di una nuova religione. La società Thule verrà, però, lasciata a sé stessa in quanto Hitler trovava insopportabile l’idea di una conventicola politica che non riusciva ad andare oltre il concetto di società segreta. Decise di trasformare l’Arbeiterpartei in un grande partito di massa mentre la Thule perderà gradualmente di importanza di fronte al NSDAP che sembrava incarnarne meglio l’ideologia. Quando Hitler si avvicinò al gruppo Thule, gravitavano intorno a Sebottendorff personalità curiose che non cercavano solo una riscossa politica tedesca ma approfondivano la cultura ariosofica e studiavano le teorie di vittoria solare del germanesimo sulle razze inferiori; l’emblema della croce uncinata teosofica con a fianco il dio Wotan/Odin delle pubblicazioni della Thule evidenzia la visione pangermanica e pseudo-religiosa del gruppo. Ma per confermare questo aspetto diamo una breve scorsa ai membri più famosi e all’influenza che ebbero su Hitler: Dietrich Eckart. Hitler lo considerava il suo mentore, il maestro a cui ricorrere per consigli e suggerimenti su qualsiasi campo, ritenendolo un uomo dalla superiore conoscenza. Eckart, a sua volta, lo introdusse nella società bene di Monaco che strinse rapporti di simpatia con il Fuehrer, sostenendo finanziariamente il NSDAP. Eckart era anche uno studioso dell’occulto, della magia tibetana e conosceva personalmente alcuni esponenti di questa disciplina. Le lunghe conversazioni che aveva regolarmente con Hitler avrebbero probabilmente fornito l’occasione per trasmettere questa conoscenza. Egli era convinto che una misteriosa e superiore razza ariana ovunque nel mondo e da millenni sarebbe in marcia dal nord al sud e sarebbe costantemente impegnata nel combattimento contro le razze inferiori di sub–uomini (untermenschen). Il destino escatologico del mondo si sarebbe realizzato attraverso la vittoria della stirpe ariana, una salvezza spirituale. Nella Thule Bund troviamo anche Karl Haushofer, che era stato addetto militare a Tokyo. Sembra che negli anni 1903–1908 facesse frequenti visite a Gurdjieff in Asia centrale, seguendone per un po’ gli insegnamenti, ma si tratta di voci non del tutto confermate. Haushofer si dedicò ad uno studio personale sulle dottrine teosofiche e si convinse che i popoli ariani avevano avuto un’origine comune in Asia, forse proprio in Tibet. Qui e nel deserto di Gobi aveva cercato invano l’entrata di Agarthi e aveva stabilito contatti con saggi tibetani che gli avevano trasmesso conoscenze millenarie. Allo scoppio della prima guerra mondiale tornò in Germania e aderì al GO. Al temine della guerra accettò l’incarico di professore di geopolitica presso l’università di Monaco dove approfondì il concetto di sangue e suolo secondo cui la sopravvivenza di una razza dipende dalla conquista del lebensraum (spazio vitale) ottenuta sottomettendo le razze inferiori. Il suo interesse per la scienza esoterica incorporava anche l’astrologia di cui era appassionato cultore; tutti elementi che ritroveremo nella persona di Hitler. Tra l’altro l’astrologia permeava anche gli ambienti dello stato maggiore tedesco. Infatti il generale Ludendorff, che era stato compagno di Hitler durante il tentativo di impadronirsi di Monaco con la marcia del putsch dell’8 novembre 1923, condivideva, insieme al presidente Hindenburg, una credenza che mescolava vari elementi esoterici ed astrologici. Haushofer andava spesso a trovare Hitler durante il periodo di detenzione di Landsberg, dove il Fuehrer fu rinchiuso per aver partecipato al putsch fallito. Le loro lunghe conversazioni vertevano su geopolitica, teorie della razza e origine della stirpe aria. È difficile credere che Haushofer non gli abbia parlato di ciò che più gli stava a cuore e cioè della sua ricerca dell’Agartha e della sapienza tibetana. Le missioni della sezione “SS Ahnenerbe” in Tibet e il ritrovamento di cadaveri di monaci tibetani nel bunker di Berlino nel maggio del ’45 sembrano confermarlo. Ma a Landsberg c’era un altro personaggio che faceva parte della Thule: Rudof Hess. Nato ad Alessandria il 26 aprile 1894 frequentò scuole destinate ai fanciulli più benestanti e allo scoppio del conflitto si arruolò nell’esercito tedesco come fante. Al temine della prima guerra mondiale si iscrisse all’università di Monaco dove studiò economia, storia, geografia (fu allievo di Haushofer) e scienze politiche. Hess incontrò Hitler a Monaco nel 1920, e ne fu affascinato. Si iscrisse al NSDAP con la tessera n° 16 e divenne da subito il secondo di Hitler. Le testimonianze che abbiamo ci parlano di una strettissima amicizia tra Hitler e Hess (l’unico a cui Hitler dava del tu e non del voi) che scelse di internarsi volontariamente a Landsberg per stare vicino al suo Fuehrer: in quei mesi di assidua frequentazione, Hess spiegò a Hitler le teorie di Haushofer e gli parlò dei suoi interessi di occultismo ed esoterismo. Hess era vegetariano, come Hitler, e faceva preparare i suoi cibi con particolari procedimenti bio-dinamici, secondo i precetti della medicina omeopatica. Hitler ed Hess nutrivano un altro interesse in comune: quello per le culture dell’Asia orientale, e per l’astrologia. Hess aveva una cerchia di amici particolari, tutti come lui affascinati dalla conoscenza segreta ariana, ed approfondiva questi argomenti con studi appassionati nella sua biblioteca personale. A Landsberg Hitler, Hess e Haushofer preparano a tre mani il “Mein Kampf”, la dottrina politica espressa essotericamente di una ideologia che ha le sue radici nel movimento teosofico ed ariosofico. In conclusione la nascita del partito nazionalsocialista è legata al Germanenorden, che a sua volta cambiò nome in Thule, la mitica patria degli iperborei (cfr HERA n°29 pag.46). Hitler preferì sempre stendere un velo di segretezza sulle sue attività esoteriche, sul fatto che si era nutrito delle ideologie di von Lanz, che si era fatto ordinare da Lanz confratello dell’ONT e sulle dottrine segrete ariosofiche che condivideva. L’effetto della generale destabilizzazione delle coscienze causato dalla filosofia irrazionalista ed idealista e la spinta ariosofica e patriottica dell’emozione voelkisch si risolse in una manifestazione violenta ed esplosiva dell’archetipo Wotan/Odin. Questo fenomeno si tradusse in pratica durante il III Reich con la dottrina ariana a cui Hitler donò il crisma della legalità in nome della razza superiore. Tratto da: Informazione Consapevole.

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani, Domenica 07/12/2014 su "Il Giornale".  La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Lenin accese la scintilla. Stalin bruciò ogni cosa. Togliatti raccolse le ceneri. Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti, scrive Giampietro Berti, Martedì 8/04/2014" su "Il Giornale".  Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano. Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate. Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico. Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

Churchill-Mussolini. Ecco le (nuove) prove del mitico carteggio. Le lettere tra un capo partigiano e una spia confermano l'esistenza del compromettente documento, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 15/01/2014, su "Il Giornale". Il carteggio Churchill-Mussolini, uno dei documenti più misteriosi della storia contemporanea italiana, torna di nuovo a far parlare di sé. La vicenda è abbastanza nota al grande pubblico. Prima e durante la seconda guerra mondiale il duce del fascismo e il primo ministro britannico intrattennero quasi sicuramente una corrispondenza riservata. Mussolini aveva custodito gelosamente quelle carte, soprattutto da quando le sorti dell'Asse si erano volte inesorabilmente alla sconfitta. Cosa contenevano? Molto probabilmente aperture di Churchill verso il più fragile dei suoi nemici - l'ex primo lord dell'ammiragliato considerava la penisola italiana il ventre molle della «Fortezza europa» del nazifascismo. Il contenuto esatto di quegli scritti non è noto, ma nel marzo del '45 Mussolini confidò ad Alessandro Pavolini: «Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta... perché documentano la malafede inglese». Probabilmente esagerava perché qualsiasi corrispondenza val ben poco a confronto con una disfatta militare. Però di certo se le tenne ben strette durante la sua fuga verso Dongo. Come ricostruito da alcuni storici, a esempio Luciano Garibaldi, il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, Benito Mussolini aveva con sé due borse piene di documenti contenenti - secondo le testimonianze - parte della sua corrispondenza con Churchill. Le due borse furono subito requisite dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici. Da quel momento il destino dei documenti diventa meno chiaro. Secondo alcuni testimoni, dopo la produzione di alcune copie, il 4 maggio 1945, il materiale fu esaminato da una commissione formata, tra gli altri, dal segretario della Federazione comunista locale, Dante Gorreri, e dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli. Era materiale scottante, ma forse i partigiani non capirono quanto. Sta di fatto che poi accadde l'incredibile: il 2 settembre 1945, a nemmeno due mesi dalla conclusione della guerra, dopo aver perso le elezioni e non più primo ministro, Winston Churchill si recò sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza nella Villa Apraxin di Moltrasio, dietro falso nome. Forse si trattò di una missione di recupero aiutata e gestita dai servizi segreti inglesi. Infatti dopo quel momento del famoso carteggio non si ebbe più traccia. Ora a questo quadro si aggiunge un nuovo tassello. In una ricostruzione dello storico Roberto Festorazzi pubblicata sul nuovo numero di Oggi emerge che in questo intrigo internazionale ebbe un ruolo rilevante anche un agente dei servizi segreti italiani, Bruno Piero Puccioni (1903-1990). Puccioni era stato un fascista della prima ora e già nella Repubblica sociale in qualità di agente aveva svolto il ruoli di collegamento tra fascisti, partigiani e alleati (le parti si parlavano molto più di quanto si creda). Da una villa del borgo di Damaso, non lontano da Dongo, Puccioni era riuscito a stabilire buoni rapporti con i partigiani moderati tra i quali il nobile fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle, comandante della 52ª Brigata. Puccioni cercò di elaborare un piano per salvare Mussolini e consegnarlo agli americani. Il piano fallì e Mussolini venne fucilato (non è qui il caso di riaprire la discussione annosa se per volontà partigiana o con una spintarella degli agenti inglesi). Quel che è certo è però che Puccioni e Bellini delle Stelle cercarono anche nel dopoguerra di rimettere le mani sul carteggio. Festorazzi ha ritrovato alcune delle loro missive. Così scrive, secondo Oggi e Festorazzi, Bellini delle Stelle a Puccioni il 7 maggio del '49: «Il carteggio pare sia andato a chi già supponevamo, ma seguendo tutt'altra via da quella che ho dapprima seguito... Pare però che seguendo questa via si possa giungere ad entrare in possesso di una copia fotografica di tutti i 63 fogli...». Il piano dei due ex nemici-amici evidentemente non andò a buon fine. Secondo Festorazzi speravano con quelle carte di far tornare Trieste all'Italia. Di certo questa è un'ulteriore conferma dell'esistenza del carteggio e di quale strada probabilmente prese. Come spiega al Giornale Francesco Perfetti, contemporaneista della LUISS Guido Carli di Roma: «Che il carteggio sia esistito ormai è un fatto che negano soltanto alcuni storici inglesi, più che altro per un non molto sensato amor di patria». E che potesse essere compromettente? «All'epoca senz'altro, chiaro che potesse imbarazzare il primo ministro inglese, anche se non va sopravvalutato. Non credo ci sia al suo interno qualcosa che possa cambiare la Storia. Al massimo le prove di quella Realpolitik che si pratica sempre in tempo di guerra e che era un tratto chiaro e noto del modo di operare di Churchill. Quanto alla simpatia umana che molti conservatori inglesi e Churchill provarono a lungo prima della guerra per Mussolini è cosa nota anche quella».

Riemerge un dossier sulle lettere tra Churchill e Mussolini, scrive Roberto Festorazzi il 13 giugno 2015 su "Avvenire". Winston Churchill nel settembre 1945 soggiornò tre settimane sul lago di Como. Lo scopo della «strana vacanza» è oggetto di discussioni da decenni. Non pare che lo statista sia venuto sul Lario solo per dipingere e riposare... Lo dimostrano, tra l’altro, gli importanti colloqui che ebbe nella villa di Moltrasio dov’era ospite. Il leader conservatore ricevette pure il nunzio in Italia, monsignor Francesco Borgongini Duca, che gli avrebbe riferito le preoccupazioni di Pio XII circa l’eventualità che l’Italia venisse trattata con durezza ai tavoli della pace. L’incontro è confermato da un documento degli archivi americani, pubblicato dallo storico Nicola Tranfaglia: la relazione che il delegato apostolico in Gran Bretagna, monsignor William Godfrey, redasse il 6 novembre 1945 dopo un colloquio con Churchill in cui il premier sostenne che la Penisola, come nazione vinta, non poteva essere interamente libera, ma doveva adeguarsi a una forma di tutela. ​Le discussioni sul carteggio Churchill-Mussolini – la corrispondenza segreta intercorsa tra i due uomini di Stato dalla metà degli anni Trenta almeno fino al 1940, se non oltre – hanno ripreso vigore dopo la pubblicazione dell’ultimo libro di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini(Rizzoli). Ai teoremi negazionisti dello storico bresciano che, con toni polemici un po’ sopra le righe, esclude l’esistenza di un simile epistolario, si possono tuttavia opporre molti dati di fatto che militano a favore della tesi opposta. Qui proporremo un’inedita scoperta che consente di aggiungere nuovo pepe alla pietanza. Qualche tempo fa, in una villa della Brianza, è emerso un plico di documenti esplosivi, con l’intestazione «Carteggio Churchill-Mussolini». Si tratta di un dossier appartenuto all’ex proprietario di quella residenza, e incautamente dimenticato nel corso di un trasloco non troppo accurato. Padrone della villa fu un agente segreto britannico, autore di fortunosi recuperi dei dossier esteri che Mussolini portò con sé sul lago di Como, nelle giornate di fine aprile del 1945. Si tratta di Malcom Hector Smith, un personaggio di cui si sa molto poco, ma la cui figura è di grandissimo interesse per penetrare a fondo i misteri del carteggio più controverso della storia. Il maggiore Smith, nato a Palermo nel 1910 da genitori scozzesi e morto a Como nel 1991, non soltanto fu al centro di molti intrighi, ma nel dopoguerra venne incaricato dal governo britannico di restare a occuparsi, in Italia, dei cascami di quei recuperi di «preda cartacea», come una sorta di agente permanente degli interessi della Corona. Sotto l’incarico di copertura di console del Sudafrica, Smith, tra una partita di golf e l’altra, agì così per occultare le tracce di quelle lontane operazioni speciali svolte nella primavera-estate del 1945. Il primo a sollevare il coperchio sui ruoli dell’ufficiale scozzese fu Duilio Susmel, cacciatore di carte ducesche, il quale sulla Domenica del Corriere nel gennaio 1967 scrisse a chiare lettere che questi, nelle giornate di Ferragosto del ’45, aveva disseppellito i carteggi nel giardino di Villa Mantero di Como, dove erano transitati Rachele Mussolini e i suoi figli minori. A fornire indicazioni dettagliate sulla esatta localizzazione dei preziosi fascicoli era stato l’industriale chimico Guido Donegani, padrone della Montedison. Costui, arrestato e rinchiuso a San Vittore con l’accusa di collaborazionismo, aveva barattato la scarcerazione con suggerimenti agli inglesi atti a individuare i nascondigli delle carte. E non è privo di rilevanza osservare che Churchill, durante la sua «strana vacanza» pittorica sul lago di Como nel settembre 1945, soggiornasse proprio nella villa di Moltrasio dell’industriale, recandosi poi in visita a Venegono, località varesina dove Donegani si trovava sotto scorta militare britannica: praticamente «piantonato»! Non è tutto: lo stesso Smith, il 22 maggio precedente, era riuscito a intercettare altri segmenti della corrispondenza Duce-Churchill, occultati nell’imbottitura di una cavallina della palestra Negretti, sempre nel capoluogo lariano. A questo punto torna molto utile considerare il plico dei documenti riemerso dalla ex-villa dell’agente segreto: carte che contribuiscono ad avvalorare ulteriormente questa pista di indagine. Di che cosa si tratta? La busta, oltre a copie di relazioni inedite e sensazionali che descrivono le missioni svolte da Smith nelle settimane successive alla conclusione del conflitto, contiene le trascrizioni in inglese sia dello scoop di Susmel, apparso sulla Domenica del Corriere, sia delle polemiche che ne seguirono. Una prima domanda sorge spontanea: per quale ragione Smith, che parlava correntemente l’italiano, avvertì l’esigenza di tradurre quelle notizie di stampa? Evidentemente qualcuno a Londra, nel governo o nella direzione dei servizi segreti, gli aveva chiesto una relazione dettagliata sull’argomento. Curiosamente, il servizio esclusivo della Domenica del Corriere, «lanciato» dal rotocalco fin dalla copertina, provocò una serie di reazioni. Un ex agente dell’Ovra (il braccio operativo della Polizia politica fascista) scrisse al settimanale per attaccare Smith. Terzilio Borghesi – questo il suo nome – lamentò di essere stato derubato, quando nel maggio del ’45 era stato arrestato a San Maurizio di Brunate da agenti inglesi, tra cui il nostro. Smith replicò alla lettera diffamatoria della spia dell’Ovra, ma – questo è il lato interessante della vicenda – la sua rettifica non riguardava in nulla le notizie sul suo ruolo nella vicenda del trafugamento del carteggio Churchill-Mussolini. In tal modo è come se confermasse indirettamente lo scoop di Susmel. Soltanto poco prima di morire, in un’intervista rilasciata allo storico Marino Viganò, il maggiore Smith ammise ufficialmente di essere stato l’autore di quei recuperi cartacei, chiarendo di aver incontrato lo stesso Winston Churchill durante il soggiorno dello statista britannico sul Lario. Benché lo smentisse a Viganò, l’ufficiale scozzese in privato ad amici e conoscenti rivelava inoltre di aver avuto un ruolo anche nell’epilogo cruento di Mussolini: indiscrezioni di cui è molto difficile valutare il reale fondamento. Le «carte della villa» contengono anche appunti dattiloscritti di Smith, che danno consistenza al suo (finora) evanescente profilo biografico. Egli infatti, trasferitosi in Scozia dopo l’infanzia palermitana, era emigrato in Sudafrica nel 1923, rimanendovi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Rientrato in Gran Bretagna, era stato poi arruolato nel Field Security Service e nel luglio 1943 era sbarcato in Sicilia con le truppe alleate. Durante la campagna d’Italia, aveva lavorato in stretta collaborazione con il controspionaggio del Sim. In qualità di ufficiale di collegamento britannico, operava alle dipendenze degli alti comandi della sicurezza militare congiunta anglo-americana, cioè agli ordini del G-2 della 5ª Armata americana. Nei suddetti appunti, si riporta, tra l’altro, una dichiarazione del capo dell’808° Battaglione del controspionaggio italiano in zona di operazioni, la quale attesta che «il maggiore Smith e la sua Sezione, composta da 6 uomini più il comandante, aveva "compiti di ricerca delle spie tedesche lasciate dietro le linee alleate"». Nel luglio 1945 Malcom Smith si unì in matrimonio al soprano fiorentino Elda Ribetti. Come d’incanto il padre della sposa, il fascistissimo colonnello di fanteria Alfredo Ribetti, che si trovava agli arresti, venne scarcerato... Semplici coincidenze?

Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei Nationals Archives di Londra, scrivono il 2 settembre 2015 Dino Messina e Eugenio Di Rienzo su "Il Corriere della Sera". La caccia al carteggio segreto tra Churchill e Mussolini, dove il premier britannico, prima del 10 giugno 1940, invitava il capo del fascismo a far entrare l’Italia in guerra a fianco della Germania per mitigare, in caso di sconfitta del Regno Unito, le pretese di Hitler al tavolo delle trattative, ha impegnato per quasi settanta anni, storici della domenica, inguaribili nostalgici del Ventennio nero, giornalisti in cerca di scoop, spregiudicati editori. Solo, nel marzo di quest’anno, come ha scritto Paolo Mieli sulle pagine del «Corriere», questa caccia si è ufficialmente chiusa, definitivamente ci auguriamo, grazie all’importante lavoro di Mimmo Franzinelli (“L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini”, Rizzoli). Nel suo studio Franzinelli ci ha rivelato con meritoria pignoleria la lunga storia di falsificazioni e di manipolazioni che si è sviluppata intorno al fantomatico commercio epistolare. Inventato di sana pianta e costruita con molta rozzezza è, infatti, lo schema di accordo dell’11 aprile con la quale l’inquilino di Downing Street chiedeva all’ospite di Palazzo Venezia di catapultare il nostro Paese nella tragedia del secondo conflitto mondiale, in modo da «aiutare la Gran Bretagna nella futura conferenza di pace a frenare il militarismo tedesco e a ottenere la vittoria finale contro di esso», promettendo l’intervento del Governo di Sua Maestà per sostenere le rivendicazioni italiane verso la Francia e per «ripristinare i diritti dell’Italia sul Mediterraneo». Egualmente contraffatta, come numerose altre missive, era la risposta 4 maggio, dove il Capo del Governo italiano informava Churchill di aver ottenuto il consenso di Vittorio Emanuele a quell’accordo.

Tutto falso, tutto da buttare in quel carteggio? Assolutamente sì. E, a titolo di direttore di una rivista storica, voglio qui pubblicamente ringraziare Franzinelli, sicuro che, dopo il suo libro, la mia redazione non sarò più invasa, come tante volte è accaduto, da clamorose rivelazioni sulla diplomazia segreta di Mussolini, opera di pseudo-studiosi dominati dalla teoria del complotto. Come analista del passato, devo però rimproverare all’autore dell’Arma segreta del Duce un errore di metodo e un’insufficienza nella ricerca archivistica che si collegano l’uno all’altra, dando vita a un circolo vizioso storiografico. Per il primo punto devo dire che l’aver dimostrato che lo scambio di missive tra Churchill e Mussolini della primavera-estate del 1940, in nostro possesso, è un apocrifo non vuol dire che non siano esistiti in quello stesso periodo, come Franzinelli presume, negoziati o magari semplici pourparlers con l’Italia, attraverso i quali Francia e Inghilterra cercarono di ottenere l’assicurazione che il Duce in una futura conferenza di pace avrebbe speso la sua influenza a loro favore, in cambio di una sostanziosa contropartita ma soprattutto al fine di arginare la preponderanza del «Reich millenario». Per il secondo punto, mi spiace dover osservare che quanto afferma l’autore dell’ “Arma segreta del Duce”, e cioè che ogni rapporto tra il Mussolini e i leaders delle democrazie liberali si sarebbe interrotto il 19 maggio, dopo il secco rifiuto di Palazzo Venezia a prendere in considerazioni gli inviti di Churchill e Roosevelt a non seguire Hitler nell’avventura bellica iniziata nel settembre 1939, costituisce una grave imprecisione. Un’imprecisione che Franzinelli si sarebbe potuta facilmente risparmiare con un più lungo e fruttuoso soggiorno di studio nei Nationals Archives britannici o più semplicemente grazie a un’attenta lettura dell’ultimo capitolo del lavoro di Emilio Gin, “L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento. Settembre 1938 – Giugno 1940!”, pubblicato da Nuova Cultura Editore nel 2012. Negli archivi di Londra, sono conservati, sotto il titolo “Suggested Approach to Signor Mussolini”, i verbali della riunione del War Cabinet del 26 maggio 1940. In quella data, previa intesa con il governo di Parigi, l’esecutivo britannico decideva di inviare a Roosevelt una bozza di accordo, che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto sottoporre all’attenzione di Mussolini. Nel testo, le Potenze occidentali, nel momento in cui il fronte francese si era letteralmente sbriciolato sotto la spallata della Blitzkrieg scatenata dall’esercito tedesco, chiedevano al Duce di offrire la sua collaborazione nelle future trattative con la Germania per assicurare una soluzione di tutte le questioni europee, da cui dipendeva «la sicurezza e l’indipendenza degli Alleati» e la possibilità di garantire «una pace giusta e duratura all’Europa». Qualora Mussolini avesse accettato questa proposta, Londra e Parigi s’impegnavano a non aprire nessun negoziato con Hitler, se questi non avesse consentito all’Italia di partecipare, nonostante il suo status di non belligerante, alla conferenza di pace. Inoltre Churchill e il Primo ministro francese, Paul Reynaud, promettevano formalmente, sotto la malleveria degli Stati Uniti, di ricompensare il governo di Roma soddisfacendo «tutte le sue legittime aspirazioni nel Mediterraneo» che all’epoca comprendevano, in primo luogo, l’internazionalizzazione di Gibilterra e la partecipazione al controllo del Canale di Suez, oltre importanti acquisti territoriali nell’Africa francese. Il cammino per arrivare a questa iniziativa era stato difficile e contrastato. Churchill aveva dovuto, infatti, superare le resistenze di Reynaud, che alla fine si era arreso, contando sullo «sconforto che l’idea di un’Europa dominata da Hitler doveva causare in Mussolini». Anche Roosevelt aveva recalcitrato all’idea di un suo nuovo intervento su Palazzo Venezia, dopo la cattiva accoglienza ricevuta da un suo precedente messaggio, che era stato definito dal Duce un’indebita ingerenza nella politica italiana. Per vincere la ritrosia di Washington, il premier britannico aveva incaricato il Segretario agli Esteri, Halifax, di abboccarsi con l’ambasciatore italiano a Londra, Bastianini, per sondare gli umori di Palazzo Venezia. L’incontro, svoltosi nel pomeriggio del 25 maggio, durante il quale Halifax aveva consegnato al nostro diplomatico la bozza della lettera di Roosevelt, era stato positivo. Con tutte le cautele del caso, Bastianini, che certo non parlava a titolo personale, informava Halifax che il Presidente del Consiglio italiano non avrebbe opposto nessun pregiudiziale rifiuto a partecipare a una «peace conference by the side of the belligerents». Mussolini, aggiungeva Bastianini, era interessato a risolvere tutte le questioni europee, e in particolare ad arrivare a un’equa sistemazione politica e territoriale della Polonia, e aveva sempre pubblicamente manifestato il vivo desiderio di costruire un «accordo generale sull’Europa» che non avrebbe dovuto essere «un semplice armistizio» ma piuttosto un patto di sicurezza collettiva in grado di «salvaguardare la pace del continente per almeno un secolo». Nella mattinata del 27, l’ambasciatore americano Phillips, dopo aver appreso il rifiuto di Mussolini di concedergli udienza, consegnava la lettera di Roosevelt a Ciano, ribadendo che, in caso di risposta positiva, il Presidente degli Stati Uniti sarebbe divenuto «personalmente responsabile per l’esecuzione, a guerra finita, degli eventuali accordi». Con perfetto tempismo, in quella stessa giornata, anche l’ambasciatore francese François-Poncet incontrava il nostro ministro degli Esteri, annunciandogli che, con l’esclusione della Corsica, la Francia era disposta a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull’Algeria». La replica di Ciano non lasciava, però, adito a nessuna speranza. La decisione di entrare in guerra era stata ormai presa e se anche il Duce avesse potuto avere pacificamente il doppio di quanto da lui reclamato, egli avrebbe rifiutato. Come ha scritto Emilio Gin, la rinuncia di Mussolini a prendere in considerazione il piano di Churchill obbediva a un calcolo razionale che poco aveva a che fare con l’infatuazione bellicista che gran parte della storiografia italiana gli attribuisce. Il Duce, infatti, non avrebbe potuto tollerare di partecipare ai colloqui per la pace, accanto ad un Hitler trionfante, solo per gentile concessione di Giorgio V e del suo fiacco alleato. In questo caso, la sua posizione sarebbe stata debolissima, del tutto ininfluente, e il Führer, divenuto padrone assoluto del gioco, avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il Neue Ordnung nazionalsocialista, eliminando dalla scena politica Nazioni Neutrali, Paesi occupati, Alleati e la stessa Italia. Solo dopo aver partecipato al conflitto, al “modico” prezzo di «un pugno di morti» per sedersi al tavolo delle trattative, Mussolini poteva dunque far sentire la sua voce con la fondata speranza di essere ascoltato. Come, il 28 maggio, Ciano fece intendere al ministro d’Inghilterra, Percy Lorraine, non esisteva altra via d’uscita dalla guerra scatenata dal Reich se non la partecipazione italiana al conflitto. Si trattava un messaggio cifrato, volutamente ambiguo, che pure fu perfettamente inteso dalle Cancellerie alleate. Fu soprattutto Parigi a penetrare il senso di quell’enigmatico avvertimento e comprendere che nei piani di Palazzo Venezia l’intervento italiano doveva costituire il contrappeso necessario alla vittoria di Hitler. Il 2 giugno, infatti, il Ministro francese della Difesa e degli Esteri, Daladier, sosteneva che il governo di Roma intendeva iniziare una «guerra a termine», che non aveva «precedenti nella storia diplomatica». Dopo sei giorni, il Sottosegretario del Quai d’Orsay Baudouin manifestava al nostro ambasciatore a Parigi, Guariglia, la speranza che Italiani e Francesi potesse adoperarsi nel futuro per colmare l’abisso che attualmente li separava perché alle due Nazioni latine non conveniva né una pax britannica né la vittoria completa di Hitler. La risposta dell’italiano, sebbene fornita a titolo strettamente personale, veniva incontro a quel desiderio. Guariglia replicava che, considerando che il Duce aveva sempre avuto a cuore «la necessità della ricostruzione europea», da raggiungere mediante «una giusta e intelligente politica evolutiva», era forse possibile ipotizzare che egli, in questo triste momento, pensasse di «arrivare agli stessi risultati attraverso la via della guerra». La più forte conferma al fatto che, anche dopo il 10 giugno, Mussolini non intendeva recidere il filo del colloquio con Parigi e Londra è, sempre secondo Emilio Gin, nelle istruzioni impartite agli Stati Maggiori delle nostre Forze Armate, poco prima dell’inizio delle ostilità. Se si eccettua l’offensiva italiana sulle Alpi occidentali, iniziata con inspiegabile ritardo solo il 21 giugno, la guerra del Duce doveva essere, per sua stessa ammissione la replica di quella «guerra seduta» (Sitzkrieg), che per quasi un anno aveva opposto, senza grande spargimento di sangue, gli Alleati e i Tedeschi sul suolo francese. All’Esercito, che con una manovra a tenaglia dalla Libia e dall’Etiopia, avrebbe potuto seriamente minacciare l’Egitto, fu ingiunto di restare con l’arma al piede senza prendere nessuna iniziativa. Alla Regia Marina, che era in condizioni di disturbare efficacemente, se non addirittura di interrompere, i movimenti dei convogli britannici nel Canale di Suez, si ordinò di aprire il fuoco solo se attaccata. All’Aeronautica si diedero disposizioni di soprassedere «fino a nuovo ordine a qualsiasi operazione offensiva» e di vietare ai propri aerei di portarsi a più di dieci chilometri dal confine con la Francia. Furono, inoltre, annullate le incursioni su Gibilterra e Alessandria d’Egitto, già da tempo programmate e fu ridotto d’intensità il bombardamento di Malta dell’11 giugno. Fino a quando i raids effettuati da 36 velivoli della Raf, che nella notte del 12 giugno colpirono Torino e Genova completamente illuminate, come in tempo di pace, non provocarono una escalation militare italiana, era dunque intenzione del Duce di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare il rapporto con Churchill nella futura conferenza di pace, dove sarebbe iniziata la guerra vera, quella contro Hitler. Dopo questo lungo periplo, torno, ora, al punto di partenza. A differenza di Franzinelli e di molti altri storici mainstream, io concordo con Renzo de Felice nel ritenere che, con buona verosimiglianza, la logora borsa di cuoio che Mussolini trascinò con sé nella sua fuga da Milano doveva contenere materiale scottante. Forse non dei documenti che potevano valere per l’Italia «più di una guerra vinta», come il Duce confidò a Pavolini, ma certo delle testimonianze in grado di mettere in seria difficoltà il governo britannico. Allo stesso tempo reputo però che, se questa documentazione è esistita, sia del tutto inutile cercarla perché essa è stata distrutta o sepolta in luogo inaccessibile, nei giorni immediatamente successivi l’uccisione di Mussolini. Uccisione resa possibile, occorre ricordarlo, da un colpo di mano organizzato, come i lavori di Mauro Canali e miei hanno dimostrato, dallo Special Operations Executive, l’organizzazione terroristica che, dall’inizio del conflitto, Churchill aveva posto sotto il suo comando diretto.

Patto Molotov-Ribbentrop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il patto Molotov-Ribbentrop, talvolta chiamato patto Hitler-Stalin, fu un trattato di non aggressione fra la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Venne firmato a Mosca il 23 agosto 1939 dal ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Molotov e dal ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop. Si trattò di una conseguenza della decisione di Stalin, dubbioso della reale volontà delle potenze europee occidentali di opporsi all'espansionismo aggressivo della Germania nazista, di ricercare un accordo con Hitler per contenerne la spinta verso est, per acquisire vasti territori appartenuti all'impero zarista e per dirottare le mire tedesche verso ovest, guadagnando tempo per rafforzare i suoi preparativi militari. Hitler accolse prontamente la sorprendente disponibilità sovietica contando di sfruttare l'accordo per concentrare le sue forze a ovest, senza temere minacce alle spalle pur mantenendo le sue mire strategiche a lungo termine verso le terre dell'est. L'accordo, considerato da alcuni storici uno dei fattori causali determinanti dell'inizio della seconda guerra mondiale (1º settembre 1939), definiva tra l'altro le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione sovietica per le zone vicine ai confini dei due Stati. Le conseguenze immediate più importanti del trattato furono la divisione del territorio polacco tra sovietici e tedeschi e l'occupazione delle repubbliche baltiche da parte dell'Armata Rossa. L'equilibrio di potere in Europa, durante la pausa successiva alla prima guerra mondiale, veniva eroso un poco alla volta. Basti pensare alla crisi causata dalla guerra d'Etiopia (1935-1936), che preludeva alla crisi dell'unico organismo di pace internazionale, la Società delle Nazioni; oppure all'accordo di Monaco (1938) che dava mano libera a Hitler nel suo intento di estendere i propri territori (a costo di altri stati come la Cecoslovacchia). Le potenze occidentali, perseguendo la politica chiamata dell'Appeasement, per timore di scatenare un nuovo conflitto mondiale, decisero di consentire alle continue pretese territoriali del Terzo Reich. Visto dalla prospettiva sovietica, un patto con la Germania poteva essere una risposta necessaria al deterioramento della situazione in Europa, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, quando la Germania nazista si allineò con l'Italia fascista per formare il gruppo delle Potenze dell'Asse. Da una parte, un patto avrebbe garantito una certa sicurezza all'URSS; dall'altra questa mirava, come la Germania, a rovesciare l'ordine stabilito nel trattato di Versailles, stipulato dopo la prima guerra mondiale dagli Alleati occidentali senza il concorso dei diplomatici sovietici considerati rappresentanti di un'entità politica non riconosciuta internazionalmente (la Russia bolscevica) e minacciosa per l'ordine politico-sociale. Infatti la grande guerra era finita in maniera svantaggiosa anche per i russi: le loro perdite territoriali erano la conseguenza dello stato di debolezza in cui si trovava nel 1918 lo stato sovietico, che allora era appena nato e reduce da sconvolgimenti come la rivoluzione d'Ottobre del 1917 e la guerra civile russa. I territori ceduti ad altri stati erano immensi. Poi si erano formati i nuovi paesi indipendenti interamente sul territorio dell'ex-impero russo: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania; un simile discorso valeva per i territori occupati dai polacchi nel 1920, a est della linea Curzon; inoltre, l'Unione sovietica era interessata a riprendere il controllo sulla Bessarabia, territorio abitato in larga maggioranza da moldavi, occupato dalla Romania nel 1918 nonostante le inutili proteste sovietiche. Tanto la Germania quanto l'Unione Sovietica erano dunque interessate a sovvertire un ordine stabilito senza che né l'una né l'altra potessero avere voce in capitolo. Il Regno Unito e la Francia erano invece notori garanti dello status quo territoriale, e rimasero in attesa fino alla distruzione della Cecoslovacchia da parte della Germania, resa possibile dalla Conferenza di Monaco: quest'ultima era stata decisa in comune accordo da Adolf Hitler, Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Édouard Daladier il 29 settembre 1938: in seguito all'accordo, il territorio cecoslovacco andava a finire, più o meno direttamente, sotto il controllo di Hitler. Da parte della Francia e del Regno Unito, era stata decisiva la tendenza a cercare compromessi con la Germania allo scopo di evitare un confronto militare: si trattava di quella che veniva chiamata politica dell'Appeasement, una pacificazione ricercata quasi a tutti i costi: infatti, la decisione di cedere alle richieste territoriali dei tedeschi era in contraddizione con l'alleanza franco-cecoslovacca del 1924. Le decisioni prese erano comunque a favore della politica hitleriana di quegli anni, atta a procurare al popolo tedesco il cosiddetto "spazio vitale" in Europa dell'est (Lebensraum im Osten). Nel frattempo, comunque, le due potenze occidentali si erano arrese all'evidenza dei fatti, dato che le loro concessioni non avevano placato, ma anzi stimolato le velleità di Hitler. La politica dell'Appeasement non poteva assolutamente più essere perseguita, dunque l'espansione tedesca doveva assolutamente essere fronteggiata. Così, inglesi e francesi si dichiararono disposti a garantire l'integrità della Polonia già nel marzo del 1939, il che fornì alla Germania un pretesto per disdire un patto di non aggressione stipulato con la Polonia sei anni prima. Per gestire la situazione, i francesi e gli inglesi si sforzarono di trovare un accordo con i sovietici, i quali tuttavia, nella primavera del 1939, stavano negoziando anche con i nazisti e giocavano quindi contemporaneamente su due tavoli. La politica franco-inglese era mal vista dai sovietici per diverse ragioni: durante il 1938 il governo sovietico si era invano offerto di difendere la Cecoslovacchia in caso di invasione tedesca, ma quest'ultima, così come altri paesi dell'area, nutriva dubbi sulle reali intenzioni di Mosca ed aveva preferito appoggiarsi alle potenze occidentali. Il primo Segretario sovietico Stalin, che non era stato invitato alla conferenza di Monaco, cominciò a credere che Francia e Gran Bretagna agissero in accordo con Hitler nell'interesse di porre un freno al comunismo, o che addirittura volessero aizzargli contro una Germania sempre più potente. Del resto, non si trattava di un'impressione del tutto nuova: Stalin aveva già sospettato un certo disinteresse da parte dell'occidente nei confronti di un fascismo in continua avanzata, esemplificato dagli eventi della guerra civile spagnola. Le negoziazioni della primavera del 1939 intraprese da Unione Sovietica e il binomio Francia-Regno Unito per fronteggiare il pericolo tedesco si bloccarono: la causa principale di questo fallimento furono i reciproci sospetti. L'Unione Sovietica cercava garanzie contro l'aggressione tedesca e il riconoscimento del diritto di interferire contro "un cambio di politica favorevole a un'aggressione" nelle nazioni lungo il confine occidentale dell'URSS: anche se nessuna delle nazioni coinvolte aveva formalmente richiesto la protezione dell'Unione Sovietica (alcune nazioni come la Finlandia, la Romania, le repubbliche baltiche e la Turchia consideravano l'Unione Sovietica più pericolosa della stessa Germania), i sovietici annunciarono "garanzie per l'indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Turchia e Grecia". Dall'altra parte, i britannici e i francesi temevano non senza motivo che ciò avrebbe consentito l'intervento sovietico negli affari interni delle nazioni confinanti, anche in assenza di una immediata minaccia tedesca. Con la Germania che chiedeva concessioni territoriali alla Polonia, e di fronte all'opposizione polacca, la minaccia di una guerra era crescente. Ma anche se ci fu uno scambio di telegrammi tra sovietici ed occidentali (non più tardi dell'inizio di aprile) una missione militare inviata via nave dalle potenze occidentali non arrivò a Mosca prima dell'11 agosto. Un punto spinoso era senz'altro l'atteggiamento della Polonia, stato che aveva ripreso ad esistere solo dopo la prima guerra mondiale e che ora si trovava a metà strada tra Germania e Unione Sovietica: il governo polacco temeva giustamente che il governo di Mosca cercasse l'annessione di regioni della Polonia orientale rivendicate dall'Unione Sovietica. Si trattava dei territori ad est della linea Curzon, incorporate nella Polonia nel 1920, considerati dai sovietici come "irredente" (l'Ucraina occidentale e la Bielorussia occidentale). Le rivendicazioni territoriali sovietiche erano fondate non tanto sulle aspirazioni degli abitanti di questi territori ma sulla costatazione oggettiva che la maggioranza della popolazione non era di lingua polacca; vi era piuttosto corrispondenza etnica tra questi territori e quelli dell'Ucraina e della Bielorussia. Dato che la Polonia si rifiutava non immotivatamente di permettere all'esercito sovietico un intervento militare sul suo territorio in caso di aggressione tedesca, la situazione pareva lasciare i sovietici senza nessuna possibilità di contrastare i nazisti prima dell'invasione della Polonia. Questa, dal canto suo si sentiva abbastanza forte grazie alle garanzie di protezione pronunciate da inglesi e francesi; così, nella terza settimana di agosto i negoziati si fermarono: ormai i sovietici sospettavano che sarebbero entrati in un conflitto limitato a loro e ai tedeschi. Anche su questo fronte si svilupparono febbrili reazioni, parallelamente a quanto facevano i sovietici con francesi e britannici. Il Primo Segretario sovietico Stalin aveva aperto, già nel mese di maggio, dei negoziati per un miglioramento delle relazioni con la Germania sostituendo il Ministro degli Esteri Maxim Litvinov con Molotov. L'ebraico e pro-occidentale Litvinov non si addiceva a guidare l'Unione Sovietica verso un accordo con la Germania nazista, visto che era largamente percepito come un sostenitore dell'alleanza con le potenze occidentali e contro i poteri fascisti. La sua sostituzione non era altro che la conferma dell'irrimediabile scetticismo sviluppato da Stalin nei confronti della Francia ed il Regno Unito. Per il momento, Stalin aveva invece approvato il programma di Molotov di provocare una guerra tra la Germania e le nazioni occidentali. Infatti, un avvicinamento ai nazisti avrebbe concesso all'Armata Rossa il tempo di cui aveva assolutamente bisogno per prepararsi a una forse inevitabile guerra contro la Germania. L'esigenza di rimandare il più possibile il confronto era dovuta al fatto che gli apparati governativi e l'Armata Rossa erano stati indeboliti dai quattro processi indetti da Stalin negli ultimi tre anni per eliminare le vecchie prominenze del comunismo sovietico (Grandi purghe). Per quanto riguarda Hitler, questi era convinto che questo accordo avrebbe costretto francesi e britannici a desistere dall'intento di difendere la Polonia. Il fin troppo facile successo diplomatico raggiunto alla Conferenza di Monaco gli aveva dato la falsa sicurezza che i suoi avversari fossero degli smidollati. Spartizione territoriale tra Germania e Unione Sovietica che vede a sinistra la suddivisione come sarebbe dovuta avvenire in base agli accordi, a destra la spartizione effettivamente avvenuta; in blu il Reich tedesco; in celeste gli obiettivi tedeschi, in arancione gli obiettivi sovietici; in rosso l'Unione Sovietica: in realtà gli scopi militari di Hilter andavano ben oltre quelli indicati dalle cartine, tanto che nel 1941 la Germania avrebbe aggredito l'Unione Sovietica. Le negoziazioni riuscirono: concludendo un accordo strategico tedesco-sovietico, Molotov, il 19 agosto propose anche un protocollo aggiuntivo "che coprisse i punti sui quali i Partiti Contraenti erano interessati, nel campo della politica estera". Il trattato veniva reso noto all'opinione pubblica come un patto di non aggressione articolato in sette articoli e della durata di dieci anni. Tuttavia, buona parte dell'Europa orientale veniva segretamente divisa in due sfere d'influenza, una tedesca ed una sovietica, come era previsto in un protocollo supplementare diviso in quattro articoli:

Secondo il primo articolo il confine tra le due sfere doveva coincidere con la frontiera settentrionale della Lituania, che cadeva così nella zona di interesse tedesca. Questo significava che Finlandia, Estonia e Lettonia, espressamente indicate nell'accordo, cadevano nell'area sovietica.

Secondo il secondo articolo la Germania e l'Unione Sovietica stabilivano le rispettive zone di interesse sul territorio della Polonia nell'eventualità di un suo "riarrangiamento politico": le aree a est dei fiumi Narew, Vistola e San rientravano nell'area di interesse sovietica, mentre a quella tedesca spettava la parte ovest. Questa linea di confine si trovava poco più ad ovest della linea Curzon. La questione se la sopravvivenza di uno stato polacco fosse "desiderata" o meno veniva in teoria lasciata in sospeso: secondo il testo, dovevano essere attesi gli sviluppi politici successivi.

Secondo il terzo articolo la Germania dichiarava il suo disinteresse nei confronti della Bessarabia.

Secondo il quarto articolo le due potenze promettevano la segretezza di questo documento aggiuntivo.

Dati gli enormi conflitti di potere tra sovietici e tedeschi, era chiaro ad entrambe le parti che l'accordo stipulato non sarebbe stato rispettato troppo a lungo. Basti pensare ai piani hitleriani di espansione in Europa orientale, la sua teoria di unLebensraum (ossia la ricerca di uno spazio vitale per il popolo che secondo Hitler era giudicato il più forte). Già il 22 agosto, prima della conclusione del patto, Hitler aveva dichiarato: (DE) « Ich brauche die Ukraine, damit man uns nicht wieder wie im letzten Krieg aushungert. » (IT) «Ho bisogno dell'Ucraina, altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata. » (Adolf Hitler)

Il controllo dell'Ucraina, detta "granaio d'Europa", avrebbe assicurato le risorse economiche nel confronto con qualsiasi avversario. Mussolini, non ancora preparato al conflitto, tentò all'ultimo momento di evitare un confronto immediato proponendo per la seconda volta una conferenza a livello europeo, simile quella di Monaco. Stavolta, però, francesi ed inglesi non reagirono concretamente all'iniziativa. Il Duce dichiarò a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra soltanto in seguito; nonostante una certa perplessità, quest'ultimo era deciso a procedere anche senza l'apporto italiano per concludere le operazioni prima dei rigori invernali. Il mondo dei paesi democratici reagì con sorpresa e disappunto alla notizia del patto giacché, nonostante la segretezza dell'appendice, la pubblicazione del patto di non aggressione fu interpretata con pessimismo: si prospettava un ridimensionamento o una spartizione della Polonia, eventi che con tutta probabilità avrebbero provocato una guerra. Il 1º settembre, solo una settimana dopo che il patto era stato firmato, la divisione ebbe inizio con l'invasione tedesca, giustificata da un pretesto (il cosiddetto incidente di Gleiwitz: una messa in scena posta in essere da soldati tedeschi camuffati con un'uniforme polacca che attaccarono una stazione radio in territorio tedesco). A sua volta, l'Unione Sovietica attaccò da est il 17 settembre, senza prendere in considerazione il Patto di non aggressione sovietico-polacco concluso sette anni prima. Dopo l'inizio delle operazioni militari contro la Polonia, la costernazione non accennava a diminuire, sia tra i governi che più di tutti avevano temuto un simile risultato, sia tra i tanti sostenitori del comunismo, molti dei quali trovavano incomprensibile che i sovietici fossero scesi a patti con il nemico ideologico nazista. Una famosa vignetta di David Low apparsa sul London Evening Standard del 20 settembre 1939 mostrava Hitler e Stalin scambiarsi un inchino sopra il cadavere della Polonia, con Hitler che diceva: "La feccia della Terra, suppongo?" mentre Stalin replicava "Il sanguinario assassino dei lavoratori, presumo?". La stampa italiana, controllata dal regime, reagiva invece in maniera positiva: Il Corriere della Sera del 24 agosto parlava di uno "splendido successo" delle potenze dell'Asse, non mancando di attaccare la politica di Regno Unito e Francia. Il 28 settembre 1939 i tre deboli Stati baltici non ebbero altra scelta che firmare un cosiddetto patto di assistenza e mutua difesa, che permetteva all'Unione Sovietica di far stazionare delle truppe in Estonia, Lettonia e Lituania; lo stesso giorno un protocollo supplementare tedesco-sovietico trasferiva gran parte della Lituania dalla prevista sfera d'influenza tedesca a quella sovietica. La Finlandia resistette a simili pretese (non volle accettare nemmeno uno scambio di territori con l'URSS a lei favorevole in termini di estensione) e venne per questo attaccata dall'URSS il 30 novembre. Comunque, le truppe finlandesi, pur enormemente inferiori sul piano numerico, erano molto motivate e perfettamente attrezzate per un confronto militare durante la stagione invernale. Dopo più di tre mesi di aspri combattimenti e pesanti perdite da parte sovietica nella seguente guerra d'inverno, l'Unione Sovietica desistette dal suo intento di occupare ed annettersi l'intera Finlandia, in cambio di circa il 10% del territorio finlandese (la Carelia), gran parte del quale era ancora nelle mani dell'esercito finnico (questa cessione sarebbe rimasta definitiva). Nel giugno 1940 i tre stati baltici subirono l'occupazione e la successiva annessione da parte dell'Unione Sovietica. Il 26 giugno 1940 i sovietici posero un ultimatum alla Romania per la cessione della Bessarabia e della parte settentrionale della Bucovina: la richiesta sovietica della Bucovina Settentrionale, un territorio mai appartenuto alla Russia che i tedeschi consideravano mitteleuropeo e che non era stato preso in considerazione nei protocolli del patto di non aggressione, fu una sorpresa non solo per la Romania, ma anche per il Terzo Reich. Senza l'appoggio dei suoi tradizionali alleati, Regno Unito e Francia, Bucarest cedette i territori richiesti, ma da parte sovietica vi fu il mancato rispetto dei patti: i militari rumeni in ripiegamento verso il nuovo confine nei tempi e nei modi concordati furono attaccati proditoriamente, anche con lancio di paracadutisti, dall'Armata Rossa. I soldati sovietici aprirono il fuoco non solo contro i militari rumeni, ma anche contro masse di civili in fuga verso la Romania (si ricordi in merito il massacro di Fântâna Albă). Non paghe, le forze armate sovietiche invasero anche il territorio di Herța, con una maggioranza di popolazione rumena pari a circa il 95% del totale, che non era stato menzionato dall'ultimatum sovietico e che apparteneva alla Romania in epoca anteriore allo scoppio della prima guerra mondiale. Per ritornare alla Polonia, lo stato in fondo maggiormente citato negli accordi segreti, la politica di occupazione tedesca era sin dall'inizio orientata verso la creazione di uno spazio vitale per i tedeschi e lo sterminio degli ebrei. Dato che la teoria nazista delle razze era difficile da estendere ai popoli slavi, era intenzione di Hitler quella di mostrare la differenza tra tedeschi e polacchi con particolare chiarezza, adottando speciali misure. Ad esempio, una parte dei bambini polacchi era destinata alla deportazione nella parte originaria dell'impero tedesco per svolgere le mansioni più umili. La Polonia doveva invece essere germanizzata grazie a due provvedimenti: da una parte era previsto l'insediamento di tedeschi fino ad allora residenti in Germania e nei Paesi Baltici; dall'altra, la cultura polacca doveva essere sostituita da quella germanica. Non diversamente i sovietici miravano a cancellare il "mito" della nazione polacca e decidevano lo sterminio degli ufficiali polacchi che si erano loro consegnati per sfuggire alla cattura da parte dei nazisti: questa decisione era maturata nella consapevolezza che i laureati polacchi al momento dell'arruolamento assumevano automaticamente il grado di ufficiale. Per l'inizio del 1941, gli imperi di Germania e Unione Sovietica condividevano un confine che passava attraverso le odierne Lituania e Polonia. Subito dopo, le relazioni tedesco-sovietiche iniziarono a raffreddarsi e lo scontro tra lo Stato nazista e quello comunista sembrò sempre più inevitabile: esso si sarebbe poi concretizzato con l'inizio dell'operazione Barbarossa (22 giugno 1941). La Germania ruppe il patto due anni dopo che era stato stipulato invadendo l'Unione Sovietica il 22 giugno 1941: come anticipato poc'anzi, quest'azione bellica venne chiamata "operazione Barbarossa". Nel giro di settimane, l'aggressione tedesca venne imitata da una ripresa delle ostilità da parte della Finlandia, il 26 giugno, che iniziava la cosiddetta guerra di continuazione contro l'Unione Sovietica: se il paese scandinavo aveva riscosso simpatie a livello mondiale per le operazioni militari dell'inverno 1939-40, la decisione finlandese di riprendere le ostilità contro Stalin al fianco di Hitler fu criticata dalle potenze occidentali che erano nel frattempo diventate alleate dell'URSS. La Germania nazista trovava nella Finlandia, retta da un governo democratico, un importante alleato per stabilizzare il fianco settentrionale del suo schieramento e minacciare anche da nord Leningrado. La conseguenza più immediata del patto fu senz'altro l'occupazione tedesca e sovietica della Polonia (che quanto alla circostanza aveva affrontato precedenti storici settecenteschi, vedi spartizione della Polonia). La divisione riguardava anche i Paesi Baltici: questi ultimi, entrati alla fine nella sfera di potere sovietica, non riuscirono più a ritrovare la loro indipendenza neppure a conflitto terminato, dovendo invece attendere fino al 1991. Nonostante le previsioni di Hitler, il fatto sigillò definitivamente la fine della politica dell'Appeasement: Hitler dovette rendersi conto che le potenze occidentali non erano più intenzionate ad assistere passivamente all'espansione del Terzo Reich. Dopo l'occupazione della Polonia, Regno Unito e Francia erano ormai in guerra contro la Germania per dare vita al conflitto che più tardi sarebbe stato chiamato seconda guerra mondiale. Si trattava di un confronto drammatico, ma di un evento dalla portata non ancora mondiale: per il momento le due potenze vicine all'Europa, gli USA e l'URSS, ne rimanevano fuori. Era quella che Winston Churchill chiamò twilight war (guerra del crepuscolo). Stalin trasse profitto dal patto. Per lui veniva rimandata l'eventualità di ritrovarsi coinvolto in una guerra su due fronti contro il Giappone e la Germania. Ottenne una "pausa di respiro" di due anni per riorganizzare le strutture sovietiche in attesa del confronto militare con la Germania, cui non era ancora preparato[10]. Peraltro il tempo a disposizione, a causa della confusione e disorganizzazione dell'Armata Rossa e di alcune scelte sbagliate dei dirigenti sovietici, non produsse i risultati sperati e il 22 giugno 1941 l'Unione Sovietica venne colta di sorpresa dall'attacco e subì una serie di pesanti disfatte. Inoltre l'innaturale accordo con il nemico ideologico nazista e la passiva adesione agli ordini di Stalin dei dirigenti sovietici e dei partiti comunisti europei diffuse incertezza e inquietudine tra i militanti. Sempre a proposito dei vantaggi di cui godette Stalin, va aggiunto che la sua sfera di interessi, dopo il confronto militare con la Germania, non sarebbe più stata messa seriamente in discussione (eccezion fatta per la Finlandia). Quindi, il paesi baltici e la parte orientale dello stato polacco sarebbero stati inglobati nell'Unione Sovietica. La Romania vedrà divisa una regione molto importante per la sua storia come la Moldavia in due entità territoriali sotto due stati diversi (quello orientale diventerà infatti sovietico). Questo darà inizio anche ad un progressivo allontanamento culturale tra le genti delle due zone. Dal punto di vista di Hitler l'accordo fu un successo: grazie alla sicurezza acquisita sulle frontiere orientali, la Germania evitò momentaneamente una disastrosa guerra su due fronti e poté schierare la massa delle sue forze all'ovest, guadagnando un predominio decisivo in Europa. Ottenuti questi risultati, Hitler, pur avendo ceduto temporaneamente ai sovietici importanti posizioni strategiche, poté nel giugno 1941 riversare all'est tutto il peso della Wehrmacht, divenuta ora molto più potente ed esperta del 1939, con il sostegno politico-economico di gran parte dell'Europa, assoggettata o alleata con il Terzo Reich.

Peggio Stalin o Hitler? Scrive Arrigo Petacco. L'anniversario della morte di Giuseppe Stalin — 50 anni fa, il 5 marzo 1953, quando il dittatore aveva 73 anni — oltre a consentire ai pochi e malinconici nostalgici del culto della personalità di levare suffragi alla memoria del «grande e amato capo del popolo lavoratore» come lo definivano con reverenza Togliatti e i suoi seguaci, ha anche riaperto il gioco della comparazione. Chi era più criminale, chi ne ha ammazzati di più, chi si merita di finire più in giù dell'altro nelle profondità dell'inferno: Hitler o Stalin? Io me ne guarderò bene dal dare una risposta perché non sarà certo la cinica conta dei milioni di cadaveri, a stabilire il primato fra i due principali protagonisti negativi del secolo scorso. Non ho invece la minima esitazione a indicare il più ipocrita: l'Oscar della doppiezza spetta a Giuseppe Stalin. Hitler, a modo suo, era sincero. Non ha mai tenuto nascosta la sua volontà di sopraffare, il suo razzismo sanguinario. Da quando pubblicò il Mein Kampf nel 1921, il futuro Fuhrer non ha mai fatto mistero dei suoi infernali progetti e chi aderì al suo movimento sapeva di entrare a far parte di una congrega di malfattori. Stalin invece ingannò per decenni il suo e altri popoli promettendo il Paradiso in terra per i lavoratori di tutto il mondo e realizzando invece un sistema infernale che dovunque è stato applicato ha prodotto soltanto miseria, fame, ingiustizia e morte. Ancora oggi a 50 anni dalla morte di Stalin e a 10 dall'implosione epocale dell'Unione Sovietica, c'è qualcuno (soprattutto sui libri di scuola, purtroppo) che si ostina a «salvare» la memoria di Stalin ammettendo certi suoi errori più o meno gravi ma sottolineando che a lui si deve l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e soprattutto la vittoria delle democrazie occidentali nella seconda guerra mondiale. Ora, a parte il fatto che lo sviluppo industriale dell'Unione Sovietica costò un tale prezzo di sangue che fa ancora inorridire, è sullo Stalin salvatore delle democrazie che vorrei soffermarmi. Stalin infatti non salvò affatto le democrazie occidentali dalla minaccia nazista ma al contrario ne fu salvato. Molti ancora oggi non sanno o non amano ricordare che nei primi due anni del secondo conflitto mondiale l'Unione Sovietica fu alleata e complice della Germania nazista. Dall'agosto del 1939, quando firmò il patto di amicizia con Hitler, al giugno del 1941 quando con l'«operazione Barbarossa» le armate naziste aggredirono l'Unione Sovietica a tradimento, Stalin aveva sempre aiutato l'«amico» di Berlino a realizzare i suoi piani di conquista. Con Hitler Stalin si spartì la sventurata Polonia, d'accordo con Hitler si impadronì della Bessarabia, dei tre paesi baltici (Estonia, Lituania, Lettonia) e cercò infine di piegare la resistenza degli eroici finlandesi. Non solo: anche quando la svastica sventolava ormai su tutte le capitali europee e l'Inghilterra sembrava ridotta al lumicino, Stalin continuò volenterosamente a rifornire di materie prime le industrie belliche tedesche e continuò anche quando, alla vigilia dell'aggressione, la Germania aveva improvvisamente congelato i propri rifornimenti verso l'Urss. Il 21 giugno 1941, l'inizio di «Barbarossa» fu ritardato di alcune ore per consentire a un treno sovietico carico di preziosa gomma, di oltrepassare il confine russo-tedesco. Poi come è noto le divisioni corazzate germaniche penetrarono in Russia «come una baionetta in un pane di burro». Se Hitler non avesse calcolato male i tempi e se le democrazie occidentali e soprattutto gli Stati Uniti con i loro convogli artici non avessero rimpinguato di armi e di mezzi l'esauste risorse sovietiche, difficilmente l'Armata rossa avrebbe trovato la forza di reagire. L'imputazione quasi giudiziaria che oggi grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane. In questo, milione più milione meno egli eguaglia certamente Hitler ma con una differenza. Salvo il colonnello Roehm, che fece uccidere nella famosa «notte dei lunghi coltelli» perché gli insidiava il potere, Hitler fu leale e collaborativo con tutti i suoi principali gerarchi. Stalin invece, tutto istinto, rozzezza, crudeltà, passionalità vendicativa, in nome di un idilliaco paradiso socialista che non arrivava mai, portò milioni di individui a morte, comprese schiere di comunisti sinceri che credevano ciecamente in lui. L'immane carneficina cominciò subito dopo la sua conquista del potere. Liquidò per primi gli altri membri della «cinquina» dei possibili eredi nominati nel famoso testamento di Lenin fra i quali forse non a caso lui era collocato all'ultimo posto (Trotzcky, Bucharin, Kamenev, Zinoviev e Stalin) poi liquidò il 95% dei componenti del comitato centrale, quindi il 90% dello stato maggiore dell'Armata rossa con in testa il famoso maresciallo Tukacewsky; e il tragico balletto delle cifre potrebbe continuare a lungo. Ancora alla vigilia della sua morte, Stalin aveva appena avviato «il caso dei medici» prologo di una nuova purga che puntava a eliminare tutti i suoi possibili concorrenti e in particolare l'altro genio del male Laurenti Beria il quale, secondo alcune ipotesi, avrebbe giocato d'anticipo affrettando la fine del dittatore. Oggi il mito di Stalin è ancora vivo e sopravviverà a lungo. Non c'è dubbio infatti che l'uomo ha lasciato una profonda impronta nella storia del mondo. Ancora a lungo storici e studiosi si affanneranno per studiare la complessa psiche di questo personaggio che fu certamente l'uomo più amato e più odiato della storia. Continueranno anche a cercare di individuare la molla segreta che fece scattare nel rozzo ex-seminarista di Tbilisi la sua inarrestabile volontà di potenza. Fra le ipotesi finora avanzate ne sono emerse anche di singolari. L'ultima, più curiosa, addebita il temperamento di Stalin alla sua statura. Il «piccolo padre» era infatti piccolo di nome e di fatto. Misurava appena un metro e cinquantotto. 

E LA CHIAMANO DEMOCRAZIA…

Putin: “Stalin era un criminale comunista, stop alle celebrazioni”, scrive Girolamo Fragalà il 6 maggio 2015 su “Secolo D’Italia”. Nella Russia di Putin non c’è posto per Stalin, considerato un criminale comunista. Qualunque celebrazione pubblica della figura di Stalin «è inaccettabile e dovrebbe essere vietata per legge». La colossale parata militare nella piazza Rossa volta pagina. La ong russa Memorialchiede di mettere al bando ogni manifestazione mirata a esaltare il sanguinario dittatore sovietico e denuncia nuovi tentativi di rendergli omaggio da parte di comunisti e nostalgici dell’Urss. La svolta: ha seminato terrore, niente statue e vie. Ma l’ombra di Stalin si allunga minacciosa. Quasi 60 anni dopo l’inizio del processo di destalinizzazione voluto da Krusciov, il “padre di tutti i popoli” continua a essere oggetto di culto per alcuni russi. E secondo un recente sondaggio del centro demoscopico Levada il 45% della popolazione ritiene che i sacrifici sostenuti durante lo stalinismo siano stati giustificati dai “grandi obiettivi” dell’Urss: una quantità nettamente maggiore rispetto al 27% registrato nel 2008. A incoraggiare questa tendenza è anche la nuova ondata di nazionalismo che sta attraversando la Russia dopo l’annessione della Crimea un anno fa riportando a galla antiche aspirazioni imperialiste. Con la differenza che ora al posto di falce e martello c’è l’aquila bicipite russa.  Putin: Stalin ha causato la morte di milioni di persone. Vladimir Putin ha preso più volte le distanze dal responsabile del terrore rosso che ha causato la morte di milioni di persone. L’unico elemento positivo, secondo il leader russo, è l’aver trasformato l’Unione sovietica in una grande potenza mondiale. Putin continua a contrastare i nostalgici comunisti russi che propongono vie dedicate a Stalin a Mosca, a San Pietroburgo e a Nizhni Novgorod, e nelle scorse settimane nella capitale, in via Pliushika, è spuntato un enorme striscione (poi rimosso) con una foto del dittatore e lo slogan “Gloria eterna ai vincitori”. A Ussurijsk, nell’estremo oriente russo, il 30 aprile è stata addirittura installata una lapide per rendere omaggio a Stalin. E lo scorso febbraio a Yalta – nell’ormai russa Crimea – per ricordare la storica Conferenza è stata inaugurata in pompa magna una gigantesca statua in bronzo di una decina di tonnellate raffigurante Stalin, Churchill e Roosevelt: i tre capi di Stato dei principali paesi Alleati (Urss, Gb e Usa) contro il nazismo che dal 4 all’11 febbraio 1945 si spartirono di fatto l’Europa in sfere d’influenza. «Erigere un monumento con la figura di Stalin è sacrilego», denuncia l’organizzazione Memorial, fondata dal premio Nobel per la pace Andrei Sakharov per preservare la memoria delle vittime delle repressioni sovietiche. «Naturalmente – spiega – non si tratta di cancellare Stalin dalla storia o di vietare di menzionarne il nome, ma il posto che spetta ai dittatori è nelle sale dei musei, nei manuali, nei saggi storici, non nelle piazze delle città». Pagine di storia che grondano sangue, ma intanto in Russia c’è ancora chi pretende di tornare a chiamare Volgograd con l’antico nome di Stalingrado che gli fu tolto 54 anni fa.

Don Chisciotte tra i bolscevichi, scrive Wlodek Goldkorn su "L'espresso". Comunismo come metafisica, viaggio iniziatico, ma anche come oggetto di indagine semantica e sperimentazione linguistica. C'è tutto questo, e molto di più, in "Cevengur", il travolgente romanzo di Andrej Platonov (traduzione e cura di Ornella Discacciati, Einaudi, pp. 501, euro 26). Platonov, classe 1899, era uno scrittore che aderì al bolscevismo. Ma quando nel 1929 tentò di pubblicare "Cevengur", subì l'anatema di Stalin. Il dittatore non solo ne proibì la pubblicazione, ma mandò nel Gulag il figlio quindicenne di Platonov, che tornò a casa alcuni anni dopo, per morire di tubercolosi. L'opera, in forma parziale, venne stampata per la prima volta in Occidente negli anni Settanta: in Italia per i tipi di Mondadori nella traduzione di Maria Olsufieva. Ai tempi della perestrojka, il romanzo fu pubblicato in versione integrale a Mosca, ed è questa la versione riproposta da Einaudi. Al centro della narrazione ci sono due uomini, che pensano di aderire al bolscevismo e che assomigliano a Don Chisciotte e Sancho Panza. Uno di loro ha per ideale (una specie di Dulcinea) Rosa Luxemburg e il cavallo lo chiama Forza Proletaria. Oltre a quei due, protagonista del racconto è una città, Cevengur, appunto, dove il comunismo è stato realizzato. Ma attenzione, un'altra protagonista del libro è la lingua russa, di cui Platonov era un maestro assoluto (parola di Josif Brodskij), qui resa bene dalla traduttrice. Infine, il vero testo non sta nella progressione del racconto, ma nelle divagazioni: su vita, morte, amore, lavoro e ozio. In altre parole, sulla condizione umana. Un romanzo imprescindibile per capire il Novecento.

Trama. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

Autore. Andrej Platonov (1899-1951) è stato, insieme a Bulgakov, il maggiore scrittore russo dell'epoca staliniana. Anch'egli subí continue censure a cui si aggiunsero, a differenza di quanto capitò a Bulgakov, l'arresto e un periodo di confino. A parte alcune opere giovanili, i suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati dopo la morte e la riabilitazione, che ottenne in epoca krusceviana. La sua narrativa ha senz'altro un aspetto politico, di smascheramento della retorica del regime comunista, ma allo sgomento politico Platonov abbina «musicali passaggi e immagini di sgomento cosmico», come osservò Ripellino, che ne fanno un grande scrittore tout-court, slegato da ogni contingenza storica, un vero classico. Con il titolo Da un villaggio in memoria del futuro, Cevengur è stato pubblicato in Italia da Theoria, nel 1990, ed è esaurito da molti anni.

Note Editore. Nella nuova traduzione di Ornella Discacciati, torna in libreria il capolavoro di Platonov. Cevengur è una città immaginaria situata nelle steppe della Russia centrale. I suoi abitanti vogliono vivere seguendo i dettami e le regole di un comunismo integrale e puro, ma il risultato è una società bislacca, malriuscita e demenziale, destinata al disastro. Riflessione politica, meditazione sull'incapacità dell'uomo di conciliare desiderio e realtà, specchio paradossale di un sogno irrealizzabile, Cevengur è la cronaca irresistibile e acutissima di una catastrofe. Grazie a un grottesco capovolgimento di prospettiva, Platonov costruisce una vera e propria epica rovesciata della rivoluzione, rappresentando sapientemente un mondo in cui l'unico lavoro consentito è quello improduttivo. Scritto tra il 1926 e il 1929 – anno in cui fu bloccato dalla censura sovietica –, il romanzo racconta con spietata chiarezza i fallimenti del comunismo. Pubblicato postumo nel 1960, Cevengur è diventato un punto fermo nella letteratura dell'anti-utopia e ha definitivamente conquistato un posto d'onore tra i libri piú significativi del Novecento russo.

Il sogno del comunismo e il suo fallimento. Una cronaca «dall'interno», visionaria e dolorosa. Prefazione. Tra utopia, storia e catastrofe, la nuova edizione di un classico della letteratura russa del Novecento. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

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Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati.

Nella steppa dei soviet la discesa di Platonov al villaggio degli ultimi, scrive Montefoschi Domenica su "Il Corriere della Sera". Cevengur , il capolavoro di Andrej Platonov che oggi leggiamo nella splendida traduzione di Ornella Discacciati (Einaudi), fu scritto nella seconda metà degli anni Venti; ma in Russia venne pubblicato solo nel 1988. Comprensibilmente. Perché Platonov in questo sterminato libro corale davvero unico — un libro che alterna il passo lungo del racconto che vuole restituire la realtà in ogni suo dettaglio, a momenti lirici meravigliosi — non fa altro che raccontare, dal di dentro, da comunista che ci ha creduto (anche se la tessera del Partito la restituisce dopo un solo anno), la storia di una utopia fallita. Come poteva non essere odiato da Stalin? Non essere messo al bando? Infatti fu perseguitato; e morì in miseria. L’incipit di Cevengur è straziante. E contiene tutto. Siamo ancora in epoca zarista. Un pescatore che ha perso sua moglie, povero, ignorante e però curioso di sapere cosa c’è oltre la morte, affoga in un lago. Al funerale, suo figlio Sasha, un bambino, è davanti alla bara. Gli dicono di dire addio a suo padre perché per i secoli dei secoli non lo vedrà più. Lui si china, ma non sente l’odore di sudore, di pesce, di lago, che aveva la camicia di suo padre quando era vivo, perché gliene hanno messa un’altra. Allora si volta a guardare intorno. Vede degli estranei. Capisce che sarà solo per sempre. E, cominciando a piangere, si aggrappa ai lembi di quella camicia che non ha più nessun odore di vita, come se quella camicia potesse difenderlo. Sasha, dunque, è orfano. In un primo momento, è adottato da una numerosa famiglia, la famiglia Dvanov, che vive nella assoluta miseria e viene mandato in giro a elemosinare le croste di pane. Quindi fugge. Finché un vecchio del villaggio, un certo Zachar Pavlovic, pure lui solo, non lo rintraccia e lo prende con sé. Pavlovic è un personaggio che sarebbe piaciuto molto a Dickens. Il suo interesse è per gli oggetti: di qualsiasi materia. La sua capanna è piena di attrezzi con i quali è capace di riparare qualsiasi cosa. Ora, ha grande passione per i treni: quei vagoni neri stupendi, trainati dalle altere locomotive, che da così poco tempo solcano le immense distese della Russia, corrono sprizzando scintille sui binari, o procedono lentamente, e la notte fanno sentire il loro ululato. I treni — pensa Zachar, felice di poter lavorare ai treni — sono macchine impressionanti che celebrano la forza dell’uomo. Il cielo è un grande nodo ferroviario. Sasha Dvanov, invece, legge. E molto spesso contempla le stelle. Lo ritroviamo che ha 17 anni, il vuoto dentro e nessuna corazza sul cuore. Intanto è scoppiata la rivoluzione e c’è la guerra: dentro e fuori i confini. La morte è dietro a ogni scalpitare di zoccoli. Vengono istituiti i soviet, si compongono comitati esecutivi, si avviano ispezioni nei governatorati allo scopo di vedere in che modo vive la gente. E la gente è entusiasta, sgomenta, e come ebete in questo grande sommovimento che deve produrre l’uguaglianza, la felicità, la liberazione dallo sfruttamento. Però continua a morire di fame — brodo e buccia di patate — mentre passa il treno blindato dei Bianchi, e poi quello dei Rossi stipati di corpi ignari che non sanno dove vengono trasportati e perché, e si grattano i pidocchi nel sonno. I viandanti che attraversano i villaggi non sanno rispondere a chi domanda loro dove vanno, oppure dicono: dove capita, e disperdono la sofferenza nel cammino. I briganti tendono agguati. Il tifo uccide. I corpi bussano invano alle porte dell’anima. Il sapore della buona vodka, trasparente come l’aria di Dio o la lacrima di una donna, è un ricordo. Il pacifico odore della campagna: bruciaticcio di paglia e latte riscaldato, è inghiottito da quello della sporcizia e del sangue. E i treni vanno: «i trasporti sovietici sono i binari per la locomotiva della storia»; nelle comuni, alla luce di lampadine nude che ogni tanto si spengono, si svolgono discussioni estenuanti, al termine delle quali gli oratori mettono in guardia i bolscevichi perché devono sapere che la Russia sovietica è come una giovane betulla sulla quale da un momento all’altro può avventarsi la capra del capitalismo; le foreste sono abbattute per costruire le case e liberare il terreno per le semine; il bestiame è ammucchiato e diviso; le tenute dei nobili sono requisite; il pane e qualsiasi genere alimentare, piuttosto che essere accumulato, deve essere distrutto per il bene di tutti; l’esaltazione fa dire che i soviet sembra che esistano da sempre, fin dai tempi antichi e il cielo uniforme della Grande Russia è la loro copia esatta. Dov’è finito, nel frattempo, Sasha Dvanov? Ha amato Sonja, una ragazza pura come il pane fresco e come il mattino, ma per la rivoluzione ha rinunciato a questo amore; si è avventurato nelle regioni più lontane a verificare a che punto è la realizzazione del comunismo; ha condiviso con una quantità di personaggi il dubbio sulla reale esistenza di un qualcosa che non si sa mai bene fino in fondo cosa sia, eppure risponde a un bisogno di uguaglianza, di fratellanza, di movimento in avanti perché quella spinta a costruire un progetto universale, che tutti sentono, non si esaurisca; ha conosciuto uomini cattivi e buoni, innamorati (come un tale Kopenkin, che nella fodera del berretto ha cucito il ritratto di Rosa Luxemburg) e disperatamente infelici perché non sanno a chi abbracciarsi; quindi è approdato a Cevengur. Cevengur è un piccolo villaggio della steppa che, dopo esser stato attraversato dalla rivoluzione, adesso sembra dimenticato dal mondo. Lo abita un’esigua popolazione di miseri — superstiti di una tragedia, piuttosto che di un trionfo — simili a veri e propri fantasmi. Di giorno vagano oziando nelle strade che non riconoscono più perché le case sono state spostate, senza un motivo, e il paese ha cambiato la sua fisionomia; la notte, soprattutto durante le bufere invernali, dormono sul pavimento per essere più vicini alla terra e alla tomba. Certo, c’è un soviet anche a Cevengur, «il soviet della umanità sociale della regione liberata di Cevengur», ma i suoi abitanti continuamente si domandano: dov’è il socialismo? E Dvanov, che dopo anni ha rincontrato il fratellastro Prokofij, un tipo diverso da lui, assai meno spirituale, si arrovella, pensa che lì il comunismo, se davvero esiste, è da rifare da capo e forse, per sapere una volta per sempre qual è la verità, bisognerebbe scrivere al compagno Lenin al Cremlino. Siamo nel cuore del romanzo, a questo punto. La risposta che Dvanov vorrebbe avere da Lenin, i fantasmi di Cevengur la cercano e la trovano nel vuoto. Possono loro, dopo secoli di oppressione, sopravvivere in un vuoto che li opprime altrettanto crudelmente? O non devono suscitare in questo vuoto un nemico che, nell’odio, li faccia sentire di nuovo vivi? Il nemico sono i piccoli borghesi, niente altro che dei contadini, rimasti nel villaggio. La scena del loro massacro – costruita con una sapienza dei movimenti e delle emozioni che possiamo definire straordinaria – è terribile. Ma dopo, quando anche i piccoli borghesi sono stati cancellati dal mondo, a Cevengur ritorna il vuoto. E il vuoto universale è insostenibile: è come la «tristezza indifesa» che si respira nel cortile della casa del padre da cui è appena uscita la bara della madre e tutti piangono, e più di tutti piange un bambino che, allo steccato, accarezza le assi ruvide nel buio di un mondo spento. Così per avere ancora qualcuno da guardare in faccia, da Cevengur partono messaggeri nella steppa infinita a cercare i più poveri dei poveri: gli «ultimi». E loro arrivano: per essere fra le vittime del misterioso eccidio finale che rade al suolo Cevengur. Mentre Dvanov, che all’eccidio è sfuggito, torna sulla riva del lago in cui è annegato suo padre, ci entra dentro: lentamente, e va a cercarlo.  

“Cevengur”, torna in libreria un classico russo, scrive Michele Lupo. C’è questo personaggio, Zachar Pavlovič , “il volto attento ed esausto fino allo sconforto di chi sa riparare e attrezzare ogni cosa, ma non attrezzarsi alla vita”. Poiché pare estraneo a qualsiasi consesso umano, alle parole come agli affetti, non stupisce che sia il solo a restare nel villaggio afflitto dalla siccità e abbandonato dai suoi abitanti. Ma senza le persone anche le cose potrebbero perdere d’importanza: aggiustare cosa? per chi? Costretto a cercare qualcosa di utile da fare, Zachar – che pure ha avuto una moglie un tempo, ma gli era parsa una cosa senza senso – la trova in una stazione ferroviaria. Osservare la camera di combustione della locomotiva sostituisce abbondantemente il piacere dubbio dell’avere amici. Se ne innamora, persino. Con il suo capo condivide l’idea che le macchine siano più apprezzabili della natura e delle persone – che non si sa mai.  Il lettore non sa bene se sia più straniato lo sguardo sul mondo di Zachar o il mondo stesso che lo circonda, un semideserto della profonda steppa russa a un passo dalla rivoluzione del ’17 – villaggio desolato in cui è facile che appaiano umani liminari, come il gobbo, uno storpio infoiato che benedice la siccità, preludio alla fuga collettiva dei maschi e campo aperto per dare la caccia alle femmine residue. E straniante arriverà anche la rivoluzione. Zachar è ormai stanco, ha persino rinunciato alla solitudine, trova una compagna e adotta un ragazzino. Così lo perdiamo di vista quando comincia un’altra storia – vero snodo epocale del moderno. E con essa la turbinante vicenda del romanzo Cevengur, di Platonov, scrittore russo purtroppo poco noto dalle nostre parti. Il figlio adottivo di Zachar e altri curiosi personaggi si troveranno invischiati – volenti o no – in un passaggio drammatico della Storia con tutte le loro allucinate o meschine idiosincrasie. Inviati al fronte di una guerra civile di cui non sempre comprendono il senso, o raminghi contadini investiti da un ciclone di idee balzane, incontrano personaggi che quella rivoluzione incarnano chi da visionari chi da zelanti burocrati di partito. Se per Dvanov, il figlio di Zachar, il socialismo dovrebbe corrispondere al “tempo in cui l’acqua avrebbe zampillato sugli aridi e alti spartiacque”, il plenipotenziario del comitato rivoluzionario provinciale cambia il suo nome in quello di Fëdor Dostoevskij, ignorando certa incongruenza ideologica dell’omaggio ma mettendocela tutta per favorire la “felicità lavorativa quotidiana”, magari eliminando la notte per incrementare i raccolti (va da sé che le ragazze si innamorassero tutte di lui, nonostante fosse zoppo). Laddove altri trascorrono il tempo in adorazione del ritratto di Rosa Luxemburg e cercando un’altra versione del comunismo. Quando poi qualcuno annuncia che nella città di Cevengur esso è una realtà bell’e fatta, totale, in cui “vive l’uomo collettivo ed eccellente”, si apre uno scenario tutto da scoprire. Lì anche il bestiame verrà sottratto all’oppressione secolare dell’uomo, la natura trionfa e si manifesta una faccia inudita della rivoluzione: si attende il secondo avvento di dio e soprattutto, il lavoro è stato bandito. Si punta direttamente alla felicità senza farla troppo lunga. Chi vi arriva non sempre ne resta convinto: che fare a Cevengur? – Niente – gli si risponde – qui da noi vivrai una vita interiore”. Pensa a tutto il sole, “proletario universale”. I suoi abitanti non fanno che “riposarsi da secoli di oppressione”. Mangiano i crudi frutti della natura. Che li attenda una fine devastante o l’agognata palingenesi il lettore può immaginarlo da solo. Platonov (meglio: il suo romanzo) mantiene una felice ambiguità rispetto al tema. La satira colpisce gli slogan, il linguaggio stesso dei soloni di un certo assolutismo ideologico col suo carico di morte certa ma Cevengur adombra un sentimento tutt’altro che ostile per i poveri cristi bisognosi di un’utopia. Platonov comunista lo fu troppo a modo suo per piacere al regime e forse la difficoltà di etichettarlo non ha favorito la sua ricezione in Italia, paese in cui per decenni le preoccupazioni ideologiche hanno fatto gioco su quelle meramente estetiche (e/o esistenziali: Platonov sapeva bene che nella realtà vi è sempre un’eccedenza rispetto a qualsiasi teoria – e lo scriveva Adorno, non un epigono del pensiero debole). Il suo è un romanzo eroicomico, a tratti dilatato ma pieno di sorprese, di personaggi fantasiosi e viscerali, falotici in sé e poi investiti da eventi troppo più grandi di loro. Brodskij lo considera il maggior prosatore russo del ‘900 e fra i grandi scrittori tout court. Non saprei dire: che però Cevengur meriti fra un posto fra i classici del secolo passato è sicuro.

Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari. "Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsa, scrive Daniele Abbiati su “Il Giornale”. Il compagno redattore della «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», terminata la lettura del libro, lo depone sul tavolo. Sulle sue labbra appare un risolino, forse compiaciuto, forse ironico. Poi il compagno redattore stende la breve recensione, in cui fa riferimento a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Peccato che la sua non fosse una semplice recensione. Era una recensione molto speciale , perché la «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», nella Russia degli anni Venti, si occupava di censurare qualunque cosa fosse destinata alla pubblicazione. Così quel libro intitolato Da un villaggio in memoria del futuro o Il villaggio della nuova vita finì in un cassetto. Ne uscirà, per i lettori dell'Unione Sovietica, sessant'anni dopo, nel 1988, sull'onda della perestrojka gorbacioviana. Dal suo punto di vista, il compagno redattore aveva ragione da vendere. Dopo una rivoluzione e la conseguente guerra civile, diffondere quella roba sarebbe stato come distribuire per tutto il Paese migliaia di mine in forma di copie. Il villaggio di cui scriveva l'ormai ex compagno Andrej Platonovic Klimentov (iscrittosi al Partito nel '20, già nel '21 aveva restituito la tessera), per la storia della letteratura Andrej Platonov, è infatti il luogo dove il comunismo muore in culla, dove la convivenza fra poche anime, più morte di quelle di Gogol', dopo la mattanza in piazza dei borghesi, rivela l'impossibilità antropologica del regime. Un'impossibilità non politica, a dispetto di Marx ed Engels, bensì psicologica, fisiologica, organica addirittura. Ogni uomo, sia il muzik sognatore o l'integerrimo soldato dell'Armata Rossa, il fabbro anarchicheggiante o il vecchio nostalgico, il bolscevico fedele alla linea o la mendicante con figlioletto malato, dice Platonov, è, appunto, un uomo o una donna: cioè un mondo a sé stante. E se le contingenze di una guerra mondiale, di una rivoluzione, di una guerra civile li portano a percorrere un tratto di strada insieme, non sarà obbligandoli alla fratellanza (universale, fra l'altro) che si farà il loro bene. Romanzo corale e rurale, Cevengur (questo il titolo con cui ora viene proposto da Einaudi per la prima volta in edizione integrale a cura di Ornella Discacciati, pagg. 501, euro 26) prende il nome proprio dall'immaginario paesello della steppa che nelle intenzioni di un manipolo di aspiranti compagni dovrebbe tramutarsi nel paradiso del proletariato. Un proletariato, peraltro, pressoché nullafacente, a partire da Cepurnyj, il boss locale, per proseguire con Kopënkin, comandante dei bolscevichi combattenti, e Aleksandr «Sasa» Dvanov. Sono loro il Sancho Panza e il Don Chisciotte intravisti dal compagno-redattore-recensore-censore dal quale siamo partiti. Da una parte il cinico uomo dell'apparato che s'intenerisce soltanto nel ricordo di Rosa Luxemburg, dall'altra il giovane disincantato orfano del padre pescatore suicida in un lago, poi adottato dal mite Prochor Abramovic e da sua moglie, quindi operaio delle ferrovie, studente del Politecnico e infine arruolato fra i presunti «buoni». La dimensione urbana è soltanto sfiorata, dall'affresco a tinte fosche e grottesche di Platonov, appena un cenno a Lenin che, nella reggia del Cremlino, pensa e scrive indefesso. Scelta ovviamente azzeccata, poiché l'anima russa resta abbarbicata alle monumentali stufe di campagna, scorre sulle rive dei fiumiciattoli, palpita nelle catapecchie polverose o ghiacciate. L' ouverture , affidata alle suggestioni paniche dell'artigiano Zachar Pavlovic, dà il tono a una narrazione in cui l'umanizzazione della natura è il contraltare alla disumanizzazione dei personaggi, attori di quella che Discacciati chiama, nella Prefazione, la «metautopia» dell'autore, «una riflessione originale sulla ricezione dell'utopia rivoluzionaria tra le masse, accompagnata da una personale concezione della storia che al meccanico susseguirsi di tappe giustificate dal progressivo avvicinamento alla liberazione rinfaccia il sacrificio delle sofferenze del singolo, svilite in nome di un radioso futuro». In una steppa simile al Far West di un'altra utopia, questa volta ruvidamente (e individualmente) meritocratica, nella micro società di Cevengur chiusa e resistente alle novità che pare una comunità di Amish, in dialoghi da teatro dell'assurdo alla Beckett dove il «signor Godot» è l'avvenire spersonalizzante del socialismo reale, Platonov allestisce una grande recita che ha per protagonisti soltanto comparse. Dicono che quando Stalin lesse il romanzo, a margine commentò con una sola parola: podonok , cioè «feccia», «miserabile». Era la condanna alla morte civile dello scrittore, il quale finì, dimenticato da tutti, a fare il portinaio dell'«Istituto di Letteratura Gor'kij», in attesa della morte fisica, avvenuta nel 1951, a 52 anni. Non gli era bastato (tutt'altro...) rivolgersi, per caldeggiarne la pubblicazione, proprio all'esimio collega Maksim Gor'kij. Ma il giudizio di Stalin era anche, letto a posteriori, la migliore delle recensioni.

PLATONOV COMUNISTA E VISIONARIO. Andrej Platonov non è soltanto uno scrittore russo, scrive Alfredo Giuliani su “La Repubblica”. E' in modo stupefacente uno scrittore sovietico, forse l' unico grande prosatore sovietico che illumina, si fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato. Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione. Di estrazione operaia (chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò nell' Armata Rossa tra il '19 e il '21 (era nato a Voronez nel 1899) e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e decise di dedicarsi interamente alla letteratura. E qui cominciarono i suoi guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929, pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e veridico sul comunismo della vita. La devastante fiducia degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni dei Demoni e dell' Idiota di Dostoevskij. Si comprende come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a Platonov: Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per Gor'kij che l' opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante Gor' kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali possiamo avere una percezione ridotta. Non è colpa dei traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo stilistico dell'autore. Sulla questione, per quanto posso azzardarmi, tornerò un poco più avanti. Una cosa buffa, e forse non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse grande attenzione. Sia prima, sia dopo il '72 erano usciti in Italia altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti, Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg. 382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato. In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà, forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170, da una gustosa conversazione che si svolge in città all'uscita da una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner; quest'ultimo gli domanda: Tu da dove salti fuori? Dal comunismo. Nei hai sentito parlare? Hanno chiamato così qualche villaggio in memoria del futuro? Macché villaggio. E' capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale. A che serve? A Cevengur o Ciociarnazzo sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini. Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il dolore dell' esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell' urgenza utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo stesso della sensibilità millenaristica presente nella società russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita, l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo ascoltarlo quando dice che l' autore di Cevengur, più che alla tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni puramente fonetiche l' affiorare di concetti totalmente privi di qualsiasi contenuto reale. Ma non so quanto sia pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente surrealista. E' strano che Brodskij taccia della vena futurista che a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall' altro il fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che più conta per il futurista russo è ritrovare nell' avvenire l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l' amore per le macchine si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell' incolumità. Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la verità dell' esistenza. Le frasi di Platonov cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può suscitare ilarità o sgomento. E' più o meno ciò che notano i critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo inferno si identifica con l'apparizione del paradiso. E Stepan Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in noi. Quando scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio adottivo Sasa: Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse la volta che diventerà più intelligente la vita. Prochor Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli, non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a tutti un brav' uomo. Kopenkin è perplesso di non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la situazione: La professione essenziale è l'anima dell' uomo. Il suo prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un'occupazione, secondo te? Kopenkin rifletté un poco sulla vita oppressa d' una volta. E' proprio bello da te a Cevengur, disse malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al sapore. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito. Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai. Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?. A dire il vero, lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur: si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. E' un lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l' eredità piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade, spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva. La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici, ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d' ordine e dalle formule della rivoluzione. Ho detto in principio, un po' per burla, che Platonov illumina l' epoca in cui concepì e scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie bianche). Un' immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel lago per vedere com' è la morte; poteva essere un' altra provincia situata sotto il cielo come sul fondo d' una fresca acqua. Dopo tante peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva organizzare la vita.

Il Duce governò col consenso. E De Felice lo ha dimostrato. Il monumentale studio del ricercatore risultò ben documentato e inaccettabile. Ma negli anni '70 era inaccettabile. Pansa e Pavone ne hanno seguito le orme, scrive Giordano Bruno Guerri Giovedì 05/11/2015 su "Il Giornale". Sono pochissimi i libri di storia diventati essi stessi un fatto storico. È il caso della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, uscita in otto volumi da Einaudi fra il 1965 e il 1997 (l'ultimo, postumo e incompleto). Più che una biografia è una storia del fascismo, e il grande merito di De Felice fu basare i suoi studi sui documenti e non su pregiudiziali ideologico/politiche, pro o contro. Sembra ovvio, trattandosi di storia, ma all'epoca non lo era. I primi tre tomi (Il rivoluzionario e Il fascista, dal 1883 al 1929) avevano semplicemente disturbato la dominante storiografia di sinistra. Il quarto ebbe un effetto dinamitardo: le quasi mille pagine di Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936 uscirono nel dicembre del 1974 e la loro tesi di fondo provocò polemiche a non finire. Vi si sosteneva, e vi si dimostrava, che il regime godette per un lungo periodo di una straordinaria partecipazione popolare. Oggi è un dato acquisito (malvolentieri) anche dalla storiografia più schierata a sinistra, però a quei tempi De Felice venne addirittura accusato di filofascismo: lui, ebreo liberale che fino a allora si era occupato soprattutto della Rivoluzione francese. Visto che non tutti potevano affrontare quelle mille pagine, nel 1975 De Felice volle pubblicare Intervista sul fascismo (Laterza, a cura di Michael Arthur Ledeen), dove spiegava in sintesi il proprio pensiero, a partire dall'inedita distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento. Il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l'idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta». E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». Fondamentale è anche l'individuazione dell'elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell'esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l'individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata». In più De Felice sostenne, per primo, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un'affermazione inaccettabile. Il Pci aveva da poco lanciato l'idea del «compromesso storico» con la Dc e si sentiva minacciato nella sua egemonia culturale da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L'unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu Giorgio Amendola, uomo coraggioso e onesto. Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel 1974 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel 1976 addirittura da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano, ma l'accoglienza non fu diversa da quella del libro sul consenso. De Felice veniva cucinato a fuoco vivo e lento per avere sostenuto in sostanza che gli italiani erano stati fascisti. Nessuno riusciva a contestare seriamente le sue tesi, perché non si poteva, e però fioccavano allusioni e accuse sulla sua onestà intellettuale, sulle sue capacità storiografiche, sulle sue tendenze politiche: specialmente con quell'atroce sospetto di filofascismo. Fino a tutti gli Anni Settanta, infatti, fascista! era l'offesa più di moda e più violenta, tutto ciò che di male esisteva nell'universo era fascista, persino le prevaricazioni amorose e i comportamenti automobilistici. Dunque, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, ovvero il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che quasi vent'anni dopo il Movimento Sociale si autodissolse a Fiuggi e che il suo erede, Alleanza Nazionale, si sarebbe fuso con il liberale Popolo delle Libertà. Agli storici i loro studi dovrebbero servire non soltanto per capire il passato, ma anche per interpretare il presente e intuire il futuro. Per i contestatori di De Felice non fu così. Lontani dal capire il presente e dall'interpretare il futuro, lasciarono a bande di studenti il compito di dare del fascista a uno storico più bravo di loro e rispolverarono per lui e per chi la pensava come lui un termine da tempo fuori moda e fuori uso: «revisionista». La definizione fu appioppata per la prima volta al socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, che nel 1899 sostenne la necessità di rivedere alcune tesi di Marx (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, «revisionista» diventò sinonimo di eretico, nemico, e così furono bollati tutti i capi comunisti che accennarono a deviare dalla linea del Cremlino.Applicata agli studi è una definizione malsana, visto che uno storico, come ogni altro studioso, non può che essere revisionista. Qualsiasi scienza, qualsiasi attività umana progredisce in quanto non si accontenta dei risultati raggiunti. Cioè: se gli architetti non fossero revisionisti, staremmo ancora nelle grotte; se i medici non fossero revisionisti, saremmo ancora a farci operare dai barbieri. Gli storici devono essere revisionisti perché non si debbono accontentare di quello che è già acquisito. Sergio Romano nel 1998 pubblicò Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie), con una definizione esemplare: i revisionisti sono semplicemente «coloro che mettono in discussione, con nuovi documenti e nuove prospettive, l'antica versione di un avvenimento». Senza questo continuo andare oltre, la storia sarebbe ridotta a leggenda, cronaca o propaganda politica. Purtroppo De Felice non fece in tempo a terminare i suoi studi, altrimenti avrebbe con ogni probabilità realizzato lui il nuovo filone di revisionismo sulla guerra civile 1943-45, inaugurato da Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri 1991) e proseguito da Giampaolo Pansa con Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer 2003). Due libri che hanno provocato le stesse polemiche del saggio sul consenso: a dimostrazione che De Felice vinse la sua battaglia, ma non la guerra contro chi guarda la storia con i paraocchi dell'ideologia.

E la chiamano democrazia…E’ solo una contrapposizione tra Comunisti di destra e di sinistra (ceppo comune del socialismo) ed i liberali. O meglio dire, dato l’atteggiamento violento adottato per l’imposizione della loro religione, Fascisti di destra e di sinistra contro i liberali. I fascisti comunisti per le loro nefandezze si nascondono dietro l’impunità della massa, pretendendo che tutto gli sia dovuto. I Liberali sono perseguitati perché isolati dal loro soggettivismo ignavo.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Vittorio Emanuele sul 2 giugno: "Il referendum 1946 fu incompleto". Il figlio di Re Umberto II attacca: "Molti italiani non poterono votare, ma mio padre dimostrò responsabilità nonostante De Gasperi si proclamò Capo dello Stato con un colpo di mano", scrive Ivan Francese, Giovedì 02/06/2016, su "Il Giornale". Secondo Vittorio Emanuele di Savoia il referendum del 2 giugno 1946, con cui l'Italia divenne una repubblica, non sarebbe stato "completo". Perché - e questa è verità storica - in alcuni territori dell'allora Regno d'Italia non fu possibile votare e perché a molti connazionali prigionieri all'estero non venne permesso l'accesso alle urne. Il primogenito di Re Umberto affida ad un messaggio rivolto "a tutti gli italiani" la sua amarezza in occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana. Non si votò, ricorda il principe, "in alcuni territori italiani ancora non del tutto liberi ed al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora in campi di prigionia all'estero." Inoltre Vittorio Emanuele elogia il senso di responsabilità del padre, quando "il consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, con un colpo di mano, nominò lo stesso Capo Provvisorio dello Stato". Il Re, "dopo un mese di regno, desiderando una piena legittimazione che gli permettesse di traghettare la Nazione in una rinascita al termine delle dolorose esperienze della guerra, prima della consultazione dichiarò che se la Monarchia non avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, avrebbe indetto un nuovo Referendum. In quei giorni ed in quelle ore di tensione Egli mantenne un alto senso di responsabilità per le sorti del Paese ed una terzietà che il mondo gli ha riconosciuto." Vittorio Emanuele, infine, vuole celebrare l'abnegazione del Re alla causa d'Italia, che lo portò a rinunciare alla Corona pur di salvare l'indipendenza della Patria: "Pur in assenza di alcuna imposizione, partì di propria volontà per un temporaneo esilio, al fine di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito, schierate sul confine orientale, decise ad intervenire in caso di vittoria monarchica. Un esilio durato, poi, per Lui tutta la vita, per me 56 anni e per mio figlio - nato 26 anni dopo il referendum - ben 30 anni".

«Sul Re Soldato c'è un pregiudizio antistorico», scrive Francesca Angeli, Venerdì 17/07/2015, su "Il Giornale". «Un divieto privo di senso». Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa si era impegnato personalmente per favorire il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III in Italia, in occasione del 150 anniversario dell'Unità d'Italia che cadeva nel 2011. Ma il tentativo si impantanò.

La Russa ritiene fondati i timori di Maria Gabriella di Savoia per la salma del Re Soldato?

«Si tratta di un rischio reale che forse finalmente riuscirà a smuovere le coscienze di chi ancora si oppone al ritorno delle salme dei Savoia, un veto antistorico che non ha più nessuna ragione di esistere».

Chi allora ebbe paura della sua proposta per il rientro delle spoglie?

«Prevalse la tipica pavidità italiana. La preoccupazione per eventuali polemiche da parte di chi non riesce a superare antichi pregiudizi ideologici che oggi suonano assurdi e ridicoli».

Perché ritiene sia doveroso riportare Vittorio Emanuele III in Italia?

«Vittorio Emanuele III è stato Re d'Italia, è una figura che appartiene alla nostra Storia, nella buona e nella cattiva sorte. Le disposizioni transitorie avevano allora un senso che oggi ovviamente non hanno più. Si temevano colpi di coda dopo le polemiche sull'esito del referendum. Ma ora non vedo ragioni plausibili per un simile veto. Certo non è criminalizzabile in sè l'istituto della monarchia e oggi tutti i risentimenti e le tensioni allora comprensibili dovrebbero essersi finalmente placati».

Sono molti i protagonisti del passato con i quali il nostro Paese fatica a chiudere i conti.

«Senza dubbio. A 70 anni dalla sua fine il fascismo è ancora un elemento centrale del dibattito politico. Io me ne stupisco sempre. C'è chi non perde l'occasione per paragonare il Pd attuale al partito fascista e il premier Renzi a Mussolini. Quando si apre questa polemica in Parlamento io intervengo e da “esperto della materia” tranquillizzò i timorosi: il Pd e Renzi non hanno nulla a che fare con Mussolini e il fascismo».

Quindi il nodo è quello? Il legame dei Savoia col fascismo?

«No. Lo stesso Benito Mussolini è stato seppellito in Italia. Posso capire si continui a a dibattere su un'ideologia ma francamente non capisco come si possa ancora dibattere una questione come il rientro di un uomo che fu Re d'Italia».

Se la salma fosse riportata in Italia pensa sarebbe giusto tumularla al Pantheon?

«Assolutamente sì. È quella la tomba della famiglia Savoia dove si trovano Vittorio Emanuele II e Umberto. Quando ero al ministero della Difesa feci questa promessa alla famiglia. Incontrai proprio davanti al Pantheon Vittorio Emanuele con la moglie, Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto e mi attivai per il ritorno della salma e la sua sepoltura. Mi sembrava giusto farla coincidere con i 150 anni ma purtroppo l'occasione andò persa».

Lancerebbe un nuovo appello?

«Potrei farlo soltanto se raccogliessi un consenso trasversale. Sono consapevole che una mia iniziativa in questa direzione altrimenti verrebbe subito strumentalizzata».

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) -  "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) -  "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)

(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) -  "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) -  "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240) 

(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) -  "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)

(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) -  "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)

(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) -  "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)

(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) -  "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)

ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?

Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.

Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.

«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».

Sarebbe a dire?

«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».

Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.

«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».

Cosa abbiamo fatto di male?

«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».

Quale differenza?

«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».

Da noi invece...

«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».

Beh, non fa una piega.

«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».

Forse di niente.

«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».

Il trionfo del pauperismo.

«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».

«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.

«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».

È andato a vivere all’estero.

«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».

Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?

«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».

Addirittura.

«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».

L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezza­notte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertan­ti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permet­terci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei volu­to discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro El­sa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appun­to di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a cau­sa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte so­pra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scien­tifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valu­tazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non conta­no. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane don­na in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di sim­patici demagoghi, attaccare indi­scriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo de­calogo dell’invidioso cronico.

1. Chi ha successo ha certamen­te inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?

2. In Italia nulla è metodico, sal­vo il sospetto.

3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimentica­re che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.

4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.

5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.

6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?

7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.

8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!

9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si per­mettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Co­sa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chia­mano come una casa cinematografica e una serratura?

1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.

Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».  Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.

“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”.

Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!

Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.

Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue.  Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.

Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.

Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

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Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.

Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.

L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi

Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

Enrico Berlinguer, l'ultimo leader. Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 figlio di Mario Berlinguer, un avvocato repubblicano, antifascista e vicino alla massoneria, come molti intellettuali laici dell'epoca, discendente da una nobile famiglia catalana stabilitasi in Sardegna all'epoca della dominazione aragonese, e di Maria Loriga. La famiglia portava i titoli nobiliari di Cavaliere, Nobile, con trattamento di Don e di Donna per concessione il 29 marzo 1777 a Giovanni e Angelo Ignazio da Vittorio Amedeo III Re di Sardegna. Nel dopoguerra, Mario Berlinguer fu parlamentare socialista. Enrico crebbe quindi in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era stato il fondatore del giornale La Nuova Sardegna, e aveva avuto contatti con Garibaldi e Mazzini) ed ebbe occasione di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) – che fu presidente della Repubblica – ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli Capo di Stato. Condotti gli studi liceali classici presso il Liceo Azuni di Sassari, nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.

Berlinguerismo: un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, scrive Ishmael su “Italia Oggi”. 2014. Sono passati trent'anni dalla morte d'Enrico Berlinguer, quasi altrettanti dalla caduta del Muro di Berlino, ma l'ideologia berlingueriana, un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, continua a pesare sulla sinistra italiana come un incubo: la «diversità», la «questione morale», il «nuovo modello di sviluppo» e soprattutto l'incapacità «di pensare la democrazia nella sua realtà politica, affrancandosi dal mito comunista e togliattiano della democrazia progressiva», come scrive Claudia Mancina — ex comunista, deputata diesse negli anni novanta — nel suo nuovo libro, Berlinguer in questione (Laterza 2014, pp. 136, 12,00 euro, ebook 7,99 euro). Come tutti i leader del comunismo italiano, anche Berlinguer, l'ultimo dei grandi segretari generali, partecipava di due nature: la fedeltà al «campo socialista» e l'istinto politico di conservazione, che gli faceva preferire l'ovest all'est, la Nato all'Armata rossa, la democrazia parlamentare alla democrazia popolare. Ma «agli occhi dei comunisti», scrive sempre Mancina, «la democrazia vera non è quella formale ma quella sostanziale», una democrazia «che consiste nella mobilitazione delle masse, nel potere dei lavoratori nel luogo di lavoro, dei sindacati sulla politica economica, o perfino degli studenti nell'università o dei genitori nella scuola». Berlinguer, ai suoi tempi, stabilì con accenti pasoliniani che «l'Italia non avrebbe seguito le banali strade delle democrazie occidentali, nelle quali c'è alternanza di governo e a volte vince la destra, altre la sinistra. Troppo poco per questo paese così speciale, il paese del più grande partito comunista d'Occidente! A noi toccava invece superare il capitalismo e portare a maturazione piena la democrazia, cioè realizzare la mitica democrazia sostanziale». Caduto il Muro di Berlino, passata Tangentopoli, con Berlusconi sugli altari, «i postcomunisti non hanno fatto che oscillare tra ipotesi di riforma elettorale e costituzionale e difesa acritica della costituzione, fino alla favola della costituzione più bella del mondo». Quanto all'eredità berlingueriana, invece di restare patrimonio dei solo ex e post e vetero comunisti, è diventata patrimonio collettivo, come i mezzi di produzione socializzati della favola marxista. «Per la sua deriva moralistica», l'intervista sulla questione morale di Berlinguer «è oggi un testo sacro per gli antipolitici». È grazie a Berlinguer e al suo marxismo bacchettone che «ancora oggi si pensa che l'intransigenza sia una politica».

Le grandi firme di ieri e di oggi per raccontare il segretario del Pci. "L'Espresso" ha scelto di celebrarlo, a trent'anni dalla morte con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli a lui dedicati negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984, scrive Loredana Bartoletti su “L’Espresso”. Berlinguer come se fosse appena successo. A trent'anni dalla morte, l'ultimo grande leader del Partito comunista è tornato di attualità sulla ribalta politica. Evocato dai palchi dei comizi elettorali per solleticare consensi in suo nome, celebrato con film, documentari, libri e ricordi vari. Certo c'è un anniversario importante - trent'anni appunto da quell'11 giugno 1984 - ma c'è anche l'omaggio, il rispetto e quasi la nostalgia per un politico che appare diverso dal panorama cui ci siamo abituati, quasi un alieno nella sua severità di tratto e di comportamento e in più un contemporaneo per quelle parole d'ordine, come la questione morale, che a decenni di distanza non hanno ancora trovato una risposta. Il ricordo di un politico diventato icona può però tendere a idealizzare, a semplificare, a minimizzare le difficoltà e gli ostacoli che quel leader e il suo progetto hanno dovuto affrontare. Anche per questo "l'Espresso" ha scelto di celebrare Berlinguer con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli dedicati al capo di Botteghe Oscure proprio negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984. Nel volume si alternano così le grandi firme del nostro settimanale, quelle di oggi e quelle di ieri. I bilanci e i giudizi su Berlinguer che la distanza di tempo consente di tracciare con maggiore lucidità e le cronache dirette del suo agire politico, dove emergono i tormenti di Botteghe Oscure, i "processi" che il leader subì da parte dei suoi, il lungo scontro con Bettino Craxi, i colpi inferti dal terrorismo, il tormentato rapporto con l'Urss... Insomma la complessità dell'azione di un grande leader. Ma la lettura di quegli articoli di decenni fa consente anche di riflettere sul modo di fare informazione politica di allora. In parte diversa, più stretta al succedersi degli eventi che non ai retroscena, e in parte anticipatrice di modelli poi ampiamente copiati: curiosa, irriverente, capace di disegnare legami e collegamenti inediti. Molto "Espresso", se è consentito dirlo. Il libro "Berlinguer", che sarà dal 6 giugno nelle edicole, è aperto da un’introduzione del direttore dell’”Espresso”, Bruno Manfellotto che riflette sul "politico perbene", poi una intervista di Denise Pardo a Eugenio Scalfari, in cui il grande giornalista ripercorre la carriere politica di Berlinguer, commenta gli eventi di quegli anni ma racconta anche il rapporto personale che ebbe con il leader di Botteghe Oscure. Questione morale, compromesso storico ed eredità politica: Eugenio Scalfari parla del segretario del Pci. L'intervista di Denise Pardo. Poi Chiara Valentini ricostruisce gli anni giovanili di Berlinguer, dal primo arresto in Sardegna all’incontro con Togliatti fino alla scalata al vertice del partito. Quindi Paolo Franchi analizza la strategia del compromesso storico mentre Marco Damilano firma un intervento sull’eredità politica di Berlinguer. L’ampia sezione centrale del libro è poi dedicata agli articoli di ieri, con una carrellata di grandi pezzi e grandi firme tra cui Livio Zanetti, Nello Ajello, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Paolo Mieli, Lucio Colletti, Ernesto Galli della Loggia, Giampaolo Pansa. A chiudere una sezione “pop”, con le copertine che il settimanale ha dedicata a Berlinguer e una trentina di straordinarie tavole di Pericoli e Pirella, tutte con il leader politico come protagonista, più un quiz divertito e divertente su Berlinguer, apparso nel 1972 sull’”Espresso colore”.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.

Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».

QUANDO IL CAPO ERA QUASI SACRO. Nel dicembre del 1977, all'indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua, scrive Filippo Ceccarelli su “Il Corriere della Sera”. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l'Immacolata Concezione». Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell'immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un'atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anchea livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest'aura al tempo stesso corporeae sacrale, venne meno e nel 1986 l'inserto satirico dell' Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest'ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l'intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il "Vecchio", cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Plio Msi. Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando (« Domine non sum dignus ») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po' come succede nel Pd - ma con molta più fantasia e perizia.

POLITICA E MASSONERIA. Ma guarda un po’ cosa vai a scoprire da fonti notoriamente di sinistra, come può essere un’intervista di “Repubblica” a firma di A. Statera. "Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".

Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore.

Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ".

Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza.

Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.