Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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GIULIO ANDREOTTI

IL DIVO RE

 

 DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

 

Presentazione dell’autore.

Introduzione.

Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.

Il Divo Re.

I Lati privati.

Aldo Moro e Giulio Andreotti.

Alcune testimonianze…

Le lettere ed i diari di Giulio Andreotti.

Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti.

Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia.

La Malagiustizia e l’Odio politico. La vicenda di Giulio Andreotti.

 

 

 

 

 

 

 

 

·        Presentazione dell’autore.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

·        Introduzione.

100 anni dalla nascita di Giulio Andreotti. Senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, grande e spesso enigmatico tessitore della politica italiana di cui è stato enfant prodige (sottosegretario con Alcide De Gasperi a soli 28 anni), Giulio Andreotti era nato a Roma il 14 gennaio del 1919, ed è scomparso il 6 maggio 2013. Ventisette volte ministro della Repubblica (di cui otto volte alla Difesa, cinque agli Esteri, tre alle Partecipazioni statali, due volte ministro delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno, dei Beni culturali e delle Politiche comunitarie) Andreotti ha fatto parte di tutte le assemblee rappresentative fin dalla Costituente. Nell’ ottobre 2011 non rinunciò a sfoggiare la sua consueta ironia smentendo la falsa notizia della sua morte: «Confido in un’ulteriore proroga da parte del Signore». Si laureò a 22 anni in Giurisprudenza. Alla stessa età divenne presidente della Federazione degli universitari cattolici italiani subentrando ad Aldo Moro, che gli aveva affidato la direzione del periodico «Azione Fucina». Fondamentale per il suo percorso politico fu però l’i n c o n t ro con Alcide De Gasperi, fondatore con Guido Gonella della Democrazia cristiana (Dc). Al termine della seconda guerra mondiale Andreotti divenne delegato nazionale dei gruppi giovanili del partito e nel 1945 fece parte della Consulta nazionale. L’anno seguente fu eletto deputato dell’Assemblea costituente. Da allora fu sempre rieletto in tutte le consultazioni politiche. Per due volte è stato eletto parlamentare europeo. Vasta nel corso della sua vita l’attività pubblicistica ed è autore di numerosi libri. Tra le sue disavventure giudiziarie la più nota è il processo per associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d’appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l’organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione] La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.

Il Pantheon dei capri espiatori. La storia politica dell’Italia repubblicana raccontata attraverso l’odio per il singolo, scrive Francesco Damato il 17 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’articolo di Angela Azzaro in difesa del Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica. Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983 l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò addirittura al protagonista della ricostruzione post- bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica. Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. «Una fantasia», soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga – Il Borghese – fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centrosinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat. Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. «Non lasciatemi morire con Moro», si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo. Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi. In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della Repubblica conciliare, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico – mi disse l’ex presidente del Consiglio – che anche un imputato va assolto a parità di voti. Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli ‘ regalò’ – mi disse – il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora. Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con «una durezza senza uguali», certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci. Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia avendo «illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione – per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come ‘ il parolaio rosso’ per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea. Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

E la chiamano democrazia. Abbiamo dei Parlamentari votati dal 51% degli Italiani. Abbiamo un Governo votato dal 51% dei Parlamentari. Ergo: siamo governati da una minoranza, ossia il 25% della volontà popolare.  E poi dire governati è una parola grossa.

·        Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.

Luigi Mascheroni per il Giornale il 13 gennaio 2020. Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un' imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l' altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell' incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L' opera è unica, ma in due parti. Una racconta l' Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l' Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l' affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c' è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l' industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull' odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall' egemonia culturale comunista da una parte e dall' invasione produttiva americana dall' altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l' Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l' attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l' anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l' imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l' incremento di risorse economiche dall' estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell' incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre.

E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev' essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa?

«Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all' anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall' Europa all' America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d' accordo con lui.

Luca Pallanch per La Verità il 13 gennaio 2020. Tatti Sanguineti, geniale incursore della tv e della radio, tra il 2003 e il 2004 realizzò un ciclo di interviste di cinquanta ore con Giulio Andreotti per rievocare la sua militanza nel cinema italiano come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dal 1947 al 1953. Il 14 gennaio, a 101 anni dalla nascita del politico, Sky Arte manderà in onda un programma in due puntate (92' ciascuna), Il cinema visto da vicino e La politica del cinema, che contengono le parti più salienti di quelle interviste, in cui «il becchino del cinema italiano», come fu definito all' epoca, dispensa aneddoti, battute e confessioni inedite, sovvertendo con ironia i luoghi comuni attorno alla sua figura. Un programma che Andreotti non fece in tempo a vedere, malgrado sia morto a distanza di dieci anni dalla prima intervista. E che oggi vede finalmente la luce dopo anni di misterioso oblio.

Quando lo conobbe?

«Nel 1989 il mio maestro Alberto stava preparando il catalogo della retrospettiva sul neorealismo per il festival di Torino. Ci siamo accorti che da molti decenni Andreotti, che era stato il dominus del cinema italiano, non aveva più parlato. Gli abbiamo scritto chiedendogli la disponibilità a raccontare questa vicenda».

Vi rispose?

«Ci rispose con molta cortesia, ma la cosa non si concretizzò. Pubblicammo una lettera che ci inviò. Qualche anno dopo tornai alla carica, quando ormai Alberto se n' era andato. Dissi ad Andreotti che avrei voluto porgli delle domande su quel periodo. Lui mi rispose che l' idea gli piaceva e che nessuno si era preso la briga di intervistarlo al riguardo. Usò una metafora che aveva già utilizzato nel passato: figlio di un maestro elementare, si sentiva nel mondo del cinema come l' asino nella stanza dei suoni. È un modo di dire delle campagne, che vuol dire un incompetente nella stanza dove l' orchestra prova. Una frase felliniana».

Avevate accordi iniziali?

«Ci vedevamo il sabato mattina e mi affidai alla sua segretaria, Lina Vido, che prendeva tre autobus per andare in ufficio a piazza di San Lorenzo in Lucina. Una sola cosa non gli chiesi: di indossare un abito di scena. Sarebbe stato opportuno, per ragioni di montaggio, usare una mantellina, una giacca, una toga, ma io non ebbi il coraggio di chiederglielo. Qualcuno adesso sostiene che il fatto che sia vestito diversamente sia una scelta felice».

È curioso vedere Andreotti indossare una maglietta di un noto marchio di abbigliamento sportivo, non credo che si sia mai visto!

«Sembra un mannequin! Sfila con ogni abito addosso».

Ha avuto ritrosia a farsi riprendere dalle telecamere?

«Assolutamente no. Nessuna ritrosia né vanità».

Quanto durava una seduta?

«Le sedute duravano tra le due ore e le due ore e mezza e in tutto furono ventidue. Quando gli comunicai che avevamo finito, Andreotti mi disse che se ne dispiaceva molto e mi chiese se non potevo inventarmi qualche trucco per farla durare un po' di più perché aveva ricevuto un "grande balsamo". Una volta mi disse una frase che mi colpì molto: il giudice più severo se lo trovava in camera da letto. Era la moglie! La mia intervista era un' oasi felice, un momento di pace, di appagamento, di fuga. Nel 2007 facemmo una coda sulle vignette che lo demonizzavano. Alla fine gli chiesi di interpretare una sua caricatura: l' Andreotti censore, com' è stato consegnato alla vulgata ignorante della storia del cinema, l' Andreotti che scambia un centimetro di pelle delle natiche con una battuta contro il governo. Lui ebbe l' intelligenza, la spiritosità di accettare di incarnare questa lieve parodia di se stesso, come una sorte di censore a vita».

Ci sono temi che Andreotti non ha voluto affrontare?

«Nessuno. Ho passato un anno prima di fare questo ciclo di interviste, consultando un migliaio di documenti con il più formidabile archivista del cinema italiano, Pier Luigi Raffaelli. Tutto quello che si dice è documentato. La sola cosa non concordata accadde quando mi raccontò del suo primo viaggio in America, nel dopoguerra, in cui sconfinò senza passaporto in Canada per vedere le cascate del Niagara. Io gli avevo già preannunciato che avrei messo delle immagini del film Niagara di Henry Hathaway con Marilyn Monroe. Quando smetteva di parlare, era solito abbassare la testa come per scaricarsi e prepararsi per la successiva domanda, io in quell' occasione non staccai la telecamera e poi gli dissi: "Presidente, che giudizio si è fatto della morte di Marilyn Monroe?". Non era una domanda premeditata, mi è venuta spontanea sapendo che era un tema che lo aveva intrigato molto. Lui mi guardò per un attimo con uno sguardo severo di riprovazione, poi si chiuse un attimo in silenzio e replicò: "Marilyn Monroe... bè, diciamo che non è morta vecchia". Lo ringraziai e mi scusai, dicendogli che avrei voluto conservare questo scambio e lui mi dissi di sì. Ma in quei due-tre secondi mi fulminò!».

Sono passati 17 anni dalla prima intervista...

«Sapevo che mi occorreva del tempo, ma non avrei mai immaginato che le interviste sarebbero durate venti mesi e che la messa in onda avrebbe preso più di dieci anni dalla fine del montaggio. È stato proiettato una volta un episodio a Bologna, una volta un episodio alla Mostra di Venezia, ma non è mai stato visto tutto assieme, questa è la prima volta. Dal momento che il programma non andava mai in onda, nel 2012, due o tre settimane prima di morire, la signorina Vido mi telefonò e mi disse che, se l' intervista non andava in onda per un problema di soldi, si dichiarava disposta a consegnarmi tutti i suoi risparmi, "tanto a me di là non mi servono". Io le risposi: "Le fa onore questa offerta, ma non posso finire questo programma con i soldi suoi". Una delle due puntate è dedicata a Farassino, l' altra proprio a lei. Aveva intuito che qualche cosa non andava per il verso giusto. Lo aveva intuito anni prima anche Andreotti, il quale mi disse di andare a nome suo da Gianni Letta. Questi mi ricevette a Palazzo Chigi e mi accolse con una frase che so a memoria: "Ora che l' ho conosciuta di persona capisco perché il presidente Andreotti la tenga in tanta simpatia". Mi sarebbe piaciuto che Mediaset, per cui lavoravo, trovasse il coraggio di mandare in onda l' intervista, ma mi dissero che c' erano "difficoltà insormontabili". È chiaro che questo programma sta sulle scatole agli esperti di Andreotti: mi sono stupito che Massimo Franco o Marcello Sorgi, due dei massimi andreottologi, non abbiano chiesto di vederlo. Chi l' ha visto ha una reazione di stupore e di benevolenza. La cosa che impressiona è la sua totale disponibilità, la sua ironia, il suo rimpianto, la sua tenerezza verso se stesso giovane, lui che non è mai stato giovane».

Viene fuori una confidenza che pochi hanno avuto con lui e traspare un' umanità che oggi è difficile da ammettere. «Viene fuori un Andreotti simpatico: è il motivo per cui il programma non è andato in onda. Non si può dire che Andreotti fosse simpatico, non si può dire che fosse dotato di senso dell' umorismo, non si può dire che conosceva il cinema molto di più di Dario Franceschini o di Nicola Zingaretti o di Gigino Di Maio!».

Fa più comodo consegnare ai posteri l' immagine di Andreotti ne Il divo di Paolo Sorrentino.

«Certo, perché non è Andreotti, è Topo Gigio!».

I dieci anni di oblio sono dovuti alla scoperta di un Andreotti fuori dai canoni?

«Dal fatto che Andreotti resta simpatico. Chi vede questo programma non può non riconsiderare tutto quello che è stato il suo operato anche fuori dal cinema. La sua grande invenzione è stato di proibire film ambientati durante il Ventennio. Il solo girato nell' era Andreotti è Gli sbandati di Citto Maselli, che non a caso non vinse niente con il pretesto che Lucia Bosè era stata doppiata».

Emerge poi una passione sincera per il cinema.

«Andreotti soffriva molto di non poter più andare alle anteprime o alle proiezioni organizzate dal suo amico Italo Gemini nella saletta vicino a Montecitorio. Andreotti aveva amato molto il cinema, come tutta la generazione nata alla vigilia degli anni Venti, che ne aveva conosciuto la lussuria, la peccaminosità, e in adolescenza aveva assistito alla nascita del sonoro, quando il cinema era esploso con le gemme del paradiso terrestre. Quando chiesi a Rodolfo Sonego, il cervello di Sordi come l' ho definito nel mio libro su di lui, chi mi potesse spiegare quello che è successo nel cinema italiano negli anni Cinquanta, lui mi rispose: Andreotti. Il cervello più lucido, l' organizzatore più capace, il potere più assoluto e le idee così ferree. E altrettanto mi disse Dino Risi. Mi venne tardi l' idea, nel programma radiofonico Hollywood Party che ho condotto per anni, di far dialogare telefonicamente Risi e Andreotti, che non si erano mai conosciuti. Si fecero quelli che Andreotti chiamava i «salamelecchi», complimentandosi vicendevolmente».

Non ci aspetta che Risi, dopo aver preso in giro Andreotti definendolo «uno dei grandi italiani insieme a Leonardo da Vinci, Garibaldi e Federico Fellini», dimostri ammirazione sincera nei suoi confronti.

«Se rivedo l' intervista, mi dico: "Se ti portavi dietro Dino Risi". Un' ora di Risi con Andreotti vale più di cinquanta ore di Tatti Sanguineti!».

Contento del prodotto finale?

«Non lo so, non ho il coraggio di vederlo. So che abbiamo fatto il massimo, ma che non è bastato. Mentre Andreotti poteva desiderare di vedere quello che aveva fatto cinquant' anni prima, per me è un grande dolore. Ho sbagliato nel credere che se ero sopravvissuto a Walter Chiari, sul quale sto finendo un libro cominciato molti anni fa, sarei riuscito a sopravvivere ad Andreotti. Un barlume di hybris, di superbia contro gli dei. Ho buttato via la proposta di fare un libro su Andreotti perché voglio liberare la mia vita. Ho perso la motivazione. Voglio occuparmi di Lino Banfi, di Zalone, del nuovo cinema eritreo!».

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 17 gennaio 2020. Per anni, Giulio Andreotti è stato la «grande ossessione» di Tatti Sanguineti, così come in precedenza lo erano stati la tesi di laurea sul linguaggio del '68, il poderoso lavoro su Walter Chiari, la raccolta di manifesti di cinema, il rapporto con Piero Chiambretti, il libro su Rodolfo Sonego Ogni ossessione è per sua natura disordinata, spesso caotica, ma la magia dell' estremo la rende ricca di contenuti. Sanguineti freme continuamente per l' ansia di inseguire l' oggetto del suo desiderio (un desiderio è tale se non ha fine) e regolarmente vi si perde, mostrandone però l' infinita varietà e potenza. Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema sono due documentari, trasmessi da Sky Arte, che nascono dalla più lunga intervista che Andreotti abbia mai concesso. Ora divertito, ora sorpreso, ora caustico (sempre comunque lucido, forte di una vivida memoria), Andreotti viene trasportato nel periodo compreso fra il 1947 e il 1953, quando era Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo. Furono molte le iniziative intraprese dal politico per dare nuovo impulso all' arte cinematografica: dal salvataggio dell' Istituto Luce e del suo archivio alla legge di sostegno sul cinema, dalla restituzione al Lido della Mostra del Cinema di Venezia alla rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Gli aneddoti e le spigolature che si susseguono sono molti (dalla polemica sui «panni sporchi» alla lotta con l' integralista Luigi Gedda, dai rapporti con il Centro Cattolico Cinematografico ai tagli delle scene definite «stazioni di monta taurina») e la sensazione è che, alla fine, il politico soverchi il cinefilo, secondo la raccomandazione di Sonego: «Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni dovete andare da Andreotti. Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila».

Mattia Feltri per la Stampa il 10 gennaio 2020. Una sfilata da luci della ribalta: il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lassù innalzato anche da Bettino Craxi perché «fu il mio fedele ministro dell' Interno», diffonde una nota sulle sue responsabilità di garante della Costituzione, e dunque un condannato è un condannato, che ci posso fare? Il premier Massimo D' Alema va dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e il procuratore ascolta, e ascolta, e poi, anche lui col faro della legalità a illuminargli il cammino, dice niente da fare, un condannato è un condannato, fate un decreto e assumetevene la responsabilità; ma siccome non erano più i tempi - e non lo sarebbero più stati - del primato della politica, D' Alema non procedette oltre il baciamano all' ordine costituito. Il capolavoro di situazionismo fu del segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, che dopo aver accolto in profonda contrizione le suppliche della figlia Stefania, trasse di tasca due rosari e glieli porse, perché ne facesse dono al padre, insieme all' assicurazione di un posto di privilegio nelle sue preghiere. Così Bettino Craxi restò a morire ad Hammamet, nella latitanza dorata il cui culmine fu la sfacciataggine (ironia, per chi non l' avesse capito) d' essere operato per il cancro al rene nello squallore dell' ospedale militare, dove un medico del San Raffaele si incaricò di reggere la lampada per fare luce sul lavorio chirurgico nelle viscere dell' ex presidente. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, sul Bettino Craxi che ventuno anni prima era stato sorpreso da Gennaro Acquaviva con la testa tra le mani, in lacrime, sotto gli occhi una lettera di Aldo Moro spedita dalla «prigione del popolo». Si era decisa, essenzialmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, la linea della fermezza, che poi era la linea dello star fermi nel senso di non far nulla. Riuscì benissimo, tutti fermi mentre Moro veniva processato e assassinato dalle Brigate rosse, e mentre Craxi in solitaria (di già) predicava una trattativa che lo portò più vicino ai sequestratori di quanto non sia riuscito ai servizi segreti, probabilmente impegnati nella stessa interpretazione della fermezza proposta dal governo. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, fino a questo libro asciutto e opulento di Marcello Sorgi (Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, pp. 111, 20), di cui l' esempio è il breve e fulminante ritratto dei due protagonisti - Bettino Craxi in conferenza stampa interpellato vanamente dall' esordiente Sorgi: non risponde e chiede se ci siano altre domande (era un suo crudele modo di svezzare i giovani interlocutori), e Aldo Moro che riceve a Palazzo Chigi don Riboldi e una delegazione di bambini reduci del terremoto del Belice, a cui non promette nulla di quanto non possa mantenere, poiché la politica non è mestiere per fanfaroni. La tesi del libro arriva quando deve arrivare, piazzata al termine del racconto di vite parallele con spietatissima noncuranza: «Entrambi finiscono schiacciati, stritolati in un meccanismo che non si accontenta di distruggerli politicamente, ma presuppone la loro eliminazione fisica. Salvarsi non gli è consentito». È l' ignominia di uno Stato capace di venire a patti coi peggiori ceffi del pianeta per spuntarne un vantaggio purchessia, e di colpo intriso di rigore etico se si tratta di tendere la mano - per umanità e amor proprio, mica per altro - a due leader sbilanciati sull' abisso. Ma se per Moro lo si sa, e lo si è scritto spesso, dirlo di Craxi è un passo verso l' assennatezza perduta ventotto anni fa, quando all' arresto di Mario Chiesa e all' apertura della falsa rivoluzione giudiziaria si decise - nel senso più biblico dell' iniziativa - di fare del capo socialista «il grande capro espiatorio», come scrive Sorgi con una secchezza irrimediabile. Il suo cadavere per la nostra catarsi: che oscenità. Ciechi e autolesionisti, ci si è tutto riversato addosso, com' era prevedibile e previsto: con Craxi, spiega Sorgi, si «consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una pietra sopra». La politica che non sa più resistere a un procuratore, ceduta al servaggio dell' opinione pubblica, svilita a materiale di controllo via social ora per ora, e dunque immeschinita e disarmata, in balìa del capriccio. Una repubblica fondata sulla menzogna e che, in un mare di menzogne, naufraga amaramente.

Gian Carlo Caselli per il “Corriere della Sera” del 06 gennaio 2020. Quarant’anni fa, la mattina del 6 dicembre 1980, Cosa nostra  uccideva a Palermo Piersanti Mattarella, esponente di rilievo della Democrazia cristiana , convinto sostenitore di una fase politica di apertura a sinistra. Come presidente della Regione Sicilia aveva avviato una coraggiosa  campagna moralizzatrice all’interno del suo partito.  Con l’obiettivo di allontanare i personaggi più compromessi con la mafia  e di ripristinare la legalità nella gestione della pubblica amministrazione, specie in materia di appalti.  Il delitto rientra nella impressionante  sequenza degli  omicidi “politico-mafiosi” degli anni  Settanta-Ottanta con cui i corleonesi di Riina puntavano ad una egemonia totalizzante. La  decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali. Una terribile ecatombe di politici, magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti, uomini della società civile. Mai, in nessun paese al mondo, vi è  stato qualcosa di simile. L’omicidio Mattarella si caratterizza perché assume i contorni di uno psico-dramma di  cui la classe dirigente nazionale appare come la vera protagonista e destinataria, rivestendo tutte le parti del dramma. Quella  ( facente  appunto capo a Mattarella) di chi vorrebbe inaugurare una nuova stagione di auto-riforma della politica, rescindendo ogni rapporto con la mafia ed i suoi alleati. Quella opposta, formata dai peggiori esponenti della corrente andreottiana della D.C. regionale, fra i quali i cugini Salvo e l’on. Lima ( che insieme a Giulio Andreotti – come accertato nel processo di Palermo a suo carico – addirittura parteciparono a summit con i vertici di Cosa nostra per discutere il “caso” Mattarella). Quella pavida o anche solo  rassegnata alla sua impotenza, che fu lo stesso Mattarella a dover constatare ,  quando – pochi mesi prima  di essere ucciso  - si recò a Roma per denunziare il suo progressivo grave  isolamento, ricavandone la sensazione  di essere ormai consegnato al suo destino di morte ( di ciò ha testimoniato nel 1981, nel processo per l’omicidio Mattarella, la sua capo di gabinetto). Aspetto – quest’ultimo – intuito con acume e ben messo a fuoco  da Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio riflettendo sull’omicidio Mattarella ebbe a sostenere  che “si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato” (intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982, pochi giorni prima della strage mafiosa di via Carini del 3 settembre , nella quale il generale-prefetto di Palermo fu ucciso insieme alla moglie e all’autista). L’omicidio Mattarella smentisce tragicamente i ricorrenti  tentativi di leggere i rapporti fra mafia e politica  ispirandosi a schemi di  riduzionismo se non proprio di negazionismo. Per ridurre tali rapporti a fenomeno localistico, quasi un capitolo di folklore regionale, addebitabile agli appetiti di pochi esponenti del ceto politico-amministrativo. O addirittura  liquidandoli parlando di indagini “creative” o in mala fede, donde un  sillogismo semplice quanto pericoloso: se le indagini sono inquinate, il nesso mafia-politica si può tranquillamente demolire. Per contro, la realtà,  processuale e storica, non sancisce affatto  una modesta configurazione periferica, ma i tempi della storia del Paese. Tessere di un mosaico nazionale segnato anche da orride cadenze di morte. In questo contesto l’omicidio di Piersanti Mattarella risulta essere un catalizzatore storico del rapporto mafia-politica, perché racchiude ed esalta in sé tutti i connotati storici ( le “invarianti strutturali” di tale rapporto), dall’Unità i giorni nostri. E si ricongiunge, con una inquietante linea di continuità, al primo omicidio politico mafioso di rilievo nazionale della storia unitaria, quello di Emanuele Notarbartolo già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. Un omicidio che (al pari di quello di  Mattarella)    portò appunto  alla luce  - proiettandolo sullo scenario nazionale- il rapporto mafia-politica, come elemento strutturale del  fenomeno mafioso e asse portante degli equilibri politici nazionali.

Lettera di Stefano Andreotti al “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. Caro direttore, leggo sul Corriere del 6 gennaio, fra gli articoli relativi al quarantesimo anniversario della tragica morte di Piersanti Mattarella, che il dottor Caselli nuovamente parla di incontri di mio padre con i vertici di Cosa nostra «come accertato nel processo di Palermo a suo carico». Tali incontri sarebbero avvenuti in due occasioni nel 1980 secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia. Il racconto non fu ritenuto attendibile nella sentenza di primo grado che giunse all’assoluzione, mentre una diversa valutazione ne fu data dai giudici di secondo grado, che si pronunciarono essenzialmente proprio su tale base in modo diverso. La sentenza di Cassazione che scrisse la parola fine alla vicenda processuale sostiene che «i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse», ma non rientra tra i compiti della Cassazione «operare una scelta tra le stesse»; la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi nella sentenza della Corte di Appello «è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivisi», sicché agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello «sono contrapponibili altri dotati di uguale forza logica». Ne consegue che dalla lettura integrale delle sentenze non si arriva alle conclusioni di certezza sopra richiamate. Si può aggiungere poi che il sopra menzionato racconto di Marino Mannoia (personaggio detto il chimico per la dimestichezza nel trattare la droga e autore di un numero non precisato di omicidi) contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella, che «dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate, ai quali non lesinava i favori» successivamente avrebbe «mutato la propria linea di condotta», dichiarazioni che chi ritiene veritiero quanto riferito su mio padre si guarda bene dal riportare nella loro interezza. Un cordiale saluto.

Dagospia il 12 gennaio 2020.  LETTERA DI GIAN CARLO CASELLI A DAGOSPIA. Il 6 gennaio, anniversario del feroce omicidio di mafia che 40 anni prima aveva colpito a Palermo l’onesto e coraggioso  presidente della regione Piersanti Mattarella, il “Corriere della sera” ha pubblicato un mio articolo al riguardo. Il figlio del senatore Giulio Andreotti, Stefano, è intervenuto a sua volta con una lettera pubblicata dal “Corriere” l’8 gennaio, nella quale mi si  addebita, in sostanza, di aver omesso di riportare alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia. Di questa lettera “Dagospia” si è occupato due volte, dapprima riproducendola integralmente come “bombastica”, poi riprendendo un articolo di Simone Di Meo per “La verità” che sviluppa quanto scritto da Stefano Andreotti. In questa sede mi limito ad osservare (tralasciando ogni altra possibile considerazione) che nell’articolo pubblicatomi dal Corriere, come si può constatare dal testo che allego, di Francesco Marino Mannoia non si fa neppure il nome. Mi sembra quindi evidente come non vi sia materialmente spazio per anche solo ipotizzare -  in tale contesto - una qualche omissione di sue dichiarazioni. RingraziandoLa per l’attenzione, saluto cordialmente Gian Carlo Caselli.

Simone Di Meo per “la Verità” il 9 gennaio 2020. Il pentito della discordia. Con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della Sera, Stefano Andreotti, figlio del Divo Giulio, ha contestato all' ex procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, una ricostruzione unilaterale della storia giudiziaria del papà in occasione del quarantennale della tragica uccisione (6 gennaio 1980) di Piersanti Mattarella, fratello del capo dello Stato, Sergio. Caselli ha ricordato due presunti incontri di Andreotti con i vertici di Cosa nostra - «come accertato nel processo di Palermo» - sulla base delle dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, ex trafficante mafioso (soprannominato «mozzarella») considerato tra i più attendibili collaboratori di giustizia siciliani. Incontri diversamente valutati dai giudici di primo grado (che assolsero il politico Dc) e da quelli d'Appello (che invece lo condannarono). Sulla impossibilità di stabilire - a differenza di quanto sostiene Caselli - la veridicità di quei summit, il figlio di Andreotti ha ricordato che il racconto di Marino Mannoia «contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella» di cui Caselli ha però evitato di parlare. Quali? Stefano Andreotti non dice di più, ma La Verità è in grado di rivelare i contenuti di un verbale, risalente al 3 aprile 1993, in cui l'ex boss parla del fratello del presidente della Repubblica proprio all' allora procuratore di Palermo. L'incontro tra Mannoia e Caselli, accompagnato dal pm Guido Lo Forte, avvenne presso l'Us attorney's office del distretto meridionale di New York alla presenza del procuratore Patrick Fitzgerald. Il pentito spiegò che «già Bontate Paolino (ex capo di Cosa nostra prima dell' avvento dei Corleonesi, ndr) intrattenne rapporti con Mattarella Bernardo (il papà di Sergio e Piersanti, ndr), il quale era assai vicino a Cosa nostra, anche se non ricordo se fosse un uomo d'onore [] Successivamente sfruttando il canale rappresentato dai cugini Salvo Antonino e Ignazio - uomini d'onore della famiglia di Salemi, essi pure «riservati» -, Bontate instaurò intimi rapporti anche con Mattarella Piersanti [] Escludo comunque che quest' ultimo fosse un uomo d'onore, poiché altrimenti l'avrei appreso». Per Marino Mannoia, l'ex presidente della Regione Sicilia fu ammazzato perché Mattarella «dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate Stefano, ai quali non lesinava i favori, successivamente aveva mutato la propria linea di condotta [] voleva rompere con la mafia, dare "uno schiaffo" a tutte le amicizie mafiose e intendeva intraprendere un' azione di rinnovamento del partito della Democrazia cristiana in Sicilia». Attraverso Salvo Lima, «del nuovo atteggiamento di Mattarella» - si legge ancora nel verbale - fu informato anche «l'onorevole Giulio Andreotti» che «scese a Palermo, e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, l' onorevole Lima, l' onorevole Nicoletti». La riunione - aggiunse il collaboratore di giustizia - «avvenne in una riserva di caccia». Successivamente, Bontate avrebbe raccontato a Marino Mannoia che «tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere" [] Alcuni mesi dopo, fu deciso l'omicidio». Al papà del capo dello Stato fa riferimento pure un altro collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo. Sentito in un processo per diffamazione a mezzo stampa, come riportato dal Fatto quotidiano e da Antimafia2000, Di Carlo ha rivelato che «il vecchio Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato, mi fu presentato come uomo d' onore di Castellammare del Golfo. Me lo presentò tra il '63 e il '64 il dc Calogero Volpe, affiliato alla famiglia di Caltanissetta, che aveva uno studio a Palermo». Il verbale del 3 marzo 2016 riprende alcune dichiarazioni già rese nel corso degli anni Novanta dall' ex padrino considerato pienamente attendibile dalla sentenza per l'omicidio del giornalista Mauro Rostagno. A un altro fratello dell'inquilino del Quirinale, Antonino Mattarella, si fa riferimento invece in una vecchia misura di prevenzione a carico di don Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana. «La transazione (per l'acquisto di un immobile nella Capitale, ndr) risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)», è scritto nel provvedimento giudiziario così come riportato dal Fatto quotidiano nell' edizione dell' 11 febbraio 2015. Antonino Mattarella non è però mai stato indagato in quel procedimento. Tranchant il giudizio di Stefano Andreotti, contattato dal nostro giornale: «Citare l'incontro di mio padre riferito da Marino Mannoia, che va a raccontare queste balle anche su Mattarella, mi lascia un po' sbalordito... ma no, non voglio dire sbalordito. Non credo sia molto aderente ricordare le cose così, ecco».

Andreotti, politica e pellicole. Che bravo il "Divo" fra i divi. Censure, leggi ad hoc e passione: il rapporto tra il cinema e lo statista democristiano raccontato da Tatti Sanguineti. Luigi Mascheroni, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale.  Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un'imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l'altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell'incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L'opera è unica, ma in due parti. Una racconta l'Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l'Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l'affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c'è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l'industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull'odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall'egemonia culturale comunista da una parte e dall'invasione produttiva americana dall'altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l'Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l'attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l'anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l'imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l'incremento di risorse economiche dall'estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell'incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre. E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev'essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa? «Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all'anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall'Europa all'America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d'accordo con lui.

·        Il Divo Re.

Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti. Giulio Andreotti avrebbe compiuto 100 anni il 14 gennaio prossimo, è morto il 6 maggio del 2013 a 94 anni, scrive Francesco Damato l'8 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Morto il 6 maggio del 2013 alla già bella età di 94 anni, Giulio Andreotti ne avrebbe compiuto 100 il 14 gennaio prossimo. E ce l’avrebbe fatta a tagliare vivo il traguardo del secolo se non gli fosse toccato di vivere l’ultimo tratto della sua lunga esistenza e carriera politica nell’amarezza di un “prescritto”. Così ne parlano ancora i suoi avversari a causa della conclusione ibrida, diciamo così, del processo per mafia subìto fra il 1993 e il 2004: undici anni durante i quali egli si divise, con la puntualità che lo distingueva, fra gli impegni parlamentari e quelli di imputato. La conclusione processuale fu davvero anomala, diversamente dalla chiara assoluzione dall’accusa di avere fatto addirittura uccidere nel 1979 Mino Pecorelli, un giornalista molto introdotto nei servizi segreti che lo attaccava da tempo, e lo aveva per primo chiamato con tono sarcastico “divo Giulio”: un antipasto del “Belzebù” affibbiatogli poi da altri. Fu una conclusione ibrida, quella del processo di mafia, perché, dopo l’assoluzione in primo grado, una sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ribadì la bocciatura dell’accusa di concorso esterno ma estinse per prescrizione quella di associazione a delinquere, derubricatagli per fatti accertati, almeno agli atti giudiziari, ma avvenuti prima del 1980. E guai a fermarsi al grido trionfante della sua avvocata Giulia Bongiorno – “Assolto! Assolto! – senza ricordare la coda della prescrizione. Minimo minimo, si riceve una lettera puntigliosa di Gian Carlo Caselli: l’allora capo della Procura palermitana, ora in pensione dopo avere diretto la Procura di Torino, che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare il politico fra i più famosi d’Italia. E non certo colpito da una damnatio memoriae neroniana, visto che nel centenario della sua nascita, quasi coincidente con quello appena celebrato dell’aula di Montecitorio realizzata da Ernesto Basile, gli sono dedicate due mostre: una nella Biblioteca Spadolini del Senato e un’altra nel complesso monumentale di San Salvatore in Lauro. Più che dimenticarlo, molti rimpiangono Andreotti, viste anche le prove date da molti dei suoi successori politici. Non fu un capriccio o un abuso indagarlo e processarlo, scrive e dice Caselli contestando al “suo” imputato, anche da morto, di non avere rinunciato alla prescrizione, e di avere quindi accettato un verdetto che lo avrebbe inchiodato alle sue cattive frequentazioni in Sicilia. Dove la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana era spesso un porto di mare, subentrando per consistenza a quella di Amintore Fanfani. Ma Andreotti era diventato quello che era – senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, di cui 8 alla Difesa, 5 agli Esteri, 3 alle Partecipazioni Statali, 2 alle Finanze e una al Tesoro e all’Interno- senza bisogno della spinta delle tessere del partito raccolte dal suo luogotenente nell’isola Salvo Lima. Che fu peraltro assassinato proprio dalla mafia per ritorsione contro la conferma in Cassazione delle condanne del maxi- processo che aveva segnato davvero una svolta nella lotta a Cosa Nostra. Esso porta il nome di Giovanni Falcone, poi ucciso pure lui dalla mafia nella strage di Capaci. Andreotti aveva creato le sue fortune politiche a Roma, la sua Roma, facendo la gavetta come sottosegretario e braccio destro di Alcide De Gasperi: ripeto, Alcide De Gasperi. Per la cui successione egli assistette, in disparte, alla lotta fra Amintore Fanfani e Attilio Piccioni, piegato quest’ultimo dalla disavventura giudiziaria del figlio Piero per la vicenda di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica dopo un festino, vicino alla tenuta presidenziale di Castel Porziano. L’assoluzione di Piero, al solito, arrivò a danni collaterali irreparabilmente compiuti. La forza politica di Andreotti crebbe man mano non per le tessere – ripeto- della sua corrente, chiamata Primavera e poi confluita in altre più grandi, ma per le sue capacità di relazione, per il grande e sistematico seguito elettorale che raccoglieva, per la dimestichezza con la grande e piccola burocrazia, civile e militare, incontrata nella lunga attività ministeriale, per la fiducia di cui godeva in Vaticano, sotto tutti i Papi, ma soprattutto per la sua inconfondibile capacità di muoversi in Parlamento. Della cui vera “centralità” egli era un cultore: altro che quella quasi toponomastica – nel senso delle sedi della Camera e del Senato nel centro di Roma – alla quale si è ora ridotta, specie con l’approvazione forzata del bilancio del 2019 e l’inseguimento grillino della democrazia digitale. La dimestichezza totale, fisica e politica, di Andreotti con la Camera la scoprì a sue spese nel 1955 l’allora segretario della Dc Fanfani. Che aveva candidato al Quirinale, per la successione a Luigi Einaudi, il dichiaratamente ateo presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto al Parlamento in Lombardia come indipendente nelle liste democristiane. Alle obbiezioni di Mario Scelba, presidente del Consiglio in carica, e dell’ex sottosegretario di De Gasperi, il segretario dello scudo crociato reagì a suo modo, irrigidendosi. Quando le votazioni a scrutinio segreto dimostrarono che la dissidenza democristiana era molto più numerosa e forte delle sue previsioni, Fanfani si accorse che il più attivo e astuto nelle operazioni di contrasto dietro le quinte era proprio Andreotti. Che pur di sbarrare la strada, a quel punto, a Merzagora non tanto come ateo ma come candidato inamovibile del segretario democristiano, si adoperò con destrezza e successo per l’elezione al Quirinale di un collega di partito di sinistra come il presidente della Camera Giovanni Gronchi, definito dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat “il Peron di Pontedera”, la città toscana dove Gronchi appunto era nato. L’elezione di Gronchi a Camere naturalmente riunite avvenne alla quarta votazione – la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi – con ben 658 voti su 833 parlamentari presenti: “quasi all’unanimità”, commentò l’interessato con Indro Montanelli compiacendosi del fatto che quel risultato lo rendeva “indipendente da ogni partito e fazione”. Alla fine, quindi, Fanfani aveva dovuto non arrendersi ma capitolare. E ad Andreotti non gliela perdonò mai. Uno scontro fra i due, e sempre sulla strada del Quirinale, si consumò anche alla fine del 1971, quando l’allora presidente del Senato Fanfani volle essere candidato alla Presidenza della Repubblica dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani, cresciuto peraltro nella sua scuderia. I cosiddetti franchi tiratori contro il “nano maledetto”, come qualcuno scrisse sulla scheda annullata nello scrutinio, si sprecarono a tal punto che per disarmarli si dovette imporre ai parlamentari democristiani la pubblica astensione: essi dovettero sfilare più volte davanti alle urne di Montecitorio senza deporvi alcuna scheda, mentre dietro le quinte si trattava per un cosiddetto “cambio di cavallo”. L’unico a sottrarsi a quel rito umiliante fu l’ormai ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi votando dichiaratamente per Aldo Moro. Furente, Fanfani affrontò alla buvette non solo il giornalista Vittorio Gorresio, della Stampa, avvertendo la mano e gli interessi della Fiat contro la propria candidatura, ma anche il braccio destro di Andreotti. Che era Franco Evangelisti: un uomo franco di nome e di fatto. Peraltro in occasione della sconfitta di Fanfani nella corsa al Quirinale, chiusasi con l’elezione invece di Giovanni Leone, il capogruppo democristiano della Camera era proprio Andreotti, approdato a quella carica nel 1968 defilandosi dalle lotte scatenatesi nel partito dopo quasi un decennio di leadership morotea. Da capogruppo democristiano a Montecitorio Andreotti seppe instaurare col maggiore partito di opposizione, il Pci, un rapporto di grande sintonia personale e parlamentare, sopravvissuto non a caso anche alla breve fase politica in cui egli guidò, fra il 1972 e il 1973, un governo con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini. Fu proprio negli anni di Andreotti alla testa del gruppo democristiano che maturò e fu varata una significativa riforma del regolamento della Camera sostanzialmente a quattro mani: le altre due furono quelle del capogruppo comunista Pietro Ingrao. Si deve anche o soprattutto a quei rapporti politici e alla sua padronanza dei meccanismi parlamentari se nel 1976, dopo un turno elettorale conclusosi con due vincitori – come disse Moro parlando appunto del suo partito e del Pci- incapaci ciascuno di realizzare una maggioranza contro l’altro e condannati quindi ad accordarsi per garantire la tenuta della democrazia, la Dc propose e i comunisti accettarono il ritorno di Andreotti a Palazzo Chigi. Erano tempi anche di grave crisi economica e di ordine pubblico. Andreotti guidò fra il 1976 e la fine dell’orribile 1978 – orribile davvero, col rapimento di Moro e il suo barbaro assassinio per mano delle brigate rosse- non uno ma due governi di cosiddetta solidarietà nazionale, entrambi monocolori democristiani: uno sostenuto dai comunisti con l’astensione e l’altro con tanto di voto di fiducia negoziato su un programma. E curiosamente, ma non troppo considerando la sua abilità, tramontata la collaborazione parlamentare col Pci vissuta con particolare sofferenza dal Psi di Bettino Craxi, toccò proprio ad Andreotti guidare le ultime due edizioni del cosiddetto pentapartito condizionato dai socialisti. E prima ancora era toccato proprio ad Andreotti il ruolo di ministro degli Esteri di Craxi, dal 1983 al 1987, gestendo insieme vicende assai complesse: a cominciare dal sequestro palestinese della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo e dallo scontro con la Casa Bianca di Ronald Reagan, nella notte di Sigonella, per la cattura dei responsabili. Tutto poi si sarebbe infranto, insieme con la prima Repubblica, contro gli scogli giudiziari di Tangentopoli, e trappole annesse. Lo stesso Andreotti, sopravvissuto alle varie “guerre puniche” – come lui le chiamava ironicamente – attribuitegli dagli avversari di turno, passando dall’affare petroli a quello della P2 e a Sindona, solo per citarne alcune, dovette subire i già ricordati undici anni di processo per mafia. Eppure nel 1992, nella corsa al Quirinale interrotta dalla strage mafiosa di Capaci, egli stette, o sembrò, sul punto di arrivare sul colle più alto di Roma. L’allora suo portavoce Pio Mastrobuoni racconta ancora agli amici della tarda serata in cui, affacciatosi allo studio di Andreotti per chiedergli se fra le soluzioni “istituzionali” annunciate per il Quirinale dopo la strage di Capaci (omicidio Falcone) potesse essere considerata anche la sua, essendo lui presidente del Consiglio, si sentì anticipare dal suo rassegnatissimo capo l’epilogo che stava maturando dietro le quinte. Stava maturando, in particolare, la promozione del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, preferito dai comunisti sul Colle al presidente del Senato Giovanni Spadolini, che pure aveva già cominciato a predisporre il discorso di insediamento, perché con Scalfaro al Quirinale sarebbe stata spianata la strada di Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio. E pensare che una volta, quando gli chiesi, negli anni ancora verdi della sua carriera politica, a quale carica aspirasse di più fra quelle mai avute – segreteria del partito e Presidenza della Repubblica – Andreotti mi disse: “Presidente della Camera”. Per un pelo, non essendo più alla Camera, Andreotti mancò la presidenza del Senato nel 2006, due anni dopo l’epilogo pur ibrido del processo di mafia e sette prima della morte. Ne fu proposta la candidatura anche da Silvio Berlusconi a garanzia del centrodestra e del centrosinistra, che avevano quasi pareggiato elettoralmente. Ma Romano Prodi, che aveva prenotato Palazzo Chigi per il suo secondo passaggio, breve e sfortunato quanto il primo, non ne volle sapere. E alla presidenza di Palazzo Madama fu eletto Franco Marini, uno dei pochi seguaci del compianto Carlo Donat- Cattin che con Andreotti aveva saputo andare sempre d’accordo nella Dc, sino a ereditarne il ruolo di capolista a Roma nelle elezioni politiche del 1992: le ultime della prima Repubblica. Alle quali Andreotti, abitualmente supervotato, non aveva avuto bisogno di partecipare perché ormai senatore a vita, nominato nel 1991 dal capo dello Stato Francesco Cossiga avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti”, secondo la formula solenne dell’articolo 59 della Costituzione.

GIULIO ANDREOTTI RICORDA LE ELEZIONI DEL 1948: "MENO MALE CHE ABBIAMO VINTO NOI".  Scrive Francesco Persili su "Recensito". Democristiano sagace e manovriero, deputato dell’Assemblea Costituente, già presidente della Fuci (dopo Aldo Moro), sottosegretario dal 1947 al 1953 alla presidenza del Consiglio con De Gasperi, parlamentare, ministro dell’Interno (1954), delle Finanze (1955), del Tesoro (1958-59), della Difesa (1959, 1966, 1974) dell’Industria (1966-1968), del Bilancio (1974-1976), degli Esteri (1983-1989). Per ben sette volte presidente del Consiglio tra il 1972 e il 1991, il senatore a vita Giulio Andreotti è dal secolo scorso un protagonista di prima fila della vita politica italiana. “Divo Giulio” (per la stampa), Belzebù (per gli avversari), il dominus della Prima Repubblica sempre sulla scena e continuamente al centro di polemiche, accuse e processi, ricorda: “A parte le guerre puniche mi è stato attribuito di tutto”, dal concorso esterno in associazione di stampo mafioso all’uso spregiudicato dei servizi segreti deviati. In questa legislatura ha rischiato di diventare Presidente del Senato ed ora si batte contro il progetto di regolamentazione giuridica delle coppie di fatto (c.d. Dico). Giornalista professionista, aforista brillante (“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”) scrittore, tiene una rubrica su “Il Tempo” e scrive libri di successo (1953: fu legge truffa? è il titolo della sua ultima fatica letteraria edita da Rizzoli). Abbiamo incontrato il Senatore al termine della proiezione di “Cosacchi a San Pietro”, l’esperimento di controfattualità sulle elezioni del 1948 presentato da “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli.

Presidente Andreotti, le elezioni del 18 aprile 1948 furono un momento decisivo per la Storia dell’Italia repubblicana. Cosa sarebbe successo se avessero vinto i rossi?

Giulio Andreotti: “Il fatto che non abbia vinto il Fronte popolare lo considero una grande fortuna per l’Italia. Paradossalmente la lista unica ci aiutò molto. Nel 1946 il numero di rappresentanti eletti all’Assemblea Costituente da PCI e PSI che si presentarono separati fu molto superiore al nostro. Mi ricordo che Nenni aveva trovato, come al solito, una sintesi molto efficace ed aveva coniato il motto “Marciare divisi per colpire uniti”. La campagna elettorale mi ricordo che fu molto difficile. I comunisti erano più bravi di noi nel mobilitare le masse. Pajetta addirittura frequentò la scuola di dizione per essere più efficace quando parlava. Per le elezioni del 1948 scelsero di fare un fronte unico della sinistra con i socialisti. Il matrimonio non funzionò, meno male”.

Ci potevano essere le condizioni per realizzare in Italia un governo delle sinistre senza vincoli di cieca obbedienza nei confronti di Mosca e del Cominform?

G.A.: “Non credo ci fossero i margini per mantenere equidistanza da Mosca e da Washington. L’Italia non era un’altra cosa. La via italiana al socialismo difficilmente si sarebbe realizzata. Quando Nenni andò in Unione Sovietica a ricevere il premio Stalin tornò e riferì a De Gasperi ciò che aveva detto a Stalin: “Mi batto per un’Italia neutrale”. Ma quello fece cenno di no con il capo e lo fulminò: “L’Italia al massimo può non essere oltranzista”.

La campagna elettorale del 1948 fu durissima. Lo scontro non era tra DC e Fronte Popolare ma tra due opposte e inconciliabili visioni del mondo. Dopo il 18 aprile la situazione peggiorò. L’avversario era un nemico. Ci furono caccie all’uomo, scontri di piazza. Si arrivò a un passo dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti. Che ricordo ha del segretario del PCI?

G.A.: “Mi sento responsabile dell’attentato a Togliatti. Quel giorno ero io che parlavo al banco del governo. Si discuteva di una questione che riguardava la fornitura di carta per i giornali. Ero di una noia tale che Palmiro Togliatti decise di andarsi a prendere un gelato da Giolitti. Uscì dalla Camera e Pallante gli sparò. Rimanemmo con il fiato sospeso, poi si riprese e tornò al suo posto. Non ho avuto modo di frequentarlo spesso, né di conoscerlo a fondo. Non dava molta confidenza. Ricordo solo che una volta durante una riunione nella crisi del governo Bonomi mi raccontò del suo viaggio in Mongolia, e mi disse che le notizie o gli venivano taciute o gli giungevano con incredibile ritardo. Mi disse, insomma, che i comunisti italiani contavano poco”.

Il documentario di Minoli si apre con una confessione dell’agente della Cia Milton Friedman che ammette i brogli per favorire la vittoria della DC alle elezioni del 1948. Cosa c’è di vero?

G.A.: “Non ho mai visto un dollaro americano. Feci una campagna senza tanti mezzi, tirando la cinghia e con una macchina scassata con cui muovevo per stradine impervie. Tutta questa pioggia di aiuti americani non la ricordo. Non facevo il tesoriere della Democrazia Cristiana. Per fortuna, non mi sono mai occupato di finanziamenti…”.

Con quale stato d’animo ha ripercorso le storie tese di quei giorni che tennero a battesimo l’Italia repubblicana, democratica e filo-atlantica?

G.A.: “Ho visto questo filmato con grande commozione e partecipazione. Il fiato lungo è lo stesso di quando passammo 3 giorni e 3 notti chiusi dentro Montecitorio a discutere l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico mentre fuori impazzava la protesta. Ci fu un tentativo di invasione. Il ministro degli Interni Scelba, una persona preziosa per la democrazia in Italia, aveva dato l’ordine di lasciare fare fino a Piazza Colonna e di intervenire solo qualora i manifestanti avessero cercato di forzare quel blocco. Ci fu molta tensione. Un deputato, Giolitti mi pare, uscì e prese una botta in testa. Quando me lo riferirono risposi: “Un buon motivo per restare dentro”. Una deputata rimase male per questa cosa e per anni non mi parlò.

Come sarebbe andata a finire con un governo delle sinistre?

G.A.: “Non so se sarei stato libero. Probabilmente avremmo corso il rischio di finire come in Cecoslavacchia. La gioia per lo scampato pericolo è grande. Nonostante tutta la buona volontà delle sinistre sarebbe stato inevitabile appiattirsi sulle posizioni dell'Unione Sovietica. (Francesco Persili)

Giulio Andreotti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) è stato un politico e scrittore italiano. È stato tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito protagonista della vita politica italiana per gran parte della seconda metà del XX secolo. Senatore a vita dal 1991, è stato il candidato più votato in Italia in tutte le elezioni politiche fino al 1991 tranne in sei casi: nel 1948 e nel 1953, quando fu secondo in preferenze al solo Alcide De Gasperi, nel 1963 e nel 1968, quando fu secondo ad Aldo Moro, e nel 1976 e nel 1983, quando fu secondo ad Enrico Berlinguer. Andreotti è stato anche il politico con il maggior numero di incarichi governativi nella storia della repubblica.

Fu infatti: sette volte presidente del Consiglio tra cui il governo di «solidarietà nazionale» durante il rapimento di Aldo Moro(1978-1979), con l'astensione del Partito Comunista Italiano, e il governo della «non sfiducia» (1976-1978);

ventisei volte ministro: otto volte Ministro della difesa; cinque volte Ministro degli affari esteri; tre volte Ministro delle partecipazioni statali; due volte Ministro delle finanze, Ministro del bilancio e della programmazione economica e Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato; una volta Ministro del tesoro, Ministro dell'interno (il più giovane della storia repubblicana, a soli trentacinque anni), Ministro per i beni culturali e ambientali (ad interim) e Ministro delle politiche comunitarie.

Dal 1945 al 2013 fu sempre presente nelle assemblee legislative italiane: dalla Consulta Nazionale all'Assemblea costituente, e poi nel Parlamento italiano dal 1948, come deputato fino al 1991 e successivamente come senatore a vita. Fu presidente della Casa di Dante in Roma.

A cavallo tra XX e XXI secolo subì un processo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d'appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l'organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.

Biografia. Infanzia, istruzione e adolescenza. Nato a Roma da genitori originari di Segni, all'età di due anni rimase precocemente orfano di padre e in seguito perse anche Elena, l'unica sorella: «Mia madre è rimasta vedova giovanissima. Con mio fratello maggiore e mia sorella più grande, che morì appena si iscrisse all'università, vivevamo presso una vecchissima zia, classe 1854, nella casa nella quale io sono nato.»

Frequentò il ginnasio al "Visconti" e il liceo al "Tasso". Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza per ragioni da lui così illustrate: «Appena presa la licenza liceale, fu doveroso per me non gravare più su mia madre, che con la sua piccola pensione aveva fatto miracoli per farci crescere, aiutata soltanto dalle borse di studio di orfani di guerra. Rinunciai, in fondo senza rimpianti eccessivi, a scegliere la facoltà di Medicina, che comportava la frequenza obbligatoria; mi iscrissi a Giurisprudenza e andai a lavorare come avventizio all'Amministrazione Finanziaria [...].» Si laureò in Giurisprudenza con il voto di 110/110 presso l'Università di Roma il 10 novembre del 1941. Iniziò a soffrire fin da ragazzo di forti emicranie, mentre la sua gracile costituzione fisica giustificò infauste previsioni che Andreotti ricorda così: «Aiutato dal mio carattere ad apprezzare anche il lato comico delle vicende, dimenticai presto la terribile prognosi del medico militare del Celio, Ricci, che, dichiarandomi non idoneo al corso allievi ufficiali per «oligoemia e deperimento organico», aveva aggiunto il pronostico che a suo giudizio non mi restavano più di sei mesi prima di passare a vita migliore.» Andreotti raccontò della funesta previsione del medico militare anche ad Oriana Fallaci: «Alla visita medica militare, il medico responsabile mi diede sei mesi di vita; quando diventai ministro della difesa lo chiamai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui!»

Inizio della carriera politica. Intraprese la carriera politica già nel corso degli studi universitari, durante i quali entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, che era l'unica associazione cattolica riconosciuta nelle università durante il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe dirigente democristiana. Andreotti ha spiegato così questo inizio: «[...] stavo studiando diritto della navigazione, andai in biblioteca e un impiegato mi disse: «Lei non ha niente di meglio da fare?». Io mi seccai un po'. Qualche giorno dopo mi chiama Spataro, che era stato presidente molti anni prima, e stava riorganizzando la Democrazia Cristiana, e ci ritrovo quel signore dei libri che mi dice: "De Gasperi vuole il suo nome". [...] De Gasperi io non lo conoscevo. Mi venne detto: "Vieni a lavorare con noi". Allora ho cominciato, e non era affatto nei miei programmi. Poi, si sa, la politica è una specie di macchina nella quale se uno entra non può più uscirne.» Riguardo all'impiegato della biblioteca, Andreotti ha spiegato: «Io non sapevo chi fosse quel signore. Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici». Infatti nella FUCI Andreotti era giunto, nel luglio 1939, a ricoprire l'incarico di direttore di Azione Fucina (la rivista degli universitari cattolici), proprio mentre Aldo Moro assumeva la presidenza dell'associazione. Quando nel 1942 questi fu chiamato alle armi, Andreotti gli successe nell'incarico di presidente, incarico che mantenne sino al 1944: «Con Moro ci conoscevamo fin dai tempi della Fuci, lui era presidente, io dirigevo l'Azione fucina, e quando lui lasciò la carica presi il suo posto. Quindi una dimestichezza che risaliva a prima della politica. [...] ho sempre avuto con lui una relazione molto facile, proprio perché c'era questo legame universitario.» Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. Durante la guerra scrisse per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista. Partecipò anche alla redazione clandestina de Il Popolo. Il 30 luglio 1944, al Congresso di Napoli, fu eletto nel primo Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana e il 19 agosto divenne responsabile dei gruppi giovanili del partito; in tale carica verrà confermato dal Congresso nazionale del Movimento giovanile DC di Assisi del gennaio 1947.

L'elezione all'Assemblea costituente e le prime responsabilità di governo. Fu De Gasperi ad introdurlo nella scena politica nazionale, designandolo quale componente della Consulta Nazionale nel 1945 e successivamente favorendone la candidatura alle elezioni del 1946 all'Assemblea Costituente. I due si conobbero casualmente nella Biblioteca Vaticana dove De Gasperi aveva un modesto impiego concessogli dal Vaticano per consentirgli di sfuggire alla miseria cui lo aveva condannato il regime fascista e fra i due si sviluppò un intenso rapporto nonostante le profonde differenze caratteriali. All'inizio degli anni quaranta monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI), già assistente ecclesiastico della Fuci e sostituto della segreteria di Stato, aveva notato il giovane Andreotti e fu lui nel maggio 1947 ad esortare De Gasperi perché lo nominasse sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, «lasciando di stucco un'intera schiera di vecchi popolari che affollavano l'anticamera politica della nuova Italia».

Sottosegretario nei Governi De Gasperi. Andreotti divenne così parte del quarto governo De Gasperi, venendo poi eletto nel 1948 alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone, in quella che sarà la sua roccaforte elettorale fino agli anni novanta. Nel 1952, in vista delle elezioni amministrative del comune di Roma, Andreotti diede prova delle sue capacità diplomatiche e della credibilità conseguita agli occhi del Papa negli anni della presidenza della Fuci scrivendo a Pio XII un appunto che finalmente lo persuase – dopo che non vi erano riusciti né Montini né De Gasperi – a rinunciare all'"operazione Sturzo" (cioè all'idea di un'alleanza elettorale che coinvolgesse anche i neofascisti). Durante gli anni del sottosegretariato alla presidenza del consiglio, Andreotti si occupa della produzione cinematografica italiana. La legge Andreotti del 1949 prevede la difesa del cinema italiano dalla saturazione del mercato americano imponendo una tassa sul doppiaggio; inoltre, le sceneggiature delle produzioni italiane dovevano essere sottoposte all'approvazione governativa per aggiudicarsi finanziamenti pubblici. Tra il 1947 e il 1950, Andreotti si avvale della collaborazione del frate domenicano Felix Morlion per fondare un neorealismo cattolico. Questo doveva combattere il pericolo neorealista, colpevole di dare una rappresentazione negativa dell'Italia all'esterno. Questo tentativo risulterà nella presentazione di due film di Roberto Rossellini alla 11ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Francesco, giullare di Dio e Stromboli (Terra di Dio). Andreotti mantenne la carica di sottosegretario alla Presidenza in tutti i governi De Gasperi e poi nel successivo governo Pella, fino al gennaio 1954. Ad Andreotti furono affidate numerose e ampie deleghe (fra le altre, quelle per lo spettacolo, lo sport, la riforma della pubblica amministrazione, l'epurazione). A lui si devono in particolare la rinascita del CONI che si pensava di sciogliere o liquidare dopo la caduta del regime fascista, l'autonomia finanziaria dello sport attraverso il collegamento con il totocalcio e la rinascita della industria cinematografica nazionale e il rilancio degli stabilimenti di Cinecittà devastati nell'immediato dopoguerra (Legge n. 958 del 29 dicembre 1949) fornendo inoltre prestiti alle imprese di produzione italiane e adottando misure per prevenire la dominazione del mercato da parte delle produzioni americane. È del 1953, fra l'altro, il cosiddetto "veto Andreotti" contro il blocco della importazione di calciatori stranieri. Le benemerenze acquisite da Andreotti in questi anni nei confronti dello sport italiano gli verranno riconosciute il 30 novembre 1958 con la nomina all'unanimità, da parte del Consiglio nazionale del Coni, a presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Roma 1960. Molti anni dopo, nel 1990, Andreotti verrà inoltre insignito del prestigioso Collare all'Ordine olimpico, la massima onorificenza del Comitato Olimpico Internazionale. Seguirono altri innumerevoli incarichi, tanto che Andreotti fu presente in quasi tutti i governi della Prima Repubblica. Nel periodo 1947-54 fu inoltre il responsabile politico dell'Ufficio per le zone di confine (Uzc), che tramite ingenti fondi riservati finanziava partiti, giornali ed enti di vario tipo per difendere l'italianità in delicate zone di frontiera come Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta. L'Uzc svolgeva poi una serie di altre attività di natura amministrativa e burocratica relative al rapporto con le minoranze linguistiche e all'attuazione dell'autonomia (escludendo il Friuli Venezia Giulia). Perciò ebbe un ruolo preminente come raccordo tra Roma e la classe dirigente locale.

Gli anni cinquanta e sessanta. Ministro delle Finanze. Nel 1954 è per la prima volta ministro, entrando a far parte del breve primo governo Fanfani come Ministro degli interni. Successivamente diventa Ministro delle Finanze nei governi Segni I e Zoli. Nel novembre 1958 Andreotti fu nominato presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi del 1960 che si sarebbero tenute a Roma. Nell'agosto del 1958 rimane coinvolto per «mancata vigilanza» nel Caso Giuffrè sulla base di un "memoriale", poi rivelatosi falso. Dall'accusa venne completamente scagionato da una commissione di inchiesta parlamentare. Viene invece censurato da una Commissione d'inchiesta parlamentare del 1961-1962 su alcune irregolarità nei lavori dell'aeroporto di Fiumicino.

La nascita della corrente andreottiana. Quasi parallelamente all'affermarsi della segreteria nazionale di Amintore Fanfani, la corrente andreottiana nasce in quegli anni, ereditando nella capitale i quadri della destra clericale che nel 1952 s'erano coalizzati – con la benedizione del Vaticano – dietro il tentativo di espugnare il Campidoglio con la lista civica guidata da Luigi Sturzo. Essa esordì con la campagna di stampa che implicò Piero Piccioni (figlio del vicesegretario nazionale Attilio Piccioni) nella vicenda del caso Montesi. Eliminata così la vecchia guardia degasperiana dalla guida del partito, gli andreottiani aiutarono la neonata corrente dei dorotei a conseguire la maggioranza necessaria per scalzare Fanfani dalla Presidenza del consiglio e dalla segreteria della Democrazia cristiana. Si trattava di «una sorta di curva Sud del partito [...] anche se marginale all'interno della DC», che Franco Evangelisti battezzò «corrente Primavera».

Ministro della Difesa. Nei primi anni sessanta fu Ministro della difesa quando esplose lo scandalo dei fascicoli SIFAR e del Piano Solo, un presunto progetto di golpe neofascista, promosso, secondo il settimanale L'Espresso, dal generale missino Giovanni De Lorenzo. L'incarico ministeriale rivestito da Andreotti fu onerato, da una successiva legge, della responsabilità della distruzione dei fascicoli, con cui il Sifar aveva schedato importanti politici italiani, di cui aveva composto dei ritratti poco favorevoli. Gli si addebita perciò una responsabilità quanto meno oggettiva nel fatto che – come è stato accertato – quei fascicoli fossero stati prima fotocopiati e poi passati alla P2 di Licio Gelli, che aveva portato quei materiali all'estero, a dispetto del fatto che la commissione parlamentare d'inchiesta avesse deciso di far bruciare a Fiumicino, nell'inceneritore, i fascicoli abusivi. Quasi a rimarcare la differente cifra della sua condotta, Francesco Cossiga, che nella veste di sottosegretario alla Difesa procedette parallelamente all'espunzione con omissis del rapporto della commissione ministeriale d'inchiesta del generale Manes sul Piano Solo, ha sempre pubblicamente vantato il suo intervento censorio, dichiarando di averlo svolto nella piena legalità. Nel dicembre del 1968 viene nominato capogruppo della Dc alla Camera, incarico che manterrà per tutta la legislatura fino al 1972.

Anni settanta. Andreotti presidente del Consiglio. Nel 1972, Giulio Andreotti diventa per la prima volta Presidente del Consiglio, incarico che reggerà, alla guida di due esecutivi di centro-destra, fino al 1973. Il primo governo non ottenne la fiducia e fu costretto a dimettersi dopo 9 giorni. Tale governo è stato dunque finora quello col più breve periodo di pienezza dei poteri nella storia della Repubblica Italiana, e il terzo a vedersi rifiutato il voto di fiducia dal parlamento, fatto che provocò le prime elezioni anticipate della Repubblica. L'esecutivo, tuttavia, rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno 1972, per un totale di 128 giorni, ovvero 4 mesi e 8 giorni. Dopo le elezioni del 1972, che videro la Democrazia Cristiana rimanere più o meno stabile, si formò il secondo governo Andreotti che fu il primo esecutivo dal 1957 a vedere l'organica partecipazione di ministri e sottosegretari liberali, rappresentò un tentativo di resurrezione del centrismo di degasperiana memoria, e fu anche noto come governo Andreotti-Malagodi. L'esecutivo cadde per il ritiro dell'appoggio esterno dei repubblicani al governo sulla materia della riforma televisiva: "casus belli" delle problematiche delle televisioni locali, fu la vicenda di Telebiella. La battuta usata dalle opposizioni fu "Andreotti inciampò nel cavo di Telebiella e cadde".

Dopo la fine dei primi due governi Andreotti. Andreotti continuò a ricoprire incarichi di primo piano, nei successivi esecutivi. Nel ruolo di Ministro della difesa, rilascia una famosa intervista a Massimo Caprara con cui rivela le coperture istituzionali dell'indagato per la strage di piazza Fontana, Guido Giannettini (Andreotti sarà prosciolto, nel 1982, dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di Giannettini). Fra il 1974 e il 1976 ricopre il ruolo di Ministro del bilancio e della programmazione economica nei governi Moro IV e Moro V.

Il compromesso storico. Nel 1976, il governo, presieduto da Aldo Moro, perse la fiducia dei socialisti in Parlamento e il Paese si avviò alle elezioni anticipate, che videro un forte aumento del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer. La Democrazia Cristiana riuscì, anche se solo per pochi voti, a restare il partito di maggioranza relativa. Forte del buon risultato elettorale, Berlinguer propose, appoggiato anche da Aldo Moro e Amintore Fanfani, di dare concretezza al compromesso storico, ovvero alla formazione di un governo di coalizione fra PCI e DC, per superare la difficile situazione dell'Italia dell'epoca, colpita dalla crisi economica e dal terrorismo.

Il «governo della non sfiducia». Fu proprio Andreotti ad essere prescelto per guidare il primo esperimento in questa direzione: egli varò nel luglio del 1976 il suo terzo governo, detto della «non sfiducia» perché, pur essendo un monocolore, si reggeva grazie all'astensione dei partiti dell'arco costituzionale (tutti tranne il MSI-DN). L'azione legislativa di questo inedito esperimento si concretizzò in diverse riforme come la legge sul diritto d'uso fondiario (che introdusse severi vincoli di costruzione oltre che nuovi criteri per gli espropri dei terreni e nuove procedure di pianificazione delle costruzioni), la legge per il controllo da parte dello stato sugli affitti e le condizioni di locazione, l'aggiornamento ad hoc delle prestazioni in denaro nel settore agricolo e l'estensione del collegamento della pensione con il salario industriale a tutti gli altri sistemi pensionistici non gestiti dall'INPS. Questo Governo cadde però nel gennaio del 1978.

La solidarietà nazionale. A marzo la crisi fu superata grazie alla mediazione di Aldo Moro, che promosse un nuovo esecutivo, sempre un monocolore democristiano ma sostenuto dal voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI (votarono contro solo MSI, PLI e SVP). Il nuovo governo fu nuovamente affidato ad Andreotti e ottenne la fiducia in Parlamento, il 16 marzo, lo stesso giorno del sequestro di Moro. La drammatica situazione fece nascere la cosiddetta solidarietà nazionale, in nome della quale il PCI accettò di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti avesse rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei Ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin, apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale). In qualità di Presidente del Consiglio, Andreotti decise di portare avanti la linea della fermezza, rifiutando ogni trattativa che avrebbe significato il riconoscimento delle BR da parte dello Stato (come sua controparte) dopo l'uccisione della scorta del presidente democristiano. A sostegno della linea dura del Governo si schierarono Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, ossia i due uomini che avrebbero avuto il maggiore interesse alla sopravvivenza di Moro, in quanto interprete e garante della politica di solidarietà nazionale, mentre fu criticata dalla famiglia dell'ostaggio. Nel suo memoriale, scritto mentre era prigioniero, Moro riserva giudizi durissimi su Andreotti. Dopo l'omicidio di Moro, nel maggio del 1978, l'esperienza della solidarietà nazionale proseguì, portando all'approvazione di importanti leggi come il piano decennale per l'edilizia residenziale (legge n. 457 del 5 agosto 1978), la legge Basaglia riguardante i manicomi e la riforma sanitaria che istituiva il servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 23 dicembre 1978). A livello europeo Andreotti stimolò la nascita del Fondo europeo di sviluppo regionale. La richiesta dei comunisti, per una partecipazione più diretta alle attività di governo, fu respinta dalla DC: di conseguenza Andreotti si dimise nel giugno del 1979. In quel periodo teorizzò la «strategia dei due forni», secondo cui il partito di maggioranza relativa avrebbe dovuto rivolgersi alternativamente a PCI e PSI, a seconda di chi dei due «facesse il prezzo del pane più basso». Sta di fatto che ciò produsse per lungo tempo un pessimo rapporto con Bettino Craxi: esso s'era degradato quando Andreotti aveva fissato le elezioni anticipate del 1979 ad una settimana dalle europee di quell'anno (disattendendo la richiesta del PSI, che riteneva di avere maggiori chance di trascinamento con la coincidenza tra le due date), ed era crollato definitivamente quando la vicenda di finanziamento illecito di correnti anticraxiane del PSI – che era dietro lo scandalo ENI-Petromin – fu (a torto o a ragione) ricondotta da Craxi ad ambienti andreottiani.[senza fonte] Ne scaturì il veto a incarichi di Governo per tutta la successiva legislatura (quando Craxi disse che «la vecchia volpe è finita in pellicceria»): si trattò dell'unico quadriennio della Prima Repubblica (oltre al periodo 1968-1971) in cui Andreotti non rivestì alcun incarico di Governo.

Anni ottanta e novanta. Ministro degli affari esteri. Nel 1983 Andreotti assume la carica di Ministro degli affari esteri nel primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo. All'interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi - prevalentemente surrettizi, come quando sussurrò ad un giornalista di essere stato «... in Cina con Craxi e i suoi cari...»; l'antagonismo fu anche oggetto di satira e di moti di spirito della più variegata origine. Ma nella gestione filoaraba della politica estera fu oggettivamente in consonanza con Craxi, schierandosi con lui - durante la crisi di Sigonella - nella decisione di sottrarre alla giustizia americana i terroristi che avevano dirottato la nave Achille Lauro, assassinando un passeggero paralitico.

Gli ultimi governi Andreotti. Anche grazie a questi sviluppi, svolse successivamente un ruolo di tramite fra Craxi e la Democrazia Cristiana, i cui rapporti erano tutt'altro che idilliaci. Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita erano all'ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell'esistenza del triangolo CAF (Craxi-Andreotti-Forlani): quando tale intesa sottrasse a De Mita la guida del governo, nel 1989, fu chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio, incarico che resse fino al 1992. Si trattò di un governo dal decorso turbolento: la scelta di restare alla guida del governo, nonostante l'abbandono dei ministri della sinistra democristiana - dopo l'approvazione della norma sugli spot televisivi (favorevole alle emittenze private di Silvio Berlusconi, reso "oligopolista" dalla legge Mammì) - non impedì il riemergere di antichi sospetti e rancori con Craxi (che alluse ad Andreotti quando disse che dietro il ritrovamento delle lettere di Moro in via Montenevoso vedeva una "manina", guadagnandosi la sua piccata replica che forse c'era stata una "manona"); la scoperta di Gladio e le "picconate" del presidente Francesco Cossiga lo videro destinatario di pressioni istituzionali fortissime, cui replicò con la consueta levità di spirito dichiarando che era «... meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Nel 1992, finita la legislatura, Andreotti rassegnò le sue dimissioni, non mancando di chiosare che facendo le valigie aveva trovato nei suoi cassetti alcune lettere del Presidente della repubblica ancora chiuse. Eppure a quel Presidente dovette la sua sopravvivenza politica nella sua quarta età: l'anno prima era stato nominato senatore a vita proprio da Cossiga. Priva di radicamento territoriale al di fuori del Lazio (dove si valeva di proconsoli territoriali come Franco Evangelisti prima e Vittorio Sbardella poi, oltre che di "specialisti" nelle varie istituzioni come il magistrato di Cassazione Claudio Vitalone e il vescovo di Curia monsignor Angelini), la corrente andreottiana si alleava periodicamente con correnti espresse da altre realtà territoriali: da ultimo, negli anni ottanta, furono organici all'andreottismo, tra le tante, le correnti napoletane di Enzo Scotti e Paolo Cirino Pomicino, quella bresciana di Giovanni Prandini, quella milanese di Luigi Baruffi, quella emiliano-romagnola di Nino Cristofori, quella Toscana di Tommaso Bisagno, quella piemontese di Silvio Lega, quella calabrese di Camelo Puija, quella palermitana di Salvo Lima e quella catanese di Nino Drago; al di là delle espressioni geografiche, un lungo tratto di cammino insieme compirono anche le frange politiche di Comunione e Liberazione, pur mantenendo un ampio margine di autonomia. Dopo la nomina a Senatore a vita, nel Lazio la corrente fu sottoposta a forti tensioni per capire su chi dovessero convergere le forze. Lo scontro fu particolarmente aspro e portò Vittorio Sbardella ad uscire dal Gruppo. Alle prime elezioni politiche successive alla nomina come senatore a vita, quelle del 1992, lo stesso Sbardella otterrà un lusinghiero risultato, arrivando secondo ad un'incollatura da Franco Marini. In Regione sedeva dal 1990 il nipote di Andreotti (per parte di moglie) Luca Danese.

Senatore a vita. In quello stesso anno, il 1992, Andreotti era considerato uno dei candidati più papabili per la carica di presidente della repubblica, ma la sua corrente non si espose mai con una candidatura esplicita che portasse alla conta dei voti, preferendo l'esercizio di un'estenuante interdizione che tenne sulla corda gli altri candidati del CAF (fino a "bruciare", in due memorabili scrutini di metà maggio, la candidatura di Arnaldo Forlani, che non riuscì a raggiungere il quorum per meno di trenta voti). Quella di Andreotti, che era studiata come una candidatura da far emergere dopo l'affossamento delle altre, divenne però a sua volta del tutto impraticabile dopo l'assassinio del giudice Giovanni Falcone a Palermo: il fatto che due mesi prima fosse stato assassinato a Palermo Salvo Lima, della medesima corrente di Andreotti, fu giudicato in Parlamento un evento di scarsa presentabilità pubblica in una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia. Così si passò a considerare altri nomi più "istituzionali": prima il presidente del Senato Giovanni Spadolini e poi, con successo, quello della Camera Scalfaro, sostenuto anche dalla sinistra. Il 27 marzo 1993 ricevette un avviso di garanzia dalla Procuradi Palermo con l'accusa di aver favorito la mafia, tramite la mediazione del suo rappresentante in Sicilia, Salvo Lima. Il Senato, dietro sua sollecitazione, concesse l'autorizzazione a procedere e il processo accertò la collaborazione di Andreotti con la criminalità organizzata fino al 1980, facendo così scattare la prescrizione. Lo stesso anno dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, viene indagato come mandante dell'omicidio Pecorelli dalla Procura di Perugia. Sarà assolto definitivamente dalla Corte di cassazione dieci anni dopo. Dall'ottobre del 1993, Giulio Andreotti diviene direttore del mensile internazionale 30 giorni nella Chiesa e nel Mondo, in vendita solo nelle edicole intorno al Vaticano e nelle librerie Paoline, ma a cui è possibile abbonarsi. Allo scioglimento della Democrazia Cristiana, nel 1994, aderì al Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, partito che lascerà nel 2001, in seguito alla nascita della Margherita.

Anni 2000 e 2010. Nel febbraio del 2001 diede vita, insieme a Ortensio Zecchino e Sergio D'Antoni, al partito d'ispirazione cristiana denominato Democrazia Europea, che ottenne un risultato modesto alle elezioni e confluì nell'UDC nel 2002.

Candidato Presidente del Senato. Le elezioni politiche del 2006, che videro una vittoria di misura dell'Unione di Romano Prodi, con al Senato un leggero vantaggio di seggi tra lo schieramento vincente e la Casa delle Libertà, fecero discutere sui futuri assetti istituzionali e sulla necessità di ricompattare un'Italia sostanzialmente divisa in due. Perciò, da alcuni settori del centro-destra era giunta la proposta di assegnare la Presidenza del Senato al senatore a vita Andreotti, ritenuto capace di mediare tra i due schieramenti e tra le due anime del Paese; il tentativo fallì nelle votazioni del 28-29 aprile 2006. Il senatore a vita, sulla proposta del centro-destra di candidarsi alla guida di palazzo Madama, aveva dichiarato: «Deciderò sul momento» se accordare o meno la fiducia all'eventuale governo Prodi II. Sull'ipotesi di una sua elezione alla Presidenza del Senato, in un'intervista al quotidiano La Stampa del 22 aprile 2006, si rese disponibile purché «... in un'ottica di conciliazione». L'elezione di Andreotti, secondo alcune fonti, avrebbe dovuto ottenere i consensi di un'ampia fetta dei moderati del centrosinistra, fra La Margherita e l'Udeur di Mastella, mettendo in crisi la scelta, data ormai per certa, del diellino Franco Marini. L'elezione nei primi scrutinii non diede luogo ad una proclamazione del vincitore Marini, per alcuni voti annullati dalla Presidenza in quanto riconoscibili. Ma l'elezione, tenutasi il 29 aprile, al terzo scrutinio, portò al ruolo di presidenza del Senato Franco Marini, con 165 voti (quelli della maggioranza più quelli di alcuni senatori a vita e, verosimilmente, alcuni provenienti dai gruppi di minoranza della CdL), contro le 156 preferenze raccolte dall'ex-presidente del consiglio tra le file del centro-destra e dal senatore a vita Francesco Cossiga. Andreotti - che aveva commentato con la consueta arguzia la vicenda dei voti annullati - fu il primo a riconoscere che la coalizione di centrosinistra - proprio con il voto sul Presidente del Senato - aveva dimostrato di essere in grado di avere una maggioranza dei voti per esprimere un governo. Il 19 maggio 2006, Andreotti accordò la fiducia al governo Prodi II, assieme agli altri sei senatori a vita, suscitando vive polemiche nella Casa delle Libertà, che aveva sostenuto la sua candidatura alla Presidenza del Senato. Successivamente, si consultò spesso con il nuovo Presidente del Consiglio riguardo alla politica estera, che continuava a seguire in qualità di membro della Commissione Affari esteri del Senato.

Gli ultimi anni. Il 21 febbraio 2007 suscitò scalpore la sua astensione in Senato alla risoluzione della maggioranza di centrosinistra, relativa alle linee guida di politica estera illustrate dal Ministro degli esteri Massimo D'Alema al Senato della Repubblica, che non ottenne il quorum di maggioranza, iniziando così la crisi di Governo che portò il presidente del Consiglio Romano Prodi a rassegnare, in serata, le dimissioni dal suo incarico (poi respinte) al presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il senatore a vita aveva annunciato il giorno prima il suo voto favorevole. L'indomani dichiarò ai mass media che il suo cambio di scelta fu dovuto al discorso di D'Alema, teso a marcare fortemente la discontinuità della politica estera del centrosinistra rispetto all'esecutivo dell'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; dichiarò inoltre il suo totale disaccordo su di una politica tesa da un lato ad osannare il leader di Forza Italia e dall'altro a demonizzarlo. Alcuni tra commentatori e giornalisti insinuarono che l'astensione di Andreotti fosse dovuta alla tensione politica tra il Vaticano e il Governo Prodi, sorta circa il disegno di legge sui DICO. Andreotti partecipò in seguito, nel maggio 2007, ad una manifestazione "in difesa della famiglia" (Family Day). Il 29 aprile 2008, a seguito della rinuncia dei senatori Rita Levi-Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, Andreotti ha svolto le funzioni di presidente provvisorio del Senato della Repubblica in quanto senatore più anziano. Ha quindi diretto le votazioni che hanno portato all'elezione del senatore Renato Schifani alla seconda carica dello Stato. Il suo notevole archivio cartaceo (3.500 faldoni, dal 1944 in poi) che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio di piazza in Lucina, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo ed è stato utilizzato da Andreotti anche successivamente. Dopo il 30 dicembre 2012, giorno della scomparsa di Rita Levi-Montalcini, è stato il più anziano senatore in carica. Muore il 6 maggio 2013 nella sua casa di Roma; per volontà della famiglia le esequie si sono svolte in forma privata. È sepolto presso il cimitero monumentale del Verano di Roma.

Controversie. Vicende giudiziarie. Rapporti con Cosa nostra. Andreotti è stato sottoposto a giudizio a Palermo per associazione a delinquere di stampo mafioso (fino al 28 settembre 1982) e associazione mafiosa (dal 29 settembre 1982 in avanti). Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste (in base all'articolo 530 comma 2 c.p.p.), la sentenza d'appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all'associazione per delinquere» (Cosa nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è stato invece assolto. La sentenza della Corte d'appello di Palermo del 2 maggio 2003, in estrema sintesi, parla di una «autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». Interrogato dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell'allora Ministro degli Esteri Andreotti, ad un incontro tra lo stesso politico e quello che solo successivamente sarà identificato come boss Andrea Manciaracina, all'epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Salvatore Riina. Lo stesso Andreotti ammise in aula l'incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con problemi relativi alla legislazione sulla pesca. La sentenza di appello definì «inverosimile» la «ricostruzione dell'episodio offerta dall'imputato». Pur confermando che Andreotti incontrò uomini appartenenti a Cosa nostra anche dopo la primavera del 1980, il tribunale stabilì che mancava «qualsiasi elemento che consentisse di ricostruire il contenuto del colloquio». La versione fornita da Giulio Andreotti, secondo il tribunale, potrebbe essere dovuta «al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato». Sia l'accusa sia la difesa presentarono ricorso in Cassazione, l'una contro la parte assolutiva, e l'altra per cercare di ottenere l'assoluzione anche sui fatti fino al 1980, anziché il proscioglimento per prescrizione. Tuttavia la Corte di cassazione il 15 ottobre 2004 rigettò entrambe le richieste confermando la prescrizione per qualsiasi ipotesi di reato fino alla primavera del 1980 e l'assoluzione per il resto. Nella motivazione della sentenza di appello si legge (a pagina 211): «Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione.» Se la sentenza definitiva fosse arrivata entro il 20 dicembre 2002 (termine per la prescrizione), avrebbe potuto dare luogo ad uno dei seguenti due esiti alternativi:

- Andreotti avrebbe potuto essere condannato in base all'articolo 416 c.p., cioè all'associazione "semplice", poiché quella aggravata di tipo mafioso (416-bis c.p.) fu introdotta nel codice penale soltanto nel 1982, grazie ai relatori Virginio Rognoni (DC) e Pio La Torre (PCI), oppure

- l'imputato avrebbe potuto essere assolto con formula piena con la conferma della sentenza di primo grado.

Nel dettaglio, il giudice di legittimità scrive:

«Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l'imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nel convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall'imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale (certamente sperato, solo parzialmente conseguito) e di interventi extra ordinem, sinallagmaticamente collegati alla sua disponibilità ad incontri e ad interazioni (il riferimento della Corte territoriale è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza.»

La stessa sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che Andreotti ha incontrato almeno due volte l'allora capo dei capi di Cosa Nostra Stefano Bontade.

Le rivelazioni dei pentiti. Leonardo Messina ha affermato di aver sentito dire che Andreotti era «punciutu», ossia un uomo d'onore con giuramento rituale. Baldassare Di Maggio raccontò di un bacio tra Andreotti e Totò Riina. Successivamente questo non venne provato e si ritiene che abbia attirato tutta l'attenzione del processo su questo ipotetico fatto suggestivo, allontanandola dalle testimonianze di circa 40 pentiti. Giovanni Brusca ha affermato: «Per quel che riguarda gli omicidi Dalla Chiesa e Chinnici, io credo che non sarebbe stato possibile eseguirli senza scatenare una reazione dello Stato se non ci fosse stato il benestare di Andreotti. Durante la guerra di mafia c'erano morti tutti i giorni. Nino Salvo mi incaricò di dire a Totò Riina che Andreotti ci invitava a stare calmi, a non fare troppi morti, altrimenti sarebbe stato costretto ad intervenire con leggi speciali» e «Chiarisco che in Cosa Nostra c'era la consapevolezza di poter contare su un personaggio come Andreotti».

Omicidio Piersanti Mattarella. Nel 2004 la Cassazione conferma le accuse nei confronti di Andreotti. La sentenza, pur assolvendolo per alcuni reati e prescrivendolo per altri, afferma che Andreotti era a conoscenza delle intenzioni della mafia di uccidere il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, tanto che aveva incontrato il capo di Cosa Nostra Stefano Bontade prima che l'omicidio avvenisse, per esprimere la sua contrarietà. Quando Piersanti Mattarella venne assassinato, Andreotti si recò nuovamente in Sicilia e incontrò ancora Stefano Bontade per chiarire la vicenda. La Cassazione ha affermato: «Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontade della scelta di sopprimere il presidente della Regione.» Dopo l'omicidio, Andreotti non riferì agli inquirenti le informazioni su Stefano Bontade, responsabile dell'omicidio.

Omicidio Pecorelli. Andreotti è stato anche processato per il coinvolgimento nell'omicidio di Mino Pecorelli, avvenuto il 20 marzo 1979. Secondo i magistrati investigatori, Andreotti commissionò l'uccisione del giornalista, direttore della testata Osservatore Politico (OP). Pecorelli – che aveva già pubblicato notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli SIFAR sotto la sua gestione alla Difesa – aveva predisposto una campagna di stampa su finanziamenti illegali della Democrazia Cristiana e su presunti segreti riguardo il rapimento e l'uccisione dell'ex Presidente del Consiglio Aldo Moro avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse.

In particolare, il giornalista aveva denunciato connessioni politiche dello scandalo petroli, con una copertina intitolata Gli assegni del Presidente con l'immagine di Andreotti, ma accettò di fermare la pubblicazione del giornale già nella rotativa. Il pentito Tommaso Buscetta testimoniò che Gaetano Badalamenti gli raccontò che «l'omicidio fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica. In primo grado nel 1999 la Corte d'assise di Perugia prosciolse Andreotti, il suo braccio destro Claudio Vitalone (ex Ministro del Commercio con l'estero), Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, il presunto killer Massimo Carminati (uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari) e Michelangelo La Barbera per non aver commesso il fatto (in base all'articolo 530 c.p.p.). Successivamente, il 17 novembre 2002 la Corte d'assise d'appello ribaltò la sentenza di primo grado per Badalamenti e Andreotti, condannandoli a 24 anni di carcere come mandanti dell'omicidio Pecorelli. Il 30 ottobre 2003 la sentenza d'appello fu annullata senza rinvio dalla Cassazione, annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado. Per la Cassazione la sentenza d'appello si basava su «un proprio teorema accusatorio formulato in via autonoma e alternativa in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione», sostenendo che il processo di secondo grado avrebbe dovuto confermare il giudizio di assoluzione, basato su una «corretta applicazione della garanzia»[60]. I supremi giudici aggiunsero che le rivelazioni di Buscetta non si basavano su elementi concreti «circa l'identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi (intermediari, submandanti o esecutori materiali) del conferimento da parte di Andreotti del mandato di uccidere», oltre al fatto che mancava il movente e che la sentenza di condanna non aveva spiegato né come né perché l'imputato avrebbe ordinato l'omicidio del giornalista.

Caso Almerighi. È stato condannato in via definitiva il 4 maggio 2010 per aver diffamato il giudice Mario Almerighi definendolo «falso testimone, autore di infamie e pazzo».

Coinvolgimenti in altre vicende. La figura di Andreotti è oggetto di interpretazioni e polemiche di varia natura. Le numerose contestazioni che gli sono state volte hanno riguardato praticamente tutti i campi della sua attività e sono venute anche da politici e giornalisti illustri (come Indro Montanelli). In parte ciò è ascrivibile all'assolutamente inedito curriculum ministeriale accumulato, che fece sì che anche senza più rivestire cariche formali egli fosse referente di alti funzionari e burocrati ministeriali e dei servizi di sicurezza, con un coinvolgimento personale in vicende che non lo riguardavano più sotto il profilo istituzionale. Accuse e sospetti gli sono stati rivolti a proposito delle sue relazioni con la loggia P2, Cosa Nostra, la Chiesa cattolica e con alcuni individui legati ai più oscuri misteri della storia repubblicana. Tali voci - e specialmente il reato relativo al rapporto con Cosa Nostra - hanno certamente danneggiato la sua immagine pubblica: come s'è visto nel 1992, scaduto il mandato del dimissionario Francesco Cossiga come Presidente della repubblica, la candidatura di Andreotti sembrava destinata ad avere la meglio finché, durante i giorni delle votazioni di maggio, la strage di Capaci orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro.

Andreotti e Dalla Chiesa. Nel 1978, dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman, i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate Rosse appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro e parte di un memoriale dello stesso. Il Memoriale Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa ad Andreotti a causa delle informazioni contenute al suo interno. Inoltre nel 1979, pochi giorni prima di essere ucciso, Mino Pecorelli incontrò Dalla Chiesa per ricevere informazioni sul Memoriale, consegnandogli documenti riguardanti Andreotti. Nel 1982 Andreotti spinse molto sulla disponibilità di Dalla Chiesa ad accettare l'incarico propostogli di Prefetto di Palermo. In un diario, un appunto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa datato 2 aprile 1982 al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini scriveva che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose. Sempre Dalla Chiesa, nel suo taccuino personale scrive: «Ieri anche l'on. Andreotti mi ha chiesto di andare [da lui, ndr] e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori.[...] Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno [...] lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione e circostanze.»

Rapporti con Michele Sindona e Licio Gelli. Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.» Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all'allora Ministro della difesa Andreotti. Quest'ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d'Italia. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all'hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l'avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l'estradizione. Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l'omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente. Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando».., per poi precisare: «... intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto». Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona. Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamento: tale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l'Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest'ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio. Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «... fino alla sentenza del 18 marzo 1986Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto». Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona. Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene». Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto». A questo proposito, in un'intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero "padrone" della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l'Anello»: l'Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggichiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli».

Andreotti e il Golpe Borghese. A seguito delle rivelazioni sull'indagine legata al tentativo di Golpe da parte di Junio Valerio Borghese, il 15 settembre 1974Giulio Andreotti, all'epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descriveva il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti, che avviò un'inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Scoperto il progetto, Maletti fu costretto a scavalcare Miceli e a parlare direttamente con Andreotti. Andreotti per questo destituì Miceli e altri 20 generali e ammiragli. Ma nel 1991 si scoprì che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano in versione integrale. Vi erano infatti i nomi di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, per cui Andreotti stesso ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano "inessenziali" per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare "inutilmente nocive" per i personaggi ivi citati. Nelle parti cancellate vi era il nome di Giovanni Torrisi, successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; ma anche riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; infine si facevano rivelazioni circa un "patto" stretto da Borghese con alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo cui alcuni sicari della mafia avrebbero ucciso il capo della polizia, Angelo Vicari. L'esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta. Grazie al Freedom of Information Act nel 2004 si è inoltre scoperto che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti e che esso aveva l'"avallo" a condizione che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano "di garanzia". Il nome indicato sarebbe stato quello di Andreotti, che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente in pectore del governo post-golpe. Tuttavia non è accertato che Andreotti fosse al corrente dell'indicazione statunitense. Il dottor Adriano Monti, complice di Junio Valerio Borghese nel tentato golpe, afferma che il suo nome, come "garante politico" del colpo di Stato, sarebbe stato fatto da Otto Skorzeny, promotore dell' "organizzazione Geleme", una branca dei servizi segreti tedeschi durante la guerra, poi inserita tra le organizzazioni di intelligence fiancheggiatrici della CIA.

Incarichi parlamentari. Camera dei deputati:

Membro 3ª Commissione permanente: affari esteri, emigrazione;

Commissione speciale per l'esame di disegni di legge di conversione di decreti-legge;

Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il "dossier Mitrokhin" e l'attività d'intelligence italiana;

Commissione speciale per la tutela e la promozione dei diritti umani;

Delegazione italiana all'Assemblea parlamentare della organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).

Senato della Repubblica:

Membro 1ª Commissione (Affari Interni);

Commissione speciale per l'esame della proposta di legge De Francesco N.1459: "Norme generali sull'azione amministrativa";

Commissione speciale per l'esame del disegno di legge N.1264: "Norme in materia di locazioni e sublocazioni di immobili urbani" e delle proposte di legge in materia di locazioni e sfratti;

Membro 5ª Commissione (Bilancio e Partecipazioni Statali);

Membro 7ª Commissione (Difesa);

Componente della Giunta per il Regolamento;

Componente della 3ª Commissione (Esteri);

Presidente della 3ª Commissione (Esteri);

Componente della Rappresentanza italiana al Parlamento Europeo.

Sinossi degli incarichi di Governo.

La figura di Andreotti. Immagine privata. Enzo Biagi ha scritto di lui: «Non credo che nessuno lo abbia mai sentito gridare, né visto in preda all'agitazione. «Una cara zia» confida «mi ha insegnato a guardare alle vicende con un po' di distacco.» [...] Legge romanzi gialli, è tifoso della Roma, e si compera l'abbonamento, frequenta le corse dei cavalli, è capace di passare un pomeriggio giocando a carte, e l'attrice che preferiva, in gioventù, era la bionda Carole Lombard, colleziona campanelli e francobolli del 1870 [...] Padre di quattro figli, ha la fortuna che la sua prole tende a non farsi notare. E neppure la signora Livia, la moglie, di cui non si celebrano né gli abiti né le iniziative. Non c'è aneddotica sulla signora Andreotti.» Intervistato da Enzo Biagi, Andreotti ha detto della propria consorte: «ha un lieve brontolio ma, insomma, adesso ci siamo abituati, da una parte e dall'altra. [...] a mia moglie sono debitore dell'educazione dei figli che per il novantanove per cento è merito suo». È diventato nonno di diversi nipoti, tra cui un "Giulio" e una "Giulia". Sempre Biagi ha scritto di lui: «cattolico praticante, quasi ogni giorno, essendo assai mattiniero, va ad ascoltare la prima Messa». Indro Montanelli ha commentato che «in chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete» (Montanelli riferisce anche che, lette queste parole, Andreotti ribatté: «sì, ma a me il prete rispondeva»). Affermò di sentirsi in chiesa «molto vicino al pubblicano della parabola», convinto che nell'aldilà non sarebbe stato chiamato «a rispondere né di Pecorelli, né della mafia. Di altre cose sì». In proposito divenne celebre la sua battuta: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto». Ebbe come confessore, per circa vent'anni, mons. Mario Canciani, suo parroco presso la basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini. Sul proprio carattere, Andreotti ha rivelato: «Non ho un temperamento avventuroso e giudico pericolose le improvvisazioni emotive. [...] Lavorare molto m'è sempre piaciuto. È una... utile deformazione». Montanelli ha inoltre detto di lui: «Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato»; «è distaccato, freddo, guardingo, ha sangue di ghiaccio. [...] È autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì». Roberto Gervaso lo ha definito «più realista di Bismarck, più tempista di Talleyrand [...] La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte-Beuve».

Soprannomi. Ad Andreotti è stata attribuita una nutrita gamma di soprannomi: Per via della personalità carismatica e pragmatica, è stato soprannominato "Divo Giulio" dal giornalista Mino Pecorelli, prendendo spunto da Giulio Cesare, evidenziandone la "sacralità" nella politica italiana. È stato chiamato anche "Zio Giulio", sia per l'epiteto con il quale sarebbe stato conosciuto dai clan mafiosi secondo l'accusa rivoltagli al processo palermitano (Zù Giulio, secondo i pentiti), sia per il tono paterno con cui tante volte - durante la Seconda Repubblica - si è espresso nei suoi discorsi, atteggiandoli ad uno stile "super partes" proprio di uno degli ultimi Costituenti ancora in vita. È stato soprannominato Belzebù da Bettino Craxi quando, su un articolo di fondo uscito sull'Avanti! il 31 maggio 1981, lo volle distinguere da Belfagor, soprannome dato a Licio Gelli. Da ricordare anche altri soprannomi citati nel film Il divo: "Molok", "la Sfinge", "il Gobbo" e "il Papa Nero". "La Volpe" o talvolta "vecchia volpe" è un altro soprannome con cui ci si è riferiti ad Andreotti. Un ultimo appellativo usato più di frequente è anche "Indecifrabile".

Satira. Bersaglio molto frequente di strali satirici e di prese in giro sul suo difetto fisico (aveva una pronunciata quanto manifesta cifosi), ha sempre risposto con una proverbiale ironia di scuola epigrammatica romana che nel tempo lo ha reso fonte di una nutrita schiera di commenti e battute ancora oggi di uso comune (tra le più famose "Il potere logora chi non ce l'ha", citando Talleyrand). Fra i suoi imitatori più celebri vi erano Alighiero Noschese, Ugo Tognazzi, Enrico Montesano, Pino Caruso e Oreste Lionello.

Andreotti nel cinema, canzone e cultura di massa.  Secondo quanto affermato dalla figlia di Totò, Liliana De Curtis, la celebre scena del vagone letto nel film del 1952 Totò a colori, in cui l'attore napoletano duetta con l'onorevole Trombetta, interpretato da Mario Castellani, sarebbe stata ispirata da un incontro tra Totò e Giulio Andreotti, realmente avvenuto su un treno in un vagone letto.

Totò nel film Gli onorevoli del 1963 fa dire alla moglie che voterà per "Giulio" perché "non c'è rosa senza spine, non c'è governo senza Andreotti".

A lui si ispira la figura del potente politico italiano Licio Lucchesi nel film del 1990 Il padrino - Parte III di Francis Ford Coppola, al quale, tra l'altro, viene pronunciata all'orecchio la celebre frase "Il potere logora chi non ce l'ha".

Nel 1983 è apparso nel film Il tassinaro, con Alberto Sordi, dove con la solita acida ironia, suggerisce le Università a numero chiuso, in modo da risolvere il problema dei laureati disoccupati.

Ne Il commissario Lo Gatto (1986), con Lino Banfi, alla fine del film un attore imita Andreotti (di spalle) che ringrazia il commissario per il servigio reso alla DC grazie al polverone creato dalla sua inchiesta che aveva svelato il legame di una soubrette con Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio.

È probabilmente ispirato alla figura di Andreotti il brano L'uomo falco del 1978, nell'album Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti.

In una storia di Topolino del 1988, Paperino portaborse, il personaggio dell'onorevole Papeotti è la sua chiara parodia.

Nell'album del 1992 Nomi e cognomi di Francesco Baccini, gli è dedicata la canzone dal titolo Giulio Andreotti.

Sempre nel 1992, Pierangelo Bertoli include la canzone intitolata Giulio, nel suo album Italia d'oro, le cui invettive rivolte al soggetto della canzone non lasciano spazio a interpretazioni.

Nel film Giovanni Falcone del 1993 un attore lo imita (sempre di spalle) in tutte le scene in cui appare. In questa pellicola parla con la voce di Sandro Iovino.

Il senatore a vita è stato protagonista di un celebre cartone animato italiano, Giulio Andreotti (2000), firmato da Mario Verger, trasmesso più volte dalla RAI.

Nel 2000 ha prestato immagine e voce per alcuni spot della Diners, dove reinterpretava alcune sue famose frasi.

Nel film I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) di Giuseppe Ferrara, nel quale vengono ricostruite le vicende del banchiere Roberto Calvi. Il film ha avuto problemi durante la lavorazione, in quanto la magistratura ha voluto accertarsi delle ricostruzioni ancora al vaglio.

Nel 2005 recita in uno spot televisivo per la compagnia telefonica 3 Italia accanto a Claudio Amendola e Valeria Marini.

Nel 2008 la figura di Andreotti appare nella miniserie televisiva Aldo Moro - Il presidente.

Alla vita di Andreotti è ispirato il film Il divo di Paolo Sorrentino, il suo ruolo è stato interpretato da Toni Servillo e presentato al Festival di Cannes del 2008 e vincitore del Premio della giuria. Il film narra gli anni dal 1991 al 1993, cioè dalla fiducia all'ultimo governo Andreotti all'inizio del processo per associazione mafiosa. Il film è basato su documenti politici reali e libri che ne fanno riferimento; Andreotti ha definito il film "una mascalzonata".

Nella trasmissione di Maurizio Costanzo, il Maurizio Costanzo Show su Canale 5 del 17 gennaio del 2009, per festeggiare i 90 anni compiuti da Andreotti il 14 gennaio, Costanzo ricorda una frase detta in confidenza da Andreotti con la sua tipica ironia "A pensar male non si andrà in paradiso ma si dice la verità".

È stato Presidente del Comitato d'Onore del "Premio Marcello Sgarlata".

Nel corso di un'intervista nella trasmissione Questa domenica del 2 novembre 2008 ad opera di Paola Perego, mentre guardava il monitor che mostrava la copertina del calendario "Grande tra i grandi - i politici per i bambini", di cui era protagonista, il senatore ha subito un lieve malore in diretta.

Nell'album L'inizio (2013) di Fabrizio Moro è presente una canzone su Andreotti intitolata Io so tutto.

Nel film La mafia uccide solo d'estate di Pif, il protagonista, da bambino, per carnevale si vorrà travestire da Giulio Andreotti.

Onorificenze. Onorificenze italiane:

Cancelliere e Tesoriere dell'Ordine militare d'Italia — Dal 15 febbraio 1959 al 23 febbraio 1966 e dal 14 marzo 1974 al 23 novembre 1974.

Gran croce al merito della Croce Rossa Italiana.

Cittadino Onorario di Cassino (FR).

Cittadino Onorario di Maddaloni (CE).

Onorificenze straniere.

Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Santa Sede).

Balì di Gran Croce di Grazia Magistrale con fascia del Sovrano Ordine di Malta (SMOM).

Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Falcone (Islanda).

Cavaliere di Gran Croce del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio (Borbone - Due Sicilie).

Gran Croce al Merito dell'Ordine al Merito della Repubblica Federale Tedesca — 1957

Gran Croce dell'Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna) — 1985

Gran Croce dell'Ordine al Merito (Portogallo) — 31 ottobre 1987

Gran Croce dell'Ordine del Cristo (Portogallo) — 12 settembre 1990

·        I Lati privati.

Giulio Andreotti, a 100 anni dalla sua nascita ecco i lati più privati (e meno noti) del «Divo». A raccontarli è Massimo Franco, in libreria per Solferino con il saggio «C’era una volta Andreotti». Ne emerge il ritratto di un uomo profondamente legato alla propria famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo, e con una serie di passioni imprevedibili, scrive Massimo Franco il 14 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".

«Dalla culla alla tomba». A cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti, avvenuta il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. E non solo perché questo uomo-simbolo del potere è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, il mondo della Guerra fredda diviso in blocchi, e perfino il Vaticano come l’aveva conosciuto lui. «C’era una volta Andreotti» è un titolo che può suonare ambiguo. In realtà, è il certificato che consegna questo politico alla storia. Il saggio del giornalista Massimo Franco, in libreria per Solferino dal 10 gennaio, lo studia e lo analizza «dalla culla alla tomba». E ne svela anche i lati più privati e meno noti: a cominciare dalla sua famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo.

Perché non prese mai la patente. Esistono versioni diverse. Una «ufficiale»: una volta a Villa Taranto, sul Lago Maggiore (allora di proprietà di un conoscente scozzese), Andreotti salì su un’auto, ingranò la marcia, ma percorsi pochi metri prese in pieno un mucchio di neve. Seconda versione, ufficiosa: Andreotti guidava in una stradina secondaria di un paesino. Si imbattè in un corteo funebre che, vedendo la vettura avanzare a zigzag, si aprì per non aggiungere vittime. Terza versione: «Babbo non ha mai preso la patente perché era abituato fin da giovane a andare con l’autista».

Lo spacciatore di sigarette. Racconta Stefano Andreotti, uno dei figli: «Temeva che a scuola imparassimo a fumare. Allora si presentava a casa con stecche di sigarette che ci regalava convinto che in quel modo, non considerandola una trasgressione, ci saremmo stancati. Il risultato è che fino a pochi anni fa mi sparavo due pacchetti di sigarette al giorno…».

«La giacca del pervertito». Andreotti litigava raramente con la moglie. Succedeva quando la signora Livia gli faceva notare che aveva una macchia sulla camicia e doveva cambiarla. Andreotti allora protestava e si innervosiva. «Nostro padre», raccontano i figli, «indossava quello che gli preparava nostra madre. Il suo ideale non erano doppiopetto e cravatte: quella era la sua divisa da lavoro. Per vederlo felice bisognava immortalarlo col cardigan blu un po’ stazzonato; o con una veste da camera, sempre uguale, che noi figli avevamo soprannominato “la giacca del pervertito”».

Con Alberto Sordi. Quando Alberto Sordi decise di offrire una parte ad Andreotti nel suo film Il tassinaro, l’ex premier chiese alla moglie che cosa ne pensasse. «Assolutamente no», gli rispose lei, perentoria. «Non mi pare il caso». «Be’», replicò lui, «ormai abbiamo già girato la scena».

Gratta e vinci e Nougatine. A Natale, per farlo felice - rivelano i figli - bisognava regalare ad Andreotti cartocci di Nougatine, le caramelle al cioccolato con dentro scaglie di mandorla, o di Rossana ripiene di crema: ne era goloso. E i nipoti, che evidentemente lo conoscevano meglio dei figli, in una delle ultime vigilie di Natale comprarono al nonno una montagna di Gratta e vinci. Lui passò tutta la serata a grattare i tagliandini per vedere che cosa aveva vinto.

Figurine Panini ai nipoti. Era il ringraziamento dei nipoti al nonno, che quando erano piccoli dispensava album di figurine di calciatori. Ma non come farebbe chiunque. Andreotti regalava l’album insieme a tutte le figurine che servivano a completarlo. I nipoti dovevano solo tirarle fuori dalle bustine e incollarle. Andreotti era in grado di regalare loro questo piccolo lusso perché conosceva la famiglia Panini.

Slot machine coreane. Una sua interprete nei viaggi all’estero, Cristina di Pietro, racconta un altro hobby segreto di Andreotti. «Eravamo in Corea del Sud, a Seoul. Sotto il nostro albergo c’era un centro commerciale. Il presidente era sempre sotto scorta, ma un giorno sgattaiolammo fuori per vedere che cosa vendevano. Finimmo a giocare alle slot machine. Le monete coreane erano microscopiche. Lui ne metteva una e la macchinetta ne scaricava una tonnellata. Io provavo ma la slot machine se le mangiava tutte!».

Cannoli siciliani. Andreotti «era golosissimo», raccontava Giulia Bongiorno, suo avvocato nei processi per mafia, oggi Ministro per la pubblica amministrazione. «All’aeroporto di Palermo, in attesa dell’imbarco, si pappava minimo tre cannoli siciliani. Mandava Buttarelli, la sua guardia del corpo, a comprare questi cannolazzi. E come li aveva in mano, li divorava in un amen… La cosa bella è che poi telefonava alla moglie e le diceva: “Tranquilla Livia, ho mangiato leggero”. Leggero? Cannoli a strafottere».

Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

·        Aldo Moro e Giulio Andreotti.

Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.

·        Alcune Testimonianze…

Vi racconto tutti gli enigmi dell'"amerikano" Andreotti, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 12/01/2019, su "Il Giornale". Avrebbe cent'anni e lo conoscevo bene: Giulio Andreotti detto anche il divo Giulio, l'uomo sospettato di essere dietro ogni enigma anzi, di essere lui stesso l'enigma della Prima Repubblica. A lui è legata la memoria di quella democrazia italiana del Dopoguerra e dell'età dorata della ricostruzione e delle magnerie, che siamo costretti a rimpiangere visto come è andata per ora a finire. Strano uomo, sofisticato uomo. Elegante e gobbo, mai sfarzoso ma mai povero, fortissimo senso della famiglia, cattolico autentico, a messa ogni mattina all'alba, sempre presente, sempre in anticipo, sempre pronto alla battutina caustica, feroce, sminuzzante, un po' pretesca. L'ho avuto come nemico acerrimo nella Commissione Mitrokhin l'unica di cui abbia fatto parte nella sua lunghissima vita ed era alleato dei comunisti e post-comunisti. Anche il figlio mi sembra l'abbia detto recentemente: Andreotti, come del resto il suo amico-nemico Francesco Cossiga, a forza di studiare il nemico della Guerra Fredda tra occidente filoamericano e oriente filorusso, aveva finito con l'andare a letto col nemico e diventare uno di loro. Scambi di lettere, bigliettini, citazioni, festeggiamenti. Certo, ricordo Andreotti giovane deputato: tutti i conventi di suore e seminaristi e frati avevano l'ordine di votarlo. Pupillo di Pio XII Pacelli, il papa del bombardamento di Roma, si era rifugiato come Eugenio Scalfari («Italo Calvino aveva la montagna dietro casa, io avevo il Vaticano», mi disse un anno fa il fondatore di Repubblica) nelle biblioteche papali dove stazionavano fior di antifascisti e molti rifugiati ebrei. Lì conobbe Alcide De Gasperi che era l'astro nascente della Democrazia cristiana in conflitto frontale con il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti agente di Stalin fin da quando si chiamava «Ercoli» ed era il numero due del Comintern. Giulio era stato un bambino vestito di velluto e giocava nel rione Parione dietro a piazza Navona con mia madre e con mio zio. E di questi antichi compagni di giochi mi chiedeva spesso in attesa dell'inizio delle nostre sedute di Commissione sulle spie sovietiche, dove fece di tutto per sabotare i nostri lavori e ci riuscì. Poi ci vedevamo in Senato, aveva dovuto accettare per forza il ruolo di senatore a vita dal bizzarro Cossiga che così volle metterlo fuori gara e al Senato Andreotti scriveva sempre, continuamente, vecchissimo e puntualissimo, con la sua scrittura nitida, con penna stilografica sui foglietti bianchi e senza righe del Senato. Ha lasciato il velluto liso, in quel banco di prima fila, perché lui c'era sempre, era sempre il primo e quando prendeva la parola nessun presidente osava misurargli il tempo: parlava quanto gli pareva e usava le battute, l'ironia, anche e specialmente quella parlata romana delle antiche famiglie-bene, ma anche povere. Mia nonna e sua madre erano diventate amiche perché avevano i figli al collegio degli orfani e quando ero un adolescente detestavo questo politico onnipotente e setoso che saliva da noi a prendere un caffè. Era l'epoca, fine anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, in cui Giulio era considerato l'«Amerikano» con la kappa, l'uomo dei servizi segreti, della Cia, del Vaticano, della Curia, di coloro che facevano contratti con il ministero della Difesa, di cui spesso era titolare. Avendolo avuto intorno, prima come giornalista e poi come politico, per tutta la vita, credo si possa dire che Andreotti sia stato sovrastimato. Disse effettivamente tutte le frasi per cui andò celebre, prima fra tutte che «il potere logora chi non ce l'ha». Ma lui il potere lo perse. Quando era in corsa per il Quirinale, Cosa Nostra ammazzò il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima e gli stroncò le gambe. Era fuori, lo sapeva e sapeva anche quale sarebbe stato il passo successivo: lo avrebbero accusato di essere lui stesso un referente mafioso, di aver incontrato e baciato Totò Riina in un albergo a Palermo. Lo andai ad aspettare alle cinque del mattino sotto casa a Corso Vittorio la mattina successiva all'avviso di garanzia. Eravamo pochi cronistacci d'assalto e lo accompagnammo a messa. Era imperturbabile, o voleva sembrarlo. Con successo. Un po' meno imperturbabile fu quando la mia intervista al suo luogotenente romano Franco Evangelisti passata alla memoria come «'A Fra' che te serve?» costrinse il suddetto Evangelisti a dimettersi. Giulio gli sussurrò soltanto, davanti a testimoni, una invettiva: «Imbecille». Lo seguimmo anche alle sedute del processo a Palermo e Giulio era sempre uguale: puntuale, preciso, dimesso, con i suoi fogli bianchi, cordiale con i cronisti ma di poche parole. Fu assolto e considerò la cosa naturale, e giocò sempre con un certo fair play, anche se se la legava al dito per tutto, non dimenticava nulla, specialmente la vendetta quando il piatto non era più fumante. Era un grande amico di Giovanni Falcone e secondo me questa amicizia costò la vita a Falcone perché fu Andreotti me lo disse Cossiga a suggerire il nome di Falcone ormai ridotto alla direzione delle carceri in via Arenula, per aiutare i russi post sovietici a chiudere il rubinetto che trasferiva l'oro di Mosca in Sicilia dove era riciclato. Lui, Andreotti, non voleva esporsi con i comunisti da cui sperava ancora di avere il voto per il Quirinale, ma a Falcone fece avere attraverso la Farnesina i documenti necessari. E venne Capaci. E poi via d'Amelio. E al Quirinale andò Scalfaro. Fino allora il divo Giulio aveva duellato con Bettino Craxi, l'astro del socialismo anticomunista, quando però lui, Giulio, non era più anticomunista affatto. Gli americani, che avevano sostenuto la sua leadership negli anni più duri della Guerra Fredda, erano diventati sempre più diffidenti della sua politica personale che era filoaraba, filopalestinese, filosovietica. Con gli arabi aveva sempre trattato. E anche Aldo Moro aveva sempre trattato. La miracolosa incolumità italiana di fronte alle stragi arabe in Europa si deve alla politica aperturista della Democrazia cristiana che teneva i piedi in tutte le staffe: americana a Washington, amica della comunista Mosca, dei Palestinesi ovunque fosse possibile, con fortissima irritazione di Israele. Il suo rapporto con i comunisti era incestuoso: adorazione reciproca e cattiverie micidiali, accuse infamanti e poi strette di mano e abbracci coniugali. Gli americani si dice l'Fbi insieme a grandi procuratori fra cui Rudolph Giuliani oggi legale di Trump ordirono l'operazione Clean hands, in italiano «Mani Pulite» la cui vera storia nessuno ha mai voluto raccontare ma che si trova in pochi libri in inglese mai tradotti in Italia fra cui The Italian Guillotine di Stanton Burnett e Luca Mantovani. Sovrastimato come complottista, adorava essere sovrastimato. Scrittore facondo e non particolarmente attraente, pubblicò una quantità di libri di memorie e di retroscena non esplosivi. Ha avuto eleganza nel morire, restando praticamente da solo e passando un anno di crudeli sofferenze. Minimalista, minimizzava tutto ciò che lo riguardava. Della morte imminente disse solo «non sto troppo bene». È stato uno dei Dna della Repubblica e forse l'attore che lo rappresentava di più era Alberto Sordi. Detestava il film che Sorrentino fece su di lui e che lo mandò in bestia. Imprecò in silenzio e la mattina dopo si andò a confessare all'alba.

Il mio "ping pong" con Andreotti. L'uomo simbolo della Dc compirebbe 100 anni in questi giorni. Lo intervistai ed ebbi la misura di quello che per lui fosse il potere, scrive Giampaolo Pansa l'1 febbraio 2019 su Panorama. Qualcuno potrebbe chiedermi: «Caro il mio Pansa, ma quale diritto hai di scrivere anche tu sul conto di Giulio Andreotti? È vero che lo fanno in molti, dal momento che siamo nel centenario della sua nascita. Però il Bestiario non è mai stato interessato agli anniversari. È una rubrica corsara che osserva l’Italia senza troppo badare alle buone maniere...». Una risposta ce l’ho. Mi arrogo questo diritto poiché credo di essere stato l’unico giornalista a fare un incontro in diretta televisiva con quel leader politico, ritenuto da molti il più interessante, complesso e discusso fra i tanti boss dei partiti italiani. Accadde nel settembre 1982, la bellezza di trentasette anni fa, a Viareggio, durante la Festa dell’Amicizia, il parallelo bianco della Festa nazionale dell’Unità, quella del vecchio Pci. Allora avevo 47 anni, ero vicedirettore nella Repubblica di Eugenio Scalfari e anch’io assistevo sbigottito all’inferno italiano di quel tempo. I delitti si susseguivano ai delitti. L’ultimo ci lasciò tutti sbigottiti. La sera del 3 settembre la mafia assassinò il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo, ed Emanuela Setti Carraro, la sua giovane moglie. Dopo quel delitto pensai che la Festa nazionale dell’Amicizia sarebbe stata rinviata. E il mio faccia a faccia con Andreotti l’avrebbero cancellato. Ma la Dc era anche un partito dai nervi d’acciaio e non mutò programma. Arrivato a Viareggio, venni subito portato a salutare Andreotti che mi aspettava nella sua camera d’albergo. In quel momento aveva 63 anni compiuti, ma sembrava assai più giovane. Capelli nerissimi e coperti di brillantina, le famose orecchie ad ali di farfalla, la pelle del viso candida e lisca, la voce nasale, il tono freddo, ma cortese. Per rispetto verso un signore più anziano di me, gli chiesi se voleva conoscere gli argomenti sui quali intendevo interrogarlo. Mi rispose di no e replicò, serafico: «Le sue domande le ascolterò quando saremo davanti al pubblico della Festa. E proverò a rispondere». Il tendone per il nostro ping pong era stracolmo. In prima fila stava Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc, accanto a lui Clemente Mastella e Franco Evangelisti, la spalla di Andreotti. A moderare il dibattito era stato chiamato Bruno Vespa, aveva 38 anni ed era il redattore capo del Tg1. Come arbitro dell’incontro fu bravissimo perché rimase sempre in silenzio. Chiesi subito ad Andreotti se non si sentisse un po’ in colpa per avere lasciato crescere, accanto a un’Italia democratica, anche un’Italia piena di misteri e di delitti. Il mio elenco non trascurò quasi nulla: lo scandalo del banchiere Michele Sindona destinato a morire in carcere per un caffè avvelenato, l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, un eroe civile, la morte violenta del banchiere Calvi, il delitto Moro e, ultima in ordine di tempo, l’uccisione del generale Dalla Chiesa. E gli domandai se, da big della Balena bianca, non si sentisse un po’ in colpa per tutto quel sangue versato. La sua risposta fu andreottiana al massimo: «Neppure il Padreterno era riuscito a creare un paradiso terrestre senza difetti, come dimostra la faccenda della mela offerta da Eva ad Adamo. Per l’Italia bisognava fare un consuntivo sul tempo lungo. Allora si sarebbe visto che il bilancio della Democrazia cristiana era positivo». Provai a insistere: «Davvero non si sente in colpa neanche un poco?». Andreotti ribadì: «Neanche un poco». E aggiunse: «Come democratico e cristiano mi sento profondamente orgoglioso dell’Italia che abbiamo costruito dal primo dopoguerra a oggi». Gli spiegai nei dettagli perché la sua risposta non mi convinceva. Ma fu come gettare un bicchiere d’acqua contro una roccia. Giulio non si scompose né in quel momento né dopo. In seguito qualche giornale scrisse che avevo messo in difficoltà il dicì più astuto d’Italia. Ma non era vero. Ogni volta che tentavo di farlo, la roccia respingeva i miei assalti. Difese tutti i dicì siciliani, a cominciare da Salvo Lima. E respinse sarcastico le accuse di Bettino Craxi che descriveva il divo Giulio come il burattinaio di Licio Gelli, il capo della Loggia massonica P2. Quel giorno compresi che Andreotti era davvero un chiodo da mordere anche per un giornalista senza collare come il sottoscritto. Il suo stile dovrebbe essere studiato dai big politici di oggi. Parlo di signori come Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Gente che urla, minaccia, sproloquia, promette a vuoto, disprezza gli avversari ed è sempre lì a dichiarare. Per tutto il nostro lungo ping pong il grande Giulio fu imbattibile. Sempre freddo, sfuggente, ironico. Non aveva mai tradito il minimo fastidio per le mie domande. A quelle più scomode si era ben guardato dal rispondere, pur fingendo di farlo. Un vero campione nel rivoltare la frittata che gli presentavo. Ma capace di sparale grosse, con quella sua voce nasale sempre uguale, con il tono di chi offre una verità ovvia, banale, ma inconfutabile. Per quel che riguardava il potere mafioso che stava sparando e minacciando un pezzo importante dell’Italia politica, da quel ping pong ricavai un’impressione precisa su Andreotti, giusta o sbagliata che fosse. A lui non importava niente della mafia. La considerava un male incurabile contro il quale risultava inutile accanirsi. Era soltanto il suo cinismo? Oppure una constatazione dettata dalla certezza che l’umanità doveva convivere con il male? Confesso di non sapere rispondere.

·        Le lettere ed i diari di Giulio Andreotti.

Giulio Andreotti in una lettera: "Medito di abbandonare la vita politica". Era il 1953 quando Giulio Andreotti scrisse una lettera ad Alcide De Gasperi in cui espresse tutti i suoi dubbi sul continuare o meno con la politica: "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica", scrive Nicola De Angelis, Venerdì 05/04/2019, su Il Giornale. Una lettera inedita scritta di pugno da Giulio Andreotti e destinata ad Alcide De Gasperi in cui il sette volte Presidente del Consiglio si mostra titubante sul continuare o meno la sua carriera politica. Era il 1953 e il Divo scriveva così: "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica". Invece rimase in Parlamento fino alla sua morte, eletto senatore a vita e partecipando attivamente alla vita politica anche nella sua ultima fase. La lettera destinata ad Alcide De Gasperi, che si era appena ritirato, mostra un 34enne già sottosegretario di Palazzo Chigi disorientato e perduto senza più il suo mentore. Il grande statista sarebbe morto qualche anno dopo, all'età di 73 anni. Lo stesso Andreotti continua dicendo a De Gasperi, da Montecatini dove sta cercando di rimettersi in sesto: "In tutta la Dc non ci sono dieci uomini che contino e che si vogliano veramente bene". Questa è una minima parte delle 1.300 lettere che De Gasperi ha ricevuto durante la sua vita. Un progetto online chiamato Epistolario DeGasperi pubblicherà quest'oggi in archivio digitale tutto l'epistolario del grande statista della Democrazia Cristiana. Un lavoro enorme quello portato avanti da un gruppo di 35 ricercatori che hanno lavorato al progetto lanciato dalla Fondazioni De Gasperi e Kessler oltre all'istituto Sturzo che hanno girato nove stati, compresi gli Stati Uniti, e consultato oltre 120 archivi per trovare e catalogare tutte le lettere che De Gasperi ha ricevuto durante la sua vita. Lettere private, lettere in cui lo statista dava consigli politici e veri e propri enunciati economici. Tutti scannerizzati e catalogati, belle da vedere come dice Repubblica che cita l'anno 1937 in cui De Gasperi inviò una epistola a Benedetto Croce "pregandolo" di mostrargli le parole che il poeta discepolo di Carducci gli aveva inviato. Giulio Andreotti, Benedetto Croce, Giuio Salvadori e tantissimi altri nomi importanti compongono l'archivio epistolario di De Gasperi. Il presidente dell'Edizione nazionale dell'epistolario Giuseppe Tognon ha commentato: "Le lettere difficilmente mentono a chi sa leggerle. Qui ogni dettaglio apre un mondo". Tutto l'archivio sarà presentato oggi alle ore 17:30 in presenza del Presidente della Repubblica Mattarella all'Archivio storico del Quirinale. Queste epistole sono soltanto un quinto del totale delle quasi 5mila lettere che si trovano in giro.

Quando Andreotti fece sparire la foto del Papa in piscina. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Massimo Franco su Corriere.it. E’ affiorato da uno sgabuzzino come uno di quegli scrigni dimenticati che racchiudono memorie proibite. E, una volta ritrovati, restituiscono storie del passato che apparivano morte e sepolte. Ma stavolta lo “scrigno” è quello dei ricordi di Giulio Andreotti, affidati per oltre sessant’anni, dal 1944 al 2009, a circa centottanta tra agende, quaderni di appunti, piccoli bloc notes, fogli svolazzanti. «Circa» centottanta, perché la catalogazione iniziata alcuni mesi fa dai figli Stefano e Serena, custodi degli archivi dell’ex presidente del consiglio e senatore a vita, è appena cominciata. E non si può prevedere ancora quale sarà la foto di famiglia del potere democristiano e vaticano che alla fine emergerà da quelle agende che per una decina di anni hanno dormito in alcuni scatoloni di cartone, ignorate come carte senza valore. Ma scorrendo anche solo una piccola parte di quei diari, negli anni in cui eccezionalmente Andreotti non era al governo, si rafforza l’impressione di un personaggio che faceva politica estera a trecentosessanta gradi. Frequentava i papi, allora Giovanni Paolo II. E veniva percepito e usato dal Vaticano come l’uomo nell’ombra incaricato segretamente delle missioni più riservate e delicate: si trattasse di spiegare il papato polacco a sovietici e americani, o di imbastire una trattativa affidatagli in un giorno di Ferragosto dalla Segreteria di Stato per scovare alcune fotografare «rubate» del papa in piscina nella tenuta pontificia di Castel Gandolfo. Andreotti doveva farle comprare e impedire che venissero pubblicate in anni in cui la Polonia di Karol Wojtyla era in bilico tra comunismo e democrazia. E Andreotti, allora semplice deputato, iniziò una laboriosa trattativa col Corriere della Sera di Bruno tassan Din, allora immerso nella melma della loggia Propaganda due di Licio Gelli, e con l’editore Rusconi. Il suo compito era ottenere gli scatti, e rassicurare gli uomini di Giovanni Paolo II, procurandosi eterna gratitudine. E’ solo un episodio, seppure significativo, di una consuetudine con quel mondo che fece dire a Giovanni Paolo II nel loro primo incontro: «lei non è nuovo qui», intendendo gli ambulacri vaticani. D’altronde, Andreotti è il politico al quale il segretario di Paolo VI confidò che dopo l’attentato a papa Montini nelle Filippine del 1970, il presidente Ferdinando Marcos era pronto a pagare 50 mila dollari perché si dicesse falsamente che era stato lui a fermare l’attentatore, e non monsignor Macchi. I diari sono una miniera di analisi di prima mano, aneddoti e retroscena sconosciuti. E confermano una rete di relazioni mondiali senza confini ne’ remore geopolitiche. Il futuro senatore a vita poteva incontrare il presidente argentino Juan Peron, ammiratore degli alpini italiani e delle loro filastrocche da caserma sulle “osterie numero...”, intonate durante un incontro ufficiale a Buenos Aires davanti a Andreotti, lievemente interdetto. Discorreva con dittatori del recente passato, alcuni morti ammazzati come il rumeno Ceausescu e il libico Muhammar Gheddafi. Nelle agende vengono riportati in dettaglio i colloqui con il cubano Fidel Castro e con esponenti di spicco della nomenclatura sovietica. E emergono tutte le incognite di un passaggio epocale coinciso con l’arrivo di Giovanni Paolo II e poi con l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca: un esito anticipato a Andreotti dal numero uno della Fiat Gianni Agnelli, sempre informatissimo sulle dinamiche della politica statunitense, in uno dei tanti colloqui trascritti nei diari. Verrebbe quasi da dire che il “vero” archivio segreto dell’ex presidente del Consiglio democristiano è questo : se non altro perché in massima parte sono appunti scritti di suo pugno, quasi giorno per giorno. Anche se decifrarli non appare un lavoro facile. Soprattutto negli anni dopo il Duemila, la calligrafia si è come rattrappita con l’età . Alcune agende sono andate perse, tra processi e archivi. Gli stessi figli a volte confessano di faticare a leggere le frasi, a capire che cosa il padre intendesse quando usava nomignoli o soprannomi per alcune persone. Ma forse è proprio questa indeterminatezza a rendere la scoperta più intrigante. Come minimo, costringe ancora una volta a rileggere la storia d’Italia, del Vaticano e di alcuni snodi della politica mondiale da un’angolatura meno scontata.

Il 1953 inedito di Andreotti: "Ho deciso, lascio la politica". L’epistolario di Alcide De Gasperi sarà presentato oggi alle 17,30 all’Archivio storico del Quirinale alla presenza di Sergio Mattarella. Da oggi le lettere inviate e ricevute da Alcide De Gasperi saranno disponibili online. Eccone alcune in anteprima, scrive Concetto Vecchio il 5 aprile 2019 su La Repubblica. "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica". Anche un mandarino come Giulio Andreotti, sette volte premier, in Parlamento fino alla morte, ebbe le sue titubanze. Lo rivela una lettera inedita inviata ad Alcide De Gasperi il 5 settembre del 1953. Il grande statista è appena uscito di scena, un anno dopo morirà, a 73 anni. Andreotti, a 34 anni è già sottosegretario a palazzo Chigi, ma il tramonto del suo mentore lo disorienta. Gli scrive da Montecatini, dove si trova "per eliminare un po' di stanchezza", per dirgli che nella Dc "non ci sono dieci uomini che contino che tra di loro si vogliano veramente bene". È andato sulla tomba di Carlo Sforza, "triste, piena di calcinacci e trucioli di legno. Mi è venuta voglia di comprarmi dei fiori per godermeli in vita, vista la piega delle colleganze politiche". Questa è soltanto una delle 1300 lettere, scritte o ricevute dallo statista dc De Gasperi, che da questa sera saranno online sul sito epistolariodegasperi.it. Un corpus, che secondo il direttore della Fondazione De Gasperi, Marco Odorizzi, rappresenta soltanto un quinto del totale delle 5000 missive ancora in giro. De Gasperi governava scrivendo. Il lavoro di ricognizione, promosso dalla Fondazioni De Gasperi e Kessler, e dall'Istituto Sturzo, è durato due anni e ha coinvolto 35 ricercatori, che hanno frugato in centosei archivi sparsi in nove Stati, anche in America. Novecento lettere vedranno la luce per la prima volta. L'iniziativa sarà presentata oggi alle 17,30, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all'Archivio storico del Quirinale. Ci sono documenti che sono belli anche da vedere. Come il biglietto inviato da De Gasperi a Benedetto Croce nel febbraio '37. Prega "l'illustre senatore" di fargli avere le lettere che si è scambiato con Giulio Salvadori, il poeta discepolo di Carducci. "Colgo l'occasione per rinnovarLe, anche a nome di mia moglie, ogni miglior augurio di buona salute e di fecondo lavoro, mentre mi segno. Suo devoto", si congeda De Gasperi. Nel gennaio del '45, Togliatti, che poi sarà l'avversario da battere, preme per estendere il voto alle donne. "Ho fatto più rapidamente ancora di quanto mi chiedi. Ho telefonato a Bonomi preannunciandogli che o lunedì sera o martedì tu e io faremo un passo per l'inclusione del voto femminile nelle liste delle prossime elezioni amministrative". Si rivolge a Nenni, alla vigilia del viaggio negli Usa nel '47, che prelude agli aiuti del Piano Marshall, per rinfacciargli le sue riserve di metodo per la scelta di Parri inviato straordinario per la questione Trieste. Con Adenauer si scrivono in tedesco. "Le lettere difficilmente mentono a chi sa leggerle", dice il presidente dell'Edizione nazionale dell'epistolario, Giuseppe Tognon. "Qui ogni dettaglio apre un mondo". Tra un anno sarà pubblico l'archivio di Pio XII: uno scrigno che potrebbe fare luce su molti episodi del fascismo e della guerra. Intanto va annoverata la scrittura drammatica di Giovanni Amendola, dopo l'Aventino. Datata 3 giugno 1925, segnala le crepe del fronte antifascista: "Il resoconto della nostra riunione, apparso sul Giornale d'Italia, costituisce una cattiva azione e dimostra che tra noi ci sono dei traditori o dei leggeri: uomini assolutamente inferiori a quelle esigenze di serietà che s'impongono a chi deve fronteggiare le responsabilità che noi ci siamo assunti". Due anni prima, rivolgendosi a Enrico Conci, il primo laico eletto tra le fila dei cattolici trentini al Parlamento di Vienna, De Gasperi è ancora convinto di poter mediare con Mussolini, appena giunto al potere. Si erano scontrati duramente a Trento, dove il Duce faceva il giornalista. "Non so cosa pensi Mussolini di me ora. So che fino a un mese fa mi riteneva, tra i popolari, un equilibrato e un acquisibile alla nuova situazione", scrive. Poi verranno le intimidazioni, la condanna per tentato espatrio, l'esilio nella biblioteca vaticana. Nel 1926 a Vicenza lui e il fratello sono sequestrati dagli squadristi. Ne scrive a don Sturzo: "Il ricordo degli insulti mi brucia ancora".

 “I DIARI DI PAPA' LI ABBIAMO NOI E LI ABBIAMO LETTI MA NON SONO SEMPLICI DA DECIFRARE...”. Roberto Faben per “la Verità” il 21 marzo 2019. Chi era davvero Giulio Andreotti? Di colui che fu tra i politici più longevi e influenti della Prima repubblica, Indro Montanelli, nel 1984, scrisse: «Il suo armadio è il più accogliente sacrario di tutti gli scheletri in cerca d'autore circolati in Italia nell'ultimo ventennio. E dobbiamo convenire che si è sempre gentilmente e con molta grazia prestato ad accoglierli. Mai un lamento, mai una querela, mai nemmeno una piccola smorfia di rammarico o di dispetto». Bettino Craxi lo soprannominò Belzebù. Lui fece spallucce e continuò a ritagliare e conservare anche le vignette più velenose che Forattini e Giannelli gli riservavano. Dotato d'intelligenza troppo brillante - al punto da «permettersi il lusso di non esibirla», scrisse Oriana Fallaci - per farsi tentare dalla volgarità delle arrabbiature, era anche così realista da diffidare degli eloqui complicati. Non era certo un mistico come Giorgio La Pira, ma sapeva comprendere le ragioni di Enrico Berlinguer, di Giancarlo Pajetta, di Marco Pannella, e instaurare con loro un rapporto di reciproca stima. Lo hanno processato per associazione a delinquere con la mafia e per il delitto del giornalista Carmine (Mino) Pecorelli, è stato sospettato di coinvolgimento nel golpe Borghese, di essere al comando dell'Anello - un superservizio segreto deviato -, di rapporti mai chiariti con il capo della P2 Licio Gelli e con il bancarottiere Michele Sindona, di aver ignorato una possibilità reale di salvare Aldo Moro senza accondiscendere alle trattative con le Brigate rosse, di aver fatto occultare pagine scottanti di dossier e memoriali. «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente di tutto» replicava, con la consueta dose di garbo e sarcasmo. Quanto alle cartelle dell'Ufficio affari riservati del ministero degli Interni sulle stragi, agli omissis e ai documenti rimasti secretati o spariti, si continua a lambiccare sul fatto che Andreotti (classe 1919, sette volte Presidente del Consiglio, 26 ministro, senatore a vita dal 1991, morto nel 2013) possedesse le chiavi per aprire le porte degli enigmi. Tuttavia, con lui al potere, centrista nel Dna, nel periodo oscuro delle derive estremiste e dei rischi totalitari, la democrazia sopravvisse, pur reggendosi su equilibri insanguinati. Una parte degli italiani lo denigra, un'altra lo rimpiange, con quei completi scuri Caraceni nelle sue apparizioni tivù. Ma chi era davvero Giulio Andreotti? La Verità lo ha chiesto a uno dei suoi 4 figli, Stefano Andreotti, classe 1952, laurea di giurisprudenza, oggi in pensione dopo essere stato direttore della filiale Siemens di Roma, terzogenito. Circolava la voce secondo cui Andreotti potesse mettere fuori gioco i propri avversari mediante il suo archivio. Nella celebre intervista alla Fallaci del 1974 rivelò: «Non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra. erto, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all' infuori di me. È proprio un segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno che morrò».

L'avete bruciato questo diario?

«Mio padre ci ha lasciato alcune lettere, scritte nei momenti più drammatici della sua esistenza, come durante il sequestro Moro e, in seguito, quando dovette subire un delicato intervento chirurgico tra naso e cervello, e nel momento in cui si recò a Palermo, per le note vicende processuali. Erano da leggere post mortem. In una di queste lettere aveva scritto di conservare quei diari, raccomandandoci di farne l'uso che ritenessimo migliore, incluso quello di pubblicarli, a condizione "che non nuocciano a nessuno"».

Pertanto, i diari li avete voi?

«Li abbiamo noi. Devo tuttavia dire che una parte pur minima di essi fu sequestrata dalla Procura di Palermo nel periodo del processo e, nonostante le richieste, non ci sono mai stati restituiti».

Li avete letti?

«Sì, ma non sono semplici da decifrare. Soprattutto per la grafia di mio padre, ai limiti dell' illeggibilità. E per il suo disordine, all' interno del quale solo lui poteva trovare un ordine. L' ordine cronologico degli appunti non è semplice da ricostruire, anche perché sono trapunti di foglietti e aggiunte. Vi sono scritte memorie storiche, ma anche notazioni minime, ad esempio riferimenti a compleanni. Allora, mi viene da dire che le ipotesi sono due. O mio padre è stato così abile da nascondere i suoi presunti scheletri, oppure l' unico segreto che esiste è che non ci sono segreti. Ci si può credere o non credere».

Che padre era Giulio Andreotti?

«Non elargiva certo carezze o baci. Ma non era nemmeno un padre impositivo. Ci lasciava scegliere. Odiava il fumo, ma quando ho iniziato a fumare - ho smesso a 38 anni - mi comprava le sigarette. Quando, a 18 anni, decisi di portare i capelli lunghi, non disse nulla».

Le regalava giocattoli?

«Tantissimi, ricordo macchinine e soldatini. E immancabilmente, di ritorno da una missione all'estero, ci portava un dono».

Ha avuto qualche conflitto o divergenza di opinioni con lui?

«È accaduto varie volte, ma sempre nel reciproco rispetto. Ascoltava con interesse i nostri punti di vista diversi su questioni sociali, perché riteneva di vivere in una sorta di limbo, talvolta impermeabile».

Per chi votavate?

«Abbiamo sempre votato Democrazia cristiana. Ma non perché ce lo ordinasse nostro padre. Eravamo convinti di farlo».

Ricorda alcuni politici che frequentavano la vostra casa?

«Erano pochissimi. Ricordo Francesco Cossiga e Franco Evangelisti. E Giovanni Leone, in vacanza in montagna sulle Dolomiti e a Roccaraso. I grandi amici di mio padre, tuttavia, erano i suoi vecchi compagni di scuola».

E Moro, l'ha conosciuto?

«L'ho conosciuto da bambino perché le figlie di Moro frequentavano, come noi, per il catechismo, il convento delle suore di Priscilla, qui a Roma, fondato da un monsignore zio di mia madre. I nostri rispettivi genitori ci venivano a prendere».

Quando le Br sequestrarono il presidente della Dc, nel marzo 1978, uccidendo la scorta in via Fani, lei aveva 25 anni. Come reagì suo padre nei momenti del rapimento e della prigionia?

«Lo vedevo soffrire enormemente e parlava in famiglia delle vicende che si susseguivano. Il mattino che dovette presentare il Governo (il 16 marzo 1978, giorno stesso del sequestro Moro, ndr) stette malissimo anche a causa di una violenta emicrania con conati di vomito, una di quelle emicranie che contrastava assumendo fino a 12 Optalidon e 200 gocce di Novalgina al giorno, tanto che la seduta fu sospesa per alcune ore. Mio padre avrebbe voluto che Moro fosse il presidente del Consiglio e Moro avrebbe voluto che lo fosse mio padre».

Moro, durante la prigionia, scrisse lettere nelle quali definiva suo padre «personaggio grigio e senza palpiti», minacciava di rivelare particolari scomodi sul concorso dello Stato nelle stragi, sulle strutture militari top secret. Andreotti, in un'intervista a Enzo Biagi a Linea diretta, disse che un Moro «nella pienezza delle sue facoltà non avrebbe mai usato queste immagini» e ricordò che lo statista ucciso, quando era presidente del Consiglio durante il rapimento del giudice Mario Sossi, «era per una linea dura, di non contatto con le Br».

«Guardi, mio padre potrebbe anche essere stato il più grande bugiardo del mondo. Io però sono portato a escluderlo. Lui non piangeva mai. L'ho visto piangere soltanto due volte. Quando è morta sua madre. E quando è Moro è stato ucciso. Io non mi meraviglio di niente, ma non posso credere che fosse così finto».

E riguardo ai rapporti con Sindona e Gelli?

«Certo, lui conosceva moltissime persone, sostanzialmente tutti. Ma da qui a dire che avesse cointeressenze o affari sporchi con loro, ce ne passa. Comunque nei processi di Palermo e Perugia si è parlato anche di questo».

Qual è il suo pensiero circa le accuse rivolte a suo padre di rapporti illeciti con Cosa nostra?

«Penso che si racconti solo ciò che fa più comodo raccontare. E alla quantità di cose che gli sono piovute addosso, da pentiti come Balduccio Di Maggio, che ha ricevuto un chiamiamolo "indennizzo" di un miliardo e mezzo di lire più sei milioni di lire mensili, per aver rivelato dove si trovava il covo di Totò Riina e intanto ricostituiva la sua cosca».

E il presunto bacio con Riina?

«Non ci ho mai creduto. Anche perché mio padre, viaggi ufficiali a parte, non andava mai da nessuna parte, non aveva nemmeno la patente. E quando si spostava, era costantemente seguito dalla scorta».

Assistendo alla proiezione del film Il divo di Paolo Sorrentino, perse le staffe. Nel monologo solitario, Andreotti-Toni Servillo, confessandosi idealmente alla moglie Livia, diceva: «Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità [], diretta o indiretta, per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984».

«Andò ad assistere al film accompagnato dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi e in sala era presente anche il regista. Lo definì "una mascalzonata". Quell'immagine di uomo cinico, freddo e spietato che si aggirava per stanze semibuie non corrisponde alla realtà. Anzi, la travisa, come nella scena del bacio a Riina. Inventata. Non pensava che il potere possa compiere qualsiasi nefandezza. Mio padre non era così».

Com'era invece?

«Forse non dovrei ricordarlo, ma aiutava tutti quelli che poteva, non solo distribuendo viveri nel suo ufficio, a piazza San Lorenzo in Lucina o a piazza Montecitorio, ma anche economicamente. Un giorno fece fermare il caposcorta davanti a un ospedale per visitare un clochard che conosceva di vista. E quando Madre Teresa di Calcutta lo portava in giro nei luoghi dell' emarginazione di Roma, si prodigava per migliorare le cose».

Pensa che alcuni poteri abbiano voluto distruggere Andreotti?

«Certamente qualcuno non ha digerito il suo lungo potere e il fatto che non abbia avuto nulla a che vedere con Tangentopoli. Probabilmente c' è stato anche uno zampino internazionale che non gli ha perdonato certe scelte di autonomia».

Suo padre credeva nel Paradiso e nell'Inferno. Dove immagina si trovi ora?

«In Purgatorio, a riflettere su alcuni peccati, ma con un abbuono, perché un po' di Purgatorio l' ha già scontato nella sua vita terrena».

·        Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti.

Il mio "ping pong" con Andreotti. L'uomo simbolo della Dc compirebbe 100 anni in questi giorni. Lo intervistai ed ebbi la misura di quello che per lui fosse il potere, scrive Giampaolo Pansa l'1 febbraio 2019 su Panorama. Qualcuno potrebbe chiedermi: «Caro il mio Pansa, ma quale diritto hai di scrivere anche tu sul conto di Giulio Andreotti? È vero che lo fanno in molti, dal momento che siamo nel centenario della sua nascita. Però il Bestiario non è mai stato interessato agli anniversari. È una rubrica corsara che osserva l’Italia senza troppo badare alle buone maniere...». Una risposta ce l’ho. Mi arrogo questo diritto poiché credo di essere stato l’unico giornalista a fare un incontro in diretta televisiva con quel leader politico, ritenuto da molti il più interessante, complesso e discusso fra i tanti boss dei partiti italiani. Accadde nel settembre 1982, la bellezza di trentasette anni fa, a Viareggio, durante la Festa dell’Amicizia, il parallelo bianco della Festa nazionale dell’Unità, quella del vecchio Pci. Allora avevo 47 anni, ero vicedirettore nella Repubblica di Eugenio Scalfari e anch’io assistevo sbigottito all’inferno italiano di quel tempo. I delitti si susseguivano ai delitti. L’ultimo ci lasciò tutti sbigottiti. La sera del 3 settembre la mafia assassinò il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo, ed Emanuela Setti Carraro, la sua giovane moglie. Dopo quel delitto pensai che la Festa nazionale dell’Amicizia sarebbe stata rinviata. E il mio faccia a faccia con Andreotti l’avrebbero cancellato. Ma la Dc era anche un partito dai nervi d’acciaio e non mutò programma. Arrivato a Viareggio, venni subito portato a salutare Andreotti che mi aspettava nella sua camera d’albergo. In quel momento aveva 63 anni compiuti, ma sembrava assai più giovane. Capelli nerissimi e coperti di brillantina, le famose orecchie ad ali di farfalla, la pelle del viso candida e lisca, la voce nasale, il tono freddo, ma cortese. Per rispetto verso un signore più anziano di me, gli chiesi se voleva conoscere gli argomenti sui quali intendevo interrogarlo. Mi rispose di no e replicò, serafico: «Le sue domande le ascolterò quando saremo davanti al pubblico della Festa. E proverò a rispondere». Il tendone per il nostro ping pong era stracolmo. In prima fila stava Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc, accanto a lui Clemente Mastella e Franco Evangelisti, la spalla di Andreotti. A moderare il dibattito era stato chiamato Bruno Vespa, aveva 38 anni ed era il redattore capo del Tg1. Come arbitro dell’incontro fu bravissimo perché rimase sempre in silenzio. Chiesi subito ad Andreotti se non si sentisse un po’ in colpa per avere lasciato crescere, accanto a un’Italia democratica, anche un’Italia piena di misteri e di delitti. Il mio elenco non trascurò quasi nulla: lo scandalo del banchiere Michele Sindona destinato a morire in carcere per un caffè avvelenato, l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, un eroe civile, la morte violenta del banchiere Calvi, il delitto Moro e, ultima in ordine di tempo, l’uccisione del generale Dalla Chiesa. E gli domandai se, da big della Balena bianca, non si sentisse un po’ in colpa per tutto quel sangue versato. La sua risposta fu andreottiana al massimo: «Neppure il Padreterno era riuscito a creare un paradiso terrestre senza difetti, come dimostra la faccenda della mela offerta da Eva ad Adamo. Per l’Italia bisognava fare un consuntivo sul tempo lungo. Allora si sarebbe visto che il bilancio della Democrazia cristiana era positivo». Provai a insistere: «Davvero non si sente in colpa neanche un poco?». Andreotti ribadì: «Neanche un poco». E aggiunse: «Come democratico e cristiano mi sento profondamente orgoglioso dell’Italia che abbiamo costruito dal primo dopoguerra a oggi». Gli spiegai nei dettagli perché la sua risposta non mi convinceva. Ma fu come gettare un bicchiere d’acqua contro una roccia. Giulio non si scompose né in quel momento né dopo. In seguito qualche giornale scrisse che avevo messo in difficoltà il dicì più astuto d’Italia. Ma non era vero. Ogni volta che tentavo di farlo, la roccia respingeva i miei assalti. Difese tutti i dicì siciliani, a cominciare da Salvo Lima. E respinse sarcastico le accuse di Bettino Craxi che descriveva il divo Giulio come il burattinaio di Licio Gelli, il capo della Loggia massonica P2. Quel giorno compresi che Andreotti era davvero un chiodo da mordere anche per un giornalista senza collare come il sottoscritto. Il suo stile dovrebbe essere studiato dai big politici di oggi. Parlo di signori come Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Gente che urla, minaccia, sproloquia, promette a vuoto, disprezza gli avversari ed è sempre lì a dichiarare. Per tutto il nostro lungo ping pong il grande Giulio fu imbattibile. Sempre freddo, sfuggente, ironico. Non aveva mai tradito il minimo fastidio per le mie domande. A quelle più scomode si era ben guardato dal rispondere, pur fingendo di farlo. Un vero campione nel rivoltare la frittata che gli presentavo. Ma capace di sparale grosse, con quella sua voce nasale sempre uguale, con il tono di chi offre una verità ovvia, banale, ma inconfutabile. Per quel che riguardava il potere mafioso che stava sparando e minacciando un pezzo importante dell’Italia politica, da quel ping pong ricavai un’impressione precisa su Andreotti, giusta o sbagliata che fosse. A lui non importava niente della mafia. La considerava un male incurabile contro il quale risultava inutile accanirsi. Era soltanto il suo cinismo? Oppure una constatazione dettata dalla certezza che l’umanità doveva convivere con il male? Confesso di non sapere rispondere.

Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti. Giulio Andreotti avrebbe compiuto 100 anni il 14 gennaio prossimo, è morto il 6 maggio del 2013 a 94 anni, scrive Francesco Damato l'8 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Morto il 6 maggio del 2013 alla già bella età di 94 anni, Giulio Andreotti ne avrebbe compiuto 100 il 14 gennaio prossimo. E ce l’avrebbe fatta a tagliare vivo il traguardo del secolo se non gli fosse toccato di vivere l’ultimo tratto della sua lunga esistenza e carriera politica nell’amarezza di un “prescritto”. Così ne parlano ancora i suoi avversari a causa della conclusione ibrida, diciamo così, del processo per mafia subìto fra il 1993 e il 2004: undici anni durante i quali egli si divise, con la puntualità che lo distingueva, fra gli impegni parlamentari e quelli di imputato. La conclusione processuale fu davvero anomala, diversamente dalla chiara assoluzione dall’accusa di avere fatto addirittura uccidere nel 1979 Mino Pecorelli, un giornalista molto introdotto nei servizi segreti che lo attaccava da tempo, e lo aveva per primo chiamato con tono sarcastico “divo Giulio”: un antipasto del “Belzebù” affibbiatogli poi da altri. Fu una conclusione ibrida, quella del processo di mafia, perché, dopo l’assoluzione in primo grado, una sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ribadì la bocciatura dell’accusa di concorso esterno ma estinse per prescrizione quella di associazione a delinquere, derubricatagli per fatti accertati, almeno agli atti giudiziari, ma avvenuti prima del 1980. E guai a fermarsi al grido trionfante della sua avvocata Giulia Bongiorno – “Assolto! Assolto! – senza ricordare la coda della prescrizione. Minimo minimo, si riceve una lettera puntigliosa di Gian Carlo Caselli: l’allora capo della Procura palermitana, ora in pensione dopo avere diretto la Procura di Torino, che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare il politico fra i più famosi d’Italia. E non certo colpito da una damnatio memoriae neroniana, visto che nel centenario della sua nascita, quasi coincidente con quello appena celebrato dell’aula di Montecitorio realizzata da Ernesto Basile, gli sono dedicate due mostre: una nella Biblioteca Spadolini del Senato e un’altra nel complesso monumentale di San Salvatore in Lauro. Più che dimenticarlo, molti rimpiangono Andreotti, viste anche le prove date da molti dei suoi successori politici. Non fu un capriccio o un abuso indagarlo e processarlo, scrive e dice Caselli contestando al “suo” imputato, anche da morto, di non avere rinunciato alla prescrizione, e di avere quindi accettato un verdetto che lo avrebbe inchiodato alle sue cattive frequentazioni in Sicilia. Dove la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana era spesso un porto di mare, subentrando per consistenza a quella di Amintore Fanfani. Ma Andreotti era diventato quello che era – senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, di cui 8 alla Difesa, 5 agli Esteri, 3 alle Partecipazioni Statali, 2 alle Finanze e una al Tesoro e all’Interno- senza bisogno della spinta delle tessere del partito raccolte dal suo luogotenente nell’isola Salvo Lima. Che fu peraltro assassinato proprio dalla mafia per ritorsione contro la conferma in Cassazione delle condanne del maxi- processo che aveva segnato davvero una svolta nella lotta a Cosa Nostra. Esso porta il nome di Giovanni Falcone, poi ucciso pure lui dalla mafia nella strage di Capaci. Andreotti aveva creato le sue fortune politiche a Roma, la sua Roma, facendo la gavetta come sottosegretario e braccio destro di Alcide De Gasperi: ripeto, Alcide De Gasperi. Per la cui successione egli assistette, in disparte, alla lotta fra Amintore Fanfani e Attilio Piccioni, piegato quest’ultimo dalla disavventura giudiziaria del figlio Piero per la vicenda di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica dopo un festino, vicino alla tenuta presidenziale di Castel Porziano. L’assoluzione di Piero, al solito, arrivò a danni collaterali irreparabilmente compiuti. La forza politica di Andreotti crebbe man mano non per le tessere – ripeto- della sua corrente, chiamata Primavera e poi confluita in altre più grandi, ma per le sue capacità di relazione, per il grande e sistematico seguito elettorale che raccoglieva, per la dimestichezza con la grande e piccola burocrazia, civile e militare, incontrata nella lunga attività ministeriale, per la fiducia di cui godeva in Vaticano, sotto tutti i Papi, ma soprattutto per la sua inconfondibile capacità di muoversi in Parlamento. Della cui vera “centralità” egli era un cultore: altro che quella quasi toponomastica – nel senso delle sedi della Camera e del Senato nel centro di Roma – alla quale si è ora ridotta, specie con l’approvazione forzata del bilancio del 2019 e l’inseguimento grillino della democrazia digitale. La dimestichezza totale, fisica e politica, di Andreotti con la Camera la scoprì a sue spese nel 1955 l’allora segretario della Dc Fanfani. Che aveva candidato al Quirinale, per la successione a Luigi Einaudi, il dichiaratamente ateo presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto al Parlamento in Lombardia come indipendente nelle liste democristiane. Alle obbiezioni di Mario Scelba, presidente del Consiglio in carica, e dell’ex sottosegretario di De Gasperi, il segretario dello scudo crociato reagì a suo modo, irrigidendosi. Quando le votazioni a scrutinio segreto dimostrarono che la dissidenza democristiana era molto più numerosa e forte delle sue previsioni, Fanfani si accorse che il più attivo e astuto nelle operazioni di contrasto dietro le quinte era proprio Andreotti. Che pur di sbarrare la strada, a quel punto, a Merzagora non tanto come ateo ma come candidato inamovibile del segretario democristiano, si adoperò con destrezza e successo per l’elezione al Quirinale di un collega di partito di sinistra come il presidente della Camera Giovanni Gronchi, definito dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat “il Peron di Pontedera”, la città toscana dove Gronchi appunto era nato. L’elezione di Gronchi a Camere naturalmente riunite avvenne alla quarta votazione – la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi – con ben 658 voti su 833 parlamentari presenti: “quasi all’unanimità”, commentò l’interessato con Indro Montanelli compiacendosi del fatto che quel risultato lo rendeva “indipendente da ogni partito e fazione”. Alla fine, quindi, Fanfani aveva dovuto non arrendersi ma capitolare. E ad Andreotti non gliela perdonò mai. Uno scontro fra i due, e sempre sulla strada del Quirinale, si consumò anche alla fine del 1971, quando l’allora presidente del Senato Fanfani volle essere candidato alla Presidenza della Repubblica dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani, cresciuto peraltro nella sua scuderia. I cosiddetti franchi tiratori contro il “nano maledetto”, come qualcuno scrisse sulla scheda annullata nello scrutinio, si sprecarono a tal punto che per disarmarli si dovette imporre ai parlamentari democristiani la pubblica astensione: essi dovettero sfilare più volte davanti alle urne di Montecitorio senza deporvi alcuna scheda, mentre dietro le quinte si trattava per un cosiddetto “cambio di cavallo”. L’unico a sottrarsi a quel rito umiliante fu l’ormai ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi votando dichiaratamente per Aldo Moro. Furente, Fanfani affrontò alla buvette non solo il giornalista Vittorio Gorresio, della Stampa, avvertendo la mano e gli interessi della Fiat contro la propria candidatura, ma anche il braccio destro di Andreotti. Che era Franco Evangelisti: un uomo franco di nome e di fatto. Peraltro in occasione della sconfitta di Fanfani nella corsa al Quirinale, chiusasi con l’elezione invece di Giovanni Leone, il capogruppo democristiano della Camera era proprio Andreotti, approdato a quella carica nel 1968 defilandosi dalle lotte scatenatesi nel partito dopo quasi un decennio di leadership morotea. Da capogruppo democristiano a Montecitorio Andreotti seppe instaurare col maggiore partito di opposizione, il Pci, un rapporto di grande sintonia personale e parlamentare, sopravvissuto non a caso anche alla breve fase politica in cui egli guidò, fra il 1972 e il 1973, un governo con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini. Fu proprio negli anni di Andreotti alla testa del gruppo democristiano che maturò e fu varata una significativa riforma del regolamento della Camera sostanzialmente a quattro mani: le altre due furono quelle del capogruppo comunista Pietro Ingrao. Si deve anche o soprattutto a quei rapporti politici e alla sua padronanza dei meccanismi parlamentari se nel 1976, dopo un turno elettorale conclusosi con due vincitori – come disse Moro parlando appunto del suo partito e del Pci- incapaci ciascuno di realizzare una maggioranza contro l’altro e condannati quindi ad accordarsi per garantire la tenuta della democrazia, la Dc propose e i comunisti accettarono il ritorno di Andreotti a Palazzo Chigi. Erano tempi anche di grave crisi economica e di ordine pubblico. Andreotti guidò fra il 1976 e la fine dell’orribile 1978 – orribile davvero, col rapimento di Moro e il suo barbaro assassinio per mano delle brigate rosse- non uno ma due governi di cosiddetta solidarietà nazionale, entrambi monocolori democristiani: uno sostenuto dai comunisti con l’astensione e l’altro con tanto di voto di fiducia negoziato su un programma. E curiosamente, ma non troppo considerando la sua abilità, tramontata la collaborazione parlamentare col Pci vissuta con particolare sofferenza dal Psi di Bettino Craxi, toccò proprio ad Andreotti guidare le ultime due edizioni del cosiddetto pentapartito condizionato dai socialisti. E prima ancora era toccato proprio ad Andreotti il ruolo di ministro degli Esteri di Craxi, dal 1983 al 1987, gestendo insieme vicende assai complesse: a cominciare dal sequestro palestinese della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo e dallo scontro con la Casa Bianca di Ronald Reagan, nella notte di Sigonella, per la cattura dei responsabili. Tutto poi si sarebbe infranto, insieme con la prima Repubblica, contro gli scogli giudiziari di Tangentopoli, e trappole annesse. Lo stesso Andreotti, sopravvissuto alle varie “guerre puniche” – come lui le chiamava ironicamente – attribuitegli dagli avversari di turno, passando dall’affare petroli a quello della P2 e a Sindona, solo per citarne alcune, dovette subire i già ricordati undici anni di processo per mafia. Eppure nel 1992, nella corsa al Quirinale interrotta dalla strage mafiosa di Capaci, egli stette, o sembrò, sul punto di arrivare sul colle più alto di Roma. L’allora suo portavoce Pio Mastrobuoni racconta ancora agli amici della tarda serata in cui, affacciatosi allo studio di Andreotti per chiedergli se fra le soluzioni “istituzionali” annunciate per il Quirinale dopo la strage di Capaci (omicidio Falcone) potesse essere considerata anche la sua, essendo lui presidente del Consiglio, si sentì anticipare dal suo rassegnatissimo capo l’epilogo che stava maturando dietro le quinte. Stava maturando, in particolare, la promozione del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, preferito dai comunisti sul Colle al presidente del Senato Giovanni Spadolini, che pure aveva già cominciato a predisporre il discorso di insediamento, perché con Scalfaro al Quirinale sarebbe stata spianata la strada di Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio. E pensare che una volta, quando gli chiesi, negli anni ancora verdi della sua carriera politica, a quale carica aspirasse di più fra quelle mai avute – segreteria del partito e Presidenza della Repubblica – Andreotti mi disse: “Presidente della Camera”. Per un pelo, non essendo più alla Camera, Andreotti mancò la presidenza del Senato nel 2006, due anni dopo l’epilogo pur ibrido del processo di mafia e sette prima della morte. Ne fu proposta la candidatura anche da Silvio Berlusconi a garanzia del centrodestra e del centrosinistra, che avevano quasi pareggiato elettoralmente. Ma Romano Prodi, che aveva prenotato Palazzo Chigi per il suo secondo passaggio, breve e sfortunato quanto il primo, non ne volle sapere. E alla presidenza di Palazzo Madama fu eletto Franco Marini, uno dei pochi seguaci del compianto Carlo Donat- Cattin che con Andreotti aveva saputo andare sempre d’accordo nella Dc, sino a ereditarne il ruolo di capolista a Roma nelle elezioni politiche del 1992: le ultime della prima Repubblica. Alle quali Andreotti, abitualmente supervotato, non aveva avuto bisogno di partecipare perché ormai senatore a vita, nominato nel 1991 dal capo dello Stato Francesco Cossiga avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti”, secondo la formula solenne dell’articolo 59 della Costituzione.

Giulio Andreotti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) è stato un politico e scrittore italiano. È stato tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito protagonista della vita politica italiana per gran parte della seconda metà del XX secolo. Senatore a vita dal 1991, è stato il candidato più votato in Italia in tutte le elezioni politiche fino al 1991 tranne in sei casi: nel 1948 e nel 1953, quando fu secondo in preferenze al solo Alcide De Gasperi, nel 1963 e nel 1968, quando fu secondo ad Aldo Moro, e nel 1976 e nel 1983, quando fu secondo ad Enrico Berlinguer. Andreotti è stato anche il politico con il maggior numero di incarichi governativi nella storia della repubblica.

Fu infatti: sette volte presidente del Consiglio tra cui il governo di «solidarietà nazionale» durante il rapimento di Aldo Moro(1978-1979), con l'astensione del Partito Comunista Italiano, e il governo della «non sfiducia» (1976-1978);

ventisei volte ministro: otto volte Ministro della difesa; cinque volte Ministro degli affari esteri; tre volte Ministro delle partecipazioni statali; due volte Ministro delle finanze, Ministro del bilancio e della programmazione economica e Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato; una volta Ministro del tesoro, Ministro dell'interno (il più giovane della storia repubblicana, a soli trentacinque anni), Ministro per i beni culturali e ambientali (ad interim) e Ministro delle politiche comunitarie.

Dal 1945 al 2013 fu sempre presente nelle assemblee legislative italiane: dalla Consulta Nazionale all'Assemblea costituente, e poi nel Parlamento italiano dal 1948, come deputato fino al 1991 e successivamente come senatore a vita. Fu presidente della Casa di Dante in Roma.

A cavallo tra XX e XXI secolo subì un processo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d'appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l'organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.

Biografia. Infanzia, istruzione e adolescenza. Nato a Roma da genitori originari di Segni, all'età di due anni rimase precocemente orfano di padre e in seguito perse anche Elena, l'unica sorella: «Mia madre è rimasta vedova giovanissima. Con mio fratello maggiore e mia sorella più grande, che morì appena si iscrisse all'università, vivevamo presso una vecchissima zia, classe 1854, nella casa nella quale io sono nato.»

Frequentò il ginnasio al "Visconti" e il liceo al "Tasso". Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza per ragioni da lui così illustrate: «Appena presa la licenza liceale, fu doveroso per me non gravare più su mia madre, che con la sua piccola pensione aveva fatto miracoli per farci crescere, aiutata soltanto dalle borse di studio di orfani di guerra. Rinunciai, in fondo senza rimpianti eccessivi, a scegliere la facoltà di Medicina, che comportava la frequenza obbligatoria; mi iscrissi a Giurisprudenza e andai a lavorare come avventizio all'Amministrazione Finanziaria [...].» Si laureò in Giurisprudenza con il voto di 110/110 presso l'Università di Roma il 10 novembre del 1941. Iniziò a soffrire fin da ragazzo di forti emicranie, mentre la sua gracile costituzione fisica giustificò infauste previsioni che Andreotti ricorda così: «Aiutato dal mio carattere ad apprezzare anche il lato comico delle vicende, dimenticai presto la terribile prognosi del medico militare del Celio, Ricci, che, dichiarandomi non idoneo al corso allievi ufficiali per «oligoemia e deperimento organico», aveva aggiunto il pronostico che a suo giudizio non mi restavano più di sei mesi prima di passare a vita migliore.» Andreotti raccontò della funesta previsione del medico militare anche ad Oriana Fallaci: «Alla visita medica militare, il medico responsabile mi diede sei mesi di vita; quando diventai ministro della difesa lo chiamai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui!»

Inizio della carriera politica. Intraprese la carriera politica già nel corso degli studi universitari, durante i quali entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, che era l'unica associazione cattolica riconosciuta nelle università durante il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe dirigente democristiana. Andreotti ha spiegato così questo inizio: «[...] stavo studiando diritto della navigazione, andai in biblioteca e un impiegato mi disse: «Lei non ha niente di meglio da fare?». Io mi seccai un po'. Qualche giorno dopo mi chiama Spataro, che era stato presidente molti anni prima, e stava riorganizzando la Democrazia Cristiana, e ci ritrovo quel signore dei libri che mi dice: "De Gasperi vuole il suo nome". [...] De Gasperi io non lo conoscevo. Mi venne detto: "Vieni a lavorare con noi". Allora ho cominciato, e non era affatto nei miei programmi. Poi, si sa, la politica è una specie di macchina nella quale se uno entra non può più uscirne.» Riguardo all'impiegato della biblioteca, Andreotti ha spiegato: «Io non sapevo chi fosse quel signore. Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici». Infatti nella FUCI Andreotti era giunto, nel luglio 1939, a ricoprire l'incarico di direttore di Azione Fucina (la rivista degli universitari cattolici), proprio mentre Aldo Moro assumeva la presidenza dell'associazione. Quando nel 1942 questi fu chiamato alle armi, Andreotti gli successe nell'incarico di presidente, incarico che mantenne sino al 1944: «Con Moro ci conoscevamo fin dai tempi della Fuci, lui era presidente, io dirigevo l'Azione fucina, e quando lui lasciò la carica presi il suo posto. Quindi una dimestichezza che risaliva a prima della politica. [...] ho sempre avuto con lui una relazione molto facile, proprio perché c'era questo legame universitario.» Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. Durante la guerra scrisse per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista. Partecipò anche alla redazione clandestina de Il Popolo. Il 30 luglio 1944, al Congresso di Napoli, fu eletto nel primo Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana e il 19 agosto divenne responsabile dei gruppi giovanili del partito; in tale carica verrà confermato dal Congresso nazionale del Movimento giovanile DC di Assisi del gennaio 1947.

L'elezione all'Assemblea costituente e le prime responsabilità di governo. Fu De Gasperi ad introdurlo nella scena politica nazionale, designandolo quale componente della Consulta Nazionale nel 1945 e successivamente favorendone la candidatura alle elezioni del 1946 all'Assemblea Costituente. I due si conobbero casualmente nella Biblioteca Vaticana dove De Gasperi aveva un modesto impiego concessogli dal Vaticano per consentirgli di sfuggire alla miseria cui lo aveva condannato il regime fascista e fra i due si sviluppò un intenso rapporto nonostante le profonde differenze caratteriali. All'inizio degli anni quaranta monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI), già assistente ecclesiastico della Fuci e sostituto della segreteria di Stato, aveva notato il giovane Andreotti e fu lui nel maggio 1947 ad esortare De Gasperi perché lo nominasse sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, «lasciando di stucco un'intera schiera di vecchi popolari che affollavano l'anticamera politica della nuova Italia».

Sottosegretario nei Governi De Gasperi. Andreotti divenne così parte del quarto governo De Gasperi, venendo poi eletto nel 1948 alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone, in quella che sarà la sua roccaforte elettorale fino agli anni novanta. Nel 1952, in vista delle elezioni amministrative del comune di Roma, Andreotti diede prova delle sue capacità diplomatiche e della credibilità conseguita agli occhi del Papa negli anni della presidenza della Fuci scrivendo a Pio XII un appunto che finalmente lo persuase – dopo che non vi erano riusciti né Montini né De Gasperi – a rinunciare all'"operazione Sturzo" (cioè all'idea di un'alleanza elettorale che coinvolgesse anche i neofascisti). Durante gli anni del sottosegretariato alla presidenza del consiglio, Andreotti si occupa della produzione cinematografica italiana. La legge Andreotti del 1949 prevede la difesa del cinema italiano dalla saturazione del mercato americano imponendo una tassa sul doppiaggio; inoltre, le sceneggiature delle produzioni italiane dovevano essere sottoposte all'approvazione governativa per aggiudicarsi finanziamenti pubblici. Tra il 1947 e il 1950, Andreotti si avvale della collaborazione del frate domenicano Felix Morlion per fondare un neorealismo cattolico. Questo doveva combattere il pericolo neorealista, colpevole di dare una rappresentazione negativa dell'Italia all'esterno. Questo tentativo risulterà nella presentazione di due film di Roberto Rossellini alla 11ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Francesco, giullare di Dio e Stromboli (Terra di Dio). Andreotti mantenne la carica di sottosegretario alla Presidenza in tutti i governi De Gasperi e poi nel successivo governo Pella, fino al gennaio 1954. Ad Andreotti furono affidate numerose e ampie deleghe (fra le altre, quelle per lo spettacolo, lo sport, la riforma della pubblica amministrazione, l'epurazione). A lui si devono in particolare la rinascita del CONI che si pensava di sciogliere o liquidare dopo la caduta del regime fascista, l'autonomia finanziaria dello sport attraverso il collegamento con il totocalcio e la rinascita della industria cinematografica nazionale e il rilancio degli stabilimenti di Cinecittà devastati nell'immediato dopoguerra (Legge n. 958 del 29 dicembre 1949) fornendo inoltre prestiti alle imprese di produzione italiane e adottando misure per prevenire la dominazione del mercato da parte delle produzioni americane. È del 1953, fra l'altro, il cosiddetto "veto Andreotti" contro il blocco della importazione di calciatori stranieri. Le benemerenze acquisite da Andreotti in questi anni nei confronti dello sport italiano gli verranno riconosciute il 30 novembre 1958 con la nomina all'unanimità, da parte del Consiglio nazionale del Coni, a presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Roma 1960. Molti anni dopo, nel 1990, Andreotti verrà inoltre insignito del prestigioso Collare all'Ordine olimpico, la massima onorificenza del Comitato Olimpico Internazionale. Seguirono altri innumerevoli incarichi, tanto che Andreotti fu presente in quasi tutti i governi della Prima Repubblica. Nel periodo 1947-54 fu inoltre il responsabile politico dell'Ufficio per le zone di confine (Uzc), che tramite ingenti fondi riservati finanziava partiti, giornali ed enti di vario tipo per difendere l'italianità in delicate zone di frontiera come Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta. L'Uzc svolgeva poi una serie di altre attività di natura amministrativa e burocratica relative al rapporto con le minoranze linguistiche e all'attuazione dell'autonomia (escludendo il Friuli Venezia Giulia). Perciò ebbe un ruolo preminente come raccordo tra Roma e la classe dirigente locale.

Gli anni cinquanta e sessanta. Ministro delle Finanze. Nel 1954 è per la prima volta ministro, entrando a far parte del breve primo governo Fanfani come Ministro degli interni. Successivamente diventa Ministro delle Finanze nei governi Segni I e Zoli. Nel novembre 1958 Andreotti fu nominato presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi del 1960 che si sarebbero tenute a Roma. Nell'agosto del 1958 rimane coinvolto per «mancata vigilanza» nel Caso Giuffrè sulla base di un "memoriale", poi rivelatosi falso. Dall'accusa venne completamente scagionato da una commissione di inchiesta parlamentare. Viene invece censurato da una Commissione d'inchiesta parlamentare del 1961-1962 su alcune irregolarità nei lavori dell'aeroporto di Fiumicino.

La nascita della corrente andreottiana. Quasi parallelamente all'affermarsi della segreteria nazionale di Amintore Fanfani, la corrente andreottiana nasce in quegli anni, ereditando nella capitale i quadri della destra clericale che nel 1952 s'erano coalizzati – con la benedizione del Vaticano – dietro il tentativo di espugnare il Campidoglio con la lista civica guidata da Luigi Sturzo. Essa esordì con la campagna di stampa che implicò Piero Piccioni (figlio del vicesegretario nazionale Attilio Piccioni) nella vicenda del caso Montesi. Eliminata così la vecchia guardia degasperiana dalla guida del partito, gli andreottiani aiutarono la neonata corrente dei dorotei a conseguire la maggioranza necessaria per scalzare Fanfani dalla Presidenza del consiglio e dalla segreteria della Democrazia cristiana. Si trattava di «una sorta di curva Sud del partito [...] anche se marginale all'interno della DC», che Franco Evangelisti battezzò «corrente Primavera».

Ministro della Difesa. Nei primi anni sessanta fu Ministro della difesa quando esplose lo scandalo dei fascicoli SIFAR e del Piano Solo, un presunto progetto di golpe neofascista, promosso, secondo il settimanale L'Espresso, dal generale missino Giovanni De Lorenzo. L'incarico ministeriale rivestito da Andreotti fu onerato, da una successiva legge, della responsabilità della distruzione dei fascicoli, con cui il Sifar aveva schedato importanti politici italiani, di cui aveva composto dei ritratti poco favorevoli. Gli si addebita perciò una responsabilità quanto meno oggettiva nel fatto che – come è stato accertato – quei fascicoli fossero stati prima fotocopiati e poi passati alla P2 di Licio Gelli, che aveva portato quei materiali all'estero, a dispetto del fatto che la commissione parlamentare d'inchiesta avesse deciso di far bruciare a Fiumicino, nell'inceneritore, i fascicoli abusivi. Quasi a rimarcare la differente cifra della sua condotta, Francesco Cossiga, che nella veste di sottosegretario alla Difesa procedette parallelamente all'espunzione con omissis del rapporto della commissione ministeriale d'inchiesta del generale Manes sul Piano Solo, ha sempre pubblicamente vantato il suo intervento censorio, dichiarando di averlo svolto nella piena legalità. Nel dicembre del 1968 viene nominato capogruppo della Dc alla Camera, incarico che manterrà per tutta la legislatura fino al 1972.

Anni settanta. Andreotti presidente del Consiglio. Nel 1972, Giulio Andreotti diventa per la prima volta Presidente del Consiglio, incarico che reggerà, alla guida di due esecutivi di centro-destra, fino al 1973. Il primo governo non ottenne la fiducia e fu costretto a dimettersi dopo 9 giorni. Tale governo è stato dunque finora quello col più breve periodo di pienezza dei poteri nella storia della Repubblica Italiana, e il terzo a vedersi rifiutato il voto di fiducia dal parlamento, fatto che provocò le prime elezioni anticipate della Repubblica. L'esecutivo, tuttavia, rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno 1972, per un totale di 128 giorni, ovvero 4 mesi e 8 giorni. Dopo le elezioni del 1972, che videro la Democrazia Cristiana rimanere più o meno stabile, si formò il secondo governo Andreotti che fu il primo esecutivo dal 1957 a vedere l'organica partecipazione di ministri e sottosegretari liberali, rappresentò un tentativo di resurrezione del centrismo di degasperiana memoria, e fu anche noto come governo Andreotti-Malagodi. L'esecutivo cadde per il ritiro dell'appoggio esterno dei repubblicani al governo sulla materia della riforma televisiva: "casus belli" delle problematiche delle televisioni locali, fu la vicenda di Telebiella. La battuta usata dalle opposizioni fu "Andreotti inciampò nel cavo di Telebiella e cadde".

Dopo la fine dei primi due governi Andreotti. Andreotti continuò a ricoprire incarichi di primo piano, nei successivi esecutivi. Nel ruolo di Ministro della difesa, rilascia una famosa intervista a Massimo Caprara con cui rivela le coperture istituzionali dell'indagato per la strage di piazza Fontana, Guido Giannettini (Andreotti sarà prosciolto, nel 1982, dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di Giannettini). Fra il 1974 e il 1976 ricopre il ruolo di Ministro del bilancio e della programmazione economica nei governi Moro IV e Moro V.

Il compromesso storico. Nel 1976, il governo, presieduto da Aldo Moro, perse la fiducia dei socialisti in Parlamento e il Paese si avviò alle elezioni anticipate, che videro un forte aumento del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer. La Democrazia Cristiana riuscì, anche se solo per pochi voti, a restare il partito di maggioranza relativa. Forte del buon risultato elettorale, Berlinguer propose, appoggiato anche da Aldo Moro e Amintore Fanfani, di dare concretezza al compromesso storico, ovvero alla formazione di un governo di coalizione fra PCI e DC, per superare la difficile situazione dell'Italia dell'epoca, colpita dalla crisi economica e dal terrorismo.

Il «governo della non sfiducia». Fu proprio Andreotti ad essere prescelto per guidare il primo esperimento in questa direzione: egli varò nel luglio del 1976 il suo terzo governo, detto della «non sfiducia» perché, pur essendo un monocolore, si reggeva grazie all'astensione dei partiti dell'arco costituzionale (tutti tranne il MSI-DN). L'azione legislativa di questo inedito esperimento si concretizzò in diverse riforme come la legge sul diritto d'uso fondiario (che introdusse severi vincoli di costruzione oltre che nuovi criteri per gli espropri dei terreni e nuove procedure di pianificazione delle costruzioni), la legge per il controllo da parte dello stato sugli affitti e le condizioni di locazione, l'aggiornamento ad hoc delle prestazioni in denaro nel settore agricolo e l'estensione del collegamento della pensione con il salario industriale a tutti gli altri sistemi pensionistici non gestiti dall'INPS. Questo Governo cadde però nel gennaio del 1978.

La solidarietà nazionale. A marzo la crisi fu superata grazie alla mediazione di Aldo Moro, che promosse un nuovo esecutivo, sempre un monocolore democristiano ma sostenuto dal voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI (votarono contro solo MSI, PLI e SVP). Il nuovo governo fu nuovamente affidato ad Andreotti e ottenne la fiducia in Parlamento, il 16 marzo, lo stesso giorno del sequestro di Moro. La drammatica situazione fece nascere la cosiddetta solidarietà nazionale, in nome della quale il PCI accettò di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti avesse rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei Ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin, apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale). In qualità di Presidente del Consiglio, Andreotti decise di portare avanti la linea della fermezza, rifiutando ogni trattativa che avrebbe significato il riconoscimento delle BR da parte dello Stato (come sua controparte) dopo l'uccisione della scorta del presidente democristiano. A sostegno della linea dura del Governo si schierarono Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, ossia i due uomini che avrebbero avuto il maggiore interesse alla sopravvivenza di Moro, in quanto interprete e garante della politica di solidarietà nazionale, mentre fu criticata dalla famiglia dell'ostaggio. Nel suo memoriale, scritto mentre era prigioniero, Moro riserva giudizi durissimi su Andreotti. Dopo l'omicidio di Moro, nel maggio del 1978, l'esperienza della solidarietà nazionale proseguì, portando all'approvazione di importanti leggi come il piano decennale per l'edilizia residenziale (legge n. 457 del 5 agosto 1978), la legge Basaglia riguardante i manicomi e la riforma sanitaria che istituiva il servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 23 dicembre 1978). A livello europeo Andreotti stimolò la nascita del Fondo europeo di sviluppo regionale. La richiesta dei comunisti, per una partecipazione più diretta alle attività di governo, fu respinta dalla DC: di conseguenza Andreotti si dimise nel giugno del 1979. In quel periodo teorizzò la «strategia dei due forni», secondo cui il partito di maggioranza relativa avrebbe dovuto rivolgersi alternativamente a PCI e PSI, a seconda di chi dei due «facesse il prezzo del pane più basso». Sta di fatto che ciò produsse per lungo tempo un pessimo rapporto con Bettino Craxi: esso s'era degradato quando Andreotti aveva fissato le elezioni anticipate del 1979 ad una settimana dalle europee di quell'anno (disattendendo la richiesta del PSI, che riteneva di avere maggiori chance di trascinamento con la coincidenza tra le due date), ed era crollato definitivamente quando la vicenda di finanziamento illecito di correnti anticraxiane del PSI – che era dietro lo scandalo ENI-Petromin – fu (a torto o a ragione) ricondotta da Craxi ad ambienti andreottiani.[senza fonte] Ne scaturì il veto a incarichi di Governo per tutta la successiva legislatura (quando Craxi disse che «la vecchia volpe è finita in pellicceria»): si trattò dell'unico quadriennio della Prima Repubblica (oltre al periodo 1968-1971) in cui Andreotti non rivestì alcun incarico di Governo.

Anni ottanta e novanta. Ministro degli affari esteri. Nel 1983 Andreotti assume la carica di Ministro degli affari esteri nel primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo. All'interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi - prevalentemente surrettizi, come quando sussurrò ad un giornalista di essere stato «... in Cina con Craxi e i suoi cari...»; l'antagonismo fu anche oggetto di satira e di moti di spirito della più variegata origine. Ma nella gestione filoaraba della politica estera fu oggettivamente in consonanza con Craxi, schierandosi con lui - durante la crisi di Sigonella - nella decisione di sottrarre alla giustizia americana i terroristi che avevano dirottato la nave Achille Lauro, assassinando un passeggero paralitico.

Gli ultimi governi Andreotti. Anche grazie a questi sviluppi, svolse successivamente un ruolo di tramite fra Craxi e la Democrazia Cristiana, i cui rapporti erano tutt'altro che idilliaci. Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita erano all'ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell'esistenza del triangolo CAF (Craxi-Andreotti-Forlani): quando tale intesa sottrasse a De Mita la guida del governo, nel 1989, fu chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio, incarico che resse fino al 1992. Si trattò di un governo dal decorso turbolento: la scelta di restare alla guida del governo, nonostante l'abbandono dei ministri della sinistra democristiana - dopo l'approvazione della norma sugli spot televisivi (favorevole alle emittenze private di Silvio Berlusconi, reso "oligopolista" dalla legge Mammì) - non impedì il riemergere di antichi sospetti e rancori con Craxi (che alluse ad Andreotti quando disse che dietro il ritrovamento delle lettere di Moro in via Montenevoso vedeva una "manina", guadagnandosi la sua piccata replica che forse c'era stata una "manona"); la scoperta di Gladio e le "picconate" del presidente Francesco Cossiga lo videro destinatario di pressioni istituzionali fortissime, cui replicò con la consueta levità di spirito dichiarando che era «... meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Nel 1992, finita la legislatura, Andreotti rassegnò le sue dimissioni, non mancando di chiosare che facendo le valigie aveva trovato nei suoi cassetti alcune lettere del Presidente della repubblica ancora chiuse. Eppure a quel Presidente dovette la sua sopravvivenza politica nella sua quarta età: l'anno prima era stato nominato senatore a vita proprio da Cossiga. Priva di radicamento territoriale al di fuori del Lazio (dove si valeva di proconsoli territoriali come Franco Evangelisti prima e Vittorio Sbardella poi, oltre che di "specialisti" nelle varie istituzioni come il magistrato di Cassazione Claudio Vitalone e il vescovo di Curia monsignor Angelini), la corrente andreottiana si alleava periodicamente con correnti espresse da altre realtà territoriali: da ultimo, negli anni ottanta, furono organici all'andreottismo, tra le tante, le correnti napoletane di Enzo Scotti e Paolo Cirino Pomicino, quella bresciana di Giovanni Prandini, quella milanese di Luigi Baruffi, quella emiliano-romagnola di Nino Cristofori, quella Toscana di Tommaso Bisagno, quella piemontese di Silvio Lega, quella calabrese di Camelo Puija, quella palermitana di Salvo Lima e quella catanese di Nino Drago; al di là delle espressioni geografiche, un lungo tratto di cammino insieme compirono anche le frange politiche di Comunione e Liberazione, pur mantenendo un ampio margine di autonomia. Dopo la nomina a Senatore a vita, nel Lazio la corrente fu sottoposta a forti tensioni per capire su chi dovessero convergere le forze. Lo scontro fu particolarmente aspro e portò Vittorio Sbardella ad uscire dal Gruppo. Alle prime elezioni politiche successive alla nomina come senatore a vita, quelle del 1992, lo stesso Sbardella otterrà un lusinghiero risultato, arrivando secondo ad un'incollatura da Franco Marini. In Regione sedeva dal 1990 il nipote di Andreotti (per parte di moglie) Luca Danese.

Senatore a vita. In quello stesso anno, il 1992, Andreotti era considerato uno dei candidati più papabili per la carica di presidente della repubblica, ma la sua corrente non si espose mai con una candidatura esplicita che portasse alla conta dei voti, preferendo l'esercizio di un'estenuante interdizione che tenne sulla corda gli altri candidati del CAF (fino a "bruciare", in due memorabili scrutini di metà maggio, la candidatura di Arnaldo Forlani, che non riuscì a raggiungere il quorum per meno di trenta voti). Quella di Andreotti, che era studiata come una candidatura da far emergere dopo l'affossamento delle altre, divenne però a sua volta del tutto impraticabile dopo l'assassinio del giudice Giovanni Falcone a Palermo: il fatto che due mesi prima fosse stato assassinato a Palermo Salvo Lima, della medesima corrente di Andreotti, fu giudicato in Parlamento un evento di scarsa presentabilità pubblica in una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia. Così si passò a considerare altri nomi più "istituzionali": prima il presidente del Senato Giovanni Spadolini e poi, con successo, quello della Camera Scalfaro, sostenuto anche dalla sinistra. Il 27 marzo 1993 ricevette un avviso di garanzia dalla Procuradi Palermo con l'accusa di aver favorito la mafia, tramite la mediazione del suo rappresentante in Sicilia, Salvo Lima. Il Senato, dietro sua sollecitazione, concesse l'autorizzazione a procedere e il processo accertò la collaborazione di Andreotti con la criminalità organizzata fino al 1980, facendo così scattare la prescrizione. Lo stesso anno dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, viene indagato come mandante dell'omicidio Pecorelli dalla Procura di Perugia. Sarà assolto definitivamente dalla Corte di cassazione dieci anni dopo. Dall'ottobre del 1993, Giulio Andreotti diviene direttore del mensile internazionale 30 giorni nella Chiesa e nel Mondo, in vendita solo nelle edicole intorno al Vaticano e nelle librerie Paoline, ma a cui è possibile abbonarsi. Allo scioglimento della Democrazia Cristiana, nel 1994, aderì al Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, partito che lascerà nel 2001, in seguito alla nascita della Margherita.

Anni 2000 e 2010. Nel febbraio del 2001 diede vita, insieme a Ortensio Zecchino e Sergio D'Antoni, al partito d'ispirazione cristiana denominato Democrazia Europea, che ottenne un risultato modesto alle elezioni e confluì nell'UDC nel 2002.

Candidato Presidente del Senato. Le elezioni politiche del 2006, che videro una vittoria di misura dell'Unione di Romano Prodi, con al Senato un leggero vantaggio di seggi tra lo schieramento vincente e la Casa delle Libertà, fecero discutere sui futuri assetti istituzionali e sulla necessità di ricompattare un'Italia sostanzialmente divisa in due. Perciò, da alcuni settori del centro-destra era giunta la proposta di assegnare la Presidenza del Senato al senatore a vita Andreotti, ritenuto capace di mediare tra i due schieramenti e tra le due anime del Paese; il tentativo fallì nelle votazioni del 28-29 aprile 2006. Il senatore a vita, sulla proposta del centro-destra di candidarsi alla guida di palazzo Madama, aveva dichiarato: «Deciderò sul momento» se accordare o meno la fiducia all'eventuale governo Prodi II. Sull'ipotesi di una sua elezione alla Presidenza del Senato, in un'intervista al quotidiano La Stampa del 22 aprile 2006, si rese disponibile purché «... in un'ottica di conciliazione». L'elezione di Andreotti, secondo alcune fonti, avrebbe dovuto ottenere i consensi di un'ampia fetta dei moderati del centrosinistra, fra La Margherita e l'Udeur di Mastella, mettendo in crisi la scelta, data ormai per certa, del diellino Franco Marini. L'elezione nei primi scrutinii non diede luogo ad una proclamazione del vincitore Marini, per alcuni voti annullati dalla Presidenza in quanto riconoscibili. Ma l'elezione, tenutasi il 29 aprile, al terzo scrutinio, portò al ruolo di presidenza del Senato Franco Marini, con 165 voti (quelli della maggioranza più quelli di alcuni senatori a vita e, verosimilmente, alcuni provenienti dai gruppi di minoranza della CdL), contro le 156 preferenze raccolte dall'ex-presidente del consiglio tra le file del centro-destra e dal senatore a vita Francesco Cossiga. Andreotti - che aveva commentato con la consueta arguzia la vicenda dei voti annullati - fu il primo a riconoscere che la coalizione di centrosinistra - proprio con il voto sul Presidente del Senato - aveva dimostrato di essere in grado di avere una maggioranza dei voti per esprimere un governo. Il 19 maggio 2006, Andreotti accordò la fiducia al governo Prodi II, assieme agli altri sei senatori a vita, suscitando vive polemiche nella Casa delle Libertà, che aveva sostenuto la sua candidatura alla Presidenza del Senato. Successivamente, si consultò spesso con il nuovo Presidente del Consiglio riguardo alla politica estera, che continuava a seguire in qualità di membro della Commissione Affari esteri del Senato.

Gli ultimi anni. Il 21 febbraio 2007 suscitò scalpore la sua astensione in Senato alla risoluzione della maggioranza di centrosinistra, relativa alle linee guida di politica estera illustrate dal Ministro degli esteri Massimo D'Alema al Senato della Repubblica, che non ottenne il quorum di maggioranza, iniziando così la crisi di Governo che portò il presidente del Consiglio Romano Prodi a rassegnare, in serata, le dimissioni dal suo incarico (poi respinte) al presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il senatore a vita aveva annunciato il giorno prima il suo voto favorevole. L'indomani dichiarò ai mass media che il suo cambio di scelta fu dovuto al discorso di D'Alema, teso a marcare fortemente la discontinuità della politica estera del centrosinistra rispetto all'esecutivo dell'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; dichiarò inoltre il suo totale disaccordo su di una politica tesa da un lato ad osannare il leader di Forza Italia e dall'altro a demonizzarlo. Alcuni tra commentatori e giornalisti insinuarono che l'astensione di Andreotti fosse dovuta alla tensione politica tra il Vaticano e il Governo Prodi, sorta circa il disegno di legge sui DICO. Andreotti partecipò in seguito, nel maggio 2007, ad una manifestazione "in difesa della famiglia" (Family Day). Il 29 aprile 2008, a seguito della rinuncia dei senatori Rita Levi-Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, Andreotti ha svolto le funzioni di presidente provvisorio del Senato della Repubblica in quanto senatore più anziano. Ha quindi diretto le votazioni che hanno portato all'elezione del senatore Renato Schifani alla seconda carica dello Stato. Il suo notevole archivio cartaceo (3.500 faldoni, dal 1944 in poi) che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio di piazza in Lucina, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo ed è stato utilizzato da Andreotti anche successivamente. Dopo il 30 dicembre 2012, giorno della scomparsa di Rita Levi-Montalcini, è stato il più anziano senatore in carica. Muore il 6 maggio 2013 nella sua casa di Roma; per volontà della famiglia le esequie si sono svolte in forma privata. È sepolto presso il cimitero monumentale del Verano di Roma.

Controversie. Vicende giudiziarie. Rapporti con Cosa nostra. Andreotti è stato sottoposto a giudizio a Palermo per associazione a delinquere di stampo mafioso (fino al 28 settembre 1982) e associazione mafiosa (dal 29 settembre 1982 in avanti). Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste (in base all'articolo 530 comma 2 c.p.p.), la sentenza d'appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all'associazione per delinquere» (Cosa nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è stato invece assolto. La sentenza della Corte d'appello di Palermo del 2 maggio 2003, in estrema sintesi, parla di una «autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». Interrogato dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell'allora Ministro degli Esteri Andreotti, ad un incontro tra lo stesso politico e quello che solo successivamente sarà identificato come boss Andrea Manciaracina, all'epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Salvatore Riina. Lo stesso Andreotti ammise in aula l'incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con problemi relativi alla legislazione sulla pesca. La sentenza di appello definì «inverosimile» la «ricostruzione dell'episodio offerta dall'imputato». Pur confermando che Andreotti incontrò uomini appartenenti a Cosa nostra anche dopo la primavera del 1980, il tribunale stabilì che mancava «qualsiasi elemento che consentisse di ricostruire il contenuto del colloquio». La versione fornita da Giulio Andreotti, secondo il tribunale, potrebbe essere dovuta «al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato». Sia l'accusa sia la difesa presentarono ricorso in Cassazione, l'una contro la parte assolutiva, e l'altra per cercare di ottenere l'assoluzione anche sui fatti fino al 1980, anziché il proscioglimento per prescrizione. Tuttavia la Corte di cassazione il 15 ottobre 2004 rigettò entrambe le richieste confermando la prescrizione per qualsiasi ipotesi di reato fino alla primavera del 1980 e l'assoluzione per il resto. Nella motivazione della sentenza di appello si legge (a pagina 211): «Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione.» Se la sentenza definitiva fosse arrivata entro il 20 dicembre 2002 (termine per la prescrizione), avrebbe potuto dare luogo ad uno dei seguenti due esiti alternativi:

- Andreotti avrebbe potuto essere condannato in base all'articolo 416 c.p., cioè all'associazione "semplice", poiché quella aggravata di tipo mafioso (416-bis c.p.) fu introdotta nel codice penale soltanto nel 1982, grazie ai relatori Virginio Rognoni (DC) e Pio La Torre (PCI), oppure

- l'imputato avrebbe potuto essere assolto con formula piena con la conferma della sentenza di primo grado.

Nel dettaglio, il giudice di legittimità scrive:

«Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l'imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nel convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall'imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale (certamente sperato, solo parzialmente conseguito) e di interventi extra ordinem, sinallagmaticamente collegati alla sua disponibilità ad incontri e ad interazioni (il riferimento della Corte territoriale è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza.»

La stessa sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che Andreotti ha incontrato almeno due volte l'allora capo dei capi di Cosa Nostra Stefano Bontade.

Le rivelazioni dei pentiti. Leonardo Messina ha affermato di aver sentito dire che Andreotti era «punciutu», ossia un uomo d'onore con giuramento rituale. Baldassare Di Maggio raccontò di un bacio tra Andreotti e Totò Riina. Successivamente questo non venne provato e si ritiene che abbia attirato tutta l'attenzione del processo su questo ipotetico fatto suggestivo, allontanandola dalle testimonianze di circa 40 pentiti. Giovanni Brusca ha affermato: «Per quel che riguarda gli omicidi Dalla Chiesa e Chinnici, io credo che non sarebbe stato possibile eseguirli senza scatenare una reazione dello Stato se non ci fosse stato il benestare di Andreotti. Durante la guerra di mafia c'erano morti tutti i giorni. Nino Salvo mi incaricò di dire a Totò Riina che Andreotti ci invitava a stare calmi, a non fare troppi morti, altrimenti sarebbe stato costretto ad intervenire con leggi speciali» e «Chiarisco che in Cosa Nostra c'era la consapevolezza di poter contare su un personaggio come Andreotti».

Omicidio Piersanti Mattarella. Nel 2004 la Cassazione conferma le accuse nei confronti di Andreotti. La sentenza, pur assolvendolo per alcuni reati e prescrivendolo per altri, afferma che Andreotti era a conoscenza delle intenzioni della mafia di uccidere il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, tanto che aveva incontrato il capo di Cosa Nostra Stefano Bontade prima che l'omicidio avvenisse, per esprimere la sua contrarietà. Quando Piersanti Mattarella venne assassinato, Andreotti si recò nuovamente in Sicilia e incontrò ancora Stefano Bontade per chiarire la vicenda. La Cassazione ha affermato: «Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontade della scelta di sopprimere il presidente della Regione.» Dopo l'omicidio, Andreotti non riferì agli inquirenti le informazioni su Stefano Bontade, responsabile dell'omicidio.

Omicidio Pecorelli. Andreotti è stato anche processato per il coinvolgimento nell'omicidio di Mino Pecorelli, avvenuto il 20 marzo 1979. Secondo i magistrati investigatori, Andreotti commissionò l'uccisione del giornalista, direttore della testata Osservatore Politico (OP). Pecorelli – che aveva già pubblicato notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli SIFAR sotto la sua gestione alla Difesa – aveva predisposto una campagna di stampa su finanziamenti illegali della Democrazia Cristiana e su presunti segreti riguardo il rapimento e l'uccisione dell'ex Presidente del Consiglio Aldo Moro avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse.

In particolare, il giornalista aveva denunciato connessioni politiche dello scandalo petroli, con una copertina intitolata Gli assegni del Presidente con l'immagine di Andreotti, ma accettò di fermare la pubblicazione del giornale già nella rotativa. Il pentito Tommaso Buscetta testimoniò che Gaetano Badalamenti gli raccontò che «l'omicidio fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica. In primo grado nel 1999 la Corte d'assise di Perugia prosciolse Andreotti, il suo braccio destro Claudio Vitalone (ex Ministro del Commercio con l'estero), Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, il presunto killer Massimo Carminati (uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari) e Michelangelo La Barbera per non aver commesso il fatto (in base all'articolo 530 c.p.p.). Successivamente, il 17 novembre 2002 la Corte d'assise d'appello ribaltò la sentenza di primo grado per Badalamenti e Andreotti, condannandoli a 24 anni di carcere come mandanti dell'omicidio Pecorelli. Il 30 ottobre 2003 la sentenza d'appello fu annullata senza rinvio dalla Cassazione, annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado. Per la Cassazione la sentenza d'appello si basava su «un proprio teorema accusatorio formulato in via autonoma e alternativa in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione», sostenendo che il processo di secondo grado avrebbe dovuto confermare il giudizio di assoluzione, basato su una «corretta applicazione della garanzia»[60]. I supremi giudici aggiunsero che le rivelazioni di Buscetta non si basavano su elementi concreti «circa l'identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi (intermediari, submandanti o esecutori materiali) del conferimento da parte di Andreotti del mandato di uccidere», oltre al fatto che mancava il movente e che la sentenza di condanna non aveva spiegato né come né perché l'imputato avrebbe ordinato l'omicidio del giornalista.

Caso Almerighi. È stato condannato in via definitiva il 4 maggio 2010 per aver diffamato il giudice Mario Almerighi definendolo «falso testimone, autore di infamie e pazzo».

Coinvolgimenti in altre vicende. La figura di Andreotti è oggetto di interpretazioni e polemiche di varia natura. Le numerose contestazioni che gli sono state volte hanno riguardato praticamente tutti i campi della sua attività e sono venute anche da politici e giornalisti illustri (come Indro Montanelli). In parte ciò è ascrivibile all'assolutamente inedito curriculum ministeriale accumulato, che fece sì che anche senza più rivestire cariche formali egli fosse referente di alti funzionari e burocrati ministeriali e dei servizi di sicurezza, con un coinvolgimento personale in vicende che non lo riguardavano più sotto il profilo istituzionale. Accuse e sospetti gli sono stati rivolti a proposito delle sue relazioni con la loggia P2, Cosa Nostra, la Chiesa cattolica e con alcuni individui legati ai più oscuri misteri della storia repubblicana. Tali voci - e specialmente il reato relativo al rapporto con Cosa Nostra - hanno certamente danneggiato la sua immagine pubblica: come s'è visto nel 1992, scaduto il mandato del dimissionario Francesco Cossiga come Presidente della repubblica, la candidatura di Andreotti sembrava destinata ad avere la meglio finché, durante i giorni delle votazioni di maggio, la strage di Capaci orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro.

Andreotti e Dalla Chiesa. Nel 1978, dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman, i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate Rosse appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro e parte di un memoriale dello stesso. Il Memoriale Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa ad Andreotti a causa delle informazioni contenute al suo interno. Inoltre nel 1979, pochi giorni prima di essere ucciso, Mino Pecorelli incontrò Dalla Chiesa per ricevere informazioni sul Memoriale, consegnandogli documenti riguardanti Andreotti. Nel 1982 Andreotti spinse molto sulla disponibilità di Dalla Chiesa ad accettare l'incarico propostogli di Prefetto di Palermo. In un diario, un appunto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa datato 2 aprile 1982 al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini scriveva che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose. Sempre Dalla Chiesa, nel suo taccuino personale scrive: «Ieri anche l'on. Andreotti mi ha chiesto di andare [da lui, ndr] e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori.[...] Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno [...] lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione e circostanze.»

Rapporti con Michele Sindona e Licio Gelli. Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.» Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all'allora Ministro della difesa Andreotti. Quest'ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d'Italia. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all'hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l'avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l'estradizione. Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l'omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente. Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando».., per poi precisare: «... intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto». Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona. Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamento: tale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l'Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest'ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio. Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «... fino alla sentenza del 18 marzo 1986Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto». Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona. Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene». Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto». A questo proposito, in un'intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero "padrone" della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l'Anello»: l'Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggichiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli».

Andreotti e il Golpe Borghese. A seguito delle rivelazioni sull'indagine legata al tentativo di Golpe da parte di Junio Valerio Borghese, il 15 settembre 1974Giulio Andreotti, all'epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descriveva il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti, che avviò un'inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Scoperto il progetto, Maletti fu costretto a scavalcare Miceli e a parlare direttamente con Andreotti. Andreotti per questo destituì Miceli e altri 20 generali e ammiragli. Ma nel 1991 si scoprì che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano in versione integrale. Vi erano infatti i nomi di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, per cui Andreotti stesso ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano "inessenziali" per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare "inutilmente nocive" per i personaggi ivi citati. Nelle parti cancellate vi era il nome di Giovanni Torrisi, successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; ma anche riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; infine si facevano rivelazioni circa un "patto" stretto da Borghese con alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo cui alcuni sicari della mafia avrebbero ucciso il capo della polizia, Angelo Vicari. L'esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta. Grazie al Freedom of Information Act nel 2004 si è inoltre scoperto che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti e che esso aveva l'"avallo" a condizione che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano "di garanzia". Il nome indicato sarebbe stato quello di Andreotti, che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente in pectore del governo post-golpe. Tuttavia non è accertato che Andreotti fosse al corrente dell'indicazione statunitense. Il dottor Adriano Monti, complice di Junio Valerio Borghese nel tentato golpe, afferma che il suo nome, come "garante politico" del colpo di Stato, sarebbe stato fatto da Otto Skorzeny, promotore dell' "organizzazione Geleme", una branca dei servizi segreti tedeschi durante la guerra, poi inserita tra le organizzazioni di intelligence fiancheggiatrici della CIA.

Incarichi parlamentari. Camera dei deputati:

Membro 3ª Commissione permanente: affari esteri, emigrazione;

Commissione speciale per l'esame di disegni di legge di conversione di decreti-legge;

Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il "dossier Mitrokhin" e l'attività d'intelligence italiana;

Commissione speciale per la tutela e la promozione dei diritti umani;

Delegazione italiana all'Assemblea parlamentare della organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).

Senato della Repubblica:

Membro 1ª Commissione (Affari Interni);

Commissione speciale per l'esame della proposta di legge De Francesco N.1459: "Norme generali sull'azione amministrativa";

Commissione speciale per l'esame del disegno di legge N.1264: "Norme in materia di locazioni e sublocazioni di immobili urbani" e delle proposte di legge in materia di locazioni e sfratti;

Membro 5ª Commissione (Bilancio e Partecipazioni Statali);

Membro 7ª Commissione (Difesa);

Componente della Giunta per il Regolamento;

Componente della 3ª Commissione (Esteri);

Presidente della 3ª Commissione (Esteri);

Componente della Rappresentanza italiana al Parlamento Europeo.

Sinossi degli incarichi di Governo.

La figura di Andreotti. Immagine privata. Enzo Biagi ha scritto di lui: «Non credo che nessuno lo abbia mai sentito gridare, né visto in preda all'agitazione. «Una cara zia» confida «mi ha insegnato a guardare alle vicende con un po' di distacco.» [...] Legge romanzi gialli, è tifoso della Roma, e si compera l'abbonamento, frequenta le corse dei cavalli, è capace di passare un pomeriggio giocando a carte, e l'attrice che preferiva, in gioventù, era la bionda Carole Lombard, colleziona campanelli e francobolli del 1870 [...] Padre di quattro figli, ha la fortuna che la sua prole tende a non farsi notare. E neppure la signora Livia, la moglie, di cui non si celebrano né gli abiti né le iniziative. Non c'è aneddotica sulla signora Andreotti.» Intervistato da Enzo Biagi, Andreotti ha detto della propria consorte: «ha un lieve brontolio ma, insomma, adesso ci siamo abituati, da una parte e dall'altra. [...] a mia moglie sono debitore dell'educazione dei figli che per il novantanove per cento è merito suo». È diventato nonno di diversi nipoti, tra cui un "Giulio" e una "Giulia". Sempre Biagi ha scritto di lui: «cattolico praticante, quasi ogni giorno, essendo assai mattiniero, va ad ascoltare la prima Messa». Indro Montanelli ha commentato che «in chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete» (Montanelli riferisce anche che, lette queste parole, Andreotti ribatté: «sì, ma a me il prete rispondeva»). Affermò di sentirsi in chiesa «molto vicino al pubblicano della parabola», convinto che nell'aldilà non sarebbe stato chiamato «a rispondere né di Pecorelli, né della mafia. Di altre cose sì». In proposito divenne celebre la sua battuta: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto». Ebbe come confessore, per circa vent'anni, mons. Mario Canciani, suo parroco presso la basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini. Sul proprio carattere, Andreotti ha rivelato: «Non ho un temperamento avventuroso e giudico pericolose le improvvisazioni emotive. [...] Lavorare molto m'è sempre piaciuto. È una... utile deformazione». Montanelli ha inoltre detto di lui: «Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato»; «è distaccato, freddo, guardingo, ha sangue di ghiaccio. [...] È autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì». Roberto Gervaso lo ha definito «più realista di Bismarck, più tempista di Talleyrand [...] La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte-Beuve».

Soprannomi. Ad Andreotti è stata attribuita una nutrita gamma di soprannomi: Per via della personalità carismatica e pragmatica, è stato soprannominato "Divo Giulio" dal giornalista Mino Pecorelli, prendendo spunto da Giulio Cesare, evidenziandone la "sacralità" nella politica italiana. È stato chiamato anche "Zio Giulio", sia per l'epiteto con il quale sarebbe stato conosciuto dai clan mafiosi secondo l'accusa rivoltagli al processo palermitano (Zù Giulio, secondo i pentiti), sia per il tono paterno con cui tante volte - durante la Seconda Repubblica - si è espresso nei suoi discorsi, atteggiandoli ad uno stile "super partes" proprio di uno degli ultimi Costituenti ancora in vita. È stato soprannominato Belzebù da Bettino Craxi quando, su un articolo di fondo uscito sull'Avanti! il 31 maggio 1981, lo volle distinguere da Belfagor, soprannome dato a Licio Gelli. Da ricordare anche altri soprannomi citati nel film Il divo: "Molok", "la Sfinge", "il Gobbo" e "il Papa Nero". "La Volpe" o talvolta "vecchia volpe" è un altro soprannome con cui ci si è riferiti ad Andreotti. Un ultimo appellativo usato più di frequente è anche "Indecifrabile".

Satira. Bersaglio molto frequente di strali satirici e di prese in giro sul suo difetto fisico (aveva una pronunciata quanto manifesta cifosi), ha sempre risposto con una proverbiale ironia di scuola epigrammatica romana che nel tempo lo ha reso fonte di una nutrita schiera di commenti e battute ancora oggi di uso comune (tra le più famose "Il potere logora chi non ce l'ha", citando Talleyrand). Fra i suoi imitatori più celebri vi erano Alighiero Noschese, Ugo Tognazzi, Enrico Montesano, Pino Caruso e Oreste Lionello.

Andreotti nel cinema, canzone e cultura di massa.  Secondo quanto affermato dalla figlia di Totò, Liliana De Curtis, la celebre scena del vagone letto nel film del 1952 Totò a colori, in cui l'attore napoletano duetta con l'onorevole Trombetta, interpretato da Mario Castellani, sarebbe stata ispirata da un incontro tra Totò e Giulio Andreotti, realmente avvenuto su un treno in un vagone letto.

Totò nel film Gli onorevoli del 1963 fa dire alla moglie che voterà per "Giulio" perché "non c'è rosa senza spine, non c'è governo senza Andreotti".

A lui si ispira la figura del potente politico italiano Licio Lucchesi nel film del 1990 Il padrino - Parte III di Francis Ford Coppola, al quale, tra l'altro, viene pronunciata all'orecchio la celebre frase "Il potere logora chi non ce l'ha".

Nel 1983 è apparso nel film Il tassinaro, con Alberto Sordi, dove con la solita acida ironia, suggerisce le Università a numero chiuso, in modo da risolvere il problema dei laureati disoccupati.

Ne Il commissario Lo Gatto (1986), con Lino Banfi, alla fine del film un attore imita Andreotti (di spalle) che ringrazia il commissario per il servigio reso alla DC grazie al polverone creato dalla sua inchiesta che aveva svelato il legame di una soubrette con Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio.

È probabilmente ispirato alla figura di Andreotti il brano L'uomo falco del 1978, nell'album Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti.

In una storia di Topolino del 1988, Paperino portaborse, il personaggio dell'onorevole Papeotti è la sua chiara parodia.

Nell'album del 1992 Nomi e cognomi di Francesco Baccini, gli è dedicata la canzone dal titolo Giulio Andreotti.

Sempre nel 1992, Pierangelo Bertoli include la canzone intitolata Giulio, nel suo album Italia d'oro, le cui invettive rivolte al soggetto della canzone non lasciano spazio a interpretazioni.

Nel film Giovanni Falcone del 1993 un attore lo imita (sempre di spalle) in tutte le scene in cui appare. In questa pellicola parla con la voce di Sandro Iovino.

Il senatore a vita è stato protagonista di un celebre cartone animato italiano, Giulio Andreotti (2000), firmato da Mario Verger, trasmesso più volte dalla RAI.

Nel 2000 ha prestato immagine e voce per alcuni spot della Diners, dove reinterpretava alcune sue famose frasi.

Nel film I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) di Giuseppe Ferrara, nel quale vengono ricostruite le vicende del banchiere Roberto Calvi. Il film ha avuto problemi durante la lavorazione, in quanto la magistratura ha voluto accertarsi delle ricostruzioni ancora al vaglio.

Nel 2005 recita in uno spot televisivo per la compagnia telefonica 3 Italia accanto a Claudio Amendola e Valeria Marini.

Nel 2008 la figura di Andreotti appare nella miniserie televisiva Aldo Moro - Il presidente.

Alla vita di Andreotti è ispirato il film Il divo di Paolo Sorrentino, il suo ruolo è stato interpretato da Toni Servillo e presentato al Festival di Cannes del 2008 e vincitore del Premio della giuria. Il film narra gli anni dal 1991 al 1993, cioè dalla fiducia all'ultimo governo Andreotti all'inizio del processo per associazione mafiosa. Il film è basato su documenti politici reali e libri che ne fanno riferimento; Andreotti ha definito il film "una mascalzonata".

Nella trasmissione di Maurizio Costanzo, il Maurizio Costanzo Show su Canale 5 del 17 gennaio del 2009, per festeggiare i 90 anni compiuti da Andreotti il 14 gennaio, Costanzo ricorda una frase detta in confidenza da Andreotti con la sua tipica ironia "A pensar male non si andrà in paradiso ma si dice la verità".

È stato Presidente del Comitato d'Onore del "Premio Marcello Sgarlata".

Nel corso di un'intervista nella trasmissione Questa domenica del 2 novembre 2008 ad opera di Paola Perego, mentre guardava il monitor che mostrava la copertina del calendario "Grande tra i grandi - i politici per i bambini", di cui era protagonista, il senatore ha subito un lieve malore in diretta.

Nell'album L'inizio (2013) di Fabrizio Moro è presente una canzone su Andreotti intitolata Io so tutto.

Nel film La mafia uccide solo d'estate di Pif, il protagonista, da bambino, per carnevale si vorrà travestire da Giulio Andreotti.

Onorificenze. Onorificenze italiane:

Cancelliere e Tesoriere dell'Ordine militare d'Italia — Dal 15 febbraio 1959 al 23 febbraio 1966 e dal 14 marzo 1974 al 23 novembre 1974.

Gran croce al merito della Croce Rossa Italiana.

Cittadino Onorario di Cassino (FR).

Cittadino Onorario di Maddaloni (CE).

Onorificenze straniere.

Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Santa Sede).

Balì di Gran Croce di Grazia Magistrale con fascia del Sovrano Ordine di Malta (SMOM).

Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Falcone (Islanda).

Cavaliere di Gran Croce del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio (Borbone - Due Sicilie).

Gran Croce al Merito dell'Ordine al Merito della Repubblica Federale Tedesca — 1957

Gran Croce dell'Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna) — 1985

Gran Croce dell'Ordine al Merito (Portogallo) — 31 ottobre 1987

Gran Croce dell'Ordine del Cristo (Portogallo) — 12 settembre 1990

Giulio Andreotti, a 100 anni dalla sua nascita ecco i lati più privati (e meno noti) del «Divo». A raccontarli è Massimo Franco, in libreria per Solferino con il saggio «C’era una volta Andreotti». Ne emerge il ritratto di un uomo profondamente legato alla propria famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo, e con una serie di passioni imprevedibili, scrive Massimo Franco il 14 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".

«Dalla culla alla tomba». A cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti, avvenuta il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. E non solo perché questo uomo-simbolo del potere è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, il mondo della Guerra fredda diviso in blocchi, e perfino il Vaticano come l’aveva conosciuto lui. «C’era una volta Andreotti» è un titolo che può suonare ambiguo. In realtà, è il certificato che consegna questo politico alla storia. Il saggio del giornalista Massimo Franco, in libreria per Solferino dal 10 gennaio, lo studia e lo analizza «dalla culla alla tomba». E ne svela anche i lati più privati e meno noti: a cominciare dalla sua famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo.

Perché non prese mai la patente. Esistono versioni diverse. Una «ufficiale»: una volta a Villa Taranto, sul Lago Maggiore (allora di proprietà di un conoscente scozzese), Andreotti salì su un’auto, ingranò la marcia, ma percorsi pochi metri prese in pieno un mucchio di neve. Seconda versione, ufficiosa: Andreotti guidava in una stradina secondaria di un paesino. Si imbattè in un corteo funebre che, vedendo la vettura avanzare a zigzag, si aprì per non aggiungere vittime. Terza versione: «Babbo non ha mai preso la patente perché era abituato fin da giovane a andare con l’autista».

Lo spacciatore di sigarette. Racconta Stefano Andreotti, uno dei figli: «Temeva che a scuola imparassimo a fumare. Allora si presentava a casa con stecche di sigarette che ci regalava convinto che in quel modo, non considerandola una trasgressione, ci saremmo stancati. Il risultato è che fino a pochi anni fa mi sparavo due pacchetti di sigarette al giorno…».

«La giacca del pervertito». Andreotti litigava raramente con la moglie. Succedeva quando la signora Livia gli faceva notare che aveva una macchia sulla camicia e doveva cambiarla. Andreotti allora protestava e si innervosiva. «Nostro padre», raccontano i figli, «indossava quello che gli preparava nostra madre. Il suo ideale non erano doppiopetto e cravatte: quella era la sua divisa da lavoro. Per vederlo felice bisognava immortalarlo col cardigan blu un po’ stazzonato; o con una veste da camera, sempre uguale, che noi figli avevamo soprannominato “la giacca del pervertito”».

Con Alberto Sordi. Quando Alberto Sordi decise di offrire una parte ad Andreotti nel suo film Il tassinaro, l’ex premier chiese alla moglie che cosa ne pensasse. «Assolutamente no», gli rispose lei, perentoria. «Non mi pare il caso». «Be’», replicò lui, «ormai abbiamo già girato la scena».

Gratta e vinci e Nougatine. A Natale, per farlo felice - rivelano i figli - bisognava regalare ad Andreotti cartocci di Nougatine, le caramelle al cioccolato con dentro scaglie di mandorla, o di Rossana ripiene di crema: ne era goloso. E i nipoti, che evidentemente lo conoscevano meglio dei figli, in una delle ultime vigilie di Natale comprarono al nonno una montagna di Gratta e vinci. Lui passò tutta la serata a grattare i tagliandini per vedere che cosa aveva vinto.

Figurine Panini ai nipoti. Era il ringraziamento dei nipoti al nonno, che quando erano piccoli dispensava album di figurine di calciatori. Ma non come farebbe chiunque. Andreotti regalava l’album insieme a tutte le figurine che servivano a completarlo. I nipoti dovevano solo tirarle fuori dalle bustine e incollarle. Andreotti era in grado di regalare loro questo piccolo lusso perché conosceva la famiglia Panini.

Slot machine coreane. Una sua interprete nei viaggi all’estero, Cristina di Pietro, racconta un altro hobby segreto di Andreotti. «Eravamo in Corea del Sud, a Seoul. Sotto il nostro albergo c’era un centro commerciale. Il presidente era sempre sotto scorta, ma un giorno sgattaiolammo fuori per vedere che cosa vendevano. Finimmo a giocare alle slot machine. Le monete coreane erano microscopiche. Lui ne metteva una e la macchinetta ne scaricava una tonnellata. Io provavo ma la slot machine se le mangiava tutte!».

Cannoli siciliani. Andreotti «era golosissimo», raccontava Giulia Bongiorno, suo avvocato nei processi per mafia, oggi Ministro per la pubblica amministrazione. «All’aeroporto di Palermo, in attesa dell’imbarco, si pappava minimo tre cannoli siciliani. Mandava Buttarelli, la sua guardia del corpo, a comprare questi cannolazzi. E come li aveva in mano, li divorava in un amen… La cosa bella è che poi telefonava alla moglie e le diceva: “Tranquilla Livia, ho mangiato leggero”. Leggero? Cannoli a strafottere».

Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

GIULIO ANDREOTTI RICORDA LE ELEZIONI DEL 1948: "MENO MALE CHE ABBIAMO VINTO NOI".  Scrive Francesco Persili su "Recensito". Democristiano sagace e manovriero, deputato dell’Assemblea Costituente, già presidente della Fuci (dopo Aldo Moro), sottosegretario dal 1947 al 1953 alla presidenza del Consiglio con De Gasperi, parlamentare, ministro dell’Interno (1954), delle Finanze (1955), del Tesoro (1958-59), della Difesa (1959, 1966, 1974) dell’Industria (1966-1968), del Bilancio (1974-1976), degli Esteri (1983-1989). Per ben sette volte presidente del Consiglio tra il 1972 e il 1991, il senatore a vita Giulio Andreotti è dal secolo scorso un protagonista di prima fila della vita politica italiana. “Divo Giulio” (per la stampa), Belzebù (per gli avversari), il dominus della Prima Repubblica sempre sulla scena e continuamente al centro di polemiche, accuse e processi, ricorda: “A parte le guerre puniche mi è stato attribuito di tutto”, dal concorso esterno in associazione di stampo mafioso all’uso spregiudicato dei servizi segreti deviati. In questa legislatura ha rischiato di diventare Presidente del Senato ed ora si batte contro il progetto di regolamentazione giuridica delle coppie di fatto (c.d. Dico). Giornalista professionista, aforista brillante (“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”) scrittore, tiene una rubrica su “Il Tempo” e scrive libri di successo (1953: fu legge truffa? è il titolo della sua ultima fatica letteraria edita da Rizzoli). Abbiamo incontrato il Senatore al termine della proiezione di “Cosacchi a San Pietro”, l’esperimento di controfattualità sulle elezioni del 1948 presentato da “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli.

Presidente Andreotti, le elezioni del 18 aprile 1948 furono un momento decisivo per la Storia dell’Italia repubblicana. Cosa sarebbe successo se avessero vinto i rossi?

Giulio Andreotti: “Il fatto che non abbia vinto il Fronte popolare lo considero una grande fortuna per l’Italia. Paradossalmente la lista unica ci aiutò molto. Nel 1946 il numero di rappresentanti eletti all’Assemblea Costituente da PCI e PSI che si presentarono separati fu molto superiore al nostro. Mi ricordo che Nenni aveva trovato, come al solito, una sintesi molto efficace ed aveva coniato il motto “Marciare divisi per colpire uniti”. La campagna elettorale mi ricordo che fu molto difficile. I comunisti erano più bravi di noi nel mobilitare le masse. Pajetta addirittura frequentò la scuola di dizione per essere più efficace quando parlava. Per le elezioni del 1948 scelsero di fare un fronte unico della sinistra con i socialisti. Il matrimonio non funzionò, meno male”.

Ci potevano essere le condizioni per realizzare in Italia un governo delle sinistre senza vincoli di cieca obbedienza nei confronti di Mosca e del Cominform?

G.A.: “Non credo ci fossero i margini per mantenere equidistanza da Mosca e da Washington. L’Italia non era un’altra cosa. La via italiana al socialismo difficilmente si sarebbe realizzata. Quando Nenni andò in Unione Sovietica a ricevere il premio Stalin tornò e riferì a De Gasperi ciò che aveva detto a Stalin: “Mi batto per un’Italia neutrale”. Ma quello fece cenno di no con il capo e lo fulminò: “L’Italia al massimo può non essere oltranzista”.

La campagna elettorale del 1948 fu durissima. Lo scontro non era tra DC e Fronte Popolare ma tra due opposte e inconciliabili visioni del mondo. Dopo il 18 aprile la situazione peggiorò. L’avversario era un nemico. Ci furono caccie all’uomo, scontri di piazza. Si arrivò a un passo dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti. Che ricordo ha del segretario del PCI?

G.A.: “Mi sento responsabile dell’attentato a Togliatti. Quel giorno ero io che parlavo al banco del governo. Si discuteva di una questione che riguardava la fornitura di carta per i giornali. Ero di una noia tale che Palmiro Togliatti decise di andarsi a prendere un gelato da Giolitti. Uscì dalla Camera e Pallante gli sparò. Rimanemmo con il fiato sospeso, poi si riprese e tornò al suo posto. Non ho avuto modo di frequentarlo spesso, né di conoscerlo a fondo. Non dava molta confidenza. Ricordo solo che una volta durante una riunione nella crisi del governo Bonomi mi raccontò del suo viaggio in Mongolia, e mi disse che le notizie o gli venivano taciute o gli giungevano con incredibile ritardo. Mi disse, insomma, che i comunisti italiani contavano poco”.

Il documentario di Minoli si apre con una confessione dell’agente della Cia Milton Friedman che ammette i brogli per favorire la vittoria della DC alle elezioni del 1948. Cosa c’è di vero?

G.A.: “Non ho mai visto un dollaro americano. Feci una campagna senza tanti mezzi, tirando la cinghia e con una macchina scassata con cui muovevo per stradine impervie. Tutta questa pioggia di aiuti americani non la ricordo. Non facevo il tesoriere della Democrazia Cristiana. Per fortuna, non mi sono mai occupato di finanziamenti…”.

Con quale stato d’animo ha ripercorso le storie tese di quei giorni che tennero a battesimo l’Italia repubblicana, democratica e filo-atlantica?

G.A.: “Ho visto questo filmato con grande commozione e partecipazione. Il fiato lungo è lo stesso di quando passammo 3 giorni e 3 notti chiusi dentro Montecitorio a discutere l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico mentre fuori impazzava la protesta. Ci fu un tentativo di invasione. Il ministro degli Interni Scelba, una persona preziosa per la democrazia in Italia, aveva dato l’ordine di lasciare fare fino a Piazza Colonna e di intervenire solo qualora i manifestanti avessero cercato di forzare quel blocco. Ci fu molta tensione. Un deputato, Giolitti mi pare, uscì e prese una botta in testa. Quando me lo riferirono risposi: “Un buon motivo per restare dentro”. Una deputata rimase male per questa cosa e per anni non mi parlò.

Come sarebbe andata a finire con un governo delle sinistre?

G.A.: “Non so se sarei stato libero. Probabilmente avremmo corso il rischio di finire come in Cecoslavacchia. La gioia per lo scampato pericolo è grande. Nonostante tutta la buona volontà delle sinistre sarebbe stato inevitabile appiattirsi sulle posizioni dell'Unione Sovietica. (Francesco Persili)

·        Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia.

Andreotti, il caritatevole alter ego di Belzebù. Claudio Rizza il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. In chiesa alle 6 del mattino, in ufficio nel fine settimana: in segreto il leader della Dc faceva il benefattore (e guadagnava voti). Raccontano che la seconda fase, quella più organizzata e scientifica, cominciò quasi per caso a San Basilio nel 1970. Periferia romana rigorosamente falce e martello, ben più su della media nazionale con i comunisti al 27% e la Dc al 40. I rossi preparavano il grande assalto al potere scudocrociato, Berlinguer sarebbe arrivato di lì a poco a Botteghe Oscure e nel ‘ 76 avrebbe fatto il botto al 34,4%, a poche incollature dalla Democrazia cristiana.

A San Basilio Andreotti era tutto tranne che popolare. Una visita in trasferta, certamente inaspettata, che assunse subito per i pci un sapore provocatorio, al di là delle intenzioni. La Dc osava aprire una sede al Lotto 16, che sarebbe come se un laziale aprisse un banchetto di magliette biancazzurre in curva Sud. C’era tensione e uno strano plebeo, dall’apparenza balorda, meno rosso degli altri diede generosamente asilo al sor Giulio in casa sua, un appartamento modesto, una famiglia modestissima, in attesa che l’aria diventasse più respirabile e meno minacciosa. Andreotti, allora capogruppo dc alla Camera, apprezzò il gesto dell’ospite. Se ne andò mettendosi a disposizione, se la famiglia “avesse avuto bisogno di qualcosa”, riconoscente. Lo ebbe, il bisogno. E lui ne tenne conto. Dicono che quello fu l’inizio della fase due. “Se si può dare un mano bisogna farlo”: lo pensava da sempre il presidente. Da quel giorno smise di essere solo un samaritano all’impronta. E per i successivi 43 anni cercò di pianificare. Poveri, bisognosi, sfortunati, barboni, bussavano alla porta in diversi modi. Si presentavano alle 6 del mattino quando Giulio andava a messa o, se la saltava, la sera alle 18,30. Si passavano parola. Antonio De Luca, carabiniere, appuntato scelto qualifica speciale, otto anni e mezzo passati col senatore a vita, la soprannominò scherzosamente la “ditta Berardi, la mattina presto e la sera tardi”. Al convento delle suore in via in Lucina, nella chiesetta senza testimoni o compagnia, erano soli lui, l’officiante e le suorine. Oppure a San Giovanni dei Fiorentini, proprio dietro la casa di via Paoli. O ancora in piazza Capranica, dinanzi al seminario dei frati da dove erano usciti ben due papi, l’ultimo dei quali fu il cardinal Montini, Paolo VI. O anche al Gesù. Lui non li chiamava poveri né bisognosi, tantomeno mendicanti, ma, con quella ironia che imperversava nel dna, “i clienti”. “Fate entrare i clienti”: dopo la messa, gli aficionados, quelli che il capocorrente, ministro e presidente, conosceva ormai di persona o su presentazione, facevano la fila nei weekend in ufficio, al quarto piano di San Lorenzo in Lucina. Durante la settimana invece lo spazio era lasciato ai clientes di seconda fascia, per le elemosine brevi manu. Lì non c’era bisogno di conoscere sua eminenza Andreotti. Il cardinale Angelini lo chiamava così, “il mio amico Giulio, l’unico cardinale laico”. I poveretti venivano dai dormitori della Caritas o dai giacigli di strada e sapevano a che ora Andreotti andava in chiesa. Qualcuno lo beccava all’ingresso, altri all’uscita. Andreotti tirava fuori dalla borsa una mazzetta di biglietti da 5 euro o i cartoncini di monete da 2 euro e distribuiva. Una volta, certo, erano lire, tagli di carta anche da 10 e 20mila. Ci pensava la segretaria a prenotare i contanti. A volte Giulio si faceva aiutare dagli uomini della scorta per accelerare la distribuzione. Ad un certo punto si accorse che quelli che venivano accontentati prima della messa sparivano appena intascato l’obolo. “Allora cambiò la regola”, racconta Antonio. “Ci disse: diamoglieli alla fine così almeno sentono messa”. La media era una ventina di poveretti al giorno, un centinaio gli euro spicci. “Chi ha veramente bisogno non ha paura di alzarsi presto”, commentava il presidente, ragionamento che valeva anche per i giornalisti che chiedevano interviste. L’orario ne scremava parecchi, diciamo i più. Mario Stanganelli del Messaggero lo sapeva e si presentava davanti alla chiesa all’alba, anche senza appuntamento. Non tornava quasi mai a mani vuote. Nemmeno quando in pieno inverno si addormentò nel tepore della sua auto appannata e Andreotti bussò al finestrino: “Che fa, Stanganelli, dorme? Lo sa che se fosse un militare sarebbe violata consegna?”. Beneficienza culturale, diciamo. In piazza in Lucina il discorso nei weekend era diverso. Col passare degli anni e il crescere dei bisogni aiutare i clienti stava diventando complicato. E soprattutto era difficile capire se i contanti venissero utilizzati per pagare le bollette, i buffi, l’affitto, il companatico, aiutare un malato, una pensione troppo minima, oppure usati per qualcosa di più lussurioso e non indispensabile. Prima delle opere di bene serviva un’opera di intelligence. La signora Enea, mitica segretaria di Giulio per un trentennio, era la regina dell’ufficio. I primi libri del capo lo copiò in carta velina. Venne avvicendata dalla dottoressa Lina Vido, una anziana funzionaria, per 43 anni di stanza a Bruxelles, che Giulio si portò a Roma per aiutarlo in ufficio. Scelta azzeccata. Veniva dalla Valtellina ma avrebbe potuto essere tedesca: i politici li aveva incontrati tutti, li conosceva a menadito. Non usava computer, quello era il suo cervello, ma la vecchia gloriosa Olivetti: si informava sui clienti, analizzava i nuovi, abilissima nello spionaggio per evitare al suo capo sbagli e imbarazzi. Riusciva ad avere informazioni su chiunque. Dicono che non chiese mai uno stipendio, diceva che le bastava la pensione di Bruxelles. Le altre due segretarie stavano al Senato, anch’esse bravissime, Daniela Bellucci e Patrizia Chilelli, 18 anni con lui: erano le uniche capaci di decifrare le zampe di gallina che componevano i libri, i “Visti da vicino” e tutto il resto della bibliografia andreottiana, più i discorsi, gli interventi…. A loro toccava organizzare la vita pubblica del senatore, un lavoraccio. Se veniva invitato alla presentazione di un libro Andreotti non andava mai e poi mai senza averlo letto. Si preparava. Ma accettava solo se il libro gli era piaciuto, altrimenti “per sopraggiunti impegni” declinava scusandosi. A Piazza in Lucina si presentavano una quarantina di clienti divisi tra sabato e domeniche mattina. Avevano spesso consuetudine col presidente. Raccontavano le vicissitudini di famiglia, i bisogni, le difficoltà. Ma brevemente, che c’era la fila. Lui non indagava, anche se certe volte le richieste potevano apparire bizzarre, il look era tutto tranne che dimesso, e ci sarebbe voluto magari un supplemento d’indagine. Ma c’era Lina a vigilare. La scorta si faceva venire qualche dubbio. Presidente, ma tutti questi soldi…? E lui: “Guarda che è molto più difficile chiedere che dare”. Un inverno, sarà stato il 2007, un anziano si infilò in ascensore mentre stavano salendo in ufficio. “Giulio, Giulio – chiamava – ti avevo chiesto un appuntamento”.” Ho avuto molti impegni….”. E quello parlava. Finito il confronto Andreotti chiese al carabiniere: “Ma tu lo conoscevi?”. “Presidente, se non lo conosceva lei, ci ha parlato per 20 minuti”. “Mai visto in vita mia”. Anche con i clienti affezionati ad un certo punto Andreotti decise di cambiare metodo, quando se li ritrovava al bar Ciampini o da Velitti dopo la beneficienza, per un cappuccino o un aperitivo. Allora decise di abolire i contanti: portassero le bollette, le fatture, al pagamento ci avrebbe pensato lui. Avrebbero poi avuto indietro le ricevute timbrate. Luce, gas, telefono, rate findomestic per pagare il dentista, bollettini d’ogni genere: l’aiuto era concreto ma controllato. Famiglie conosciute, amici di amici, sempre in difficoltà, ma mai presentati da politici o da colleghi di partito. Tutti sconosciuti ma elettori affezionati del presidente. Non chiedeva mai conto o il perché: “Vi aiuto”. Alle spalle vigilava Lina. Se Giulio per un paio di mesi non li vedeva più, sia in chiesa che in ufficio, allora chiedeva notizie, si informava se fosse successo qualcosa. Alla posta a pagare le bollette andava Cesare Di Rocco, pensionato e autista, un ex della Guardia di Finanza. Fedelissimo. Naturalmente Andreotti gli pagava la benzina e pretendeva di pagare il pieno anche all’Arma, alla sua scorta dei carabinieri “perché non voleva pesare sulle casse dello Stato”. Si comprava anche le medicine senza chiedere la ricetta gratuita: “Chi ha i soldi è giusto che paghi”. A fine mese, Giulio si dedicava a fare beneficienza al clero, a preti, frati e suore, girando per conventi, con la busta in tasca. Anche le suorine di clausura si facevano osservare volentieri per ricevere il finanziamento in contanti, scodinzolanti. Gli elettori si coltivano così. Non a caso alle elezioni il presidente superava agevolmente le 300 mila preferenze. Gli aneddoti sono infiniti, ma alcuni ne descrivono bene carattere e pensiero del Giulio familiare e privato Al congresso eucaristico col cardinale Tettamanzi una persona poco trascendente chiese: Dio esiste da oltre duemila anni ma in tutte le cose bruttissime che accadono, non crede che ci entri anche Gesù? Il cardinale laico rispose: “Che c’entra, pure il sapone esiste da tanti anni e c’è gente che ancora non si lava. Ma la colpa non è mica del sapone”. Parabole moderne. Raccontano quando durante gli anni del terrorismo sotto casa c’era la vigilanza. Donna Livia, la moglie di Giulio, si preoccupò che facesse così freddo quel Natale, e il 26 di dicembre comprò alla scorta dei giubbotti ben imbottiti. Ci riuscì anche se il negozio era chiuso. Potenza del cognome e del cuore. Altruismo che la signora Livia usava anche per riavvicinare i militari e farli trasferire in famiglia nei paesi d’origine per risparmiare sull’affitto, che a Roma è troppo caro. Con la moglie e gli amici più stretti Livia e Giulio giocavano a carte, a burraco o a scala quaranta. Un giorno Livia telefonò ad un’amica dalla macchina: “Ma sei sicura che ho vinto io? Ma no, ti devo io dei soldi”. Ma no, ma sì, un minuetto. Il bello è che dopo ore si vincevano al massimo un paio di euro. Alla fine della lunga chiacchierata muliebre Andreotti commentò secco col ghigno ironico d’ordinanza: “Con questa telefonata i due euro li hai rimessi in gioco”. Sapeva anche essere ironico con tenerezza. Dovevano andare lui e Livia ad Ostia antica a teatro e premiare Rita Levi Montalcini. C’era da fare un lungo tratto a piedi e Giulio sbottò preoccupato: “Non si può, poveretta, invece di premiarla, così finisce che la commemoriamo”. Successe che uscendo di casa in inverno il presidente dimenticasse il portafoglio. La scorta lo fece rientrare in portineria, per proteggerlo dal gelo, lui si sedette lì avvolto nel cappotto e col cappello ben calcato sulla testa, quando arrivò un addetto della Tnt a consegnare un pacco. Non lo riconobbe e gli fece a bruciapelo: “Che fai, lo piji te sto pacco?”. Giulio- portiere imperterrito firmò la ricevuta e lasciò pure la mancia. Il classico caso di “lei non sa chi era lui”. Altri tempi, ora vengono in mente i vip che non danno un centesimo di mancia ai ponyexpress che consegnano la cena o la pizza a casa per quattro soldi. Giulio odiava l’aereo, amava il treno che gli dava tempo di leggere. “Lo accusavano di essere un cinico, ma noi che stavamo accanto lo vedevamo sempre gentile, educato, mai sopra le righe. L’uomo era questo, da politico forse devi essere diverso”, nota Antonio. L’unico problema per lui carabiniere fu che tifa Lazio. Venne perdonato così :“Non tutte le ciambelle riescono col buco”. Nei momenti bui e più difficili a Giulio venivano sempre in aiuto ironia e disincanto. Al funerale di Cossiga, sincero: “Era un grande amico, un fratello”. Pausa. “Finché andiamo ai funerali degli altri va sempre tutto bene”. Amen. E finché fai beneficienza gli elettori continuano a votarti. C’era dunque il divo Giulio, altruista e, segretamente, silenzioso benefattore. Poi dicono che c’era Belzebù, ma quella è tutta un’altra storia.

Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia. Nel 1990 vengono ritrovate nel covo milanese delle Brigate rosse 400 pagine risalenti al sequestro che confermano le accuse di Pecorelli. All'interno, la conferma dell'esistenza di una struttura anti-guerriglia segreta e duri attacchi contro l'ex senatore a vita. Una fitta trama di intrighi e omissioni che proseguono lungo tutta la vita del sette volte presidente del Consiglio, dallo scontro con Cossiga alla morte, avvenuta il 6 maggio scorso, scrive Peter Gomez l'11 maggio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Dai primi passi dentro le mura vaticane (con accesso diretto all’appartamento di Pio XII) ai rapporti con Sindona. Dal caso di Wilma Montesi ai presunti contatti con Licio Gelli. E poi Salvo Lima e i boss, Ciarrapico e gli appalti. Una storia politica lunghissima, tutta vissuta nei più importanti palazzi del potere, vedendo scorrere i più clamorosi e misteriosi eventi della storia del Paese. Dal dopoguerra agli anni ’90. Ecco il primo degli appuntamenti con “Andreotti, potere e misteri”: la storia e i segreti del Divo raccontati in quattro puntate dal direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez. Nell’ottobre del 1990, durante i lavori di ristrutturazione di un covo milanese delle Brigate rosse, perquisito 12 anni prima dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vengono ritrovate 400 pagine di documenti risalenti all’epoca del sequestro di Aldo Moro. Si tratta di una ventina di lettere inedite scritte dallo statista assassinato e, soprattutto, di una copia di un suo memoriale già consegnato alla magistratura dai carabinieri nel ’78. A quell’epoca la rivista Op aveva quasi subito ipotizzato che quel documento fosse incompleto. Aveva denunciato la scomparsa delle bobine su cui i terroristi avevano inciso gli interrogatori del democristiano, e aveva intensificato, partendo dal caso Caltagirone, gli attacchi contro Andreotti. Le carte, misteriosamente ritrovate nel ’90, confermano parte delle denunce di Pecorelli. Nella nuova copia del memoriale sono, infatti, presenti brani nei quali viene affrontata la questione dell’esistenza in Italia di una struttura anti-guerriglia segreta(Gladio) e, soprattutto, ci sono alcuni durissimi passaggi riguardanti Andreotti. Moro per esempio parla dello scandalo Italcasse-Caltagirone e sostiene, tra l’altro, che la nomina del nuovo presidente dell’istituto di credito era “stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone che ha tutto sistemato…”. Come era già avvenuto nel caso delle bobine sul golpe Borghese registrate dal capitano La Bruna, insomma, ai magistrati nel ’78 era stato consegnato solo il materiale ritenuto più innocuo. Non è chiaro chi abbia materialmente omissato i memoriali e nemmeno si sa che fine abbiano fatto le bobine con gli interrogatori di Moro. E’ certo, invece, l’assassinio di Dalla Chiesa da parte di Cosa nostra. Una volta andato in pensione il valoroso generale viene, infatti, inviato a Palermo come prefetto antimafia. E lì, abbandonato da tutti e attaccato pubblicamente dagli andreottiani (definiti proprio da Dalla Chiesa in lettera indirizzata a Giovanni Spadolini, “la famiglia politica più inquinata del luogo”), crolla, con la moglie, sotto i colpi dei killer mafiosi. E’ il 3 settembre del 1982. La sua cassaforte sarà trovata vuota. Prima di accettare quell’incarico Dalla Chiesa aveva incontrato, tra gli altri, anche Andreotti. Subito dopo, nel proprio diario aveva annotato: “Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia si è manifesta per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato cui attingono i suoi grandi elettori […] sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione […] il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso…”. Il 12 novembre del 1986, Giulio Andreotti sarà interrogato come testimone al primo maxi-processo alla mafia. Al centro della sua deposizione ci sarà ovviamente il contenuto del diario dell’eroico generale. Che, incredibilmente, Andreotti tenterà di smentire. Per lui Dalla Chiesa si è, infatti, confuso. Andreotti negherà, così, di aver fatto con lui nomi di Inzerillo e di Sindona. E soprattutto sosterrà che il generale non gli disse mai che non avrebbe avuto riguardi per il suo elettorato compromesso con la mafia. Quel giorno, continuando a difendere Lima e tutti i suoi accoliti, Andreotti dimostra però che almeno su un punto Dalla Chiesa davvero sbagliava. Il suo non era stato un errore di valutazione. Era qualcos’altro. Il 27 luglio del ’90, il magistrato veneziano Felice Casson, è autorizzato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti ad acquisire nella sede del Sismi, documenti relativi a un’organizzazione segreta antiguerriglia destinata ad entrare in azione in caso d’invasione dai paesi del blocco sovietico. Il 3 agosto davanti alla Commissione stragi Andreotti spiega che la struttura è rimasta attiva fino al 1972. Il 12 ottobre viene ritrovato a Milano la copia del memoriale Moro in cui si fanno cenni all’organizzazione. Mentre montano le polemiche sulla strana scoperta, il 19 ottobre Andreotti fa arrivare in commissione un documento, sul frontespizio del quale compare per la prima volta la parola “Gladio”. Leggendo le dodici cartelle i parlamentari scoprono, però, che nel ’72 l’organizzazione non era stata sciolta, solo smilitarizzata e fatta rientrare nei servizi. Bettino Craxi intanto mette apertamente in dubbio le versioni ufficiali sul ritrovamento del secondo memoriale Moro. Parla di “manine e manone” e fa chiaramente intendere che i documenti dello statista (senza omissis) potrebbero essere stati fatti ritrovare apposta. L’indagine della Commissione stragi prosegue. I capi dei servizi rivelano che Gladio è nata almeno nel ’51, quando era presidente del consiglio De Gasperi. Nel ’56 venne firmato un accordo segreto tra Cia e il Sifar in seguito al quale, tre anni dopo, Gladio entrò nelle strutture Nato. Tutti questi passaggi, ovviamente, avvennero all’insaputa del parlamento. Come campo di addestramento dei gladiatori veniva utilizzata la base militare di capo Marrangiu. E’ la stessa struttura dove, nel ’64, il capo del Sifar De Lorenzo aveva progettato di trasferire, in caso di colpo di Stato, tutti gli oppositori politici di sinistra. Andreotti in più interventi difende la legalità della struttura. E lo stesso fa il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, molto coinvolto nell’organizzazione di questi “patrioti”. Cossiga però ipotizza che Andreotti abbia reso nota l’esistenza di Gladio per screditarlo e costringerlo alle dimissioni. Ad avviso del presidente-picconatore, Andreotti ha in mente un solo obiettivo: mandarlo a casa in anticipo e farsi eleggere al suo posto con l’appoggio del partito comunista. Tra Andreotti e Cossiga è scontro aperto. A seguito delle polemiche, nella primavera del ’91, il sesto governo Andreotti cade. Una settimana dopo si arriva al suo settimo e ultimo governo, dal quale escono però i repubblicani. In giugno Andreotti, va in Sicilia per due giorni. Qui sostiene, al fianco di Salvo Lima, i propri candidati alle elezioni regionali. Cosa Nostra è inquieta. La prima sezione della Corte di Cassazione deve decidere le sorti del primo maxi-processo. La presenza di un giudice come Corrado Carnevale, secondo i collaboratori di giustizia, aveva fatto fino allora dormire sonni tranquilli agli uomini d’onore. Ma il nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, adesso aveva accanto a sé al ministero un giudice come Giovanni Falcone. Per le sorti del processo, nella mafia, si cominciava a temere. E non era un errore. Nell’ottobre del ’91, infatti, il presidente della corte di cassazione cambia d’autorità il collegio che giudicherà il maxi. Di lì a tre mesi gli imputati di rispetto saranno tutti condannati. Andreotti invece, a sorpresa, si riappacifica con Cossiga. Il presidente in novembre lo nomina senatore a vita. Il suo governo, cosa mai accaduta prima, adesso combatte seriamente la mafia. Il 12 marzo del ’92, Salvo Lima, il cugino di Sicilia, cade sotto i colpi di Cosa Nostra. Dopo mezzo secolo troppa gente in Italia aveva cominciato a non rispettare i patti. Esplodono di nuovo le bombe. Muore Giovanni Falcone. Muore Paolo Borsellino. La mafia scopre il 41 bis. Piegati dal carcere duro, gli uomini d’onore cominciano a raccontare. Alcuni di loro diranno di aver visto Andreotti da vicino. Altri parleranno per sentito dire. In aula al processo, contro l’ex presidente del Consiglio vengono prodotti e ripetuti decine e decine di verbali. Un fiume di ricordi, un mare di testimonianze che ora è inutile star qui ad analizzare. Perché alla fine, confermato dalla Cassazione, arriveranno un attestato di colpevolezza “fino alla primavera del 1980” e un’assoluzione per i fatti successivi. Abbastanza per salvare l’imputato Andreotti Giulio dalle pene comminate tribunale degli uomini. Troppo poco per evitargli di comparire, da lunedì 6 maggio 2013, davanti a quello della storia.

·        La Malagiustizia e l’Odio Politico. La Vicenda di Giulio Andreotti.

6 maggio 2013 muore Giulio Andreotti. Le frasi celebri di Giulio Andreotti:

- "Il potere logora chi non ce l'ha";

- "Nella sua semplicità popolare, il cittadino non sofisticato, passando davanti al Parlamento o ai ministeri, è talora indotto a porre il dubbio che sia proprio lì che si governa l'Italia";

- "Se fossi nato in un campo profughi del Libano forse sarei diventato anch'io un terrorista";

- "A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto";

- "L'umiltà è una virtù stupenda, ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi";

- "Amo talmente la Germania che ne vorrei due";

- "I miei amici che facevano sport sono morti da tempo";

- "Aveva uno spiccato senso della famiglia, al punto che ne aveva due ed oltre";

- "I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato";

- "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia";

- "Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali";

- "La cattiveria dei buoni è pericolosissima";

- "Non basta avere ragione, serve avere anche qualcuno che te la dia";

- "Assicuro la mia collega che tra un pranzo e l'altro non prenderò cibo" (a Franca Rame che stava facendo lo sciopero della fame);

- "Clericalismo? La confusione abituale tra quel che è di Cesare e quel di Dio";

Storia d'Italia e di Andreotti. Da De Gasperi a Caselli, racconti e fatti (divisi per decenni) del politico che ha fatto la storia del nostro paese, scrive Stefano Vespa su “Panorama”. Due persone hanno segnato più di altre la lunga vita di Giulio Andreotti: Alcide De Gasperi e Gian Carlo Caselli. L’accostamento può apparire eccessivo, eppure si stenta a trovare una sintesi diversa di 70 anni di storia italiana, anzi andreottiana, cominciata da giovanissimo sottosegretario dello statista dc nel Dopoguerra e conclusa con gli echi dei processi per mafia cui Andreotti è stato sottoposto dagli anni Novanta. Ma ogni decennio lo ha visto protagonista.

Dai Quaranta ai Sessanta. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, nel 1946, e ministro per la prima volta a 36 anni, nel 1954, quando guidò il Viminale, Andreotti in quegli anni badò al suo collegio nel Frusinate e a costruire la sua corrente all’interno della Democrazia cristiana, corrente conservatrice e molto vicina al Vaticano. Gli anni Sessanta sono anche gli anni dello scandalo Sifar e del piano Solo, il tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, scandalo che scoppiò mentre Andreotti era ministro della Difesa. E proprio dalla distruzione dei dossier del Sifar (il servizio segreto militare) nacque una delle tante polemiche che ha caratterizzato la sua vita, mentre continuavano le guerre sotterranee tra le correnti scudocrociate.

Settanta, gli anni di piombo. Un decennio terribile: gli anni di piombo, l’omicidio Moro, la morte di due Papi, il compromesso storico e il governo della “non sfiducia”, progenitore delle attuali “larghe intese”, mentre il mondo era dominato dalla Guerra fredda. Andreotti ha vissuto da protagonista quel periodo. Presidente del Consiglio per la prima volta nel 1972, ha dovuto confrontarsi (insieme con gli altri leader dc) con la costante ascesa del Partito comunista e con la contemporanea evoluzione della società, il cui simbolo è stato il referendum sul divorzio del 1974. La proposta di compromesso storico tra i due grandi partiti popolari, Dc e Pci, avanzata su Rinascita da Enrico Berlinguer subito dopo il golpe cileno del settembre 1973, e di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario, avrebbe attraversato la politica italiana fino al luglio 1976. Caduto il governo Moro, dopo il grande successo del Pci alle elezioni politiche fu proprio Andreotti a presiedere nel luglio di quell’anno il primo governo della “non sfiducia”, un monocolore dc con l’appoggio esterno di quello che si definiva “arco costituzionale”: tutti (anche il Pci) tranne il Msi. E un filo strettissimo legò Andreotti alla tragedia Moro. Dopo la caduta di quel governo, fu proprio Aldo Moro a tessere la tela di nuove “larghe intese” e certamente non fu un caso che venne rapito il 16 marzo, mentre stava andando a Montecitorio per la fiducia che un altro governo Andreotti avrebbe, comunque, di lì a poco ottenuto ancora una volta con l’astensione del Pci. Erano gli anni della “strategia dei due forni”, una delle “invenzioni” andreottiane: la Dc, era la tesi, doveva alternativamente scegliere di accordarsi con il Pci o con Psi a seconda delle convenienze del momento. Tesi che, ovviamente, non piacque molto a Bettino Craxi, dal 1976 segretario socialista.

Ottanta, gli anni del Caf. Quel camper è passato alla storia. Durante il congresso del Psi nel gennaio 1981 Bettino Craxi e Arnaldo Forlani stilarono appunto il “patto del camper” da cui nacque il pentapartito (che univa anche Psdi, Pli e Pri) grazie al quale i partiti laici entravano nell’alternanza di governo. Andreotti “benedì” l’accordo che sancì la nascita del Caf, acronimo dei cognomi dei tre leader. Quelli furono però anche anni difficili sul fronte internazionale, molto prima della caduta del Muro di Berlino. Andreotti era ministro degli Esteri quando ci fu la crisi di Sigonella con gli Stati Uniti nella quale il premier, Bettino Craxi, com’è noto mostrò il polso di ferro impedendo agli americani di arrestare sul territorio italiano i dirottatori dell’Achille Lauro. Se fu Craxi il personaggio centrale di quelle convulse ore, Andreotti, che ne condivise le scelte, è stato alcune volte criticato per una politica estera considerata troppo filoaraba. In un’intervista l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini disse che in realtà era nello stesso tempo filoisraeliano: la sostanza stava nella posizione geostrategica della Penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata” come spiegò negli anni successivi lo stesso Andreotti con la consueta ironia.

Novanta, dal sogno Quirinale ai processi. Gli anni Novanta erano cominciati bene perché nel 1991 Andreotti fu nominato senatore a vita. Ma l’anno successivo cambiò tutto: mentre cominciava Mani pulite (che non l’ha mai sfiorato), coltivò il sogno della presidenza della Repubblica sperando di succedere a Francesco Cossiga, dimessosi alla fine di aprile. La notizia della strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, lo raggiunse nel suo studio. Lo videro impallidire e capì che non sarebbe mai andato al Quirinale. Mandò i suoi collaboratori più stretti dai vertici del Pds: il sottosegretario Nino Cristofori avvertì Claudio Petruccioli, braccio destro di Achille Occhetto, e il portavoce Stefano Andreani si recò da Luciano Violante. “L’attentato è stato fatto per bloccarmi” fece dire Andreotti. Dei processi per mafia si continuerà a scrivere per anni. Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, si insediò a Palermo il 15 gennaio 1993, proprio il giorno in cui fu arrestato Totò Riina. E nei mesi immediatamente successivi la procura di Palermo cominciò a indagare su Andreotti per i suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Tra feroci polemiche e incredulità e dopo un’assoluzione in primo grado nell’ottobre 1999, Andreotti fu condannato in appello per associazione per delinquere fino al 1980, reato ormai prescritto, mentre fu confermata l’assoluzione per gli anni successivi. Caselli aveva lasciato la procura di Palermo nel luglio 1999, pochi mesi prima dell’assoluzione di Andreotti. Molti videro nella scelta la consapevolezza che anni di indagini e di veleni non avrebbero prodotto il risultato sperato (dalla procura), anche se ovviamente Caselli ha sempre negato. Andreotti fu poi assolto anche dall’accusa di omicidio del giornalista Mino Pecorella: la Cassazione nel 2002 annullò senza rinvio la condanna in appello, confermando l’assoluzione in primo grado. Nella ventennale guerra tra politica e giustizia, però, l’inchiesta palermitana è una pietra miliare: da un lato una procura convinta di aver trovato il “terzo livello”, i capi politici della mafia; dall’altro un imputato modello incredulo, ma rispettoso della giustizia. Certamente i riconosciuti contatti fino al 1980 confermano un modo di fare politica che dimostrava una sottovalutazione del fenomeno mafioso. Nello stesso tempo, insistere sul bacio a Riina è stata a sua volta la prova di voler credere a qualunque episodio pur di poter brandire una condanna. Molto politica, prima che giudiziaria. Gli ultimi anni. Le assoluzioni, arrivate “in vita” come da lui auspicato, lo hanno fatto tornare ai suoi studi e alla politica. Non quella attiva, ma quella parlamentare. Sempre presente in aula e nella “sua” commissione Esteri del Senato, dove ascoltava e veniva ascoltato con attenzione. La sua vita andrà ancora studiata a fondo, se si vorrà davvero capire l’Italia.

Ospite della puntata di lunedì 6 maggio 2013, di Un giorno da pecora, programma radiofonico in onda su Radio 2, è stato Vittorio Sgarbi, l'irriverente polemista che ha fatto del turpiloquio un marchio di fabbrica. Su Giulio Andreotti, scomparso proprio oggi, dice: "Sono stato il primo a difendere Andreotti dai magistrati, non lo riceveva più nessuno a parte il Vaticano", rivela. Riguardo le accuse di mafia che spesso hanno lambito Andreotti, il critico d'arte afferma: "La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Per tacitare l'irruento Sgarbi, il conduttore Claudio Sabelli Fioretti ha invitato in trasmissione anche la mamma, l'87enne Rina Cavallini, l'unica a riuscire a zittire Sgarbi, che la ascolta in religioso silenzio. Sul rapporto con la madre confida: "Mia madre pensava fossi stupido perché fino a due anni non parlavo. Poi, quando ho iniziato...". Quindi spiega il motivo dei suoi sbrocchi in televisione: "Mi incazzo quando il mio interlocutore fa ragionamenti illogici o stupidi".

L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato: fu abbandonato da tutti quelli che erano certi della sua condanna. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente il 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni prima il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese. La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio. Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato. La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero. Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.

"I miei 11 anni di imputato per mafia". Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004 rilasciata a Maurizio Tortorella e pubblicata su Panorama del 21 ottobre 2004. Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello». Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.

Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?

«Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.»

Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?

«Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.»

Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?

«Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.»

Di quale pentito parla?

«Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.»

Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?

«Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».»

Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?

«Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?»

Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?

«Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.»

Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980. Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?

«Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.»

Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?

«Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione. In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato. Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.»

Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».

«Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.»

Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?

«Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.»

Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?

«Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.»

Giancarlo Caselli dice: non celebrate i 100 anni di Andreotti. È un mafioso. Prescritto ma mafioso…La polemica sul Divo Giulio, scrive Davide Varì il 6 Marzo 2019 su Il Dubbio. Che la prescrizione sia una trovata degli avvocati per fuggire dal processo e non un istituto giuridico che tutela i cittadini dall’arbitrio dei magistrati, è ormai una legge scolpita nei tribunali mediatico- giudiziari di mezza Italia. Eppure fa sempre un certo effetto scoprire che a degradare la prescrizione, quasi fosse un artificio dei “soliti azzeccagarbugli”, sia un magistrato. Ma fa ancora più effetto quando si scopre che il magistrato in questione è del livello di Giancarlo Caselli. Il fatto è che all’ex capo della procura di Palermo proprio non vanno giù le celebrazioni per il centenario della nascita di Giulio Andreotti. Caselli è infatti convinto che l’ultima e definitiva parola sulla storia politica del Divo Giulio – e dunque su un bel pezzo di storia italiana – l’ha scritta la sua procura quando ha dato il La a quello che lui stesso definisce “il padre di tutti i processi: quello al senatore Giulio Andreotti”. “Un processo – ricorda Caselli – che si è concluso con sentenza definitiva della Cassazione, decretando – una prova dopo l’altra – che l’imputato ha commesso, fino alla primavera del 1980, il delitto di partecipazione all’associazione a delinquere Cosa nostra. Delitto prescritto, ma certamente commesso”. Proprio così dice il dottor Caselli: “delitto prescritto ma commesso”. Poi Caselli ringrazia il parlamentare europeo dei 5 Stelle Ignazio Corrao, l’unico che “ha eccepito” sull’opportunità di celebrare Andreotti a Bruxelles, e bacchetta i “neomacchiavellici presenti a destra come a sinistra, sempre pronti a non distinguere la politica dalla morale, ma a contrapporre l’una all’altra’. Cosa incomprensibile per chi fatica a separare giustizia e morale…

Caro Caselli, su Andreotti sbaglia…Carlo Caselli, in occasione del centenario della nascita di Giulio Andreotti, ritorna sulle vicende giudiziarie dell’ex presidente del Consiglio. Senza, però tenere conto della sentenza della Cassazione, scrive Francesco Damato il 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Per quanto messa ampiamente nel conto, si è rivelata superiore al previsto l’insofferenza di Gian Carlo Caselli per le celebrazioni mediatiche ed anche istituzionali – com’è avvenuto ieri alla Biblioteca Giovanni Spadolini al Senato – del centenario della nascita del suo ex ed ormai defunto imputato eccellente di mafia Giulio Andreotti. Già intervenuto con largo anticipo lunedì 7 gennaio sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, dov’è di casa, con un duro articolo di monito a non “stravolgere la verità” e “truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunciano le sentenze”, Caselli ha voluto scrivere una lettera al Corriere della Sera che l’ha pubblicata sabato 12 gennaio – per contestare la rappresentazione quanto meno scettica, fatta su quel giornale da Antonio Polito, di un Andreotti assolto per modo di dire. In particolare, assolto dall’accusa formulata proprio da Caselli, quand’era capo della Procura di Palermo, di concorso esterno in associazione mafiosa ma prescritto per i fatti, pur accertati secondo lo stesso Caselli fino alla primavera del 1980, di associazione a delinquere. Che era il reato contestabile appunto sino a 39 anni fa, prima che nel codice penale entrasse quello specifico di associazione mafiosa. A Polito, come più in generale aveva fatto sul giornale di Travaglio prevenendo quanti si accingevano ad occuparsi della lunga vicenda processuale di Andreotti, durata ben undici anni, Caselli è tornato a rileggere, diciamo cosi, testo alla mano, la sentenza d’appello in cui all’ex presidente del Consiglio sarebbero stati fatti barba e capelli per i suoi rapporti con esponenti neppure secondari della mafia. In particolare, l’ex magistrato ora in pensione ha indicato come emblematici “due incontri” di Andreotti, presenti il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima, Vito Ciancimino e i cugini Salvo, col “capo dei capi” di mafia Stefano Bontate per discutere anche dell’assassinio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, suo collega di partito e fratello dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio: assassinio compiuto la mattina della Befana proprio del 1980. Di cui è stato quindi celebrato in questi giorni il trentanovesimo anniversario, con una intensità però mediatica e politica che ha dato a qualcuno, a torto o a ragione, il pretesto per contrapporlo in qualche modo alla ricorrenza del centenario della nascita di Andreotti. A quest’ultimo proprio Caselli, sempre riferendosi alla sentenza d’appello, e di revisione di quella pienamente assolutoria di primo grado, emessa a Palermo nel processo da lui promosso, è tornato a rimproverare di non avere usato le informazioni probabilmente ricevute da Bontate, morto l’anno dopo, per aiutare la magistratura a fare piena luce sull’assassinio di Piersanti Mattarella. Che “aveva pagato con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa Nostra”, ha ricordato in modo questa volta davvero pertinente l’ex magistrato anche nel primo intervento sul Fatto Quotidiano. Implacabile nella sua reazione al pur “interessante” articolo dell’editorialista e vice direttore del Corriere della Sera, Caselli ha citato la sentenza d’appello del 2003 per incidere anche sulle colonne del più diffuso giornale italiano che Andreotti “con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione col sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. Il buon Polito ha proposto un po’ ironicamente in un brevissimo corsivo di replica a Caselli una soluzione di “compromesso” alla disputa sulla conclusione del processo di mafia al 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro: “non condannato”. Cioè, non assolto e neppure condannato. Ignoro, almeno sino ad ora, la reazione di Caselli al “lodo” Polito. Nel mio piccolo, molto piccolo per carità, memore anche di un’analoga polemica avuta con Caselli nel 2008 sulle colonne del Tempo, preferisco seguire il percorso suggerito in questi giorni su facebook da un figlio di Andreotti, Stefano. Che ha riproposto all’attenzione del pubblico navigante la lettera scritta proprio al Tempo in quell’occasione dagli avvocati dell’ex imputato eccellente, allora peraltro ancora in vita. Dal quale ho motivo di ritenere che fosse venuta l’idea di quella missiva per non intervenire direttamente lui nella polemica, come io invece gli avevo chiesto ottenendo una risposta interlocutoria. Gli avvocati Giulia Bongiorno e Franco Coppi, nell’ordine in cui firmarono la lettera, non credo solo per ragioni di cavalleria da parte del professore e titolare dello studio legale, visto il particolare impegno messo nella difesa dell’ex presidente del Consiglio dall’attuale ministra della Funzione pubblica, contestarono a Caselli di fermarsi sempre, nei suoi interventi critici sul loro assistito, alla sentenza d’appello. E di limitarsi ad accennare al terzo e definitivo verdetto, quello della Cassazione emesso alla fine dell’anno successivo, come ad una pura e semplice ratifica dell’altro. Invece nella sentenza della Cassazione si trova ciò che Caselli, secondo Stefano Andreotti, cerca sempre di tenere per sé, sapendo forse che chi lo legge sui giornali, o lo sente alla radio o in televisione, difficilmente ha poi la voglia e il tempo di controllare scrupolosamente gli atti. Si legge, in particolare, nelle carte della suprema Corte che da parte dei giudici di appello in ordine ai fatti prescritti “la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi è stata effettuata in base ad apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise”. Ancora più in particolare, nella sentenza davvero definitiva di un processo – non dimentichiamolo alla cui “autorizzazione” lo stesso imputato contribuì votando palesemente a favore nell’aula del Senato, e quindi rinunciando per la parte che lo interessava all’immunità ancora spettantegli in quel momento come parlamentare, è scritto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni dei giudici d’appello, sempre in ordine ai fatti coperti dalla prescrizione, “sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica”. Non mi sembrano, francamente, parole e concetti di poco conto, ignorabili o sorvolabili in una polemica così aspra come quella che l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo usa condurre ogni volta che ne ha l’occasione parlando o scrivendo della vicenda giudiziaria di Andreotti. Caselli, si sa, avrebbe voluto che il senatore a vita, nonostante la lunghezza del procedimento cui era stato sottoposto, protrattosi – ripeto – per undici anni, ben oltre forse la “ragionevole durata” richiesta dall’articolo 111 della Costituzione nel nuovo testo in vigore dal 1999, rinunciasse anche alla prescrizione. E ancora gli contesta praticamente, anche da morto, di non averlo fatto. Una volta, andato a trovarlo a Palazzo Giustiniani in occasione di un compleanno, ne parlai con Andreotti, reduce da una fastidiosa influenza. Ma più che le sue parole, oggi facilmente confutabili dai suoi irriducibili avversari perché sarebbero postume, preferisco riferire quelle appena pronunciate dalla figlia Serena in una intervista ai tre giornali – Il Giorno, La Nazione e Il Resto del Carlino – del gruppo Riffeser: “Avremmo voluto batterci per ottenere una forma di completo scagionamento, di piena innocenza. L’abbiamo detto al babbo, ma lui e la mamma erano stanchi e hanno detto basta. Fermiamoci, va bene così, fu la risposta”. La mamma di Serena, Livia, dopo tante apprensioni e amarezze sarebbe stata peraltro dolorosamente colpita da una inguaribile malattia neurologica. Non dico di più per dare un’idea di ciò che accadde in quei tempi ad Andreotti e alla sua famiglia, a dispetto della tranquillità olimpica, o quasi, che l’ex presidente del Consiglio ostentava in pubblico, e nelle aule processuali, o dintorni, che egli frequentava con lo scrupolo di sempre. È impressionante, a quest’ultimo proposito, il racconto che in questi giorni ha fatto un amico giornalista dell’allora imputato di una serata trascorsa con lui in un albergo di Palermo, fra un’udienza processuale e l’altra. Andreotti trovava il tempo, e la voglia, di parlare degli anni giovanili in cui da sottosegretario di Alcide De Gasperi alla Presidenza del Consiglio si occupava anche di spettacolo e frequentava attori e attrici incorrendo una volta nelle proteste della moglie. Che si ingelosì davanti ad una foto che lo ritraeva sorridente a Venezia con Anna Magnani, allora legata a Roberto Rossellini. Che prima ancora di conoscere e di unirsi a Ingrid Bergman già faceva soffrire, diciamo così, la grande attrice romana. Francamente, anche alla luce delle postille della Cassazione su cui Caselli di solito tace, non mi sembra giusto – e neppure umano, aggiungerei – trattare ancora Andreotti, a sei anni circa della morte, come un imputato e partecipare ad una caccia contro di lui alla maniera un po’ dell’ispettore di polizia Javert con l’ex galeotto Jean Valjean nei Miserabili di Victor Hugo. E con questo, scusandomi in anticipo con Caselli se dovesse sentirsi ingiustamente colpito da questo richiamo letterario, davvero completo e chiudo la rievocazione di Andreotti cominciata martedì scorso 8 gennaio su queste pagine, in vista del centenario della sua nascita. Che riposi davvero e finalmente in pace, avvolto nella bandiera pur metaforica dell’articolo 59 della Costituzione, applicatogli nella nomina a senatore a vita per avere “illustrato la Patria”, il protagonista di tantissimi anni della politica italiana. Cui qualcuno cerca ogni tanto di paragonare i davvero, e sotto tutti gli aspetti, lontanissimi attori di oggi, ora accomunandogli l’ex presidente del Consiglio, pure lui, Mario Monti per la sua ironia pungente, ora il presidente del Consiglio in carica Giuseppe Conte per le mediazioni con cui si sta cimentando, ora addirittura il giovanissimo vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio per la sua agilità di posizionamento. Ha fatto quest’ultimo paragone persino in un saggio il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana mettendo a dura prova la sedia alla quale ero appoggiato leggendolo.

Andreotti e Cosa loro, scrive Piccole Note il 15 maggio 2018 su "Il Giornale". C’è stata nuova maretta riguardo la sentenza Andreotti, sulla quale val la pena spendere due righe. Sul Foglio, Maurizio Crippa stigmatizzava una scena della fiction di Pif, Pierfrancesco Diliberto, nel quale, subito dopo l’omicidio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella, veniva registrato che Andreotti incontrava il boss Stefano Bontate. Ne è nata una polemica, nella quale i soliti ambiti hanno ribadito che quanto racconta Pif è veritiero, che la Cassazione ha registrato come avvenuti i due incontri di Andreotti con il boss, quindi Andreotti è mafioso. Sono tanti ad agitare questa sentenza per alimentare la leggenda nera contro Andreotti. Sì, è stato assolto, ma è mafioso lo stesso perché la Corte ha riconosciuto la sua appartenenza alla mafia fino all”80, anche se prescritta. Anzi, una volta mafioso, è mafioso per sempre, come da tesi della procura che pure è stata smantellata dalla Cassazione. Rileggiamo la sentenza della Cassazione, la quale ratifica senza entrare nel merito, la sola sentenza dell’Appello, ignorando del tutto il verdetto del primo grado che ha assolto Andreotti. Infatti, alla Cassazione, come si legge nella sentenza, non “è consentito scegliere quale delle due sentenze di merito sia più rispettosa dei consueti canoni ermeneutici”. Essa cioè può solo verificare la logica intrinseca e la non fallacia giuridica, diciamo così, dell’Appello (anche se, per assurdo, per chi scrive non tanto, fosse più veritiera la sentenza del primo grado). Cioè può solo valutare se la sentenza d’appello “è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti […] una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica”. Ma al di là. La sentenza della Cassazione riporta, in sintesi, i contenuti della sentenza d’Appello, per analizzarne la ragionevolezza. La sentenza d’Appello, come da sintesi dei magistrati della Cassazione, rivela un asserito legame tra Giulio Andreotti e la mafia “moderata” (così nella sentenza), quella che faceva capo a Stefano Bontate; qualificata come una “disponibilità” di Andreotti, stante che non è stato rinvenuto nessun suo effettivo intervento a favore dei mafiosi. Secondo la Corte d’Appello, però, “Andreotti aveva oggettivamente sottovalutato la pericolosità dei suoi interlocutori, ma le sue certezze nei loro confronti si erano infrante tra la seconda parte del 1979 e l’inizio del 1980, allorché, chiamato a interessarsi della questione Mattarella [la mafia voleva ucciderlo perché la contrastava, ndr.], aveva indicato nella mediazione politica la possibile soluzione (fonte Francesco Marino Mannoia), che, tuttavia, dopo alcuni mesi, era stata del tutto disattesa dai mafiosi, i quali avevano assassinato il Presidente della Regione, scelta che aveva sgomentato Andreotti, il cui realismo politico non si spingeva fino a contemplare l’omicidio del possibile avversario.” Sempre secondo la Corte, “la drammatica disillusione, l’emozione suscitata dall’estrema gravità del tragico assassinio di Piersanti Mattarella, soppresso alla presenza dei familiari, e lo smacco provato nell’aver visto la sua indicazione disattesa spiegherebbero la sua decisione di ‘scendere’ a Palermo e di incontrare nuovamente gli interlocutori mafiosi per chiedere chiarimenti e non certo per felicitarsi della soluzione che pure era stata, in definitiva, foriera di notevoli vantaggi per il suo gruppo politico locale e per i suoi amici, tra cui Salvo Lima. I reclami e le critiche di Andreotti sarebbero stati, nell’occasione, tanto fermi e insistiti da suscitare l’irritazione di Bontate”, tanto che il boss lo minacciava. L’omicidio Mattarella avrebbe dunque “convinto Andreotti a distaccarsi in modo irreversibile e definitivo da Bontate e da tutto ciò che costui rappresentava”. Non solo: la disamina processuale indica irrevocabilmente che negli anni postumi “era emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto dall’imputato [Andreotti, ndr.] nella sede sua propria dell’attività politica”. Insomma, la stessa Corte di Cassazione smentisce gran parte della leggenda nera costruita contro Andreotti. Per la sentenza, Andreotti avrebbe intrattenuto rapporti con la mafia “moderata”, così nel testo (anche se non sono stati trovati riscontri di favori effettivamente resi, val la pena sottolinearlo). Egli però ne aveva sottovalutato la pericolosità, anche perché “il concomitante problema del terrorismo aveva costituito l’emergenza primaria per il Paese e, quindi, aveva assorbito l’attenzione degli uomini che, a vario titolo, ne incarnavano le istituzioni”. Come si vede, la sentenza d’Appello, che non condividiamo affatto nella parte in cui accenna ai rapporti intrattenuti da Andreotti con la mafia fino agli anni ’80, smaschera i grandi inquisitori che la sbandierano per alimentare la leggenda nera su Andreotti. A stare alla sentenza, tale narrazione è vera, ma fino a un certo punto, anzi…Ad oggi ci fermiamo qui, torneremo sul pentito Mannoia, il più credibile secondo la sentenza d’Appello, che proprio sulle sue dichiarazioni sta o cade. Ricordando che la sentenza non solo valuta la condotta di Andreotti prima dell’80 spregiudicata ma niente affatto sanguinaria, da cui anche la prescrizione, ma riconosce ad Andreotti il titolo di politico “antimafia” per gli anni a venire (bizzarro, vero?). Va ricordato. Alla prossima puntata. Ne vedrete delle belle.

Andreotti e Cosa Loro (2), scrive Piccole Note il 16 maggio 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente abbiamo accennato alla rilevanza che assumono, per la sentenza dell’Appello ratificata dalla Cassazione, i due incontri tra Andreotti e Bontate in merito all’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella. Il primo sarebbe avvenuto nel 1979, “comunque in epoca posteriore all’omicidio Reina”, come affermava il pentito Marino Mannoia (Reina è stato ucciso l’8 marzo del ’79). In questo primo incontro Andreotti avrebbe cercato di dissuadere i boss dall’uccidere Mattarella.

Andreotti e la datazione dell’incontro per evitare l’omicidio Mattarella. La datazione di tale incontro, alquanto indeterminata, diventa nel tempo ancor più imprecisa, dal momento che la sentenza dell’Appello ha “esaminato la possibilità che il sen. Andreotti si fosse recato in Sicilia anche in giorni diversi da quelli indicati” in precedenza (il virgolettato è della sentenza della Cassazione). Già, perché prima Mannoia aveva indicato che Andreotti avrebbe incontrato Bontate nella primavera-estate del ’79 (vedi interrogatorio Mannoia). Poi, dopo che la difesa ha contrastato tale datazione, reputiamo con certa efficacia, il periodo di tempo nel quale sarebbe avvenuto tale incontro si dilata fino a comprendere tutto l’anno ’79, compreso l’autunno e l’inizio dell’inverno successivo. Il senatore Andreotti avrebbe voluto “documentare i propri movimenti negli ultimi mesi del 1979 e i propri impegni per il periodo compreso tra agosto e dicembre 1979”, si legge nella sentenza della Cassazione. Evidentemente voleva tentare di contrastare anche questa nuova datazione. Ma non ha potuto, perché la sua richiesta (istanza) è stata rigettata dalla Corte d’Appello. Un rigetto che, a stare a quanto si legge nella sentenza della Cassazione, non è stato motivato, data la discrezionalità che sul punto può esercitare il giudice. Infatti, la Cassazione si premura di specificare che il rigetto di un’istanza può non essere motivato se il giudice reputa che la motivazione del rigetto può essere “implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza d’Appello”. In forza di tale principio, la Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa di Andreotti, che aveva contestato l’immotivato rigetto in quanto reputava avesse violato il principio del contraddittorio, proprio del dibattimento. Ma al di là delle contese giuridiche, i fatti sono questi: Mannoia dice che l’incontro tra Andreotti e Bontate si sarebbe svolto nella primavera-estate del ’79. Una datazione che la difesa contrasta producendo una documentazione relativa a quei mesi. In seguito, la datazione di tale presunto incontro si dilata fino a comprendere l’intero anno (tutti i mesi post omicidio Reina). La difesa di Andreotti allora chiede di integrare la documentazione riguardante gli impegni del proprio assistito, fino a comprendere l’intero arco temporale nel quale si sarebbe svolto il fatidico incontro. La Corte d’Appello rigetta senza fornire motivazione alcuna.

Il primo incontro con Bontate c’è stato perché è “logico”. Per la Cassazione va bene così. Anche perché resterebbe provato il secondo incontro, quello del 20 aprile del 1980, quando Andreotti sarebbe sceso in Sicilia per chiedere conto dell’omicidio Mattarella. Tale secondo incontro sarebbe quello al quale avrebbe partecipato direttamente il pentito Mannoia e ha trovato riscontro nelle parole di altri pentiti (scriveremo anche di questo, ma in altra sede). L’altro, il precedente, è raccontato dal solo Mannoia e per giunta gli sarebbe stato solo riferito, non vi avrebbe assistito. Né ha altri pentiti a sostegno. Sul punto, la sentenza della Cassazione recita così: “La dimostrazione dell’incontro successivo attribuisce significato alla dichiarazione “de relato” di Mannoia concernente il primo incontro e ne costituisce un riscontro logico”. In sostanza, se vero, perché riferito da più pentiti, che ci sarebbe stato il secondo incontro, nel quale il senatore Andreotti si sarebbe indignato per l’omicidio Mattarella, è vero anche il primo, seppur riferito “de relato” dal solo Mannoia, nel quale Andreotti avrebbe tentato di salvare Mattarella. Tale ricostruzione ha una sua logica intrinseca, spiega la Cassazione. Non mettiamo in discussione la logica. Di racconti logici, anche di segno opposto, se ne possono fare tanti, come spiega in più occasioni la sentenza della Cassazione (che si limita a verificare solo la logicità della sentenza d’Appello). Ma il fatto che al senatore Andreotti sia stato impedito, senza addurre motivazioni, di poter documentare i suoi spostamenti nel periodo nel quale sarebbe avvenuto il secondo incontro con i boss, seppur legittimo secondo la Cassazione, lascia interdetti. Esiste una verità giudiziaria e una storica. La storia non la scrivono i magistrati. Non è loro compito, né gli viene richiesto. Siamo certi che uno storico avrebbe invece accolto con interesse il materiale integrativo proposto dal senatore Andreotti, perché avrebbe accresciuto la documentazione sulla quale basarsi per la ricostruzione dei fatti. Ma va bene così.

Andreotti e Cosa loro (3), scrive Piccole Note il 21 maggio 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente abbiamo accennato come le dichiarazioni del pentito Marino Mannoia sui due incontri tra Andreotti e Bontate furono decisivi per convincere la Corte d’Appello a ritenere che Andreotti intrattenesse rapporti con il boss mafioso Bontate. Si tratta di due incontri avvenuti tra la primavera del ’79 e la primavera dell’80. Ciò per l’intrinseca credibilità del collaborante. Ma da sole le sue dichiarazioni non sarebbero bastate come “prova”. Da qui l’importanza delle dichiarazioni di altri a sostegno. La sentenza di Cassazione elenca tali testi; e sono: “Antonino Giuffré, Giuseppe Lipari, Giovanni Brusca, e Tommaso Buscetta”. A questi si aggiungono, in altra parte della sentenza, anche Angelo Siino e Antonino Mammoliti. A riferire degli incontri tra Andreotti e il Bontate sono Giuffré, Lipari e Siino, mentre Brusca, Buscetta e Mammoliti parlano solo di rapporti tra Andreotti e il boss in questione, con racconti più o meno generici.

Ma vediamo appunto i “riscontri” dei due incontri Bontate-Andreotti. A parlarne è Antonino Giuffré, il quale entra nel processo solo nel corso dell’Appello. La Corte precisa che “tenuto conto che l’episodio era stato oggetto di ampio dibattito nel corso del primo grado del giudizio e che, inevitabilmente, era stato riportato dai mezzi di informazione” etc. Detto in altre parole: si riconosce che Giuffrè poteva aver letto sui giornali dell’incontro narrato da Mannoia. Anzi si può dire che è impossibile non ne abbia letto, stante che si trattava di Cosa Sua o Loro che dir si voglia. Una conferma postuma per via mediatica… vabbè. Il secondo a riscontrare puntualmente Mannoia sugli incontri è Giuseppe (Pino) Lipari, il quale “non aveva riscosso particolare successo presso i magistrati inquirenti, tanto che nei suoi confronti risultava essere revocata la procedura di ammissione al regime previsto dalla legge per i collaboratori di giustizia”. Vabbè. Il terzo a parlare dei due incontri, si legge in altra parte della sentenza, è Angelo Siino. Nella stessa si legge: “Le dichiarazioni di costui avevano tratto spunto da quelle, a lui note, di Marino Mannoia”… vabbè. Dunque, per la sentenza della Cassazione, il racconto di Mannoia, il superteste più che credibile, è riscontrato da due personaggi che hanno letto le sue dichiarazioni prima di parlare e da un terzo che i magistrati dicono che non è credibile. Vabbè. Il problema è che la Cassazione deve solo registrare la logica insita nella sentenza d’Appello. Non può entrare nel merito. Funziona così. Quanto ai rapporti tra Andreotti e il Bontate, la sentenza della Cassazione cita anzitutto la testimonianza di Tommaso Buscetta. Poco importa che Buscetta sia stato sconfessato nel processo Pecorelli. Non una sconfessione da poco, ché quel processo è nato in base alle sue dichiarazioni, secondo le quali Andreotti aveva chiesto ai Salvo di uccidere il giornalista per le carte di Moro. Anni di processo e dibattimenti. Vani. Una sentenza che ha smentito in pieno anche le sue dichiarazioni sui contatti per liberare Moro, che avrebbe gestito lui in prima persona prima di abbandonare la scena perché i politici non lo volevano liberare. Tutto falso. La sentenza di Cassazione di Palermo accenna a queste circostanze, ma spiega che non può tenerne conto. Questo il meccanismo, “deve essere così”, come scrive Moro nel suo memoriale. Sempre sui rapporti tra Andreotti e Bontate parla Giovanni Brusca. Per saggiare la credibilità del pentito, si può leggere un articolo di Bolzoni sulla Repubblica. Ma va bene anche Wikipedia. Certo, al tempo della sentenza d’Appello e della Cassazione su Andreotti, certe cose non si sapevano. Vabbè. L’altro teste citato nella sentenza della Cassazione che confermerebbe l’esistenza di rapporti tra Andreotti e Bontate è l’Antonino Mammoliti. Teste che la stessa Cassazione definisce di “problematica credibilità”… Vabbè. Vabbè… che altro? Per quanto riguarda Marino Mannoia e la sua incredibile credibilità, rimandiamo alla prossima puntata.

Andreotti e Cosa Loro (4), scrive Piccole Note il 6 giugno 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente avevamo accennato all’incredibile credibilità del pentito Marino Mannoia, la cui dichiarazioni sono risultate decisive per indurre i giudici dell’appello del processo Andreotti a dare per avvenuti due incontri tra lo statista e il boss mafioso Stefano Bontate.

La Cassazione. Tali incontri sarebbero avvenuti tra la primavera del ’79 e i primi mesi dell’80. Nel primo Andreotti avrebbe chiesto ai boss di non uccidere l’allora presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella. Nel secondo, dopo il brutale assassinio, avrebbe rimproverato i boss e preso le distanza da essi, dando un’impronta anti-mafia alla sua attività politica. Fin qui la sentenza d’appello del processo, ribadita anche dalla Cassazione, che ne rileva la logicità narrativa (anche se specifica che ci possono essere altre narrazioni dei fatti, altrettanto logiche). Certo, da magistrati e giudici non si può pretendere scrivano la storia. Ma un po’ di storia, invero, aiuta a comprendere certi avvenimenti.

Piersanti Mattarella come Moro. Piersanti Mattarella venne ucciso il giorno dell’epifania del 1980. Un omicidio politico speculare al delitto Moro. Anche Mattarella, infatti, fu ucciso per aver aperto al Pci, con l’accordo del quale governava la Sicilia. Un’apertura che era stata fatta da Salvo Lima, il leader della corrente andreottiana siciliana, protagonista di quello strappo. L’omicidio Mattarella viene infatti preceduto, e non certo per caso, da quello del braccio destro di Lima, Michele Reina, assassinato il 6 marzo del 1978. L’assassinio di Reina diede avvio agli omicidi politici in Sicilia, proseguiti appunto col delitto Mattarella e conclusi con l’uccisione del segretario regionale del Pci Pio La Torre, fulminato il 30 aprile dell’82. Falcone, indagando su Mattarella, aveva battuto la “pista nera”, mettendo sotto accusa i neofascisti Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, per i quali spiccò un mandato di cattura, che non ebbe però seguito. Il magistrato era convinto che gli omicidi politici siciliani non fossero solo cose di Cosa nostra, ma erano da collegarsi alla strategia della tensione. Quella strategia culminata, a livello nazionale, nell’omicidio Moro. Fallito il compromesso storico a Roma, ideato da Andreotti e Moro, questo proseguì in Sicilia, grazie all’accordo tra la corrente di Lima, la sinistra democristiana e il Pci siciliano. Reina, braccio destro di Lima, aveva appena raggiunto l’accordo col Pci quando fu assassinato. Era il giorno 6 (marzo), come in un altro 6 (gennaio) sarebbe stato fulminato Mattarella. Numerologia infausta e forse non casuale.

I pentiti Buscetta e Mannoia. A “chiudere” definitivamente la pista che portava alla strategia della tensione furono i pentiti Buscetta e Contorno, ai quali si aggiunse in seguito Mannoia. Sia Buscetta che Mannoia avevano vissuto molti anni in America, gestiti dall’Fbi. Furono tali pentiti a circoscrivere i delitti al solo ambito mafioso, togliendo dal piatto la pista della strategia della tensione, che certo irritava potenti ambiti atlantisti, accusati da media, libri e uomini politici e di cultura di aver usato tale strategia per impedire l’accordo tra Dc e Pci. Falcone accolse le dichiarazioni dei pentiti perché gli permettevano di chiudere un capitolo importante della mafia, stante che furono indispensabili per far condannare la cupola mafiosa diretta da Michele Greco. Detto questo, al magistrato siciliano essi non raccontarono le sorprendenti rivelazioni che fecero successivamente al processo Andreotti: perché non li avrebbe creduti, come avvenne per il pentito Pellegriti, che accusò Lima di essere mafioso e Falcone lo condannò per calunnia. Non solo Falcone, Tanti non hanno mai creduto, né credono, a quella spiegazione riduttiva, ribadendo la veridicità della prima convinzione di Falcone. Sul punto ne scrive, ad esempio, Giovanni Grasso, portavoce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel suo ultimo libro, “Piersanti Mattarella, uomo solo contro la mafia”, ribadisce quel che ha sempre sostenuto la moglie di Piersanti, che si trovava con il marito quando fu ucciso.

Per lei il killer era Giusva Fioravanti. L’aveva visto in faccia e non poteva sbagliare.  Anche il figlio, che racconta lo spietato omicidio e lo collega al delitto Moro (cliccare qui) indicherà nel killer nero l’assassino del padre. Alla prossima puntata.

Andreotti e Cosa Loro (5), scrive Piccole Note il 16 gennaio 2019 su "Il Giornale". Nella ricorrenza dei cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti è arrivato puntuale l’atto di accusa di Giancarlo Caselli, per il quale va detto a suo merito che, a differenza di altri, ha contrastato in maniera aperta e non occulta lo statista italiano.

Andreotti e la sentenza ignorata. Nel suo scritto, Caselli ripete l’usuale mantra: Andreotti, come da sentenza di Cassazione, sarebbe stato condannato per associazione mafiosa fino agli anni ’80. Condanna che per l’ex magistrato di Palermo si estenderebbe, di fatto, anche agli anni successivi. Al processo Andreotti di Palermo abbiamo dedicato articoli più specifici, ai quali rimandiamo. Interessa in questa sede riportare un convincimento della Cassazione del tutto obliato. Secondo la sentenza, Andreotti avrebbe intrattenuto rapporti con la mafia fino alla fine del ’79 – inizio ’80, quando l’omicidio Mattarella lo sconvolge e gli fa scoprire la vera natura del sodalizio criminale. Quel delitto, scrivono i magistrati, avrebbe “convinto Andreotti a distaccarsi in modo irreversibile e definitivo” dalla mafia. Non solo, negli anni successivi, scrive la sentenza, è “emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto dall’imputato [Andreotti, ndr.] nella sede sua propria dell’attività politica”.

I misteri della legione pentiti. Il punto vero che la magistratura dovrebbe indagare è perché legioni di pentiti, tanti dei quali patrocinati da uno stesso avvocato, Luigi Li Gotti (col rischio di commistioni indebite delle loro dichiarazioni, eventualità che evidentemente i magistrati non hanno riscontrato), abbiano invece propalato narrazioni inventate di sana pianta. Narrazioni dettagliate di malefatte che sarebbero avvenute proprio negli anni in cui la Cassazione ha evidenziato al contrario l’impegno antimafia di Andreotti. Perché si sono inventati tante frottole? E come hanno fatto i magistrati dell’accusa a credere a tali invenzioni (vedi ad esempio il fantomatico bacio di Riina)?  Le reiterate sviste di allora fanno leggere le spiegazioni odierne di Caselli con la relatività del caso. Resta il dubbio, si accennava, sulla prescrizione dell’asserito legame tra Andreotti e la mafia fino agli anni ’80: Caselli dice sia stato accertato, altri leggono la prescrizione, come avviene in altri casi, come un’assoluzione.

Intrecci perversi. Tralasciando la querelle, va spiegato un particolare che ha importanza capitale nella vicenda processuale di Andreotti e che nessuno prende mai in considerazione, ovvero la decisiva incidenza della sentenza di Perugia (omicidio Pecorelli) su quella di Palermo (associazione mafiosa). Il 24 settembre 1999 la Corte d’Assise di Perugia assolve Andreotti dall’omicidio Pecorelli. Il mese dopo, il 23 ottobre 1999, il Tribunale di Palermo assolve con formula piena Andreotti dall’accusa di mafia. Tutto sembra risolversi in una bolla di sapone, quando, il 17 novembre 2002 arriva la condanna di Perugia: Andreotti avrebbe ucciso Pecorelli grazie ai suoi rapporti con la mafia. Il 2 maggio del 2003 il Tribunale di Palermo assolve un’altra volta Andreotti, ma con la formula accennata in precedenza (prima del ’79 – 80 e dopo). Il 15 ottobre 2004 la Cassazione conferma la sentenza di Palermo (sull’ambiguità strutturale di tale sentenza, vedi Piccolenote). Come si vede, la condanna di Perugia ha un peso, eccome, sulla successiva sentenza di Palermo e sulla relativa sentenza di Cassazione. Se il Tribunale di Palermo e la successiva Cassazione avessero assolto con formula piena Andreotti, come in precedenza, avrebbero smentito in maniera clamorosa quanto “accertato” dai colleghi di Perugia sui rapporti tra Andreotti e la mafia. I giudici di Palermo si sono trovati davanti a un dato di fatto, che semplicemente non potevano smentire. Da qui l’ambiguità della sentenza palermitana. Il 30 ottobre 2003, però, la Cassazione faceva letteralmente a pezzi la sentenza di condanna di Perugia, assolvendo con formula piena l’imputato. Ma giungeva tardi. Ormai il processo di Palermo si era chiuso definitivamente.

L’afasia del grande pentito. La tempistica e l’intreccio giudiziario tra Palermo e Perugia ha giocato dunque un ruolo perverso in questa vicenda. A sfavore dell’imputato. Non solo, l’asserita frequentazione pregressa di Andreotti con la mafia si basa sulla sola testimonianza del pentito Marino Mannoia. Ci sono altri tre pentiti, vero, ma la stessa sentenza di Cassazione ne evidenzia la poca affidabilità (vedi Piccolenote). La testimonianza di Mannoia fu decisiva per ottenere dal Parlamento l’autorizzazione a procedere contro Andreotti per il delitto Pecorelli, passo necessario per avviare il processo. Eppure, nonostante questo, al processo di Perugia Mannoia si è stranamente avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo esilarante intervento a tale processo si può ascoltare su Radio radicale. In questo modo, Mannoia ha evitato (o qualcuno gli ha evitato) di essere travolto anche lui dalla sentenza di Cassazione del processo Pecorelli, che smentisce in maniera categorica le dichiarazioni dei pentiti che hanno parlato in tale sede (tra cui Tommaso Buscetta, accusatore principe di Andreotti). Mossa da prestigiatore. Risultata decisiva. Resta che l’occulta arte della prestidigitazione ha poco a che vedere con la realtà e che, forse, dovrebbe restare fuori dalle aule di tribunale. Nota a margine. Per i cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti, rimandiamo a una breve biografia realizzata per il sito del mensile 30Giorni.