Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

ANTONIO GIANGRANDE

INGIUSTIZIA

E

RIBELLIONE

PRIMA PARTE

 DI ANTONIO GIANGRANDE

 

censura ed omertà.png

INGIUSTIZIE E RIBELLIONE.jpg

 

 

ANTONIO GIANGRANDE

INGIUSTIZIA E RIBELLIONE

BIOGRAFIA DI UN ITALIANO VERO

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

 

 

 

 

SOMMARIO

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PREMESSA: LA CREDIBILITA’.

PREMESSA: IL PERCHE’ DI UNA MISSIONE.

PREMESSA: GLI OSTACOLI.

PREMESSA: LA CENSURA.

PREMESSA: IL DIRITTO D’AUTORE ED IL DIRITTO DI CITAZIONE.

PREMESSA: IL DIRITTO DI CRITICA.

PREMESSA: LE NUOVE IDEOLOGIE.

PREMESSA: IL PROGRAMMA POLITICO.

INTRODUZIONE.

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PERCHE’ NON SON DIVENTATO AVVOCATO.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

TUTTA L’ITALIA E’ PAESE

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

 “TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. ANTONIO GIANGRANDE E RITA ROMANO: DAVIDE E GOLIA. LA DENUNCIA PER ABUSO DI UFFICIO E LA CONTRODENUNCIA PER CALUNNIA E DIFFAMAZIONE. LE CARTE PUBBLICHE DEL PROCESSO PUBBLICO DEL TRIBUNALE DI POTENZA.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

IPOCRITI. IL GIORNO DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

TARANTO. GUERRA DI TOGHE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

SARAH SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI MANETTARI.

VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

 “TARANTO: NON SOLO SCAZZI, SERRANO, MISSERI. QUEL TRIBUNALE E’ IL FORO DELL’INGIUSTIZIA”.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??

L’INTERVISTA MAI FATTA AD ANTONIO GIANGRANDE.

CAMPAGNA PER LA LEGALITA' E LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO.

LA IRRESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI.

ITALIA, GIURISPRUDENZA ILLOGICA E DANNOSA.

LA SITUAZIONE ITALIANA. L’ITALIA DEL TRUCCO: L’ITALIA CHE SIAMO.

FISCO E TASSE. ITALIA: RACKET DI STATO.

5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI.

DISGUSTO SANITA’. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE: FONTE DI TUTTE LE MAFIE.

FALLIMENTOPOLI IN ITALIA. FALLIMENTI DI AZIENDE SANE: FABBRICA DEL REDDITO PER GLI OPERATORI GIUDIZIARI.

INQUINAMENTO. QUELLO CHE NON SI FA.

L'AGRICOLTURA. LA VOGLIONO SMANTELLARE.

LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.

LA SICUREZZA NELLE SCUOLE. QUELLA CHE NON C’E’.

GIUSTIZIA E LEGALITA’: CHIMERE IRRAGGIUNGIBILI. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.

L'USURA. BANCARIA E DI STATO?

LE CARCERI. OMICIDI E TORTURA DI STATO. COLPEVOLE INDIFFERENZA. QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI.

CENSURA ED INFORMAZIONE.

LE AFFISSIONI ELETTORALI ABUSIVE. VISIBILITA’ ABUSIVA E SELVAGGIA.

NOMINA TRUCCATA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.

I CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.

L'ACCESSO ALL'IMPIEGO PUBBLICO. LO SCANDALO DELLE STABILIZZAZIONI.

BARRIERE ARCHITETTONICHE.

PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE.

LAVORO E SINDACATI.

PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.

IL DIRITTO D'AUTORE. UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

LA  BIGENITORIALITA' ED L’AFFIDO CONDIVISO.

“LA COSTITUZIONE CHE VORREMMO”.

DOSSIER INGIUSTIZIA E RITORSIONI.

RICHIESTA DI REMISSIONE DEL PROCESSO PER MOTIVI DI LEGITTIMO SOSPETTO.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

RICORSO AL TAR. UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA.

PARLIAMO DI LAVORO. L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.

UNA GENERAZIONE A PERDERE.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

I VICINI DI CASA

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

ANTONIO GIANGRANDE

INGIUSTIZIA E RIBELLIONE

PRIMA PARTE

 

 

CURRICULUM VITAE

DI GIANGRANDE ANTONIO

 

DATI PERSONALI

 

Giangrande Antonio

Di Oronzo Giangrande bracciante agricolo 22/04/1937 – 10/10/2022

e Antonia Santo bracciante agricola 21/02/41

Nato ad Avetrana (TA) il 02-06-1963

Residente ad Avetrana (TA) in via A. Manzoni n. 49

Tel/Fax    099.9708396   Cell.3289163996   

E-mail presidente@controtuttelemafie.it   

giangrande.antonio@postecert.it

DATI FAMILIARI

Moglie da 01/03/1984:

Cosima Petarra Erchie 08/05/1964 addetta impresa pulizie

Figli:

1. Mirko Giangrande Manduria 26/01/1985: Avvocato più giovane d’Italia a 25 anni con doppia laurea primina e diploma secondario con soli 4 anni, con 10 a tutte le materie, e non 5; Addetto Ufficio per il Processo UPP; Professore di Diritto degli istituti superiori.

2. Tamara Giangrande Manduria 16/08/1986, coadiuvante familiare impresa artigianale manufatti in cemento

Nipoti, figli di Tamara:

1. Antonio Minò Francavilla Fontana 29/03/2015

2. Nicolò Minò Francavilla Fontana 07/09/2020

TITOLI DI STUDIO

 

1. Diploma di Licenza Media il 23 giugno 1977

2. 20/02/84. Iscritto nel Registro degli Esercenti il Commercio al dettaglio di Taranto: Tab.: I-II-III-IV-V-VI-VII-VIII-XIV (tabella speciale tabaccai).

3. Diploma di Ragioniere e Perito Commerciale presso l’Istituto Statale Tecnico Commerciale Luigi Einaudi di Manduria (TA) 5 luglio 1992:

A. Privatista per tutti i 5 anni;

B. Voto: 36/60.

4. Laurea in Giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano 11 luglio 1996.

A. Vecchio Ordinamento Quadriennale;

B. Studente Lavoratore e famiglia a carico (moglie e 2 figli);

C. 26 annualità superate in 2 anni;

D. Voto: 79/110

5. Titolo regionale della Regione Puglia:

6. Operatore dei Servizi Giudiziari: Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari. Qualifica regionale di 600 ore: 350 ore di teoria, 250 ore di stage. Inizio 25/02/2023 fine 01/08/2023. Corso svolto presso Dea Center di Salice Salentino (Le). Oneri omnicomprensivi 3.000 euro.

CERTIFICATO PENALE

Incensurato – nessun carico pendente

Questo nonostante i reiterati tentativi di incriminazione di alcuni Magistrati ed Avvocati di Taranto per reati di opinione per aver denunciato la malagiustizia a Taranto e per aver scritto inchieste in tutta Italia.

L’intento era, oltre impedirmi l’abilitazione forense, impedirmi di partecipare ai Concorsi Pubblici, per cause inibenti di procedimenti penali conclusi con condanne o ancora in corso.

Procedimenti estinti senza seguito: Mancini, De Prezzo, Calora, Dimitri, Cavallo, Romano, Coccioli, Bravo, ecc.

CONOSCENZE

DELLE LINGUE

 

1. Scolastica:

A. Inglese;

B. Francese;

C. Tedesca.

CONOSCENZE INFORMATICHE

Sistema Operativo: Windows

Applicativi: Word, Excel, Frontpage, Microsoft Expression

PATENTI AUTO

A, B, C, D, E, (CAP non rinnovato)

POSIZIONE MILITARE

 

Servizio Militare assolto dal 27 maggio 1982 al 9 maggio 1983 presso il Battaglione Logistico Paracadutisti di Pisa

ESPERIENZA LAVORATIVA

 

1. Coadiuvante all’autolavaggio di famiglia a 14 anni: dal 2/06/1977 all’1/09/1979

2. Emigrato in Germania a 16 anni dal 1/09/1979 al 1/05/1980

3. Da 1/05/1980 all’27/05/1982 coadiuvante al negozio al dettaglio di generi alimentari di famiglia.

4. Servizio militare da 27/05/1982 al 9/05/1983

5. Dal 9/05/1983 al 13/09/1990 Imprenditore Commerciale Autonomo:

A. Commerciante carni;

B. Commerciante frutta;

C. Pizzaiolo e Ristoratore stagionale.

6. Dal 13/09/1990 al 17/06/1991: Guardia Giurata Particolare e Responsabile Unico della sicurezza del cantiere presso Igeco spa di Lecce.

7. Dal 17/06/1991 all’1/09/1992 Pizzaiolo e Ristoratore stagionale.

8. Dall’1/09/1992 all’11 luglio 1996 studente universitario lavoratore a Milano con moglie e figli a carico.

A. Dall’1/09/1992 all’1 aprile 1993 Co.Co.Co

B. Dall’1/04/1993 all’ 1/11/1993: Investigatore Privato e responsabile unico della sicurezza del Centro Direzionale di Segrate (MI) presso la De Pittis Investigazioni Milano

C. Dall’1/11/1993 all’11/07/1996 Co.Co.Co.

9. Dal 17/04/1998 al 17/04/2004: Praticante Avvocato con patrocinio legale presso Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto e Titolare di Studio Legale ad Avetrana. Non abilitato Avvocato dopo 17 anni di esame di Stato a causa di ritorsione per aver denunciato l’esame nazionale truccato di abilitazione forense, da cui è scaturita la riforma del 2003. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03.  

10.         Dal 17/04/2005 al 20/02/2007: Imprenditore Professionale (Agenzia d’Affari) nel campo assicurativo e dell’infortunistica stradale

11.         Dal 20/02/2007 a tutt’oggi: Saggista e Sociologo Storico. Pubblicazione su Google e su Lulu di oltre 445 saggi pluridisciplinari letti in tutto il mondo. Dal 24/07/2020 Amazon, da cui si traeva la quasi totalità del profitto di vendita, ha chiuso l’account di pubblicazione, per aver rendicontato ed approfondito il fenomeno del Covid.

INCARICHI PUBBLICI

1. 04/03/2018. Presidente di Seggio elettorale

2. 03-04/10/2021. Segretario di Seggio Elettorale.

CONCORSI PUBBLICI

La procedura concorsuale assevera la legalità, ma non rispecchia la legalità.

Gli scritti:

Nei Concorsi Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:

Quella con risposte uniche e motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono, o correggono male non avendo il tempo necessario, o la preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione.

Quella con domande multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono velocità di correzione e uniformità di giudizio.

Chi è abituato all’aiutino disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in anticipo.

Il metodo di correzione degli elaborati negli esami di Stato (vedi Avvocati/magistrati) o nei concorsi pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto, non si abbisogna di microfoni o microspie nelle segrete stanze delle commissioni e dei "Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco: perché così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.

L’orale: I commissari d’esame sono nominati dalle Amministrazioni procedenti. Ergo: fanno i loro interessi.

Il loro interesse è avere come dipendente un elemento affidabile e/o esperto, più che preparato.

In questo senso la Commissione in sede di esame orale:

sceglie l’affidabilità del candidato in base al nominativo ricevuto da terzi;

sceglie l’esperienza del candidato in base agli incarichi pregressi coperti già in altre Amministrazioni Pubbliche. In questo caso il giudizio dei commissari è indirizzato, anche se vi è scena muta.

La Commissione è preparata in base alle sole domande da loro poste e non su tutti gli argomenti d’esame. Se l’argomentazione del candidato approfondisce il tema, la si mette in difficoltà e scatta la ripicca.

La prova orale, madre si tutte le arroganze e presunzioni. In sede di esame orale ti trovi di fronte una schiera di Commissari di esame che fanno sfoggio della loro sapienza rispetto a te e rispetto a loro stessi. L’oggetto dell’esame non verte sulla tua perizia rispetto alle materie esaminandi, ma sulla capacità di metterti in difficoltà rispetto alla loro presunzione di saperne più di te e del loro collega commissario. Tu che hai superato a pieni voti lo scritto ti trovi di fronte una barriera di contestazioni, di approssimazioni, di fuorvianze, che ti inceppano i ricordi e che minano il tuo stato psicologico. Se invece sei un amico o conoscente, o, meglio, un raccomandato, tutto cambia. Le domande sono benevole, o i voti sono in contrasto con la scena muta, o con risposte incomplete o fuorvianti. I senior, pur senza limitazioni all’accesso, poi sono penalizzati: non idonei a prescindere. Chi già opera in altri corpi, magari assunto con un concorso truccato, e per capriccio e sazietà vuol cambiare, è favorito, pur se incapace. Fortunati una volta, fortunati per sempre. Meglio allora se non si fanno più le prove orali.

1. 02/06/1976. Domanda nell’Arma dei Carabinieri: lettera morta. Esito scontato per un giovane che non è raccomandato.

2. 13/09/1991. Concorso della Polizia di Stato, scritto voto 8.16, tra i primi 50 sul oltre 20.000 candidati. Il seguito: lettera morta. Esito scontato per un giovane preparato che non è raccomandato.

3. 29/10/1991, prova di guida e 25/01/1992 prova psico-fisica-attitudinale superate al concorso del Ministero della Giustizia per autisti degli automezzi speciali: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

4. 26/10/1992. Concorso all’ATM di Milano per ferrotranviere. Prova di guida: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

5. 16/01/1997. Concorso di Uditore Giudiziario: lettera morta. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

6. 04/05/1998. Domanda per nomina di Giudice di Pace. Lettera Morta. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

7. 18/11/1999. Concorso di Comandante del Corpo di Polizia Municipale di Manduria. Candidati oltre 300. 5° allo scritto, all’orale preceduto da chi aveva indetto e regolato il concorso. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

8. Dalla sessione di esame di Avvocato 1998 alla sessione di esame di Avvocato 2014, per 17 anni, alla prova scritta si è dato sempre – stranamente - un voto uguale (25/30) a tutti e tre gli elaborati (civile, penale, amministrativo), insufficiente al superamento dell’esame, a mo’ di ritorsione per le battaglie intraprese. I ricorsi al Tar, rigettati, ma accolti per tutti gli altri, per le medesime ragioni. Esito scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.

9. Dal 2000 al 2023 non ho potuto svolgere concorsi pubblici per procedimenti penali pendenti con accuse risultate infondate.

10.        22/05/2023. Iscritto nell’elenco Asmelab degli aspiranti Comandanti della Polizia Locale, dopo aver superato l’esame scritto per presentare interpello all’orale delle Pubbliche Amministrazioni richiedenti, o scritto se troppi interpellanti. Esito scontato per un sessantenne preparato.

11.        10/07/2023. Comune di Venosa, aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti 229, partecipanti alla prova scritta 120, posizionato 5°, esame orale pubblico a Venosa il 14/07/2023. Preceduto. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

12.        06/09/2023. Comune di Gattinara, aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti 76, posizionato 5° IDONEO, esame orale pubblico a Gattinara il 18/09/2023. Preceduto ingiustamente. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

13.        02/10/2023. Comune di Anacapri, aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti 249. Preceduto. A tutti sono poste due domande secche: una obbligatoria sugli appalti pubblici. Nessuno ha saputo rispondere in modo esauriente, meno che uno... Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

14.        10/10/2023. Comune di Vigliano Biellese, aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti 53. Preceduto. Commissione: non idonea. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

15.        20/11/2023 e 23/11/2023 Concorso Agenzia delle Entrate. Su 129.751 candidati arrivato tra i primi 13.000. Esito scontato per un sessantenne preparato.

16.        16/12/2023 Comune di Savignano Irpino, aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissari impreparati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

17.        13/02/2024 Comune di Capri, aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissari in mala fede. Graduatoria di già graduati in altri corpi di polizia che non hanno risposto a tutte le domande, o fatto in modo incompleto o fuorviante. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

18.        20/02/2024 Comune di Beinasco (Ente capofila), elenco di idonei aspiranti Comandati della Polizia Locale dei comuni aderenti allo specifico accordo (Bruino, Castagnole Piemonte, Orbassano, Rivalta di Torino, Sangano ed il Consorzio C.I. di S.). Prova scritta: 5° su 50 candidati. Esito scontato per un sessantenne preparato.

19.        07/03/2024 Comune di Borgomanero, aspiranti Comandati della Polizia Locale. Paese senza bagni pubblici, nemmeno in stazione ferroviaria. Commissione domestica e pretenziosa. Candidati due, di cui uno già funzionario in altro ente. Entrambi bocciati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

20.        18/03/2024 Comune di Melfi, aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissione domestica. Come di solito nelle città del Sud, una marea di candidati: oltre 100. Una trentina presenti all’orale. In virtù della privacy risultati dei 6 idonei in anonimato con corrispondenza ad un numero domanda, di cui non si riesce a risalire al titolare, nemmeno per sé stessi. Esito scontato. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.

ESPERIENZA ASSOCIATIVA

 

Fondatore e Presidente Nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”

www.controtuttelemafie.it - www.telewebitalia.eu

ATTIVITA’ SPORTIVE

Calcio – Paracadutismo militare – Corsa di resistenza - Podismo

Boxe – Arti marziali

FUNZIONI AZIENDALI OFFERTE

 

Figura Professionale Duttile, Competente

MOVIMENTAZIONE

 

Disponibilità alle trasferte

 

LEGGE SULLA PRIVACY

 

Autorizzati al trattamento dei dati ai sensi del D.Lgs. 196/2003

Dr Antonio Giangrande

PREMESSA: LA CREDIBILITA’.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:

attraverso la televisione di Stato e similari;

con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;

con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.

Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.

Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.

Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.

Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.

Cosa vorrei? Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.

Invece...

L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".

Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.

Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.

C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.

Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...

Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi  a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Come era ieri, è oggi e sarà domani.

Libro di Qoelet. Prologo:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.

Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.

Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.

Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.

Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.

Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.

Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.

Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)

La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").

Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.

Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.

Caratteristiche della credibilità di una persona. Da Pensiero Critico.

Cos'è la credibilità. Quando ci troviamo di fronte a una persona elaboriamo sempre un giudizio sulla sua credibilità, e spesso siamo indotti a pensare che essa sia una proprietà intrinseca di quella persona. Secondo il sociologo Guido Gili (2005, La credibilità) la riflessione psicologica e sociologica contemporanea ha modificato questa prospettiva, proponendo che la credibilità sia qualcosa che viene riconosciuto dagli altri, anche se essa non può prescindere da qualità effettivamente possedute da quella persona. Ecco la definizione data da Gili (p.4): La credibilità è sempre una relazione tra emittente e ricevente/pubblico, per cui una credibilità universale ed un discredito universale sono i poli estremi di un continuum sul quale si collocano concretamente tante forme e modi diversi di credibilità. Spesso chi è credibile presso un interlocutore o un pubblico non lo è nello stesso modo e per le stesse ragioni presso un altro, come mostra, in modo estremo ed evidentissimo, il caso di molti leader carismatici. Per i loro seguaci rappresentano delle personalità eccezionali, dotate di qualità quasi sovrumane e di una credibilità illimitata; per gli altri possono apparire come degli esaltati, dei pazzi o dei criminali.

Il punto chiave. La credibilità non è una caratteristica intrinseca della fonte, ma è una relazione. (Guido Gili).

La credibilità è soggettiva. La credibilità che attribuiamo a una persona non è "oggettiva" ma "soggettiva": dipende da come la nostra mente è fatta in termini di ricordi, emozioni, esperienze, capacità logiche, ecc. Il problema della credibilità di una persona non si pone nei rapporti di familiarità perchè le lunghe frequentazioni permettono di maturarla e sperimentarla nel tempo (anche la familiarità, comunque, non è esente da rischi perchè espone alla manipolazione). Il problema della credibilità di una persona si pone soprattutto nelle relazioni caratterizzate da livelli crescenti di estraneità e talvolta richiede, affinchè una relazione possa iniziare, una anticipazione di credibilità.

Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia. Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia che è complementare alla credibilità, nel senso che si può parlare di fiducia solo quando l'altra persona è libera di tradirla (non vincolata da norme o imposizioni). Come ha scritto il sociologo Niklas Luhman (Le strategie della fiducia, Einaudi pp.131-132)"la fiducia non nasce da un pericolo intrinseco ma dal rischio. [...] Ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle condizioni esterne. [...]". Vi sono molti concetti legati alla credibilità (affidabilità, attendibilità, reputazione, ecc.) dei quali è opportuno conoscere le proprietà e individuare le differenze.

Credibilità dei politici italiani. Credibilità del ruolo e credibilità nel ruolo. Quando comunichiamo non siamo quasi mai individui generici ma, la maggior parte delle volte, ci portiamo dietro un ruolo specifico riconosciuto dalla società: padre, insegnante, medico, manager, politico, operaio, ecc. I diversi ruoli professionali posseggono già, di per sè, una credibilità riconosciuta: la credibilità del ruolo che influenza positivamente o negativamente la nostra percezione dell'altro. Insieme a questo tipo di credibilità ve ne è però uno più pertinente alla persona che stiamo valutando ed è la credibilità nel ruolo. Essa equivale al modo in cui quella specifica persona interpreta quel ruolo, con i suoi personali pregi e difetti. Questi due tipi di credibilità si influenzano e, di solito, se si ha un ruolo socialmente credibile si tende a interpretarlo in modo da rafforzarlo. Talvolta ciò non accade: ad esempio in Italia, negli ultimi anni, il patrimonio di credibilità del ruolo politico è stato sperperato da comportamenti personali discutibili sul piano etico (vedere ad esempio: G.Stella, S.Rizzo, La Casta - Perchè i politici italiani continuano a essere intoccabili 2007 Rizzoli). Dunque, a fronte del discredito della credibilità del ruolo, i politici (se sono eticamente dotati), dovranno impegnarsi di più nella loro credibilità nel ruolo per sperare che l'altro tipo di credibilità possa essere recuperato.

Radici della credibilità. Secondo Gili (p.7) le radici della credibilità, che i riceventi cercano nelle persone, sono tre:

radice cognitiva: è la competenza o qualifica riconosciuta di esperto.

radice etico-normativa: è la condivisione di valori percepiti (pregiudizi inclusi).

radice affettiva: è la condivisione emotiva di appartenenza (a un gruppo, un'associazione, un partito, ecc). 

Verifica della credibilità di una persona sul Web. Il web offre la possibilità di verificare rapidamente la credibilità di una persona (la sua reputazione), attraverso: i commenti postati sui blog/forum, le menzioni ricevute da altri soggetti, le immagini postate sui social networks, ecc. Questa possibilità può diventare un rischio per chi pubblica incautamente informazioni che lo riguardano, perchè spesso esistono scostamenti tra l'identità personale e l'identità digitale della stessa persona, dovuti al modo in cui la personalità dell'individuo viene "costruita" in rete. Tale problema ha dato luogo alla creazione di una nuova figura professionale: quella dell'"online reputation manager". Naturalmente ciò riguarda soprattutto le persone che hanno una immagine pubblica da difendere, ma ciò diventerà una necessità anche per le persone comuni. Quando la credibilità online di una persona viene danneggiata (dai suoi comportamenti reali o da quelli di altri) esiste la possibilità che essa si rivolga a un servizio di ricostruzione della propria reputazione digitale. Alle persone "normali", consigliamo di attuare i consigli suggeriti dall'articolo "Google e web, come gestire la reputazione online". Per chi volesse fare qualcosa in più Susan Adams ha pubblicato su Forbes sei utili consigli per gestire la propria reputazione online nel seguente articolo: "6 Steps To Managing Your Online Reputation". Esistono peraltro servizi rivolti a persone che hanno molto da nascondere e desiderano rifarsi una verginità online, ad esempio i politici: ecco un esempio di azienda che offre una "web reputation per politici" che li "ripulisce" prima di affrontare una campagna elettorale.

Monitoraggio online. Esistono servizi di "ricostruzione" della reputazione online in grado di innalzare fittiziamente la credibilità di soggetti che hanno molto da nascondere. Ciò rende più faticosa la valutazione della credibilità online di coloro che hanno le risorse per accedere a tali servizi, quali: politici, imprenditori, aziende, ecc.

Patologie della credibilità. Generalmente, se nel corso della nostra vita abbiamo vissuto in ambienti con buone relazioni interpersonali, tendiamo ad accordare alla "gente" una fiducia generalizzata. L'influsso esercitato dal sistema mediatico sul singolo individuo dipende non solo dall'efficacia comunicativa dei media, ma anche dalla vulnerabilità del singolo. La mancanza di fiducia o l'eccesso di fiducia rientrano tra le patologie della credibilità, e si collocano ai due estremi dell'asse della fiducia. In tali patologie le persone possono avere un atteggiamento di sospetto generalizzato o, all'opposto, un atteggiamento di credulità senza limiti.

I vari gradi della fiducia si trovano tra due estremi: il sospetto generalizzato e la credulità senza limiti.

Teoria della coltivazione (dei telespettatori).

Eccesso di sospetto. Nella costruzione della fiducia, in mancanza di situazioni di familiarità, influiscono anche le rappresentazioni della società offerte dai mezzi di comunicazione di massa, ad esempio l'esposizione alla violenza nelle fiction in TV (più che nelle news). Secondo una ricerca pionieristica di George Gerbner (1976), la violenza in TV produce la convinzione che anche nella propria realtà sociale vi sia violenza e che esista un'alta probabilità di rimanerne vittima. Gerbner propose una teoria (Cultivation theory) nella quale la Televisione, anzichè essere una occasione di riflessione sul mondo reale, può sostituirsi alla realtà nelle persone che si espongono per molte ore al giorno  ai suoi programmi. Secondo questa teoria le persone vengono "coltivate" fin dall'infanzia ad accettare storie, preferenze, messaggi dalla TV anzichè dalle persone reali del loro ambiente sociale. La teoria della coltivazione ha ricevuto molte critiche per le modalità di svolgimento delle interviste ma, nonostante ciò, rimane un'ipotesi sociale che mantiene un elevato grado di credibilità.

Eccesso di credulità. Riguardo alla credulità fanno riflettere i metodi usati da Kevin.D. Mitnick, un famoso hacker statunitense, per carpire informazioni riservate (L'arte dell'inganno, 2002 Feltrinelli). Mitnick ha dimostrato che l'anello debole della sicurezza dei sistemi informatici (anche i più sofisticati) non è di natura tecnologica ma è il fattore umano. Egli riusciva a procurarsi le informazioni più riservate semplicemente... chiedendole, cioè sfruttando la credulità delle persone. Egli aveva la capacità di rendersi credibile a interlocutori che non aveva mai visto nè sentito prima. Questa capacità è stata chiamata ingegneria sociale (social engineering) e consiste nel raccogliere informazioni sulla vittime (spesso per telefono) per poi arrivare all'attacco vero e proprio (di solito di natura informatica). L'ingegneria sociale impiega metodi quali: nascondere la propria identità, mentire, ingannare, rendersi credibili e sfrutta alcune tendenze generali dell'essere umano: il desiderio di rendersi utile, la tendenza alla credulità, la paura di mettersi nei guai (se non rispondono alle richieste). Nel suo libro Mitnick, che ora fa il consulente di sicurezza alle aziende, descrive nel dettaglio in che modo vengono effettuati i tentativi di manipolazione e come imparare a difendersi.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

PREMESSA: IL PERCHE’ DI UNA MISSIONE.

La contemporaneità italiana raccontata ai posteri ed agli stranieri.

Se la Storia la scrivono i vincitori, ora tocca ai vinti raccontare quello che non si riporta dalla Cultura del pensiero unico ed imperante e dai Media ideologizzati asserviti al potere politico ed economico.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho alcun potere. Ho provato a difendere gli indifesi quando praticavo nei Tribunali. Non guardavo in faccia nessuno per l’amor di verità e giustizia. Il risultato è che sono stato cacciato e perseguitato. Inoltre, coloro che difendevo mi hanno voltato le spalle.  I politici a cui segnalavo le anomalie mi prendevano per pazzo o mitomane.

Purtroppo le controversie sono risolte dai magistrati nei processi con l’ausilio degli avvocati difensori.

I quesiti a cui dare risposta sono:

Ci sono magistrati degni di stima e rispetto, che applichino la legge secondo legalità ed equità?

Ci sono avvocati che spingono i magistrati a prendere le decisioni secondo giustizia?

Ci sono governanti e legislatori che ascoltano le preghiere dei cittadini, avendo potere d’intervento sui magistrati?

Cosa fa il “popolo” per cambiare le cose?

La risposta è che ognuno guarda i “cazzi” suoi”.

Allora la mia considerazione naturale è:

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

«Il popolo è una puttana e va col maschio che vince» (Mussolini a proposito del sentimento filotedesco in Italia dopo i primi successi della Wermacht) (Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori)

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Cos’è la natura umana, lo stimolante confronto tra Chomsky e Foucault. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Ma esiste la “natura umana”, o qualcosa definibile in quanto tale sul quale basare la nostra azione politica? Ad esempio i valori della giustizia, dell’integrità, dell’amore per gli altri. Faccio un passo indietro. Come ognuno sa il repertorio illimitato che offre la Rete ha modificato la nostra insonnia, ci ha reso possibile, entro certi limiti, “usarla” (come occasione preziosa di conoscenza e apprendimento). Colpito da insonnia stagionale (calura estiva) nelle ultime notti ho navigato in Rete alla ricerca di argomenti sfiziosi, curiosità e lontane remininescenze. Non si pensi solo alla “cultura alta”: ad esempio ho rivisto i deliziosi monologhi televisivi di Walter Chiari, poi a un certo però mi sono imbattuto nel confronto, alla tv olandese, tra Noam Chomsky del Mit e Michel Foucault del Collège de France (1971) proprio sulla “natura umana” (ho successivamente scoperto che ne sono usciti due libretti, uno Derive/Approdi, l’altro Castelvecchi, infarciti di postfazioni). Ritengo che questo confronto sia straordinario, formativo, e un raro esempio di altissima drammaturgia filosofica. Cosa dicono i due grandi intellettuali?

Chomsky teorizza coerentemente la esistenza di una natura umana, che secondo lui consiste fondamentalmente – e in ciò risale a Cartesio (che definisce la mente come qualcosa che si contrappone al mondo fisico) – in una capacità creativa: si tratta di una facoltà che ogni bambino dimostra quando alle prese con una nuova situazione reagisce ad essa, la descrive, la pensa in modo nuovo, e che gli permette di apprendere la propria lingua madre rapidamente e senza impararne le regole. Una facoltà naturale, metastorica, che fonda il nostro agire politico contro ogni potere coercitivo (ed ad esempio le varie forme di disobbedienza civile): se questo bisogno di ricerca creativa (a partire dal linguaggio), di libera creazione, è un elemento della natura umana, un invariante biologico, allora una società più giusta dovrebbe permetterci di massimare la possibilità di realizzare tale caratteristica umana.

Foucault replica che invece tutto è prodotto della Storia, che nella nozione di natura umana c’è sempre qualcosa di regolativo, che quando la definiamo prendiamo in prestito elementi della nostra cultura e civiltà. Onestamente dà l’impressione di essere più sottile, più sofisticato del suo interlocutore, almeno fino a quando non cita come massima fonte autorevole Mao-Tse -Tung, che parlava di natura umana borghese e di natura umana proletaria. E aggiunge che il proletariato combatte la classe dirigente non perché lo ritiene giusto ma perché vuole prendere il potere (rivelando una antropologia alla Hobbes!). Non si mostra interessato a definire cos’è l’uomo (la sua “essenza”, definibile solo in termini metafisici) ma a capire cosa si può e si deve fare dell’uomo (in ciò singolarmente vicino a Sartre, con cui pure era spesso in polemica).

Cosa ricavarne? Non pretendo di trovare una soluzione e anzi lascio al lettore la libertà di trarne le sue conclusioni. Mi limito a osservare che in genere il buon senso (americano ed ebraico) di Chomsky me lo rende più simpatico: dice ad esempio che se il proletariato vincendo la sua battaglia creasse uno stato di polizia fondato sul Terrore allora lui vi si opporrebbe, appunto in nome di valori umani fondamentali, radicati nella nostra natura. Anche se vedo la problematicità della sua posizione: in fondo anche Hitler avrebbe potuto appellarsi alla “natura umana”, magari assumendo come sua prerogativa principale il bisogno di sicurezza! Inoltre: è anche vero che quel bisogno di creatività è un prodotto storico, nato dalla interazione sociale (tralascio la questione se davvero donne e uomini abbiano la “stessa” natura…). Provo allora a suggerire una terza posizione. A me sembra che la negazione integrale – foucaultiana – della natura umana abbia portato (si pensi all’oltranzismo di certe posizioni sul gender) alla insofferenza verso qualsiasi “limite”, alla cancellazione di ogni vincolo naturale, e dunque alla irrealtà. Per Proudhon la giustizia nasceva – in società – dal riconoscimento della dignità di ogni essere umano: «è il rispetto, spontaneamente provato e reciprocamente garantito, della dignità umana, in qualsiasi persona». Certo, questo riconoscimento è emerso a un certo punto della Storia umana, non prima, ma diventerà un punto di non ritorno. E può fondare qualsiasi tipo di resistenza al potere. In tal senso allora una azione politica potrebbe fondarsi non tanto sulla natura umana quanto su ciò che intendiamo valorizzare della natura umana (sempre contraddittoria, un poco “lunatica”, come osservò Orwell), però senza poterne prescindere.

Liberale=amante della libertà propria e rispetto di quella altrui. Secondo diritto naturale, non economico. Per esempio: i poveri non si sostengono economicamente, per farli rimanere tali, ma si aiutano a diventare ricchi, eliminando ogni ostacolo posto sulla loro strada da caste e lobbies.

In parole povere. Spiegazione con intercalare efficace: Fare i cazzi propri, senza rompere il cazzo agli altri.

Attenzione, pero, a nominare il termine “liberale” invano, perché i liberali non esistono.

Si spacciano come tali quelli come Berlusconi, ma sono solo lobbisti capitalisti. E molto hanno in comune con i comunisti, leghisti e fascisti e gli inconsistenti 5 stelle. Tutti fanno solo i cazzi loro, rompendo il cazzo agli altri.

Non c'è nessun però o nessun ma. Il diritto di aiutare è un gesto solidale. Ma l'aiuto non è per tutti. Cassa integrazione, indennità di disoccupazione, reddito di cittadinanza sono sostegni economici non per tutti. Quindi l'aiuto è tale solo se ricambiato. Il dovere di abbattere caste è lobbies per affermare l'equità è doveroso. Io voglio, se valgo, il posto degli incapaci che mi dicono cosa fare. Invece l'assuefazione al chiedere e l'abitudine a ricevere ha reso le masse proletarie parassitarie. I Poveri, anzichè battersi per i diritti, ora sono pronti a vendersi per gli oboli, diventando schiavi dei potentati gattopardiani.

Qual è la differenza tra equità e uguaglianza?

L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere, ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo.

Equità significa che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no, pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo, dovrebbe biasimare solo sè stesso, perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità.

Mattia Biella, System Integrator, Tecnico di automazione(1995 -oggi) su it.quora.com. Ha Risposto il 12 dicembre 2018.

Eccone un’immagine interessante. Uguaglianza è quando tutti sono trattati allo stesso modo (figura a sinistra).

https://qph.fs.quoracdn.net/main-qimg-17fa4c8cd8cd111731a6662785a864c9

Da qph.fs.quoracdn.net

Non è detto che cambi qualcosa: a chi già poteva non cambia nulla, per chi non poteva non è detto che adesso possa. A destra invece l’equità: non è detto che tutti ricevano lo stesso, ma ciascuno riceve quello che gli serve. Uguaglianza significa avere tutti la stesa cosa, equità significa avere tutti le stesse opportunità. Mentre l’uguaglianza è facile da ottenere, l’equità comporta scelte da parte di chi deve fornire gli strumenti. Oltretutto, chi beneficia di eventuali aiuti vede una differenza magari marcata tra ciò che egli riceve e quello che riceve invece il suo vicino/amico/compagno, e scatta il tormentone perchè lui ne ha avuto di più? Equità però significa anche che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo dovrebbe biasimare solo sè stesso perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità. L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo. Quindi chi non vuole sbattersi pensa chi me lo fa fare dato che poi comunque ho lo stesso ciò che mi serve? mentre quello che si sbatte pensa chi me lo fa fare se poi comunque non mi resta in mano nulla più di quelli che non si sbattono?. In realtà l’immagine completa comprenderebbe un terzo pannello, in cui la staccionata non c’è più ed è stata sostituita da una rete, e quella situazione rappresenta la situazione in cui gli ostacoli sono stati rimossi e tutti possono godere fin da subito delle stesse opportunità, ma va oltre la domanda posta. 

Questa immagine rende meglio l’idea, credo. In questo caso è lampante come l’uguaglianza sia di fatto discriminante, anche se a molti sembra un paradosso.

https://qph.fs.quoracdn.net/main-qimg-7724887eb20979cc116359c0da73729b

Da qph.fs.quoracdn.net

Anche in questa immagine direi che la differenza è chiara.

https://qph.fs.quoracdn.net/main-qimg-a9244eb02ddcdc81a0482d56b54b9246

Da qph.fs.quoracdn.net

Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.

Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.

Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.

Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.

Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.

Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.

Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.

Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.  

Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.

La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.

Patrimoni sconosciuti del Sud. La maggioranza dei comuni meridionali ignora i beni pubblici che amministra. Perché non censire le nostre risorse? La proposta per dare nuova vitalità al territorio e lavoro ai giovani. Piero Bevilacqua il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Questi brevi suggerimenti nascono dalla necessità di fornire, in tempi il più possibile brevi, delle opportunità di lavoro ai tanti giovani, in gran parte laureati, spesso di ritorno nel Sud a causa della pandemia, perché trovino per lo meno ragioni di permanenza temporanea, suscettibile di sviluppi futuri. Io credo che la grandissima maggioranza dei comuni meridionali ignorino i patrimoni pubblici che pure amministrano (terreni, edifici e vari beni immobili, monumenti artistici, acque interne, risorse naturali, dotazioni ambientali e di biodiversità) per i quali i giovani laureati in scienze agrarie, in economia, in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, materie umanistiche, ecc potrebbero in breve tempo essere chiamati a compiere una ampia operazione di ricognizione e di censimento di comprensibile utilità. Pensiamo al lavoro per rendere noti i terreni potenzialmente disponibili ad uso agricolo. Naturalmente non tutti i comuni sono nelle stesse condizioni, ma assai spesso si tratta di fare emergere, soprattutto nelle campagne interne, tanto i fondi e i beni comunali, che quelli demaniali, gli usi civici, ma anche le terre private abbandonate. Ricordo che tale lavoro risulterebbe utile non solo ai fini propriamente agricoli, ma anche per individuare i siti, poco vocati all’agricoltura, o ad altro uso produttivo, in cui installare veri e propri centri di generazione di energia solare. Il territorio improduttivo ma che gode di prolungato irraggiamento, può essere utile anche a questo. Una operazione simile andrebbe condotta inoltre, per conto dei comuni e in collaborazione con gli istituti competenti, nei tanti paesi, borghi, cittadine in vie di spopolamento per avere un quadro del patrimonio abitativo in abbandono, dei beni artistici e monumentali spesso dimenticati, del loro stato di conservazione, dei tanti lasciti spesso preziosi di conventi, palazzi padronali, fontane, cisterne, canali, ponti, briglie idrauliche, e non solo. Moltissimi comuni del Sud avrebbero bisogno di conoscere lo stato dei loro suoli e corsi d’acqua di cui ci si ricorda quando esondano per qualche alluvione. Un tempo i grandi geografi italiani facevano il censimento delle frane dell’Appennino, oggi, con i tecnici comunali e provinciali che teoricamente dovrebbero sovraintendere alla loro sorveglianza, i giovani potrebbero offrire un di più di conoscenza diretta, per potere intervenire con piani preventivi di contenimento. È con le piccole opere diffuse e capillari che si evitano i grandi disastri. Si parla sempre e con asfissiante monotonia di ambiente, ma pochi sanno di che cosa realmente parlano. Eppure l’ambiente meridionale presenta grandi problemi e straordinarie potenzialità. Qualche esempio per atterrare dalla nuvola “ambiente” alla realtà. I nostri boschi sono spesso in condizioni di grave degrado. In tanti casi la macchia selvatica li rende impraticabili e talora arriva ad ucciderli. Io ho visto personalmente Monte Reventino, in Sila, migliaia di alberi soffocati dalla vitalba, un elegante parassita infestante, che si estende in alte liane per via aerea e con radici sotterranee. In Aspromonte si possono scorgere vaste pinete con le chiome degli alberi letteralmente coperte da nidi di processionarie che li stanno uccidendo o li hanno già uccisi. Solo alcuni esempi per indicare un immenso patrimonio naturalistico in pericolo che potrebbe peraltro conoscere forme di valorizzazione economiche incredibilmente trascurate. Noi importiamo legname pregiato da opera (castagni, noci e ciliegi) e non riusciamo a coltivarne le essenze neanche in habitat vantaggiosi. Senza dire che in queste terre d’altura non si fanno allevamenti di volatili e di piccoli animali, realizzabili con poca spesa. Mentre le acque interne (torrenti, piccoli laghi, stagni) raramente danno luogo ad attività di acquacoltura. Si parla spesso di biodiversità da tutelare. Sarebbe molto utile conoscerla e tanti giovani agronomi e laureati in scienze naturali potrebbero, ad esempio, essere impiegati, in cooperazione con gli esperti dei luoghi, a censire nei vari siti le erbe officinali di cui è ricca la flora meridionale. Erbe, oggi anche coltivate, che trovano impiego nella produzione di articoli di largo commercio, nell’alimentazione macrobiotica e nella cosmetica. Analogo censimento meriterebbe tanto il patrimonio della biodiversità che della varietà agricola (alberi e piante da orto), ignorato, possiamo dire, dall’intera popolazione meridionale, mai educata a conoscere la propria straordinaria eredità, storica e naturale. Esistono in alcune regioni, come la Calabria, dei tesori di varietà delle piante da frutto, e anche di vitigni antichi, sopravvissuti alla fillossera, che sono custoditi nei vivai o dispersi nei fondi privati, e che non conoscono da oltre mezzo secolo alcuna valorizzazione agricola. Naturalmente ci sarebbe anche altro da censire, nel loro stato attuale e nei loro bisogni di riparazione: dalle chiese rupestri, ai siti archeologici in abbandono, ai lidi marittimi colpiti da fenomeni di erosione, o gravemente inquinati da corsi d’acqua di cui si ignora l’origine. Ma di straordinario rilievo sarebbe anche indagare sui luoghi e presso le famiglie l’evasione scolastica dei ragazzi, talora il lavoro minorile dei nuovi poveri del Sud. Per il potenziamento della cultura al Sud, attraverso la costituzione di biblioteche popolari, e altri centri di formazione che cooperino con le scuole, occorrerebbe ovviamente una riflessione a parte. Qui si son voluti fare solo degli esempi e spetterebbe ai comuni, ai sindacati, agli stessi giovani, elaborare con impegno e creatività progetti capaci di soddisfare queste esigenze. Stimolare una nuova intelligenza pubblica dei beni comuni, naturali e storici, può aiutare molto, non solo a fornire nuova vitalità economica e sociale alle nostre aree interne, ma offrirebbe occupazione qualificata alle nuove generazioni. Tenendo sempre presente che di queste fanno parte, a pieno titolo, i migranti che fuggono da guerre, miseria e catastrofi climatiche.

No, i ricchi non diventano ricchi a spese dei poveri. La mentalità della "somma zero" che è alla base delle teorie socialiste è stata smentita dai fatti. Rainer Zitelmann, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Sono in molti a credere che i ricchi possano fare soldi solamente a spese di qualcun altro. Questa concezione del mondo viene anche detta mentalità «a somma zero», dal momento che i suoi seguaci sono convinti che nella vita economica, come in una partita di tennis, affinché un giocatore possa vincere è necessario che un altro debba perdere. Come scrisse Bertolt Brecht nella sua poesia Alfabeto, «Disse il povero, bianco in volto/ Se io non fossi un miserabile, tu non saresti ricco». Sebbene questo modo di pensare sia molto diffuso, è fondamentalmente sbagliato, come dimostrano gli incredibili avvenimenti in Cina negli ultimi quarant'anni. Nella storia, non è mai accaduto che un numero così grande di persone uscisse dalla più abietta povertà con la velocità che si è verificata in Cina. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 1981 la percentuale dei cittadini cinesi che viveva in condizioni di estrema povertà era pari all'88,3% della popolazione. Di lì al 1990, questa percentuale si era ridotta al 66,2%, mentre nel 2015 solo lo 0,7% dei cinesi viveva nella miseria. In questo stesso periodo, il numero di cinesi poveri è calato da 878 milioni e meno di 10.

«LASCIATE CHE ALCUNI DIVENTINO RICCHI PRIMA DEGLI ALTRI». Il miracolo economico cinese è iniziato con le riforme di Deng Xiaoping. Fu Deng ad affermare «Lasciate che alcuni diventino ricchi prima degli altri». Nei decenni successivi, lo Stato cinese ha autorizzato la proprietà privata dei mezzi di produzione e ha permesso che il mercato esercitasse una maggiore influenza. A dispetto del fatto che altre libertà (la libertà politica, ad esempio) non sono rispettate e che la presa dello Stato sull'economia cinese è ancora ferrea, dai tempi di Mao Zedong il suo ruolo si è sostanzialmente ridotto. Inoltre, sotto Deng sono state create in tutta la Cina delle «Zone economiche speciali» a regime capitalista. Quando regnava Mao, in Cina non esisteva nessun miliardario: nel 2010, grazie alle riforme di Deng, i miliardari cinesi erano diventati 64. Oggi, in Cina vi sono 324 miliardari, per non parlare dei 71 che vivono a Hong Kong. Nessun paese al mondo, con l'eccezione degli Stati Uniti, ha altrettanti miliardari della Cina. Se la concezione della somma zero fosse corretta, questo sarebbe impossibile. Ma la mentalità a somma zero è sbagliata: l'impressionante riduzione della povertà e l'altrettanto impressionante aumento del numero di miliardari che si è prodotto contestualmente sono due facce della stessa medaglia. In generale, i ricchi non diventano tali perché prendono ai poveri, ma perché creano grandi benefici per gli altri. Jack Ma è l'uomo più ricco della Cina, con una fortuna di 38,8 miliardi di dollari. È diventato così ricco perché ha fondato Alibaba e altre aziende di successo, che soddisfano i bisogni di centinaia di milioni di suoi concittadini.

I RICCHI CREANO BENEFICI PER LA SOCIETÀ NEL SUO COMPLESSO. Una rapida occhiata alla classifica dei miliardari di tutto il mondo stilata da Forbes permette di constatare che quasi tutti sono diventati ricchi come imprenditori, oppure perché hanno fatto crescere e migliorare le aziende fondate dai loro genitori. La gran parte dei dieci uomini più ricchi del mondo è rappresentata da imprenditori che si sono fatti da sé. Jeff Bezos, il primo della lista, con un patrimonio stimato di 113 miliardi di dollari, è diventato ricco in modo simile a quello di Jack Ma, ossia tramite l'e-commerce. Bill Gates, al secondo posto in ordine di ricchezza (dopo avere occupato per lungo tempo il vertice della classifica), non ha accumulato i suoi miliardi sottraendoli ai poveri, ma offrendo qualcosa al mondo. E con questo non intendo alludere ai miliardi donati dalla Fondazione di Bill Gates alle più svariate cause filantropiche, bensì al software, come i programmi inclusi in Microsoft Office, utilizzati ogni giorno da innumerevoli utenti. Larry Ellison, al quinto posto nella lista di Forbes, ha costruito la propria ricchezza sul suo software per i database per la gestione delle relazioni delle aziende con i clienti. Al settimo posto c'è invece Mark Zuckerberg, che ha sviluppato l'idea alla base di Facebook, che oggi ha 2,5 miliardi di utenti in tutto il modo. Larry Page e Sergey Brin, rispettivamente al tredicesimo e al quattordicesimo posto della classifica, sono diventati ricchi per aver sviluppato il motore di ricerca di maggior successo del pianeta, ossia Google.

LA MENTALITÀ DELLA SOMMA ZERO DANNEGGIA LE PERSONE E LA SOCIETÀ. Il concetto di somma zero non è solo sbagliato, ma ha anche ripercussioni negative su tutti i suoi seguaci e sulla società nel suo complesso. Gli psicologi hanno osservato che l'idea di somma zero rappresenta una delle principali fonti di invidia. Chiunque sia convinto che l'unico modo per arricchirsi sia quello di agire a spese degli altri sarà naturalmente portato a invidiare i ricchi e a provare risentimento per la loro prosperità. La mentalità a somma zero è inoltre alla base di quelle teorie socialiste che hanno prodotto indicibili sofferenze per l'umanità negli ultimi cento anni e passa. Bertolt Brecht, l'autore della poesia che ho citato poc'anzi, non era solo un poeta, era anche un comunista che adorava Iosif Stalin. Chiunque creda che sia possibile arricchirsi solo a spese degli altri ha creato un ostacolo al proprio successo. Persone oneste convinte che i ricchi siano tutti dei mascalzoni non si sforzeranno mai di migliorare il proprio stato. La fede nella somma zero opera come una barriera psicologica inconscia alla creazione di ricchezza e le persone prive di scrupoli morali che pensano in termini di somma zero possono addirittura indirizzarsi alla criminalità. In tutto il mondo, le prigioni sono piene di gente che credeva di potersi arricchire solo a spese degli altri. I fatti, come dimostra l'esempio delle vicende economiche cinesi, ci raccontano una storia completamente diversa. I più grandi successi economici arrivano quando si capisce che, anziché danneggiare la società, tutti traggono vantaggi quando qualcuno si arricchisce - anche enormemente - per le sue attività imprenditoriali.

Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi  a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Come era ieri, è oggi e sarà domani.

Libro di Qoelet. Prologo:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.

Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.

Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.

Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.

Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.

Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.

Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.

Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)

La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").

Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.

Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

 Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

Avv. Mirko Giangrande:

Produci? Tasse!

Lavori? Tasse!

Compri? Tasse!

Vendi? Tasse!

Studi? Tasse!

Inventi? Tasse!

Erediti? Tasse!

Muori? Tasse!

Non fai nulla? Sussidio!!!

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

Antonio Giangrande, autore del saggio “IL COGLIONAVIRUS”.

Covid-19: lo conosco; li conosco.

Il virus: mi ha colpito pesantemente. Ho rispettato tutte le regole imposte dagli incompetenti. Regole inutili visti i risultati di morti ed infetti, nonostante si voglia dare la colpa alla gente ligia al dovere. In ospedale mi hanno somministrato 15 litri di ossigeno con la saturazione del sangue a 82. Stavo per morire e non me ne rendevo conto. In ospedale ho visto morire gente che stava meglio di me. Un attimo prima scherzavano e ridevano; un attimo dopo annaspavano come se affogassero in mare. Non avevo ossigeno, ma avevo spirito, tanto da darlo agli altri. Mi sono salvato solo grazie alle cure sperimentali assunte su mia piena responsabilità, ma negate ai malati ignoranti o inconsapevoli sedati, incapaci di decidere.

Gli esperti: tutti si elevano a professoroni in tv nel parlare di qualcosa che non si conosce e quindi che non conoscono. Sballottando di qua e di là i cittadini, in base alle loro opinioni cangianti dalla sera alla mattina.

I Negazionisti, ossia i coglioni sani, asintomatici o pauci sintomatici che non ci credono alla pericolosità del virus: dicono che sono un miracolato, perché avevo patologie pregresse, o, comunque,  non curate. Tutto falso. I morti per Covid-19 sono il frutto della malasanità, specialmente quella nordica, falsamente eccelsa tanto pubblicizzata in tv, e/o di protocolli sanitari criminali. Sono menzogne divulgate da media prezzolati dal Potere incompetente ed incapace. Protocolli sanitari internazionali, giusto per dire: tutto il mondo è paese. Protocolli imposti da chi diceva che il Coronavirus non era pandemia. Dal dietrofront sulle mascherine al saluto con il gomito, dagli asintomatici “non contagiosi” fino all’uso dei guanti: perché l’Oms inanella brutte figure? Ero sanissimo, più di altri. Uno sportivo di arti marziali che a 57 anni riusciva, prima, e riesce, ancora dopo, a fare 22 chilometri di corsa in un’ora e 45 minuti e con la bici da cross in 41 minuti. Per il mio lavoro ero e sono chiuso in casa da mattina a sera. Se ha colpito me, colpisce tutti.

I NoVax: cosa mi sentirei di dire a chi osteggia il vaccino? Cazzi loro. Di Covid-19 c’è ne per tutti, anche per loro. Mi spiace solo per i loro familiari, vittime inconsapevoli. Perché questa è una malattia che si trasmette, specialmente, alle persone più vicine. E poi direi che il vaccino non è solo la panacea di tutti i mali, ma sicuramente è la speranza che si possa uscire da quest’incubo. E chi non si nutre di speranza: muore disperato. Dr Antonio Giangrande

Coronavirus. Covid-19. SARS-CoV-2.  Lo conosco. Li conosco. Testimonianza dall’inferno della malattia.

Intervista al dr Antonio Giangrande, sociologo storico, autore di “Coglionavirus”, libro in 10 parti che analizza gli aspetti clinici e sociologici del Virus; la reazione degli Stati e le conseguenze sulla popolazione.

Dr Antonio Giangrande, lei stesso è stato vittima del virus, essendo stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale. Esprima, preliminarmente,  la sua considerazione da vero esperto del virus.

«I nostri professoroni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio Superiore di Sanità, fino ai componenti dei vari comitati consultivi, saranno titolati, sì, ma sono assolutamente ignoranti sul tema, essendo il Covid-19 un virus assolutamente sconosciuto. A dimostrazione di ciò ci sono i pareri e le direttive  espressi nel tempo, spesso in contraddizione tra loro. Si va da “non è epidemia” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità, al “le mascherine non servono” del Consiglio Superiore di Sanità. Per non dire delle contrapposizioni tra gli scienziati. Nonostante ciò, i pseudo esperti hanno imposto regole che si sono dimostrati essere protocolli della morte.

Il Contagio avviene per aerosol con insinuazione in ogni orifizio. O si è tutti bardati o ristretti in casa, o si è tutti a rischio di infezione: altro che mascherina e distanziamento di un metro.

La gente non è morta, o ha sofferto per il Covid-19, ma per la malasanità e per i protocolli sbagliati.

I posti letto negli ospedali sono mancanti perchè il ricovero non è tempestivo e con ciò si allungano i tempi di degenza. E le degenze non sono ristrette, usufruendo della terapia domiciliare o dell'assistenza domiciliare Usca per i casi più gravi non ospedalizzabili.

I nostri governanti, poi, da incompetenti in materia, hanno delegato ai sanitari, spesso amici, per pararsi il culo, la gestione della pandemia. Dico amici perché stranamente gli esperti non allarmisti, si trovano tutti dalla parte dell'opposizione politica. La Gestione maldestra della pandemia ha comportato gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Scrivere "Coglionavirus" ha comportato la mia rovina economica. Amazon, piattaforma internazionale su cui quel libro ed altri 200 testi tematici, erano distribuiti, stampati e venduti, ha cancellato il mio account e fatto cessare i miei proventi. Un giorno, forse, qualcuno dovrà rendere conto a Dio ed alla giustizia penale e civile per il male fatto alla popolazione».

Cosa pensa dell’allarmismo?

«Quando i numeri si danno a casaccio. La comparazione tra i tamponi effettuati ed il numeri dei positivi non sono veritieri. I dati ufficiali, se da una parte sono carenti, dall’altra parte sono eccedenti:

si prendono in esame i tamponi effettuati da privati, che danno solo esito positivo, escludendo quelli con esito negativo;

per ogni soggetto si effettuano più tamponi procrastinati nel tempo, quindi si rilevano più positività per un singolo soggetto positivo.

Da quotidianosanita.it il 3 novembre 2020. Gentile Direttore, ogni giorno nell’aggiornamento dei dati giornalieri sul Covid-19 tra i dati del Ministero della Salute/Istituto Superiore di sanità costantemente riportati e rielaborati in tutti i sistemi “derivati” di monitoraggio (come quelli utilizzati dai media di settore o “generalistici”  o da social molto seguiti come “Pillole di ottimismo” su Facebook) ci sono quelli relativi ai nuovi casi (e quindi il numero di persone trovate per la prima volta positive al tampone riportato nella Tabella originale nella colonna “incremento casi totali”)  ed al numero di tamponi effettuati (riportato nella tabella originale nella colonna “incremento tamponi”). Prendiamo i dati di ieri 2 novembre: ci sono stati in Italia 22.253 nuovi casi e 135.731 tamponi. Automaticamente viene calcolato in molti sistemi “derivati” il rapporto positivi/tamponi che sistematicamente cresce (ad esempio ieri è stato di 21,9 contro il 21,7 del giorno prima). E ovviamente questo dato viene assimilato ad un dato negativo che testimonia della maggiore circolazione del virus. In realtà si tratta di un indicatore fuorviante che così com’è non andrebbe usato o comunque molto meglio descritto ed interpretato. Perché mette in un unico calderone dati di diversa provenienza e completezza come evidenzierò tra poco. Premesso che il disciplinare tecnico che regolamenta il flusso dei tamponi è difficile da trovare (e non dovrebbe esserlo), lo si può ricostruire in base ad alcune ricostruzioni empiriche che partono da una analisi del modello organizzativo delle attività di laboratorio che “generano” il dato sui tamponi (ovviamente di quelli ritenuti validabili dai Servizi di Prevenzione e quindi eseguiti con tecnica molecolare in laboratori autorizzati dalle Regioni). I tamponi vengono per lo più eseguiti all’interno di tre percorsi: quello delle nuove diagnosi in persone con sintomi compatibili o contatti di casi, quello del  monitoraggio dei casi ai fini del calcolo dei “guariti” e quello dello screening spesso su base volontaria da persone che vogliono sapere se sono  infette o meno. I primi due percorsi sono gestiti per lo più da laboratori pubblici, mentre il terzo vede un coinvolgimento imponente dei laboratori privati autorizzati dalle Regioni. Cosa succede? La mia ricostruzione in base alla situazione delle Marche, che conosco bene, è che mentre i nuovi casi positivi diagnosticati dai privati finiscono appunto tra i nuovi casi e confluiscono nel numeratore del rapporto positivi/tamponi, il numero totale di persone esaminato dai privati (che comprende anche i negativi) non entra nel denominatore falsando l’andamento del rapporto. Ma non è finita qui. Il denominatore ha invece dentro anche i dati dei tamponi di monitoraggio  che non c’entrano niente coi nuovi casi. Un denominatore (o un suo pezzo) che non genera numeratore non va incluso nel calcolo di un rapporto. Facciamo una verifica coi dati Ministero/ISS del 29 ottobre relativi alla Regione Marche che confrontiamo con l’elaborazione più analitica che ha fatto coi dati dello stesso giorno la Regione Marche. Scegliamo questo giorno perché sta in mezzo alla settimana e rappresenta più fedelmente la situazione. I dati di Ministero e Regione coincidono: 686 casi e 3.915 tamponi. Ma quello della Regione Marche è più analitico e ci dice che in realtà i nuovi casi sono stati “generati” da soli 2.372 tamponi (quelli relativi al cosiddetto percorso nuove diagnosi) e che quel numero 3.915 ha dentro anche i tamponi del cosiddetto percorso guariti ovvero quello che riguarda il monitoraggio dei “vecchi” casi. Ma non è finita qui. I tamponi del percorso diagnosi includono quelli dei laboratori privati solo quando positivi, mentre quelli negativi sempre più numerosi non vengono verosimilmente conteggiati.

Risultato: il rapporto positivi/tampone del monitoraggio ministero/ISS per quanto riguarda le Marche al denominatore conta tamponi in più di un tipo che non ci dovrebbero stare e dall’altra manca dei tamponi dei privati che ci dovrebbero stare. Se non si fa chiarezza è legittimo e credibile pensare che almeno parte dell’incremento quotidiano del rapporto positivi/tamponi sia sovrastimato visto il numero fortemente crescente dei tamponi fatti dai privati. Soluzione: migliore gestione del flusso. Claudio Maria Maffei,  Coordinatore scientifico di Chronic-on».

Parli di come è stato infettato.

«Per il mio lavoro e per il mio carattere ho sempre fatto vita riservata, così come mia moglie. Le uniche uscite erano il fare sport da singolo ed isolato ed il fare la spesa, con rispetto delle regole imposte: mascherine e distanziamento e rapportarsi il meno possibile con i genitori anziani. Eppure, questo mio comportamento esemplare, in ossequio alle regole sbagliate, si è dimostrato letale.

L’8 novembre 2020 mio fratello fa visita ai genitori: il giorno dopo ha la febbre.

Il 9 novembre 2020 vado a far visita ai miei genitori ultraottantenni: mascherina e distanziamento. Presente un terzo fratello. Ho notato che avevano il riscaldamento alto.

Il 10 novembre 2020, cioè giorno dopo il malessere dei miei genitori si trasforma in febbre lieve. Per questo motivo tutti i figli, tre maschi ed una donna, con altri familiari ristretti, gli fanno visita con mascherina e distanziamento.

I miei due fratelli dopo pochi giorni hanno evidenziato i primi sintomi, mia sorella asintomatica. Immediatamente, si è coinvolto il medico curante che ha provveduto al tampone per tutti. Alla fine risultano tutti infettati, compresi le loro famiglie. 15 componenti di 4 nuclei familiari. Ai primi sintomi, correttamente, tutti abbiamo adottato il confinamento domiciliare e nessuno ha infettato alcuno. Fortunatamente i genitori anziani sono stati pauci sintomatici, così come gli altri componenti della famiglia. Un fratello ricoverato in modo lieve. Solo io ho subito le conseguenze gravissime, rasentando la morte.

Si è scoperto che mio padre è stato infettato frequentando, con mascherina e distanziamento, un luogo pubblico. Egli pensava che la lieve febbre fosse dovuta al vaccino antinfluenzale. 

Questo sta ha dimostrare due cose:

1. Che la mascherina ed il distanziamento non bastano, ma bisogna essere bardati con occhiali e visiera per non essere infettati. Il virus si insinua in ogni orifizio. Il virus è 100 volte più piccolo del batterio e quindi galleggia nell’aria e con essa si muove. Posso prenderlo dopo molti metri e dopo molti minuti;

2. Che spesso sono gli anziani ad infettare i giovani e non viceversa. Perché sono quelli che spesso non rispettano le regole;

3. Molti sono infetti asintomatici e non lo sanno. Ed infettano in buona fede;

4. Molti sono infetti pauci sintomatici o conviventi asintomatici o pauci sintomatici di infetti conclamati. Sanno di essere infetti, ma continuano la loro vita e da criminali infettano gli altri.

5. Ma cosa più importante che ho potuto constatare in seguito, dopo il mio ricovero, è che ci si infetta principalmente in strutture protette. Il degente C.mo C.lò è stato infettato in una RSA, quella di Villa Argento di Manduria e poi trasferito al Giannuzzi di Manduria. Il Degente V.to T.liente di Martina Franca, ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto per altre patologie, è stato refertato negativo all’arrivo nel nosocomio e poi infettato in quel reparto. Successivamente trasferito al Giannuzzi di Manduria».

Parli dell’evoluzione della malattia.

«Dal famoso 9 novembre 2020 ho avvertito subito sintomi di malessere e febbre, ma ho continuato a fare i miei 22 chilometri di corsa e bicicletta. Fino a che la febbre a 39 e mezzo, senza sintomi specifici, me lo ha impedito. Pensavo fosse un periodico raffreddore, dovuto alla sudorazione e le temperature anomale, curabile con la tachipirina e gli antibiotici.

Il 15 novembre 2020 chiamo il medico curante chiedendogli un antibiotico più potente, con l’ausilio della penicillina, il cortisone e la protezione. Mi prescrive tutto, meno la tachipirina che è a pagamento. Antibiotico Azitromicina da 500, cortisone Deltacortene da 25, Penicillina, protezione, Eparina e sciroppo per la tosse. Per il proseguo della malattia ha voluto essere informata ed ella stessa si informava. Ha prontamente contattato l’ASL.

Il 20 novembre 2020 il tampone effettuato risulta positivo.

Il 22 novembre 2020 alle 10.30 per il persistere della febbre e per i sintomi di asfissia chiamo il 118. Con l’ossigenazione del sangue a 82, si decide il ricovero immediato».

Parli del suo ricovero e dell’impatto con il sistema sanitario.

«Per questa malattia la tempestività è essenziale. Prima si interviene, prima si impedisce l’aggravamento, prima si guarisce e nessuno muore. Prima si interviene e meno giorni sono di degenza e più posti letto sono a disposizione. Così come più posti letto si ottengono con una degenza limitata sostenuta da assistenza domiciliare Usca. Invece il sistema sanitario, per non ingolfare gli ospedali impedisce il ricovero ai pazienti sintomatici fino a farli diventare critici ed a lunga degenza, o con conseguenze mortali.

Ergo: il protocollo sbagliato porta la morte dei pazienti e la paralisi delle strutture sanitarie.

La saturazione ottimale del sangue deve essere pari a 100 o quasi. Ogni alterazione comporta un intervento immediato. A mio fratello è stato impedito un primo ricovero, dal medico del 118, con la saturazione a 92, chiaro sintomo di sofferenza. Tanto che c’è stato l’inevitabile peggioramento ed il ricovero, con degenza di settimane.

Alle 12 del 22 novembre 2020 inizia la mia odissea.

Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. ​Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

Parli della sua degenza in ospedale.

«Traumatica e psicologicamente devastante. Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

Il Reparto. I Reparti Covid si suddividono in: reparto ordinario Covid; reparto Medicina Covid (reparto semi intensivo con gestione diversa del paziente); reparto di terapia intensiva (Rianimazione con assistenza più pregnante per i casi più gravi), reparti post Covid per la rieducazione polmonare. Sono stato ricoverato al Reparto Ortopedia Covid dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. Quindi curato anche da ortopedici. Mi portano in una stanza a tre letti. C’è uno di Avetrana che non vuole esser nominato ed il mio amico Damiano Messina, noto per la sua ditta di trasporti, che mi ha autorizzato a citarlo. E’ critico e con criticità, cioè grave e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse. In precedenza i suoi polmoni erano stati colpiti da una malattia simile al Covid 19 dovuta ad un virus trasmesso dai pipistrelli e debitamente curata. Era proveniente dal Moscati di Taranto, di cui racconta tutto il male possibile. E’ stato tra i primi degenti del reparto Ortopedia Covid di Manduria, con altri provenienti dal Moscati di Taranto. Arrivato sabato 14 novembre sera, ha trovato il solito balletto dell’inaugurazione. Però non c’era ancora acqua per lavarsi, né per bere. Così come mancava l’elemento essenziale: l’ossigeno.  Elemento essenziale e continuativo. Poi sono sempre state insufficienti le bombolette dell’ossigeno per i degenti sufficienti che dovevano andare al bagno non accompagnati. Avevo il letto numero 2. In quella stanza c’era il letto n. 3. Postazione speciale con ossigenazione fino a 20 litri. Adeguata per necessità dopo un caso di emergenza proveniente dalle altre stanze. Alla dimissione dei miei amici mi hanno spostato nella stanza assieme a mio fratello, ricoverato al pronto soccorso il giorno prima di me, ma saliti simultaneamente in reparto. Poi sono stato spostato in un’altra stanza. Avevo il letto n. 7. Entrambe le stanze avevano un comune denominatore. Le emergenze delle seconda andavano a finire nella prima. E guarda caso solo la stanza numero 2 ha avuto emergenze, risultate, poi, mortali.  La stanza è una prigione. Rispetto a noi i reclusi ostativi o del 41 bis del carcere sono in vacanza. Quando non sei costretto a letto, sei comunque costretto a letto. Non puoi aprire le finestre, né aprire la porta di entrata/uscita. Così per settimane. La stanza aveva due telecamere, affinchè i medici avessero la situazione sempre sotto controllo. In questo modo loro sanno tutto quanto succede nelle camere, anche delle emergenze. Non puoi ricevere i parenti, ne la biancheria di ricambio, quindi stesse mutande, stessa maglietta, stesso pigiama per settimane. Se non hai rasoi o strumenti della manicure diventi un licantropo.

La pulizia delle stanze. La pulizia era buona e per due volte al dì.

Il Vitto. Il vitto era decente, ma spesso freddo. Le buste ermeticamente chiuse con l’elenco del contenuto, come previsto dal capitolato d’appalto, erano sempre aperte a rischio di contaminazione e con l’acqua mancante. L’acqua era riservata al buon cuore dei sanitari, su richiesta. La distribuzione del vitto avviene:

Ore 8.00 colazione. Latte macchiato o te, quasi sempre freddo. Biscotti o fette biscottate con marmellata.

Ore 12. Pranzo. Primo, secondo, pane e frutta. Posate. Acqua mancante.

Ore 15.30. Cena. Idem come pranzo.

I pazienti. Paziente inteso come sostantivo si intende una persona affetta da malattia affidata ad un medico. Paziente inteso come aggettivo si intende una persona disposta alla moderazione, alla tolleranza ed alla rassegnata sopportazione. In questo caso verso il Covid e nei confronti dei sanitari.

Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Nella BAT che i medici chiedevano diventasse zona rossa, una mamma di 41 anni è morta di Covid dopo aver atteso 11 ore al pronto soccorso. Non ci sono posti per i ricoveri all' ospedale di Barletta, capoluogo della provincia Bat in Puglia. E così Antonella Abbatangelo, che soffriva da una settimana di sintomi da Covid-19 sempre più gravi, è costretta ad attendere ben 11 ore prima di essere visitata. Quando finalmente viene presa in carico come recita la nota della Asl, i medici si accorgono subito della gravità della situazione, in due giorni finisce in terapia intensiva ma non ce la fa e dopo altri quattro, muore. E sberleffo finale, il marito e il figlio di appena 14 mesi non possono partecipare al suo funerale perché in isolamento domiciliare nonostante siano risultati negativi al tampone.

LE FALLE. Disorganizzazione, ospedali allo stremo e tanta sfortuna hanno inciso sul destino di una donna, giovane per le statistiche della letalità del virus, ma che si scopre essere stata anche vittima di malasanità. «Ben 11 ore di attesa prima di essere visitata al pronto soccorso», ha denunciarlo il marito Massimiliano che poi ha anche scritto sui social di aver ricevuto pochissime notizie della moglie. «Siamo stati attaccati al telefono da mattina a sera solo per avere spiegazioni confuse e veloci da parte dei dottori». La storia inizia la settimana scorsa quando la donna accusa febbre e tosse che inizia a curare a casa. Quando la situazione diventa più grave, il 12 novembre Antonella si reca all' ospedale di Trani, la città dove vive, ma non essendoci un reparto Covid, viene rimandata a casa. Il giorno dopo viene accompagnata a Barletta, dove attende 11 ore, fino alla presa in carico delle 23.01.

LA NOTA DELLA ASL. Poi, seguendo la nota della Asl, la donna è stata sottoposta a visita medica alle 23.05, sono stati evidenziati dispnea e febbre elevata da due giorni curata a domicilio. Al quadro clinico acuto va aggiunta una grande comorbilità rappresentata da problemi metabolici. È stato immediatamente eseguito tampone che ha dato esito positivo. La signora è stata quindi sottoposta a ossigenoterapia e sono stati immediatamente richiesti esami ematochimici ed emogasanalisi. Poi, prosegue la ricostruzione dell' Asl, il quadro clinico è apparso già molto complesso e compromesso. La situazione è peggiorata nella mattinata del 15 novembre quando sono intervenuti i rianimatori che hanno intubato la paziente in pronto soccorso e poi l' hanno trasferita nel reparto di Rianimazione ma, conclude il comunicato, nonostante tutti gli sforzi dei clinici la paziente è deceduta in data 19.11. Per sapere se abbia inciso anche la lunga attesa prima di accedere alla struttura, il direttore generale della Asl Alessandro Delle Donne ha detto di aver «avviato indagine per verificare tutti i passaggi di quanto accaduto».

Nel reparto normale ortopedia Covid di Manduria venivano ricoverati pazienti critici, ma anche critici e con criticità, cioè gravi e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse, che sicuramente avevano bisogno di altro reparto:

con assistenza specialistica semi intensiva ed intensiva, con interventi invasivi e non invasivi, che un normale reparto non garantisce;

strumenti specifici come per esempio il casco respiratorio per ventilazione polmonare o l’intubazione e non la semplice  mascherina polmonare, o l’occhialino polmonare di un normale reparto.

La ossigenoterapia può essere sostenuta da 0 a oltre venti litri di ossigeno. Dipende dagli strumenti di erogazione. E in quel reparto non c’erano. Come non c’erano medici specialistici per ogni patologia riscontrata. Differenze di interventi che possono causare la morte.

Il mio amico Damiano Messina mi parla della sua esperienza traumatica. Ha assistito alla morte di P.tro D.ghia di Monteiasi, 64 anni. Damiano è stato ricoverato sabato 14 novembre, P.tro è portato nella sua stanza 2-3 giorni dopo. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Il pomeriggio del 16 o 17 novembre è stato spostato di urgenza dal posto n. 9 della stanza di ricovero e posto al n. 3 della stanza di Damiano. Il posto è stato adeguato successivamente come postazione speciale. Tutto il pomeriggio P.tro ha sofferto agonizzante con sintomi di asfissia. Sostenuto con il solo ausilio del casco respiratorio con ossigenazione a 20. Spesso i compagni di stanza chiamavano con il pulsante di emergenza, perché il paziente lasciato solo per molto tempo si spostava e si toglieva il casco, perchè non dava il ristoro richiesto. L’intervento dei sanitari non era immediato. L’agonia si è protratta, senza soluzione di continuità, senza che vi sia stato alcun cambio di intervento terapeutico, fino al primo mattino del giorno dopo. La morte è intervenuta per inerzia. Spesso la presenza fisica dell'assistenza dei sanitari non era garantita. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Morte di un essere umano senza il sostegno dei familiari. E’ seguita pulizia della salma e composizione della stessa in un sacco di plastica. Un uomo diventato una cosa trasferita in obitorio.

La mia seconda stanza era la camera della morte. Durante la mia decenza, tutti i morti erano ivi ricoverati. C.mo C.lò, infettato alla RSA Villa Argento di Manduria, del letto n.9 ha preso il posto di P.tro D.ghia di Monteiasi. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Ho convissuto con lui per due giorni dal 3 al 4 dicembre 2020. Era un continuo chiamare seguito da non immediata risposta. Per due giorni i parametri erano intorno agli 85-90 per l’ossigenazione e un  ritmo cardiaco intorno ai 135 battiti, mai al di sotto dei 125, senza soluzione di continuità. La mascherina con il sacchetto gliela hanno messa quando la saturazione era ad 88, in sostituzione di quella con la proboscide. L’ultima chiamata di allarme da parte nostra (mia e di mio fratello riuniti nella stanza) per l’evidente sofferenza del paziente è avvenuta il 4 dicembre 2020. L’intervento non è stato pronto ed  immediato. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Saturazione a 85 e 135 battiti e strumentazione impazzita. Il ritardo degli interventi mi ha costretto a filmare gli eventi a fini di giustizia ed informazione. Quando con le telecamere hanno visto che filmavo con il telefonino la situazione, con i parametri anomali e gli allarmi sonori della strumentazione, sono intervenuti a spostare il paziente nella postazione speciale. Subito dopo è intervenuto un energumeno di infermiere, che con fare minaccioso mi ha intimato, su ordine del medico, di cancellare il video dal cellulare. C.mo C.lò successivamente è morto, a 56 anni, ma tutti (dagli Oss, fino agli infermieri ed i medici) omertosamente hanno tenuto nascosto la notizia. Nella postazione n. 8 della mia seconda stanza un degente non autosufficiente è andato al bagno senza bomboletta di ossigeno, mancante, così come senza accompagnamento dei preposti a farlo. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Il paziente uscendo dal bagno ha avuto una mancanza d'aria ed è caduto. Si è schiantato al suolo ed è morto.

Omertà o meno, peccato per loro che mi sono trovato sempre nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato secondo i punti di vista.

L’assistenza sanitaria.  E’ previsto il Bonus Covid per medici e operatori sanitari. Va da 600 euro a oltre mille euro. L’1 dicembre 2020 c’è stata un’infornata di nuove assunzioni e trasferimenti al reparto Ortopedia Covid di Manduria.

Seconda ondata Covid in Puglia, indagine della Procura sulla gestione da parte della Regione.  Fascicolo senza indagati né reati: tra gli accertamenti quello sulle assunzioni del personale sanitario. La Repubblica di Bari il 28 novembre 2020. La Procura di Bari ha aperto un fascicolo conoscitivo, cioè un modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, sulla gestione della seconda ondata di contagi Covid in Puglia da parte della Regione. Sugli accertamenti in corso gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Il fascicolo è coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi.  A quanto si apprende, tra gli aspetti su cui si sta concentrando l'attività investigativa ci sono verifiche sull'assunzione del personale sanitario.

Gli operatori sanitari, spesso, denunciano che a loro non viene fatto il tampone di controllo.

Gli operatori della sanità sono considerati degli eroi a torto dall’opinione pubblica, sotto influenza dei media, così come le forze dell’ordine ed i magistrati. I medici, gli infermieri e gli Oss, alcuni sono gentili, altri meno. Alcuni sono capaci, altri meno. Gli infermieri, spesso, passano da un paziente ad un altro per le operazioni di routine (prelievi del sangue, inserimento flebo, ecc.) senza disinfettarsi le mani. Tutti sono corporativi ed omertosi. Ai richiami di allarme non c’è pronto intervento, salvo eccezioni dovuti al buon cuore dell’operatore. Ma quello che turba ed inquieta è il loro distacco ed indifferenza di fronte alla sofferenza ed alla morte. Un giudice che manda in cella un innocente, spesso dovuto ad un suo errore, è indifferente e distaccato. Ma un operatore sanitario, se ha una coscienza, non può avere lo stesso distacco di fronte alla morte, specie se è stata causata per sua colpa o per colpa di un protocollo criminale.

Comunque delle mie affermazioni sugli operatori sanitari vi è ampia cronaca di stampa di conforto.

"Tra dieci minuti muori": così il medico al paziente Covid in fin di vita. Maltrattamenti e furti ai defunti nell'inferno dell'ospedale di Taranto. Gino Martina il 4 dicembre 2020 su La Repubblica-Bari. Sono almeno sette gli episodi che riguardano pazienti ricoverati al Moscati morti dopo giorni. Sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero umanamente adeguate: indaga la procura e anche l'Asl con un'inchiesta interna. Il sindaco convoca i vertici dell'azienda per un chiarimento. Uno dei racconti più scioccanti è quello di Angela Cortese. Il padre, Francesco, positivo al Covid, la notte tra l'1 e il 2 novembre aveva fatto il suo ingresso all'ospedale Moscati di Taranto. Dal suo ricovero al giorno seguente, l'uomo, 78enne, è rimasto in contatto con la famiglia attraverso il telefonino. Ma ciò che ha comunicato in quelle ore ha allarmato tutti: "Venitemi a prendere, qui muoio". Il 3 mattina, la donna, avvocato, parla con un medico che si trova nell'Auditorium dove il padre era stato sistemato. "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". La donna racconta di urla, di una sorta d'aggressione al telefono.  "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili - spiega -, quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!". Cortese domanda se il padre fosse lucido, se stesse lì vicino. "Sì è qui, è qui, mi sta ascoltando, fra poco morirà!". La donna assiste in questo modo alla sua fine. "Neanche i veterinari con i cani si comportano in questa maniera", aggiunge, sottolineando come "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Affermazioni, quelle di Cortese, che dovranno trovare riscontro nella cartella clinica richiesta all'ospedale e nelle indagini che la procura ha avviato per diversi altri casi di morti nel presidio sanitario a Nord del rione Paolo VI.

Le inchieste. I procedimenti sono più d'uno, fanno seguito alle denunce dei parenti, ma sono volti anche a verificare la corretta osservanza delle misure precauzionali sanitarie da parte della dirigenza ospedaliera. Il sospetto è che l'organizzazione, le attrezzature e il numero del personale tra ottobre e novembre non fossero adeguati ad affrontare la seconda ondata della pandemia, lasciando spazio all'improvvisazione, a Operatori socio sanitari utilizzati come infermieri e personale sotto stress, portando a gravi mancanze.  Al di là del lavoro della magistratura, sono almeno sette gli episodi che riguardano degenti del Moscati morti dopo giorni nei quali sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero adeguati, oltre che telefoni e oggetti di valore, come fedi e collane, non restituiti ai parenti. Su questi ultimi episodi l'Asl ha diffuso una nota nella quale smentisce che ci possano essere stai dei furti, ma fa emergere anche una scarsa comunicazione tra l'organizzazione del presidio e gli stessi operatori. "Nelle singole unità operative coinvolte nei percorsi assistenziali di presa in carico - scrive l'Asl - sono custoditi e repertoriati numerosi piccoli oggetti di valore ed altri effetti personali. Intanto il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha deciso di convocare i vertici Asl: "Se confermati, i fatti sono di una gravità inaudita".

"Attento, tra 10 minuti muori". Il medico rivela: "Perché l'ho detto..." Nessun provvedimento nei confronti del medico dell'ospedale di Taranto, che spiega: "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap". Federico Garau, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Continua la polemica intorno ai fatti avvenuti all'ospedale Moscati di Taranto, dove sono state denunciate gravi lacune di assistenza ed alcuni pazienti hanno perso la vita dopo essere stati ricoverati per giorni. A finire sotto la lente d'ingrandimento il caso del signor Francesco, finito in ospedale dopo aver manifestato i sintomi del Coronavirus. L'uomo, secondo quanto riferito da "Repubblica", era arrivato al pronto soccorso nella notte fra l'1 ed il 2 novembre, e da subito aveva chiesto aiuto alla famiglia, temendo per la propria vita. A raccontare tutto la figlia del 78enne, Angela Cortese, che ha spiegato come il padre avesse chiesto di essere riportato a casa già dal giorno successivo al ricovero. Parlando con un medici per chiedere conto di quanto stava accadendo al genitore, la donna si sarebbe sentita rispondere: "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". Da qui l'allarme lanciato dalla signora Cortese, avvocato di professione. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili. Quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!", ha raccontato la donna a "Repubblica". "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Parole forti, quelle dell'avvocato Cortese, alle quali hanno fatto seguito delle indagini da parte della Procura della Repubblica di Taranto. A dire il vero, le inchieste che riguardano l'ospedale sono più di una, dal momento che sono state diverse le famiglie a denunciare discutibili comportamenti nei confronti dei pazienti. Oltre ad episodi di mancata assistenza, c'è chi parla anche di oggetti rubati, cosa che la Asl ha categoricamente smentito. Per quanto riguarda il caso del signor Francesco, poi deceduto lo scorso 3 novembre, il medico accusato di aver usato parole troppo dure nei suoi confronti ha deciso di parlare. La Asl di Taranto, al momento, non ha preso provvedimenti nei suoi confronti. "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap che in quel momento era fondamentale ma non voleva indossare", ha spiegato il dottor Angelo Cefalo, medico del 118 di Taranto, nel corso della conferenza stampa organizzata nell'auditorium dell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto. "Ho conservato come in una cassaforte i messaggi su Whatsapp con la figlia, perché le ho dato la mia disponibilità per spiegarle cosa fosse accaduto e un conforto per la perdita del padre". Il 78enne, hanno spiegato i medici, aveva un livello di saturazione di ossigeno nel sangue molto basso. In più, era cardiopatico, soffriva di insufficienza renale, diabete e bronchite cronica, oltre ad avere una fistola al braccio. "Se fosse stato intubato non ce l'avrebbe fatta, perciò per convincerlo a mettere la Cpap ho utilizzato un linguaggio trasparente, come siamo abituati a fare noi medici che ci relazioniamo con pazienti e parenti", ha raccontato il dottor Cefalo. "Tra dieci minuti muori glielo dicevo solo per convincerlo a mettere la mascherina, gli ho detto se aveva voglia di rivedere i suoi nipoti. Ovviamente i dieci minuti non erano reali ma era la mia disperazione emergentista, perché il nostro lavoro si basa sui secondi che erano fondamentali per salvare la vita del paziente, che purtroppo non ce l'ha fatta dopo circa due ore", ha concluso.

Maltrattamenti e furti in ospedale a Taranto, il sindaco convoca i vertici Asl: "Fatti di una gravità inaudita". La Repubblica-Bari il 04 Dicembre 2020.

Gli oggetti smarriti. Si segnala, ad esempio, che nella cassaforte allocata nel punto di Primo intervento del 118 del presidio ospedaliero San Giuseppe Moscati, sono custoditi oggetti preziosi, mentre altri effetti personali quali valigie, telefoni e relativi carica batteria, sono conservati in aree dedicate del reparto". Nella stessa nota sono stati pubblicati i contatti e il link dell'ufficio di Medicina legale dell'azienda sanitaria attraverso il quale poter cercare le cose appartenenti ai propri cari. Ma alcuni parenti vanno avanti con la denuncia ai carabinieri, come il caso della famiglia Rotelli, sicura che il telefono del padre sia stato rubato e manomesso. Come affermano anche altri parenti di altri degenti, che parlano di video girati all'interno cancellati dai telefoni dei propri cari. "Mia madre - spiega Tina Abanese, di Massafra - è stata ricoverata in quei giorni per una crisi respiratoria. È stata maltrattata da alcuni addetti che le rispondevano in malo modo. Non è stata cambiata per ore. È rimasta anche senza cibo e dopo due giorni dalla sua morte ci siamo accorti che nella borsa mancavano la fede e un altro anello, che indossava al momento dell'ingresso in ospedale". 

Il ricovero nel container. Donato Ricci, imprenditore di Martina Franca, ha perso invece il padre, ex ispettore di polizia. Ha raccolto i primi di novembre il suo grido d'aiuto. "Chiamate la polizia, portatemi via da qui", diceva. L'uomo, in salute prima di aver contratto il Covid, ha anche girato dei video nel container dov'era ricoverato con la biancheria abbandonata per terra in un angolo. Ricci ha raccolto in un gruppo Whats'app i contatti di altri parenti di chi non c'è più dopo esser passato in quei giorni nell'ospedale, durante i quali era anche difficile poter contattare i propri cari o avere notizie dal personale, per mancanza di un numero telefonico apposito (è stato attivato nelle ultime settimane). C'è chi racconta di bagni sporchi, inaccessibili, camere mortuarie con cadaveri sistemati alla peggio, addetti delle onoranze funebri che li prelevano senza alcuna protezione. "Abbiamo denunciato la sparizione di anelli, della fede nuziale e d alcune collane di mio padre - raccontano Mariangela e Pierangela Giaquinto, figlie di Leonardo, paziente Covid ricoverato il 30 ottobre e scomparso il 21 novembre - ci hanno detto che avrebbero richiamato se e nel caso avessero ritrovato qualcosa ma non abbiamo avuto alcune segnalazione. Mio padre è stato intubato e indotto due volte al coma farmacologico. La seconda, però, non ce l'ha fatta". A muoversi ora è anche il Tribunale del malato, che chiede formalmente un intervento della Regione: dall'assessore alla Sanità Pierluigi Lopalco al governatore Michele Emiliano. "La situazione è allarmante - spiega la coordinatrice Adalgisa Stanzione - non solo perché ci sono casi di morti, ma perché c'è stata una sottovalutazione delle autorità competenti. Se non si aveva personale sufficiente per assistere i pazienti bisognava agire prima, non arrivare fino ai primi di novembre, quando c'erano al Moscati 95 persone ricoverate per Covid. Gli Oss hanno dovuto sopperire al lavoro degli infermieri. Ci stiamo muovendo con le nostre strutture legali per fare chiarezza. La situazione è migliorata con l'attivazione dei posti alla clinica Santa Rita e all'ospedale Militare, ma senza personale i posti letto servono a poco. Il diritto alla salute - prosegue Stanzione -  va rispettato a partire dalla qualità della prestazione che non può essere soffocata dalla pseudo carenza di infermieri e medici. E poi la gente va trattata con umanità, va ascoltata, e non attaccata come incompetente e sprovveduta, da personale sotto stress. La pandemia - conclude - non può essere affrontata senza mezzi, è come combattere una guerra senza fucili".

In ospedale la morte sospetta di un 68enne. I familiari: «Abbandonato su una sedia». C'è l'inchiesta. Francesco Casula su  il Quotidiano di Puglia-Taranto Martedì 8 Dicembre 2020. La procura della Repubblica di Taranto ha disposto l'autopsia sul corpo di un uomo deceduto all'ospedale Moscati per Covid19, ma per cause ancora ignote alla famiglia dell'uomo. È stato il sostituto procuratore Remo Epifani ad aprire un fascicolo contro ignoti e a disporre l'esame autoptico: l'incarico al medico legale sarà affidato domani mattina nel Palazzo di giustizia e subito dopo il consulente eseguire gli accertamenti richiesti dal magistrati per stabilire la reale causa del decesso. Non ci sono, al momento, nomi iscritti nel registro degli indagati, ma il pubblico ministero Epifani ha ipotizzato il reato di «responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». È stata la denuncia depositata dai familiari, alcuni dei quali si sono rivolti all'avvocato Gaetano Vitale, a spingere la procura a effettuare una serie di approfondimenti. Nella denuncia, infatti, i parenti della vittima hanno raccontato che l'uomo, dopo aver trascorso una degenza burrascosa dovuta al peggioramento delle sue condizioni, sembrava aver ormai superato la fase critica e secondo gli aggiornamenti che il medico di famiglia forniva ai congiunti, sembravano prossime le dimissioni dall'ospedale. Una mattina, però, quelle speranze insieme al resto del mondo sono crollate. I familiari hanno infatti ricevuto la telefonata da un medico del nosocomio tarantino che annunciava la morte dell'uomo. Nessuna spiegazione sulle cause, nessuna comunicazione ufficiale che informasse la famiglia di cambiamenti improvvisi del quadro clinico. Non solo. Secondo le informazioni raccolte da alcuni parenti, l'uomo di 68 anni con problemi di diabete, sarebbe stato ritrovato già cadavere nelle prime ore del 18 novembre, non nel suo letto, ma addirittura seduto su una sedia accanto al suo letto. Un dettaglio che secondo i denuncianti è la dimostrazione dello stato di abbandono al quale sarebbero stati costretti i pazienti nei reparti dell'ospedale ionico. E oltre all'elevato numero di pazienti rispetto a quello del personale sanitario, denunciato anche dai sindacati nelle scorse settimane, i familiari avrebbero anche fatto notare come in quella stessa notte in cui sarebbe avvenuta la morte del 68enne, sarebbero stati registrati anche altri 13 decessi. Per i familiari, quindi, la causa della morte potrebbe non essere stato il virus contratto dall'uomo una decina di giorni prima, ma lo stato di abbandono oppure le negligenze di chi avrebbe dovuto garantire assistenza. E dalle parole dei familiari, inoltre, sarebbero emerse anche accuse circostanziate rispetto alle modalità di sistemazione dei pazienti a cui il personale medico e paramedico è costretto a fare ricorso per affrontare l'emergenza in corso. Sulla vicenda il pm Epifani ha affidato anche una delega di indagini agli investigatori della Squadra mobile di Taranto che hanno acquisito la cartella clinica della vittima. La salma, in attesa dell'autopsia è stata trasferita nelle celle frigorifere di Bari. Gli elementi raccolti dai poliziotti e dal medico legale che sarà nominato come consulente della procura per effettuare l'autopsia, serviranno per ricostruire l'intero quadro della vicenda e poter valutare in modo chiaro e approfondito le eventuali responsabilità del personale che aveva in cura il 68enne.

Covid, preziosi scomparsi e disumanità, inchiesta sull'ospedale: «Vogliamo la verità». Le testimonianze dei familiari delle vittime: «Quando ci dissero, “faccia poche tragedie”». u  il Quotidiano di Puglia-Taranto Sabato 5 Dicembre 2020. «Amore, mi stanno portando in rianimazione, forse m'intubano». È l'ultimo messaggio che Ubaldo, 62 anni, è riuscito a mandare alla moglie prima di morire. Un tenero cuoricino rosso per chiudere la frase. Questo, assieme a tanti altri strazianti messaggi audio e video, farà parte delle denunce, undici sinora quelle previste, che presenteranno i componenti del gruppo «Per i nostri parenti», mogli, figlie e figli di altrettanti pazienti deceduti per Covid nei reparti soppressi dell'ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Parenti che chiedono giustizia, spinti da cause diverse: la scomparsa di oggetti di valore indossati dai propri cari, ma anche presunti comportamenti dei sanitari al limite del disumano come anche dubbi sul trattamento e sulle terapie praticate sui pazienti. Anelli, fedi nuziali, orologi e telefoni cellulari che appartenevano a pazienti morti per Covid, nell'ospedale Moscati di Taranto, non sono mai più stati consegnati ai parenti che sospettano possano essere stati rubati. La magistratura ha aperto una inchiesta, mentre l'Asl di Taranto ha avviato una indagine interna. Ad alcuni cellulari restituiti - secondo la denuncia dei parenti - sarebbe stata cancellata la memoria che conteneva importanti ricordi. E forse anche qualcosa di strano che accadeva nell'ospedale e che era stata filmata e quindi - secondo i familiari delle vittime - doveva essere cancellata. Tra gli episodi riferiti, quello di un paziente 78enne la cui figlia ha ricevuto la telefonata di una dottoressa che, urlando, si lamentava perché l'anziano non sopportava la maschera per l'ossigeno. Davanti al paziente, che era vigile, la dottoressa avrebbe detto «se non la tiene muore, fra dieci minuti muore». Pochi minuti dopo la stessa dottoressa avrebbe chiamato la figlia del paziente dicendo «gliel'avevo detto che moriva, ed è morto». Nel suo racconto, la figlia di Ubaldo, quello del tenero e drammatico ultimo messaggio con il cuoricino rosso alla moglie, parla di «sgarbatezza e disumanità» nel descrivere le comunicazioni tra la famiglia e il personale dove è stato ricoverato suo padre. La sua storia è simile alle altre del gruppo. «Nostro padre aveva 62 anni, era pensionato Ilva e soffriva solo di pressione che controllava bene con una compressa al giorno». Poi l'incontro con il coronavirus. Otto giorni di cura a casa, il peggioramento dei sintomi e il ricovero al Moscati. «Gli hanno fatto il tampone risultato poi positivo e nell'attesa del referto è stato messo in un ufficio adibito a stanza di degenza dove è rimasto due giorni su una brandina con la borsa degli indumenti sulle gambe». Finalmente viene sottoposto ad esame Tac che rivela una grave polmonite da Covid. Viene così spostato nel prefabbricato della rianimazione modulare e da allora inizia l'odissea della famiglia che non avrebbe avuto notizie per mancanza di interlocutori. Nel bunker schermato il telefonino non sempre aveva la linea. Il seguito del racconto è ricco di telefonate senza risposta o di mezze risposte o di risposte cariche d'astio di chi dall'altra parte del telefono avrebbe dovuto tranquillizzare e informare sulle condizioni di salute del malato. E' ancora a figlia a parlare. «Infine il messaggio di papà alla mamma e poco dopo la telefonata di una dottoressa che c'informa che dovevano intubarlo. La nostra reazione si può immaginare racconta la figlia - io stessa ho richiamato subito dopo per avere più informazioni e la risposta che mi hanno dato non la scorderò mai: "Signora, poche tragedie per favore perché non posso perdere tempo con lei"». Ubaldo non ce l'ha fatta, è morto il 7 novembre scorso nella rianimazione del Moscati. Le cause del decesso, oltre ai comportamenti dei sanitari, saranno i quesiti che i familiari metteranno nella denuncia che presenteranno appena entreranno in possesso della cartella cinica. Intanto su questo e sui presunti casi di furto di oggetti di valore dai cadaveri Covid, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha convocato il direttore generale Asl, Stefano Rossi. «Si tratta di vicende - commenta il primo cittadino - se confermate, che oltre ad essere di una gravità inaudita, vanificherebbero gli sforzi che l'intera comunità sta compiendo e che, in particolare, stanno compiendo le istituzioni di ogni genere per garantire i diritti fondamentali dei cittadini in questo particolare periodo. Nessuna emergenza, infatti conclude il sindaco - può giustificare abusi, superficialità o deroghe al corretto esercizio di qualsiasi genere di servizio essenziale, a maggior ragione dei servizi di natura sanitaria».

Gli strumenti della cura. Il saturimetro è uno strumento per la misurazione dell’ossigeno del sangue e del battito cardiaco. In ospedale, questo strumento non è ad acchiappapanni, ma è adesivo al dito. Le unghie, il sudore, l'acqua ne minano l'affidabilità, ma sui parametri falsati, spesso si poggiano le terapie.

La Cura. Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

Carla Massi per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Il titolo del documento è Decisioni per le cure intensive in caso di sproporzione tra necessità assistenziali e risorse disponibili in corso di pandemia da Covid-19. Tradotto significa ecco quali sono i criteri che i medici, gli anestesisti in particolare, dovrebbero seguire nel caso in cui dovessero trovarsi a scegliere chi ricoverare prima in terapia intensiva. Solo in una situazione di estrema gravità, dunque.

IL PROTOCOLLO. È stato messo a punto dalla Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva e dalla Società italiana di medicina legale e delle assicurazioni. Un documento secondo il quale dovrebbe essere assistito prima colui che ha maggiori speranze di vita. Come avviene durante le catastrofi. Come sta avvenendo in molte terapie intensive in cui, spesso, ci si trova a dover fronteggiare uno squilibrio tra domanda e offerta di cure. Al paziente, si legge ancora, vanno comunque garantiti i suoi diritti e assicurato che sarà preso in carico con «gli strumenti possibili». «Fermi restando i principi costituzionali (diritto alla tutela della salute e all'autodeterminazione, principio di uguaglianza, dovere di solidarietà - si legge nel testo pubblicato sul sito del Sistema nazionale linee guida dell' Istituto superiore di sanità) - si rende necessario ricorrere a scelte di allocazione delle risorse». Per le due società, vista la situazione, è necessario creare un triage ad hoc negli ospedali. Un centro di valutazione finalizzato a stabilire quali pazienti hanno la priorità per essere assistiti. Che per le rianimazioni, spiegano gli anestesisti, significa accertare chi «potrà con più probabilità o con meno probabilità superare la condizione critica con il supporto delle cure intensive». L' età, dunque, non è di per sé un criterio sufficiente per stabilire chi può beneficiare delle terapie. Ovviamente sono stati individuati anche tutti i parametri, sono dodici ora all' esame dell' Istituto di sanità, e tutte le possibili condizioni da seguire prima di arrivare alla scelta. Scelta che i medici, sempre nel caso di sovraffollamento, quando possibile, intendono sottoporre anche al paziente. Alcuni, come ci ricorda l' ampio dibattito sul testamento biologico, potrebbero anche non desiderare di essere sottoposti a cure intensive. In ogni caso dovrebbero essere rispettate le volontà nel caso il paziente abbia lasciato uno scritto o, in quel momento, informi il medico che lo sta assistendo.

LE RISORSE. «Lo scenario in cui ci siamo trovati a marzo sta purtroppo tornando attuale con un' intensità e una durata ancora non quantificabili - fa sapere la presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva Flavia Petrini - Per questo si è lavorato sui criteri di scelta di fronte a una eventuale mancanza di letti in terapia intensiva. Gli anestesisti-rianimatori sono tra i sanitari maggiormente impegnati, in Italia come negli altri Paesi, nelle cure per i pazienti colpiti dal virus. La scarsità di risorse prodotta dalla pandemia ci coinvolge in modo particolare. Abbiamo fatto e stiamo facendo ogni sforzo per garantire le migliori possibilità di cura in circostanze spesso drammatiche. Come si è visto in tanti filmati». La deontologia medica, come scrive nell' introduzione del documento Carlo Maria Petrini, direttore dell' Unità di Bioetica e presidente del Comitato etico dell' Istituto superiore di sanità, pone al centro il paziente privilegiando il criterio terapeutico. «Tuttavia - sono parole di Petrini - vi sono situazioni in cui è impossibile trattare tutti. In questi casi la sola etica ippocratica risulta insufficiente. Occorre applicare il triage. E come ogni atto medico deve basarsi innanzi tutto sui criteri di appropriatezza e proporzionalità». Si cominciano, intanto, a vedere i primi effetti della generale stretta nel Paese. Frena, infatti, l' incremento dei pazienti ricoverati in terapia intensiva per Covid-19. Secondo i dati di ieri del ministero della Salute: sono dieci le persone entrate nei reparti di rianimazione, che portano il totale a 3.758. Superata invece la soglia dei 34 mila nei reparti ordinari.

In ospedale l’iter giornaliero è questo:

5.30 prelievi di sangue, a volte l’Emogas arterioso. Per sottoporsi a emogasanalisi arteriosa non è richiesto il digiuno, né la sospensione di eventuali terapie in corso. L'esame può essere moderatamente doloroso. E’ estremamente doloroso se fatto da mani incapaci. Spesso analisi dell’urine. Tre volte al giorno misurazione della febbre e misurazione della pressione.

8.30 distribuzione della protezione e del cortisone ed eventuale flebo.

16.30 somministrazione tramite flebo di antibiotici, farmaci sperimentali, liquido di lavaggio.

Si crede che rivolgendosi alle strutture sanitarie ci si possa curare dal covid. Non è così. Spesso si muore. Io posso raccontare la mia esperienza in virtù del fatto di essere Antonio Giangrande. Esperto del Virus, fortemente caparbio ed estremamente rompiballe. Io sono a detta di tutti un miracolato. Ma il miracolo l’ho anche voluto io. Dal primo momento, la degenza in ospedale è stata caratterizzata dall’essere positivo sia dal Covid, sia nello spirito. Il mio principio, data la mia esperienza, le mie traversie e le mie sofferenze, è: me ne fotto della morte. Ed è stato lo spirito giusto. Ho mantenuto il morale alto ai miei compagni ed intrattenuto ottimi rapporti con gli operatori sanitari (meglio tenerseli buoi a scanso di ritorsioni).

La mia cura prima del ricovero era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina.

La mia cura in degenza era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina. Uguale!

In aggiunta c’era solo l’ossigenoterapia.

Loro curano la polmonite bilaterale interstiziale. La polmonite da Covid-19 è altra cosa. Perché è diversa la causa. Se non combatti la causa, l’infiammazione si aggrava, porta al collasso dei polmoni, in particolare uno, e mina la funzionalità degli altri organi: da ciò consegue la morte.

Negli ospedali si attende. Si aspetta l’evoluzione della malattia. Si aspetta il miracolo. Non c'è evoluzione positiva della malattia se non si effettua la cura adeguata. Le cure ci sono ma non le applicano per protocollo.

L’ossigenoterapia a me applicata era pari a 10 litri, con inalazione tramite mascherina con la bustina.

Tra i medicinali e l’ossigeno, la terapia nel complesso si è dimostrata inadeguata, tanto da causare l’aggravarsi della mia situazione. Hanno portato il livello della mia ossigenazione a 15, il massimo per quel reparto di ortopedia con inalazione tramite mascherina con busta. Sempre lucido e con il morale alto ho imposto la mia volontà e la mia competenza. Farmi somministrare, tramite flebo, il “remdesivir”, adottato contro l’Ebola. Farmaco osteggiato dall’elite sanitaria mondiale e nazionale.

La battaglia sul Remdesivir, il farmaco anti Covid che divide i due lati dell'Oceano. Elena Dusi su La Repubblica il 5 dicembre 2020. Per l'Oms non va usato: benefici inferiori ai rischi. Ma per il prestigioso New England Journal of Medicine a sbagliare è stata l'organizzazione mondiale per la sanità con sperimentazione su dati disomogenei. In ballo, oltre alla salute, c'è una fortuna: ogni ciclo di cura costa 2.400 dollari. C’è un farmaco che funziona in America ma non nel resto del mondo. E’ il controverso remdesivir, antivirale messo a punto per Ebola ma “riposizionato” in regime d’emergenza contro il coronavirus, usato anche per trattare il presidente americano Donald Trump. L’Organizzazione mondiale della sanità a fine novembre ha pubblicato i risultati di uno studio da lei coordinato: i benefici del farmaco non superano i rischi. «L’antivirale remdesivir non è consigliato per pazienti ospedalizzati per Covid-19, a prescindere dalla gravità della malattia, perché al momento non ci sono prove che migliori la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno». Anche i risultati dei trial precedenti non erano stati brillanti, ma lasciavano intravedere un qualche beneficio, come la riduzione dei giorni passati in ospedale (cinque in meno, in media, rispetto al placebo, secondo uno studio americano). La pubblicazione targata Oms, avvenuta sul British Medical Journal, ha spinto anche la nostra Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) a riunire un tavolo per riscrivere le indicazioni di questo antivirale, che frutta alla casa produttrice americana Gilead 2.400 dollari per ogni ciclo (5 giorni di trattamento), somministrato via flebo esclusivamente in ospedale. L’articolo del British (che mette insieme i risultati di quattro studi diversi per un totale di 7mila pazienti) ha fatto cadere le azioni dell’azienda farmaceutica, nel giorno della pubblicazione, dell’8%. Da Boston, sede del prestigioso New England Journal of Medicine, è subito arrivata la replica: a sbagliare è l’Oms, scrive la rivista in un editoriale. La sperimentazione dell’Organizzazione di Ginevra, battezzata Solidarity, è stata condotta in 30 paesi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Iran al Kenya. Secondo il New England non avrebbe raccolto dati omogenei. “Gli standard di cura in queste nazioni sono variabili, così come la condizione dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale”. Il remdesivir – ribadisce l’altra sponda dell’Atlantico – deve continuare a essere somministrato.  Di questa opinione era, fino alla scorsa estate, anche l’Europa. Trovatasi a corto di scorte (a luglio la Casa Bianca si è accaparrata tutte le dosi prodotte da lì a settembre), la Commissione ha intavolato in tutta fretta una trattativa con Gilead per una fornitura di 500mila dosi al prezzo di 1,2 miliardi di euro. La casa farmaceutica, secondo un’indiscrezione del Financial Times, conosceva già i risultati scettici dello studio Oms, ma non li avrebbe comunicati agli europei. “L’Italia – prosegue il quotidiano inglese – ha pagato 51 milioni per un ordine di remdesivir quando i casi stavano salendo e le scorte si stavano assottigliando”.  Mi hanno fatto firmare la liberatoria con assunzione di responsabilità, previa nota informativa, per l’assunzione di un farmaco, non adottato a Manduria e nella maggior parte degli ospedali italiani. E poi, in previsione di morte certa, perché non tentare con cure che possono essere anche dannose o inefficaci?

Sull’efficacia del farmaco io sono un testimone, vivente, ospedalizzato ed attendibile. Dopo due giorni di cure, sì inefficaci, che mi hanno fatto rasentare la morte con il quadro clinico compromesso ed aggravante, con 15 litri di ossigeno e saturazione insufficiente, dopo tre giorni di infusioni con una dose al dì del farmaco, la mia situazione clinica è immediatamente migliorata. Da 15 litri di ossigeno sono passato a 4, con ossigenazione a 92, e tutti gli altri valori sono immediatamente migliorati. Tanto da che il tampone effettuato il giorno 3 dicembre 2020 è risultato negativo.

Sul costo del farmaco io sono dubbioso. Se si è curata l’Africa infetta da Ebola, non penso non si possa salvare la popolazione dei paesi più ricchi. E poi con tanti soldi buttati al vento tra sprechi, regalie e sostegni economici a pioggia, non penso che si possa far morire la gente per spilorceria.

Michele Bocci per repubblica.it il 28 novembre 2020. Non vanno dati subito e in certi casi non devono proprio essere somministrati. Bisogna valutare bene la situazione prima di scegliere i farmaci per la terapia domiciliare contro il Covid. Il cortisone, ad esempio, si può prendere in considerazione dopo almeno tre giorni di sintomi e se peggiora la saturazione dell'ossigeno nel sangue. L'eparina, che tanti medici invece utilizzano, andrebbe iniettata solo a chi rimane a letto a lungo a causa del virus. Del resto non ci sono prove di un beneficio clinico dal suo uso su chi non è ospedalizzato o comunque immobilizzato. E vitamine e integratori non servono proprio a niente. Sta finendo novembre e finalmente arrivano delle linee guida nazionali per la gestione al domicilio dei malati di Covid. Le ha approvate ieri il Cts della Protezione civile anche se il documento va ancora ritoccato. Ad attenderlo sono tantissimi professionisti. Medici di famiglia (che hanno collaborato a stenderlo) e delle Usca, ad esempio, oltre a tutti gli specialisti che in questi mesi sono rimasti sommersi sotto un gran numero di protocolli. C'è quello dell'ordine dei medici della Lombardia, che ritiene utile il cortisone ma solo con problemi di saturazione e febbre che va avanti da 5-7 giorni, e c'è il primario delle malattie infettive di Genova Matteo Bassetti, che suggerisce di aspettare 4 giorni di sintomi moderati prima di avviare i trattamenti farmacologici. Poi c'è la Simg, la società scientifica dei medici di famiglia, che parla di malattia moderata quando ci sono tre giorni di febbre superiore a 38 gradi o problemi di respirazione non gravi e indica di prendere il cortisone al settimo giorno di sintomi, quando suggerisce di introdurre anche l'eparina. L'Italia è il Paese delle linee guida sanitarie e il Covid non ha fatto eccezione.(…) Il documento del Cts dovrebbe mettere le cose a posto. Intanto sottolinea l'importanza del saturimetro, che in situazione normale segna un dato superiore al 95%: "L'utilizzo diffuso di questo strumento potrebbe ridurre gli accessi potenzialmente inappropriati ai pronto soccorso". Il limite di saturazione accettabile, tenuto anche conto del margine di errore degli strumenti da casa, è comunque quello del 92%. Quando il medico assiste a domicilio persone con pochi sintomi deve appunto far misurare l'ossigenazione di frequente, trattare la febbre con il paracetamolo e assicurarsi che il pazienti si idrati e mangi. Il cortisone a domicilio "può essere considerato in quei pazienti in cui il quadro clinico non migliora entro le 72 ore, soprattutto in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici". Come detto l'eparina non va usata "se non nei soggetti immobilizzati per l'infezione in atto". Poi ci sono gli antibiotici, che vanno dati solo se c'è febbre per oltre 72 ore e il quadro clinico fa sospettare che sul problema virale si sia innestata una infezione batterica. L'idrossiclorochina non va usata, dicono gli esperti, e non vanno fatti farmaci con l'aerosol se ci sono conviventi non colpiti dal virus, visto che quel sistema è molto contagioso. Infine "non esistono a oggi evidenze solide e incontrovertibili di efficacia di supplementi vitaminici o intengratori alimentari, a esempio la vitamina D, la lattoferrina, la quercitina, il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato".

Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone". Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale.

È davvero così?

«Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi».

Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?

«Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale».

Che attualmente però non c’è…

«No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine».

Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?

«Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico».

Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?

«Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa».

Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?

«Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale».

Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?

«C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione».

Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?

«Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale».

Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?

«Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid».

Da leggo.it l'11 dicembre 2020. La III Sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio scorso di AIFA che vietava la prescrizione off label (ossia per un uso non previsto dal bugiardino) dell' idrossiclorochina per la lotta al Covid. «La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa AIFA a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nell'ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale». Gli appellanti, nella loro qualità di medici che avevano sino a quel momento prescritto l'idrossiclorochina ai pazienti, hanno proposto ricorso contro la nota di AIFA sostenendo in sintesi che l' idrossiclorochina, sulla base di studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate, sarebbe efficace nella lotta contro il virus, censurando il difetto di istruttoria che inficerebbe le determinazioni di AIFA, e hanno lamentato la lesione della loro autonomia decisionale, tutelata dalla Costituzione e dalla legge, nel prescrivere tale farmaco sotto la propria responsabilità, ai pazienti non ospedalizzati che acconsentano alla sua somministrazione per la cura domiciliare del SARS-CoV-2. Nella prima fase della pandemia AIFA, così come del resto altre Agenzie nazionali europee ed extraeuropee, ha inizialmente consentito all'utilizzo off label - e, cioè, al di fuori del normale utilizzo terapeutico già autorizzato - dell'idrossiclorochina e ha reso prescrivibili a carico del Servizio Sanitario Nazionale alcuni farmaci, tra i quali la clorochina e, appunto, l'idrossiclorochina. Ma successivamente AIFA ha disposto la sospensione dell'autorizzazione all'utilizzo off label dell' idrossiclorochina per il trattamento del Sars-Cov-2, se non nell'ambito di studi clinici controllati, e la sua esclusione dalla rimborsabilità a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla base di questa determinazione AIFA ha posto alcune evidenze sperimentali che avrebbero rivelato un profilo di efficacia assai incerto del farmaco nel contrasto al virus e un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi. «La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia - si legge nell'ordinanza del Consiglio di Stato - deve essere rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico» «in scienza e coscienza» e con l'ovvio consenso informato del singolo paziente. Rimane fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L'ordinanza - è la n.7097/2020 ed è stata pubblicata oggi - precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di AIFA di escludere la prescrizione off label dell' idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità

Covid, via libera all'idrossiclorochina: "Irragionevole vietarne l'uso". Colpo di scena in Italia: il Consiglio di Stato accoglie il ricorso dei medici di base. "Dati clinici non univoci". Ma non può essere rimborsato. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Colpo di scena. Esultano i medici che da tempo sostengono l'uso dell'idrossiclorochina contro la malattia Covid-19. Il Consiglio di Stato, infatti, ha accolto il ricorso di alcuni medici contro la decisione dell'Aifa di vietarne la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino. Il medicinale finito al centro della polemica politica per "colpa" di Trump, Bolsonaro e (soprattutto) dei loro detrattori rientra in campo dalla finestra dopo essere stato messo alla porta senza tanti complimenti. Una decisione, quella dell'Aifa, che aveva diviso (e che ancora divide) la comunità scientifica tra chi ritiene l'Hcq pericolosa e chi la considera una valida arma contro il coronavirus. L'ordinanza del Consiglio di Stato, la numero 7097/2020, è stata pubblicata questa mattina ed è destinata a far discutere. Per i giudici amministrativi l'idrossiclorochina può essere usata come terapia per Covid-19, previa prescrizione di un medico e comunque, come previsto dall'Aifa, senza la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. La III Sezione ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio del 2020 con cui l'Aifa aveva impedito ai medici di prescrivere l'Hcq al di fuori degli studi clinici autorizzati dall'Ente. "La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nella corposa ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti". E ancora: "La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico in scienza e coscienza". Ovviamente ci deve essere il consenso informato del paziente e il medico deve monitorare il progresso clinico: ma non può essere vietato. La battaglia su questo farmaco è ormai di vecchia data. Come raccontato nel Libro nero del coronavirus, tra i primi ad utilizzarla fu Luigi Cavanna, primario di oncologia e padre del "Metodo Piacenza", decantato anche dai media stranieri. L’Hcq contro il Covid ha dimostrato di funzionare - ci raccontò - Anche tanti medici l'hanno assunta. Non farà testo, ma vuol dire che ci credevano. E poi ci sono centinaia se non migliaia di pazienti che l'hanno presa e sono guariti”. Per un certo periodo l'Aifa ha dato il via libera all'uso dell'Hcq a discrezione dei medici, autorizzando pure il rimborso da parte del Ssn. In fondo si tratta di un farmaco già usato contro diverse malattie. E costa pochissimo. Oggi però la molecola antimalarica è osteggiata e motivo di scontro sia medico che politico. Dopo uno studio pubblicato su Lancet sui rischi cardiaci e l'aumento di mortalità (poi ritirato con non poco inbarazzo), lo scorso maggio sia l'Oms che le agenzie del farmaco mondiali ne hanno sospeso l'utilizzo. Diversi medici ritengono che sul tema non ci sia un sereno dibattito scientifico, probabilmente anche per colpa delle prese di posizione di leader mondiali: diventato il farmaco "sovranista", è stato fatto quasi di tutto per dichiararlo inutile. "Purtroppo gli editori di riviste importanti sono molto riluttanti a pubblicare qualcosa di positivo sull’idrossiclorochina (chiamo questa riluttanza effetto Trump-Bolsonaro), mentre pubblicano immediatamente anche paper deboli quando non funzionano”, disse Antonio Cassone, già direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss e membro dell’American Academy of Microbiology. Certo sull'efficacia dell'idrossiclorochina i dubbi permangono. Alcuni studi randomizzati realizzati, tra cui il "Solidarity" dell'Oms, non hanno trovato effetti benefici, sottolineando pure "un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi". Per L'Aifa alla base della decisione di bloccare l'Hcq ci sono "evidenze sperimentali, emergenti dagli studi clinici randomizzati e controllati", ma diversi medici ritengono che ancora non si sia arrivati all'ultimo capitolo. “Questi trial - disse Cassone - hanno usato dosi alte di Hcq nell’idea che queste dosi fossero quelle giuste per una diretta attività antivirale”. I favorevoli all'Hcq ritengono infatti che puntando sulla capacità anti-infiammatoria e anti-trombotica del farmaco sia sufficiente usare una dose inferiore, incapace di provocare controindicazioni. A quelle dosi uno studio dell'European Journal of Internal Medicine riteneva che l'Hcq potesse ridurre il rischio morte per Covid del 30%. Chi ha ragione? Il Consiglio di stato, va detto, non dà una risposta a questa domanda. I giudici si sono solo espressi sul ricorso presentato da un folto gruppo di medici di base che "nella prima fase della pandiemia" hanno "esercitato la loro attività somministrando" ai pazienti l'Idrossiclorochina. "Da decenni - si legge nell'ordinanza - l’Hcq viene usata non solo per curare la malaria, ormai debellata in Italia, ma contro l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso in virtù della sua efficace azione di riduzione dei livelli di anticorpi fosfolipidi, tanto da essere somministrato in Italia a circa 60.000 pazienti affetti da tali malattie autoimmuni". I ricorrenti ritengono che le decisioni dell'Aifa siano superate da "studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate" e che sia stata lesa la loro autonomia decisionale "nel prescrivere tale farmaco, in scienza e coscienza sotto la propria responsabilità" ai pazienti che acconsentono a farsi curare così. Le toghe danno loro ragione: via libera dunque all'uso dell'idrossiclorochina.

Una decisione che scatena polemiche. Idrossiclorochina, il Consiglio di Stato "sospende" l’Aifa e da l’ok al farmaco contro il Coronavirus. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Una decisione destinata a scatenare sicure polemiche. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera all’uso dell’idrossiclorochina per la cura del Covid-19, solo su prescrizione e non rimborsabile. La terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio 2020 di Aifa che vietava la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino, dell’idrossiclorochina per la lotta al Covid 19. Si legge nell’ ordinanza che “la perdurante incertezza circa l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell’ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati, non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti”. “La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica – è scritto nell’ordinanza – sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico“, “in scienza e coscienza” e con l’ovvio consenso informato del singolo paziente. Fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L’ordinanza precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di Aifa di escludere la prescrizione off label dell’idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità.

LE DIVISIONI SUL FARMACO – Lo sblocco dell’idrossiclorochina sancito oggi dal Consiglio di Stato riapre il dibattito sul farmaco e sui metodi scientifici per contrastare il virus. L’idrossiclorochina, va ricordato, è un farmaco genericamente utilizzato nel trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso discoide e disseminato. Tra i primi sponsor del suo utilizzo contro il Covid-19 c’era stato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un entusiasmo che non aveva trovato grande sponda nella comunità scientifica, con più studi che avevano in realtà evidenziato i suoi effetti minimi, se non nulli o dannosi, contro il Coronavirus. Recentemente anche l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha pubblicato uno studio in cui “boccia” l’utilizzo del farmaco contro il virus, mentre a luglio l’Aifa ne aveva sospeso l’autorizzazione “per il trattamento dell’infezione da Sars-CoV-2, al di fuori degli studi clinici, sia in ambito ospedaliero che in ambito domiciliare”. La decisione odierna del Consiglio di Stato ha provocato la reazione contrariata di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che su Twitter ha attaccato la decisione dei giudici: “Idrossiclorochina: le evidenze confermano che il profilo rischio-beneficio nella Covid-19 è sfavorevole, le linee guida e le autorità sanitarie raccomandano contro il suo utilizzo, il Consiglio di Stato sovverte la scienza”. Di tutt’altro parere uno sponsor "nostrano" del farmaco, il segretario della Lega Matteo Salvini, secondi cui il sì del Consiglio di stato “è una notizia che molti medici stavano attendendo. Tra gli altri, ricordiamo il dott. Luigi Cavanna che a Piacenza somministrando precocemente questo farmaco ha trattato con successo molti pazienti affetti da Covid, casa per casa, riducendo gli accessi all’ospedale e guadagnandosi anche fama internazionale per il suo impegno medico e umano”.

Così l’idrossiclorochina finisce al Consiglio di Stato. Gioia Locati il 7 dicembre 2020 su Il Giornale. Cos’è l’idrossiclorochina? Fa bene o fa male? Come si affronta oggi il Covid? Ci si può curare a casa? Proviamo a rispondere con l’aiuto di un medico, l’oncologo e professore Luigi Cavanna, che ha seguito centinaia di malati di Covid, trattandoli con questo farmaco al loro domicilio. Da maggio però non si può più prescrivere né somministrare idrossiclorochina (vedremo perché). Il 10 dicembre il Consiglio di Stato si esprimerà sull’esposto presentato da alcuni medici che chiedono il via libera al farmaco e di poter prescrivere in scienza e coscienza. 

L’ antefatto. L’idrossiclorochina si usa da oltre 50 anni per curare la malaria e alcune malattie autoimmuni. Per le sue proprietà immunomudulanti, anti trombotiche e anti virali è stata impiegata anche per contrastare alcune importanti infezioni, dall’HIV all’Ebola, dalla Sars alla Mers. Costa poco. Durante la prima ondata del Sars-Cov-2, l’idrossiclorochina era presente nelle linee guida dei Paesi occidentali colpiti dall’infezione (approvata, dunque, anche da Aifa ed Ema) per trattare i malati, sia in ospedale che a domicilio. A maggio però esce uno studio su Lancet – rivelatosi poi fallace – che richiama le attenzioni delle agenzie regolatorie. Si afferma che l’idrossiclorochina era stata causa di un aumentato numero di decessi, a riprova si millanta l’analisi di 96mila cartelle di pazienti in 970 ospedali nel mondo. Ma, a una prima seria verifica, le basi di quel lavoro, crollano. Nessuno aveva esaminato quelle cartelle e la società che eleborò i dati falsi finì indagata. Cliccate qui. Tuttavia l’idrossiclorochina è rimasta inaccessibile ai malati di Covid. Sospesa la somministrazione nei Paesi occidentali già a poche ore dalla pubblicazione dello studio fallace. A giustificazione, oggi, Aifa cita la posizione dell’OMS che “per prudenza ne ha sospeso i trial”. Sarebbe pericolosa per il cuore e potrebbe aumentare i decessi. La situazione oggi. In mezzo mondo, i medici che, nei mesi di marzo aprile hanno trattato i malati con quel farmaco, hanno raccolto e pubblicato i loro dati. Secondo chi l’ha prescritta, “soprattutto nei primi giorni di malattia”, l’idrossiclorochina ha contribuito a contenere i decessi. Sono stati fatti numerosi confronti sia con con gruppi di pazienti ricoverati sia con chi si è curato a domicilio. Qui uno studio osservazionale belga su 8.075 partecipanti. Si sono poi studiati i decorsi dei pazienti che non hanno usato quel farmaco e si è giunti alle conclusioni che sintetizza Luigi Cavanna, oncologo, primario all’ospedale di Piacenza e ricercatore: “La mia esperienza con l’impiego di quel farmaco è più che buona, ho seguito personalmente a casa oltre 300 malati, dei quali il 30 per cento con forme severe e un altro 30 per cento con forme moderate. Di questi nessuno è morto e i ricoverati sono stati meno del 5 per cento”. E poi. “Mi sono sentito ringraziare con queste parole, ‘dottore, stavo così male che pensavo di non farcela, dopo 3 giorni di terapia la mia vita è cambiata”. Lo staff del professor Cavanna ha raccolto i dati in due pubblicazioni sui malati di tumore che hanno avuto il Covid e un terzo lavoro verrà spedito nei prossimi giorni per essere pubblicato. Intanto, altre ricerche sono state pubblicate, dapprima una metanalisi, ossia una summa di 26 studi che riferiscono dell’impiego di idrossiclorochina su 44.521 malati di Covid e che mostrerebbero una riduzione di mortalità con il farmaco a basse dosi. Cliccate qui. Poi un altro lavoro tutto italiano che riunisce le esperienze di 33 ospedali della Penisola in uno studio osservazionale multicentrico che trovate qui. Sono stati seguiti i decorsi di 3.451 pazienti non selezionati, ricoverati dal 19 febbraio al 23 maggio. Ed è emersa una mortalità ridotta del 33% in chi ha usato quel farmaco. In luglio, 13 Regioni italiane hanno chiesto di poter usare l’idrossiclorochina off label nei trattamenti domiciliari, cliccate qui. Ma Aifa è rimasta ferma sulla sua posizione. Nel frattempo ci sono stati ricorsi al Tar e si attende il verdetto del Consiglio di Stato del 10 dicembre.

Per l’Ema è un farmaco che “se preso in dosi elevate induce al suicidio”. Il 30 novembre Ema pubblica una nota. Si dice che “a seguito di una revisione dei dati sono emersi 6 casi di disturbi psichiatrici in pazienti Covid a cui erano state somministrate dosi di idrossiclorochina superiori a quelle autorizzate”.

Professor Cavanna ha osservato anche lei la tendenza al suicidio? “Qualsiasi farmaco preso a dosi da cavallo fa male…che dico farmaco, anche la pastasciutta…Penso che ci si debba avvicinare ai dati con umiltà e senza pregiudizi. Invito a guardare a ogni terapia in termini di costi e benefici, tenendo presente gli effetti collaterali e la situazione di ciascuno. A Piacenza ci sono stati oltre 900 morti nella prima ondata, in quel periodo, dei pazienti che noi seguimmo a domicilio trattati con idrossiclorochina – all’incirca 300 – i ricoveri sono stati inferiori al 5% e nessuno è morto”.

Per quanti giorni va somministrata l’idrossiclorochina? 

“Per una settimana, non di più. Si ottenevano miglioramenti dopo due-tre giorni. Abbiamo osservato che è importante dare il farmaco ai primi sintomi, ed è sufficiente un basso dosaggio”.

Cosa pensa del fermo divieto delle agenzie regolatorie?

“Che per onestà sia necessario spiegare ai pazienti che hanno ricevuto l’idrossiclorochina nei primi mesi e sono guariti che cosa è successo; se hanno rischiato, che cosa hanno rischiato, e come hanno fatto a rimettersi in piedi. Una spiegazione è dovuta. Prima il farmaco era ammesso e lo è stato per tre mesi, ora è vietato. Perché Aifa non va vedere come stanno queste persone?”.

Aifa sostiene che non esistono studi randomizzati sui pazienti Covid.

“Abbiamo molti dati, non solo noi di Piacenza, ma da tutta Italia, penso alla provincia di Alessandria, a Novara, a Milano, e a Bologna. Sono stati pubblicati gli studi osservazionali (vedi sopra), una metanalisi che mostra la riduzione di mortalità su 40mila malati. Questi report vanno messi sul tavolo. Si tratta di  uomini e donne, non di esperimenti in vitro. Sono un sostenitore dello studio randomizzato (si dividono i pazienti in due gruppi omogenei, a uno si somministra la miglior cura esistente più il farmaco da testare, all’altro la miglior cura più il placebo) ma lo studio è sempre un mezzo, non un fine. I malati bisogna guardarli in faccia e, in mancanza di studi randomizzati utilizzare farmaci di provata efficacia ‘sul campo’, di facile somministrazione, di costo contenuto e con pochi effetti collaterali.

Cosa farebbero all’Aifa se qualcuno di loro o dei loro familiari si ammalasse di Covid e si ritrovassero con una febbre alta che non passa dopo tre giorni, tosse e fiato pesante? Si accontenterebbero dell’antipiretico e del saturimetro (sono le indicazioni per curarsi a casa) aspettando forse di peggiorare per essere ricoverati d’urgenza? È come se misurassimo la pressione alta senza dare alcun farmaco ma consigliando di tenere a casa l’apparecchio per la pressione…”

Il Covid si può curare a casa?

“Assolutamente sì, la cura precoce, fatta cioè nei primi giorni di febbre alta, tosse e affanno, consente ai pazienti di evitare il ricovero in ospedale e di guarire. La mia esperienza coincide con quella di centinaia di medici in Italia e migliaia nel mondo che hanno curato a casa i pazienti”.

Cosa prendere ai primi sintomi?

“Chi non ha sintomi o ne ha pochi non deve fare nulla, isolarsi con le precauzioni per non infettare gli altri. Chi ha sintomi può assumere un antinfiammatorio. Se sopraggiunge tosse o se la febbre non passa in 24-30 ore bisogna rivolgersi al medico di famiglia che può attivare le Usca, Unità mediche territoriali che, a domicilio, possono visitare, fare un’ecografia ai polmoni, fare un tampone e valutare il livello dell’ossigeno” (nel Piacentino funziona così).

Insomma, è importante agire subito?

“Sì. Durante la pandemia abbiamo visto arrivare in ospedale persone con alle spalle 10 e più giorni di febbre, tosse, dispnea, non va bene”.

Ma oltre all’antinfiammatorio? Antibiotico o cortisone?

“Decide il medico. Se c’è il sospetto che l’infiammazione abbia intaccato i polmoni l’antibiotico va consigliato. Il cortisone va dato non subito ma nei giorni successivi per evitare il picco infiammatorio. L’eparina se il paziente è allettato o fatica a muoversi. Fondamentale è misurare la saturazione di ossigeno”.

Come mai un oncologo cura i malati di Covid a domicilio?

“L’oncologo ha come background culturale la presa in carico del malato, lo segue nel suo percorso di cura e nei successivi controlli fino alla guarigione o alle cure palliative. Ricordo un paziente che ci disse che avrebbe dovuto interrompere la terapia perché il figlio non lo poteva più accompagnare in ospedale poiché avrebbe rischiato di perdere il lavoro. Era 20 anni fa. Decidemmo di istituire una rete territoriale che funziona ancora oggi: nelle zone senza ospedale ci sono i nostri presidi, portiamo le cure oncologiche vicino al domicilio del paziente e siamo stati i primi in Italia a eseguire le terapie nella Casa della Salute, in una vallata del Piacentino priva di ospedali”.

Con l’inizio del Covid vi siete comportati così?

“Un nostro paziente, malato di tumore, ci avvisò di avere tosse e febbre. Siamo andati a domicilio. È cominciata così…Poi sono stati trattati tanti altri malati, anche, e soprattutto, non oncologici”.

Guariti con idrossiclorochina?

“Esattamente”.

Oggi in ospedale a Piacenza avete tanti malati Covid?

“Molti meno che a marzo, grazie anche alla nostra rete di assistenza domiciliare”.

Ora cosa farete?

“Cercheremo di convincere Aifa a cambiare le linee guida con la forza degli argomenti ma anche con la determinazione che ci trasmettono i malati”.

Ci sono speranze?

“C’è un assoluto bisogno di cure precoci. Ci sono tanti dati, c’è un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Armando Siri che ha a cuore la nostra causa e c’è il Consiglio di Stato”.

Siri: “I farmaci anti-covid fanno paura a chi fa business sulla salute dei cittadini”. Rec News, direttore Zaira Bartucca 1 Dicembre 2020. Il senatore: “Ci si inventa di tutto per non utilizzarli. In atto propaganda strumentale, i medici hanno già salvato un sacco di vite” Idrossiclorochina a 6 euro funziona e fa paura a chi specula e fa business sulla salute dei cittadini. Così, pur di evitare che si utilizzi sui pazienti, ci si inventa qualunque cosa per screditarla. Pongo in premessa che personalmente non ho alcuna passione per l’Idrossiclorochina e che, per me, qualunque farmaco che si riveli utile per la cura a casa dei pazienti dovrebbe avere attenzione e la giusta considerazione da parte delle Autorità Sanitarie, soprattutto se sono i medici a chiederlo”. Mi limito a rilevare il dato, ovvero: il Dottor Cavanna, medico Primario all’Ospedale di Piacenza e con lui la Dottoressa Paola Varese Primario ASL di Alessandria, il Dottor Luigi Garavelli Primario Malattie Infettive Ospedale di Novara e centinaia di altri medici del Territorio hanno salvato centinaia di pazienti curandoli a casa con questa medicina, eppure hanno contro quasi tutta la comunità scientifica e i cosiddetti organi di “controllo” statali che si rifiutano di leggere gli studi nazionali e internazionali sull’efficacia del farmaco (che io ho letto) e insistono con una propaganda strumentale e vergognosa per delegittimarne l’utilizzo. L’ultima trovata propagandistica è quella dell’EMA, l’Agenzia Europea per i medicinali (sostanzialmente la sorella europea dell’AIFA nazionale), che guarda caso, proprio mentre 13 Regioni Italiane chiedono la ripresa dei protocolli sperimentali per le cure domiciliari con Idrossiclorochina, fa uscire una notizia in cui afferma che il farmaco è pericoloso per la salute mentale. Dunque, se quello che EMA afferma fosse vero ne conseguirebbe che tutti i reumatologi del mondo dovrebbero immediatamente sospendere la somministrazione di Idrossiclorochina che da più di 50 anni prescrivono ai loro pazienti visto che l’EMA dice che altrimenti si suicideranno. I medici non hanno mai avuto evidenza di questo grave effetto collaterale? Beh, non importa, vuol dire che non saranno stati attenti. Ora (proprio perché si è scoperto che l’idrossiclorochina è efficace per curare il COVID-19) guarda caso emerge che 6 persone che prendevano il farmaco si sono suicidate (non sappiamo niente di loro, ovvero ad esempio se avessero già problemi psichiatrici). Sappiamo però che hanno abusato del farmaco prendendo dosi superiori a quelle consigliate. E questa vi pare una notizia? Sei persone dal quadro clinico sconosciuto abusano di un farmaco, si suicidano e la colpa è del farmaco? Un farmaco che prendono ogni giorno milioni di persone a cui non è mai successo nulla di tutto questo? Certo che bisogna proprio essere dei mascalzoni, oppure davvero in malafede, per fare una propaganda così smaccatamente strumentale contro una medicina solo perché si è dimostrata, se assunta a basse dosi e all’insorgenza dei sintomi, uno strumento efficace per curare a casa il COVID-19 e costa solo 6 euro. Come si fa ad accettare che Enti istituzionali, che nella coscienza collettiva godono di autorevolezza scientifica, si approfittino della buona fede dei cittadini per diffondere storie artefatte come quella sulla pericolosità psichiatrica di un farmaco che viene utilizzato da 50 anni per la cura di artrite reumatoide e altre importanti malattie del sistema immunitario? Tra l’altro, non si vuole evidenziare che il Trattamento per il COVID-19 è molto breve (massimo una settimana e a dosi molto più basse di quelle già oggi consentite). Possibile che nessun organo di controllo etico della comunità scientifica sollevi il caso? Dov’è finita la serietà di una categoria che fa un giuramento solenne “di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento”? Lo ripeto ancora: il Ministero della Salute e AIFA concedano la possibilità a tutti questi medici che lo chiedono, di poter riprendere la sperimentazione, con tutti i dovuti controlli e verifiche. Perché non si può negare una cura ritenuta efficace dai medici sul campo solo sulla base di storie rivelatesi false come il famoso studio di The Lancet, o suggestioni ai limiti del ridicolo come questa di EMA. Curare a casa il COVID-19 significa scongiurare l’affollamento degli Ospedali e dunque la necessità di DPCM che stanno, questi sì, incidendo negativamente sulla socialità e sulla salute mentale degli individui producendo danni incalcolabili al lavoro e all’economia”.

Coronavirus e vitamina D, l'appello di 61 prof e medici italiani: “Diamola ai soggetti a rischio”. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Sono 61 i professori, ricercatori e medici che hanno sottoscritto un appello alle istituzioni per somministrare alle categorie più a rischio per il coronavirus la vitamina D in via preventiva: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione ai pazienti di COVID-19”. Una richiesta simile a quella fatta un mese fa dai colleghi inglesi. Un appello di 61 tra professori, ricercatori e medici sul modelli di quello firmato dai colleghi inglesi: “Diamo la vitamina D ai soggetti a rischio per contrastare il coronavirus”. Vi abbiamo raccontato di questo appello oltre un mese fa: un gruppo di scienziati inglesi guidati dal professor Gareth Davies ha indicato come circa la metà della popolazione inglese abbia una carenza di vitamina D, e secondo loro questo basso livello potrebbe comportare un maggior rischio di contrarre il coronavirus. Non solo: se ci si ammala, e si ha poca vitamina D, la possibilità di avere sintomi gravi sarebbe più alta. E per questo il gruppo di scienziati ha lanciato un appello al governo per intervenire, facendo aggiungere dosi di vitamina D ai cibi più consumati come il latte o il pane. Adesso in Italia un documento sottoscritto da 61 tra professori, ricercatori e medici propone alle istituzioni italiane un percorso simile. “Ad oggi è possibile reperire circa 300 lavori con oggetto il legame tra COVID-19 e vitamina D”, scrivono i ricercatori. Gli studi “hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata”. Per questo i 61 studiosi suggeriscono, nel documento inviato alle istituzioni sanitarie italiane, di valutare la “somministrazione preventiva” di vitamina D “a soggetti a rischio di contagio come anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse”. Secondo loro non ci sarebbero, in questo contesto, “sostanziali effetti collaterali”. La motivazione di questa richiesta è chiara: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione di vitamina D a pazienti COVID-19”. Un tema che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo: a inizio novembre vi abbiamo raccontato dello stato degli studi sul possibile legame tra vitamina D e coronavirus, dopo che gli scienziati inglesi avevano lanciato l’appello al governo per aggiungere la sostanza al cibo “per aiutare nella lotta contro il Covid”. Una richiesta seguita dall’annuncio del ministero della Salute britannico, che ha chiesto ai propri consiglieri sanitari di fornire linee guida per utilizzare la vitamina D come possibile modo per prevenire e trattare il coronaviurs. Con Giulia Innocenzi poi abbiamo intervistato il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino, tra i 61 firmatari dell’appello e coautore di uno studio secondo cui le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. I risultati dello studio, ci ha detto il professore “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Pochi giorni fa infine vi abbiamo dato conto di una circolare del ministero della Salute, per la quale “non esistono ad oggi evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercetina), il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato". A quelle parole ha replicato a Iene.it il professor Isaia, che ci ha detto: “La circolare è discutibile perché un nostro nuovo documento riporta nuove evidenze su quanto andiamo dicendo. Chi ha scritto il documento ha accomunato la vitamina D, che è cosa ben diversa, ad altre vitamine e integratori. Le nostre evidenze, che partono dall’inizio del 2020, possono essere discutibili ma meritano almeno un approfondimento”».

Tra il ricovero e la dimissione son passati solo 16 giorni, dal 22 novembre dell'attesa del ricovero, avvenuto il 23, fino al 7 dicembre 2020, data delle dimissioni.

«La mia dimissione. Purtroppo la mia dimissione come il mio ricovero è stato traumatico. Dal 3 dicembre 2020 al 7 dicembre 2020 sono stato costretto a stare da negativo in un reparto Covid. Le linee guida raccomandano il distanziamento tra coniugi, positivi e negativi, e poi le autorità permettono la promisquità negli ospedali Covid. Non è provato scientificamente il periodo di immunità, specie in presenza di carica virale forte, però in reparto per ben due volte hanno introdotto nella mia stanza pazienti di prima positività. La seconda volta, il 5 dicembre 2020 notte, addirittura, V.to T.liente di Martina Franca, poverino, egli stesso infettato in ospedale. Ho consigliato, per impedire la promisquità, l’appaiamento in stanze separate: vecchi degenti, con vecchi degenti, a minima trasmissione del virus; nuovi ricoverati con nuovi ricoverati ad alta carica virale. Risposta: problemi organizzativi. Ergo: troppo lavoro per gli addetti. Ho detto che la mia degenza non era necessaria perché potevo essere curato a casa o tramite Usca. Giusto per liberare il letto per nuove emergenze. Insomma sono stato costretto alla dimissione volontaria, da me imposta ed anticipata da giorni. L’uscita è stata procrastinata fino alle 19.30 della sera del 7 dicembre. E non voglio pensare che sia stata una sorta di ritorsione.

Positivi e negativi insieme al Giannuzzi, è normale? Lavoceassociazioneculturaleasud.it l'8 Dicembre 2020. Finalmente negativo. Antonio Giangrande, il “famoso” paziente dell’attesa di undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato all’ospedale Giannuzzi di Manduria , è finalmente negativo. Tutto bene quel che finisce bene, direte voi. Invece no. Dopo 15 giorni di ricovero , la degenza procedeva secondo quanto auspicato, fino all’esito negativo del tampone. A questo punto ci si sarebbe aspettato uno spostamento di reparto per evitare che un negativo restasse in stanza con positivi. Ma niente. E risposta negativa è arrivata neanche alla richiesta del Giangrande di essere spostato almeno in un reparto dove i negativi non fossero “recenti ” e con altissima carica virale. Come noto, anche i negativizzati, specie chi ha avuto insufficienze respiratorie, devono rispettare le solite prescrizioni. La presenza di anticorpi neutralizzanti non d à certezza scientifica di “immunità” e, come già successo, i guariti possono essere reinfettati. Da non dimenticare la possibilità di imbattersi in un tipo di virus mutato contro cui gli anticorpi acquisiti nulla possono fare. A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare, il Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria, per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi , anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute . Con l’assurdo che, in fase di dimissione, è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi.

La denuncia di Giangrande: “guarito dal Covid nella stessa stanza con positivi”. Già protagonista della lunga attesa in ambulanza prima di essere ricoverato. La Voce di Manduria mercoledì 9 dicembre 2020. Dopo la denuncia per aver atteso undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato in un reparto Covid del Giannuzzi, l’avvocato Antonio Giangrande, di Avetrana, si rende protagonista di un’altra vicenda. Dopo quindici giorni di ricovero, Giangrande si è negativizzato ma, racconta, è rimasto nella stanza con altri pazienti ancora positivi. Alla sua richiesta di essere trasferito in un reparto dove i positivi non fossero recenti e quindi con una carica virale alta, i responsabili del reparto si sarebbero opposti. «A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare – si legge in una nota stampa -, l’avvocato Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi, anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute». «Con l’assurdo che, in fase di dimissione – concluso il comunicato - è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».

Come conclude questa intervista.

«Il virus ha smascherato la vera natura della gente. Conoscenti, amici e parenti che ti allontanano e ti accusano, sol perché ti hanno infettato.  I positivi conclamati posti alla pubblica gogna, non sono untori. Essi divenuti negativi, quindi immuni ed in un certo senso vaccinati, proprio loro devono stare attenti agli altri, che possono reinfettarli. E poi di questi tempi un contagio da Covid non si nega a nessuno, specie alla cattiva gente».

E la chiamano Democrazia…

"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo

Presto vieni qui ma su non fare così

ma non li vedi quanti altri bambini

che sono tutti come te

che stanno in fila per tre

che sono bravi e che non piangono mai...

E' il primo giorno però domani ti abituerai

e ti sembrerà una cosa normale

fare la fila per tre, risponder sempre di sì

e comportarti da persona civile...

Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere

e ad amare la patria e la bandiera

noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori

e discendiamo dagli antichi romani...

E questa stufa che c'è basta appena per me

perciò smettetela di protestare

e non fate rumore e quando arriva il direttore

tutti in piedi e battete le mani...

Sei già abbastanza grande

sei già abbastanza forte

ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore

ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...

E sempre in fila per tre marciate tutti con me

e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione

e andiamo dritti verso la gloria...

Ora sei un uomo e devi cooperare

mettiti in fila senza protestare

e se fai il bravo ti faremo avere

un posto fisso e la promozione...

E poi ricordati che devi conservare

l'integrità del nucleo famigliare

firma il contratto non farti pregare

se vuoi far parte delle persone serie...

Ora che sei padrone delle tue azioni

ora che sai prendere le decisioni

ora che sei in grado di fare le tue scelte

ed hai davanti a te tutte le strade aperte...

Prendi la strada giusta e non sgarrare

se no poi te ne facciamo pentire

mettiti in fila e non ti allarmare

perché ognuno avrà la sua giusta razione...

A qualche cosa devi pur rinunciare

in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere

perciò adesso non recriminare

mettiti in fila e torna a lavorare...

E se proprio non trovi niente da fare

non fare la vittima se ti devi sacrificare

perché in nome del progresso della nazione

in fondo in fondo puoi sempre emigrare...

PREMESSA: GLI OSTACOLI.

TRIBUNALE PENALE DI TARANTO UFFICIO DEL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI DOTT.SSA PAOLA R. INCALZA

Proc. Pen. n. 4401/18 R.G.N.R. 4578/18 R.G.GIP DECRETO PENALE n.663/18

OPPOSIZIONE A DECRETO PENALE DI CONDANNA EX ART. 461 C.P.P.

Il sottoscritto dr Antonio Giangrande, nato a Avetrana il 02/06/1963, C.F.: GNGNTN63H02A514Q, residente in Avetrana (TA), via A. Manzoni n. 51, dichiaratamente domiciliato, ai sensi dell'art. 161 cpp, presso la propria residenza all'indirizzo suindicato, rappresentato e difeso, giusta procura in calce, dall'Avv. Mirko Giangrande del Foro di Taranto (C.F. GNGMRK85A26E882V – P.I. 02834700730), il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni a mezzo fax al numero 099/9708396 e PEC avv. mirkogiangrande@postecert.it, imputato nel procedimento penale n. 4401/18 R.G.N.R., 4578/18 R.G. GIP e destinatario del decreto penale di condanna n. 663/18 emesso dal GIP Paola R. Incalza presso il Tribunale di Taranto

PREMESSO CHE

1. In data 1 febbraio 2021 è stata ricevuta la notifica del decreto penale di condanna n.663/18 emesso, nell’ambito del procedimento penale in epigrafe dalla Dott.sa Paola R. Incalza, GIP presso il Tribunale Penale di Taranto, in data 26 giugno 2018 e depositato in cancelleria il 29 giugno 2018 (All. 1);

2. Con il predetto decreto l’interessato è stato condannato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. c.p., 595, 3° comma, c.p., alla pena di 9.000,00 di multa, pena sospesa;

3. Il dott. Antonio Giangrande veniva condannato “perchè, con più azioni esecutive di un disegno criminoso, offendeva la reputazione di Bravo Stefano mediante la pubblicazione sul sito “Google Libri” – quindi, attraverso il sistema “Internet”- di libri dal contenuto ingiurioso ed altamente lesivi dell’immagine professionale della p.o., indicandola come persona coinvolta nell’ambito dell’inchiesta “MAFIA CAPITALE”, in particolare:

- pubblicava il libro e-book da titolo “GOVERNOPOLI”, INDICANDO LA P.O. come “IL COMMERCIALISTA CHE RICICLAVA I SOLDI DI BUZZI E CARMINATI”, soggetti coinvolti nel predetto procedimento penale e sottoposti a misure cautelari;

- pubblicava il libro e-book dal titolo “APPALTOPOLI: APPALTI TRUCCATI” indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO LO SPALLONE DEL CLAN, IL COMMERCIALISTA CHE PORTAVA I SOLDI OLTRECONFINE, E’ STATO TRA I PROMOTORI DELLA HUMAN FOUNDATION, UNA CREATURA DELL’EX-MINISTRO PD GIOVANNA MELANDRI…”

- pubblicava il libro e-book dal titolo: “MAFIOPOLI SECONDA PARTE: LA MAFIA SIAMO NOI”, indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO CHE RICICLAVA I SOLDI PER BUZZI E CARMINATI”.  In Avetrana, sino al 28 aprile 2015 (competenza territoriale individuata ex art.9, 3°comma, c.p.p.)

PROPONE

Opposizione avverso il decreto penale di condanna n.663/18 emesso dal GIP, Dott.ssa Paola R. Incalza presso il Tribunale Penale di Taranto, nel procedimento penale n. 4401/2018 R.G.N.R. e n. 4578/2018 R.G. GIP, il 26/06/2018 e depositato in data 29/06/2018 e ricevuto in notifica in data 1/02/2021, chiedendo che si proceda con le forme del giudizio Ordinario (e non per giudizio immediato/giudizio abbreviato/applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.) e che il decreto penale qui opposto venga revocato per i seguenti

MOTIVI

In tema di diffamazione, diritto di cronaca e di critica, i punti di riferimento normativi sono vari.

L'art. 21 della Costituzione dispone che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

L'art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

L'art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (Libertà di espressione) dispone che “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”. L'art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (Libertà di espressione e d'informazione) recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.

L'Art. 51 del Codice Penale (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) prevede che “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”

L'art. 2 legge 69/1963 (“Ordinamento della professione di giornalista”) dispone che «È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori.».

L'odierno imputato ha esercitato il diritto di cronaca e di critica. Tale diritto, costituzionalmente garantito dall'art. 21 della Costituzione, incontra solo tre limiti:

- Verità;

- Attinenza– continenza;

- Interesse pubblico. Il diritto di cronaca è esercitabile sia su stampa periodica e non periodica. Quest'ultima consiste in ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè non stampata regolarmente. Ne è un esempio il saggio o un romanzo in forma di libro). Nella fattispecie in oggetto, l'attività del dott. Giangrande è di “cristallizzare la cronaca” e applicando su di essa una “critica storica”.

La Corte di Cassazione, nel tempo, è spesso intervenuta a contemperare i vari e contrapposti diritti in ambito di diritto di cronaca. In due famose sentenze (Cass. Pen. 8959/1984; Cass. Civ. 5259/1984) la Suprema Corte afferma che l'esercizio della libertà di diffondere alla collettività notizie e commenti è legittimo, e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza se concorrono le seguenti condizioni:

- Che la notizia pubblicata sia vera ("verità del fatto esposto");

- Che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale ("rispondenza ad un interesse sociale all'informazione", ovvero requisito della pertinenza);

- Che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività ("rispetto della riservatezza ed onorabilità altrui", ovvero "correttezza formale della notizia o della critica").

- Che se tutte queste condizioni vengono rispettate, una notizia può essere pubblicata anche se danneggia la reputazione di una persona.

Nella sent. 18174/14 la Suprema Corte attesta che: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico e, dunque, nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte nel campo della formazione sociale, culturale e scientifica (Cass., sez. V penale, sent. 7340/2019).

In tema di diffamazione a mezzo stampa, al fine di attribuire efficacia esimente all'esercizio del diritto di cronaca e di critica, la verità della notizia e la fondatezza dell'opinione vanno valutate con riferimento al momento in cui sono state divulgate, non potendo assumere alcun rilievo gli eventi successivi (Corte d'appello di Bari, sent. 2524/2019).

In materia di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste una generica prevalenza del diritto all'onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica alla persona può incidere sulla sua reputazione. D'altra parte, negare il diritto di critica, solo perché lesivo della reputazione di taluno, significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero. Il diritto di critica, pertanto, può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell'onore. Per contro, si configura un abuso del diritto di critica in caso di palese travalicamento dei limiti della civile convivenza, di utilizzo di espressioni sgradevoli e non pertinenti al tema in discussione, senza che sussista alcuna finalità di pubblico interesse (Trib. Roma, sez. XVIII, sent. 20090/2019).

In tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Cass. Pen., sez. V, sent. 17243/2020).

In tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione dei fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; per riconoscere efficacia esimente all'esercizio di tale diritto, occorre tuttavia che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive (Trib. Roma, sez. I, sent. 2537/2020).

Riguardo al tema della diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuità ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti (Cass. Pen., sez. V, sent. 15089/2019). La sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto; l'esercizio di tale diritto consente l'utilizzo di espressioni forti e anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l'attenzione di chi ascolta (Cass. Civ., sez. III, ordinanza 14370/19).

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

- può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

- può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

- può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

- non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il dott. Giangrande è un giurista, sociologo storico, youtuber e blogger d'inchiesta ed opera nell'ambito del libero pensiero stabilito dall'art. 21 della Costituzione. La legge 633/1941, all'art. 65, sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo.  

Per la Suprema Corte (Cass. 16236/2010), “con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”.

Il dott. Giangrande, come saggista, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, poteva approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Nel caso di specie i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato. Non esiste alcun legame con le parti. La pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.

L'odierno opponente, nella propria attività, aggrega contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati. La dottrina maggioritaria evidenzia che “per uso di critica” deve intendersi l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione.

La critica storica può scriminare la diffamazione (Cass. Pen., sez. V, sent. 47506/2016). L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione (Cass. Pen. sez. V, sent. 47506/2016), dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Le frasi contestate sono tratte da brani riferiti ad articoli di stampa mai rettificati riconducibili a Francesco Merlo su “la Repubblica” del 12/12/2014 (All. 2) e Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso” del 18/12/204 (All. 3). La parte offesa non ha mai chiesto la rettifica dei brani citati: né, a quanto pare dalla pubblicazione recente, all’autore principale, né al secondario. 

Si deposita: 1. Copia del decreto penale di condanna n. 663/18;

2. Copia dell'articolo Francesco Merlo su Repubblica;

3. Copia dell'articolo di Marco Damilano ed Emiliano Fittipaldi su L'Espresso

Avetrana, lì 08/2/2021

Dott. Antonio Giangrande

Per Autentica Avv. Mirko Giangrande

 

ON.LE GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

PRESSO IL TRIBUNALE DI TARANTO

Il sottoscritto Avv._________ , difensore di _______ nato a ______ il ______ e residente in ______ alla via _____

DICHIARA

di proporre opposizione avverso il decreto penale di condanna emesso dal GIP (dott. _______) presso il Tribunale di _________in data _______ e notificato in data _______, con il quale l’imputato è stato condannato alla pena di € 9.000,00  per il reato di cui agli artt. __________.

(Chiede altresì il giudizio immediato, abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Parte eventuale da aggiungersi se si ritiene di definire il giudizio con un rito alternativo).

Si allega: procura speciale (se non già in atti)

Luogo,_________________

Gennaio, tempo di notifica delle cartelle esattoriali inviate il 31 dicembre, per impedirne la prescrizione quinquennale. Gennaio tempo di scoperte e di sorprese.

Il “No Profit” paga Imu e Tasi dei locali dove svolge la sua attività.

Intervento del Sociologo storico,  dr Antonio Giangrande, autore, tra gli altri, anche del saggio UGUAGLIANZIOPOLI e relativi aggiornamenti annuali.

L’Italia è il Paese del foraggiamento a pioggia, dove tutti chiedono e dove tutti ottengono. Eppure si trascura quel mondo fatto di centinaia di migliaia di associazioni di volontariato: il cosiddetto “No Profit”.

Mondo che supplisce a tutte quelle mancanze statali a sostegno dei diritti inalienabili dei cittadini.

La Costituzione, appunto, prevede la tutela del Principio di solidarietà e di Uguaglianza, ma, come sempre in questa Italia, tutti i principi costituzionali vengono sempre calpestati. Per inciso con l’intercalare: vanno a farsi fottere.

Il “No Profit”, proprio per sua stessa definizione, non produce reddito. La sua attività si basa sull’opera di milioni di volontari che, gratuitamente, prestano la loro opera materiale ed intellettuale.

Il Volontariato, non producendo reddito, va da sé, logicamente, non può acquistare nulla per sé, né essere proprietario di alcunché.

La sede legale è spesso sita presso un locale messo a disposizione gratuitamente dal presidente dell’associazione, o da un suo componente, o da terzi benefattori.

Quindi di quel locale con il COMODATO si ha l’UTILIZZO e non il POSSESSO.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), in ossequio alla Costituzione prevedeva la dicotomia Utilizzo e Possesso, prevedendo l’esenzione dell’Imu/Tasi sia per i possessori sia per gli utilizzatori, se diversi dai proprietari. In questo caso viene premiato il COMODATO D’USO a fini solidaristici.

Invece, i Comuni hanno pensato bene di non distinguere i possessori dagli utilizzatori, inquadrando l’esentato in una sola figura: ossia il proprietario deve essere l’utilizzatore.

A tal riguardo si riporta, a titolo esemplare, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, che recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”. Regolamento adottato dai Consiglieri Mario De Marco, sindaco, Enzo Tarantini, assessore al ramo, Antonio Minò (presidente Onlus), Daniele Petarra, Antonio Baldari, Vito Maggiore, Pietro Giangrande e Cosimo Derinaldis, presidente del Consiglio (presidente Onlus). Il Funzionario del servizio ragioneria, Antonio Mazza, esprimeva parere favorevole.

La casistica riporta  i casi in cui vi sia l’utilizzo indiretto di un beneficiario. Prendendo in esame solo i casi in cui i beni ecclesiastici, di per sé esentati, vengono utilizzati da terzi, con le stesse finalità solidaristiche. Non si parla di possessori privati che prestano i loro beni gratuitamente alle associazioni di Volontariato.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell’Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992,  prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l’esenzione solo a quei “No Profit” che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA’ O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·          L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·          Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Degna di nota è la citazione del Comune di Falconara, in nome del vice sindaco Raimondo Mondaini, con delega al Bilancio. Comune che tra i primi, con merito, ha previsto l’esenzione IMU per quegli immobili ceduti gratuitamente alle associazioni di volontariato.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

Dr Antonio Giangrande

RICORSO PRESSO LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI TARANTO

seguente

Istanza in autotutela per l'annullamento dell'avviso di accertamento esecutivo

 

All'Ufficio Tributi – Contenzioso del Comune di Avetrana (TA)

Via Vittorio Emanuele - 74020 Avetrana (TA)

All'attenzione del Funzionario responsabile del servizio

Dr Antonio Mazza

All'attenzione del responsabile del procedimento

Sig.ra Maria Santo

 

Contribuente: Dr Antonio Giangrande, via Alessandro Manzoni n. 51, Avetrana (TA)

Oggetto: istanza in autotutela per l'annullamento  del:

-           Provvedimento n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           Provvedimento n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

 

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni n. 51, C.F. GNGNTN63H02A514Q, premesso

che i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

PREMESSO

In data 14 gennaio 2021 si presentava Istanza in autotutela per l’annullamento degli avvisi di accertamento esecutivo, che qui si intende integralmente trascritto, in quanto parte del presente ricorso.

In data 3 febbraio 2021 l’Ufficio Tributi, in persona del responsabile Dr Antonio Mazza rigettava l’Istanza adducendo le seguenti motivazioni:

“Ritenuto che non sussistano i motivi che consentono il relativo accoglimento in quanto:

Vale l’esenzione Imu per gli immobili appartenenti agli enti no profit, ma solo se questi li utilizzano direttamente.

L’articolo 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs 504/1992 stabilisce che sono esenti dall’ICI gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali per lo svolgimento di una serie di attività agevolate (assistenziali, previdenziali, culturali, eccetera), svolte con modalità non commerciali. L’esenzione si applica anche all’IMU e, di conseguenza alla Tasi, per effetto del richiamo operato alla norma sopra citata dall’art. 9, comma 8, del D.Lgs /23/2011.

La Corte Costituzionale ha affermato la necessità che l’immobile, per poter beneficiare dell’esenzione, deve essere utilizzato direttamente dall’ente proprietario (sentenze n. 429/2006 e n. 19/2007).

La Corte di Cassazione, inoltre, ha confermato questo orientamento (sentenze n. 22201/2008 e n. 2221/2014) anche recentemente ribadendo che la mancanza dell’utilizzazione diretta dell’immobile, perché concesso in comodato a un terzo, fa perdere il diritto all’esenzione dell’Ici.

Con l’ordinanza del 17 maggio 2017 n. 12301, infatti, la Suprema Corte ha respinto la richiesta di esenzione avanzata da una associazione per un immobile nel quale si svolgevano attività ricreative e ricettive, concesso in comodato a un privato cui era stata affidata la gestione di queste attività.

La Corte sottolinea che, per beneficiare dell’esenzione dall’Ici, è necessaria l’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente che ne abbia possesso e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito.

Occorre pertanto, che siano posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore, cioè che vi sia coincidenza tra ente proprietario ( o titolare di altro diritto reale sul bene) e quello che utilizza l’immobile.”

IN FATTO

In data 07/01/2021 il Dr. Giangrande riceveva notifica di avviso di accertamento (n. 550 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo all'Imposta Municipale Unica (IMU) per l'anno 2015, per un importo complessivo di Euro 220,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 1);

In data 07/01/2021 riceveva notifica dell'avviso di accertamento (n. 1240 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo alla Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) per l'anno 2015, per un importo complessivo di euro 89,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 2);

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è sede legale ed utilizzato esclusivamente dall'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS (allegato 5), sodalizio antimafia iscritto nell'anagrafe delle ONLUS (allegato 3) e già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura;

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è in possesso del dr Antonio Giangrande, quale usufruttuario (allegato 4), al fine della destinazione, svolgimento ed utilizzo esclusivo dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, di cui è presidente e della quale ha ivi stabilito la sede legale. Possessore ed utilizzatore, di fatto, è lo stesso soggetto esentabile.

IN DIRITTO

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane,  dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio,  industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai   compiti istituzionali;

(…)

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

SI NOTI NELLA PREVISIONE DEL LEGISLATORE LA SPECIFICA DICOTOMIA TRA POSSESSO ED UTILIZZO.

 Tale disposizione trova conferma nel:

-           Dlgs 23/2011 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) il quale, nell'art. 9 comma 8 (Applicazione dell'Imposta Municipale Propria) recita: “Sono esenti dall'imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), h) ed i) del citato decreto legislativo n. 504 del 1992”;

-           Dl 16/2014, il quale, nell'art. 1 (Disposizioni  in materia di TARI e TASI), comma 3 recita: “Sono esenti dal Tributo per i Servizi Indivisibili (TASI) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinanti esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'articolo 7 comma 1, lettere b), c), d), e), f) ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504; ai fini dell'applicazione  della lettera i) resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 91-bis del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni.

Ai fini IMU è prevista l'esenzione per i soli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali, di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive e delle attività di cui all'art. 16 co. 1 lett. a) della legge 222/1985. Inoltre è prevista, in caso di utilizzazione “mista”, il riconoscimento dell'esenzione pro quota limitato alla sola frazione di unità nella quale viene svolta l'attività non commerciale. L'art. 7 co. 1 lett. i) del Dlgs 504/1992 è stato oggetto di recenti modifiche che, nel complesso, hanno determinato un sensibile irrigidimento dei criteri di accesso all'esenzione. Per effetto delle modifiche apportate alla richiamata lett. i) dall'art. 91 bis co. 1 del Dl 1/2012 convertito L. 27/2012, ai fini dell'esenzione occorre che le attività siano svolte “con modalità non commerciali”.

Per il riconoscimento dell''esenzione IMU, la già richiamata lett. i) dell'art. 7 co. 1 del Dlgs 504/92 individua due requisiti:

Requisito soggettivo relativo al soggetto che utilizza l'immobile.

Come accennato in precedenza, ai fini dell’esenzione, gli immobili devono essere utilizzati dai soggetti di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR richiamato dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, vale a dire dagli “enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato”. Rientrano tra gli enti non commerciali privati:

– gli enti disciplinati dal codice civile, quali associazioni, fondazioni e comitati;

– gli enti disciplinati da specifiche leggi di settore, quali:

– organizzazioni di volontariato (L. 11.8.91 n. 266);

– organizzazioni non governative (art. 5 della L. 26.2.87 n. 49);

– associazioni di promozione sociale (L. 7.12.2000 n. 383);

– associazioni sportive dilettantistiche (art. 90 della L. 27.12.2002 n. 289);

– fondazioni risultanti dalla trasformazione degli enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche  assimilate (DLgs. 23.4.98 n. 134);

– ex IPAB privatizzate (a seguito, da ultimo, del DLgs. 4.5.2001 n. 207);

– enti che acquisiscono la qualifica fiscale di ONLUS (DLgs. 4.12.97 n.460);

– gli enti ecclesiastici.

Requisito oggettivo relativo al possesso dell'immobile.

Tale requisito riguarda la tipologia e la rilevanza dell'attività non profit svolta e alle modalità di svolgimento.

Come sopra accennato, attenendosi alla formulazione letterale della lett. i) dell’art.7 co. 1 del DLgs. 504/92, ai fini dell’esenzione l’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale pubblico o privato di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR.

Non è invece richiesto il requisito del possesso dell’immobile stesso da parte dell’ente non commerciale che lo utilizza. Di conseguenza, l’esenzione sembrerebbe spettare relativamente a tutti gli immobili utilizzati da parte di un ente non commerciale e destinati in via diretta ed esclusiva allo svolgimento delle attività individuate dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, a prescindere dalla circostanza che detti immobili siano:

– posseduti a titolo di proprietà, usufrutto o superficie dall’ente non commerciale;

- ovvero anche solo detenuti, ad esempio a titolo di locazione o comodato; in tal caso, ovviamente, l’esenzione IMU spetterà al dante causa (locatore o comodante) che ha concesso la detenzione dell’immobile all’ente non strumentale che lo utilizza.

A tal riguardo la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.

Il possesso può essere acquisito per derivazione, ovvero quando viene trasferito da un vecchio possessore a uno nuovo (traditio). Si può trasferire il possesso consegnando materialmente il bene al nuovo possessore oppure consegnando allo stesso qualcosa che con quel bene abbia un legame tale da permetterne di agire liberamente su di esso.

Nel caso in esame, in data 17/11/2004, davanti al notaio Vittoria Calvi di Manduria (TA), si costituiva l'Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede in Avetrana (TA), via Piave 127 (allegato 5). Il possesso dell'immobile, sito nella suddetta via, veniva trasferito dall'usufruttuario, nonché presidente dell'Associazione, dr Antonio Giangrande, all'Associazione Contro Tutte le Mafie, per svolgere in via esclusiva le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, come da proprio atto costitutivo e regolamento, così come già attestato nella Dichiarazione IMU-TASI 2015 (allegato 6).

Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.

Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504.  Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.

La Corte di Cassazione ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.

Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla  Cass. 30.5.2005 n. 11427.

Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva.

Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.

Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013.  Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.

In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.

Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.

COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Puglia sentenza n. 2332 sez. 3 depositata il 6 luglio 2017: Il Comune di Bari presentava appello avverso la sentenza n. 3204/2014 del 3.12.2014, avente ad oggetto l’imposta IMU gravante su immobili di un ente ecclesiastico e concessi in comodato gratuito ad enti aventi natura di Onlus e esercenti attività scolastica. La commissione di primo grado aveva accolto il ricorso dell’ente ecclesiastico affermando l’irrilevanza della circostanza che l’immobile si concesso in comodato gratuito ad altri enti che di fatto erano articolazioni dell’ente ecclesiastico e svolgevano per conto di questo una attività formativa, seppur a pagamento. La tesi sostenuta dal Comune di Bari nell’atto di appello si fonda sulla presunta necessità che sia lo stesso ente ecclesiastico proprietario del bene a svolgere l’attività commerciale non esclusiva per ottenere l’esenzione. Inoltre non vi sarebbe alcuna prova che gli enti comodatari siano strumentali dell’ente ecclesiastico resistente. Ad opinione di questa commissione, l’appello è infondato e va rigettato. In primo luogo va osservato che la norma tributaria in quanto incidente sul diritto di proprietà tutelata dalla Costituzione, va considerata norma di stretta interpretazione. Ne consegue che le norme tributarie, che prevedono esenzioni, non sono considerabili “eccezionali” e, quindi, di stretta interpretazione ma al contrario.

Ciò premesso, nel merito della vicenda va ripreso quanto affermato la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25508/2015 del 18 dicembre 2015.

La fattispecie posta all’attenzione della Suprema Corte era identica è quella de qua agitur; riguardava tre avvisi di accertamento, notificati per altrettante annualità d’imposta, relativi ad un immobile di proprietà di un Ente di culto con sede nello (omissis) e concesso in comodato d’uso gratuito a una Onlus, per perseguire le finalità di assistenza e formazione a favore di studenti universitari; tale finalità, sostenevano i ricorrenti, giustificava l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992.

In particolare, è stato messo in evidenza come non fosse rilevante il fatto che il bene in questione fosse utilizzato dal comodatario e non dal concedente, perché il comodatario utilizzava il bene in attuazione dei compiti istituzionali dell’ente concedente, al quale era legato da un vincolo di strumentalità: l’utilizzazione diretta del bene da parte dell’ente possessore, è condizione necessaria per l’esenzione, ma solo nelle ipotesi di locazione del bene o di “concessione di beni demaniali”.

Solo in questi casi, infatti, la ratio della limitazione è individuabile nell’effetto distorsivo che, in tali situazioni, si determina rispetto alle finalità tutelate dalla norma (l’esercizio di attività “protette”), in quanto il bene viene utilizzato dal possessore per “una finalità economica produttiva di reddito” e non per lo svolgimento dei compiti istituzionali.

Trattasi di fattispecie ben diverse da quella sottoposta all’attenzione di questa commissione regionale in cui, invece, sia l’Ente di culto che l’ente “concretamente utilizzatore” sono enti non commerciali e l’immobile è concesso in comodato gratuito e non in locazione onerosa.

La sussistenza del requisito, sia soggettivo che oggettivo, deve essere in sostanza accertata caso per caso, in considerazione del fatto che sarebbe ingiustificato che lo Stato gravasse quelle realtà, ecclesiali e non, che perseguono fini di interesse collettivo.

La tesi della Cassazione, che si condivide completamente, è avallata anche dalla risoluzione n. 4/DF del 4 marzo 2013, dell’Amministrazione finanziaria che ha ritenuto che l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992 spetti nell’ipotesi in cui l’immobile sia concesso in comodato a un altro ente non commerciale appartenente alla stessa struttura dell’ente concedente per lo svolgimento di un’attività meritevole prevista dalla norma agevolativa.

Nel caso di specie l’appartenenza degli enti comodatari all’ente ecclesiastico proprietario del bene è stato ben giustificato dal giudice di prime cure, la cui argomentazioni si condividono e richiamano interamente in questa sede.

L’immobile è stato affidato in comodato gratuito ad un’altra onlus che svolge attività culturale e didattica e, quindi, non commerciale.

Va a tal proposito rimarcato che l’attività scolastica primaria e secondaria, con esclusione di quella universitaria, è un diritto costituzionalmente protetto non solo per chi insegna ma anche per chi apprende ed espressione della libertà fondamentale ed inclinabile di manifestazione del pensiero oltre che del diritto di inclusione sociale di cui all’art. 2 della Carta Fondamentale.

Il pagamento delle rette da parte dei discenti non trasforma l’attività svolta in commerciale dovendosi rappresentare come una contribuzione al funzionamento della struttura educativa necessaria per l’esercizio effettivo del diritto costituzionale di insegnamento e di apprendimento.

Con la pronuncia della CTR Lombardia, sezione VIII, n. 4400 del 18.10.2018, i giudici di secondo grado hanno affermato che non può essere contestata l’esenzione Imu ad un ente non commerciale che svolge attività di scuola dell’infanzia sulla base di accordi con l’amministrazione comunale che prevedono l’erogazione di contributi in conto gestione, oltre a vincoli sulle tariffe in ragione delle fasce di reddito delle singole famiglie degli iscritti alla scuola. È proprio l’esistenza di tali vincoli ispirati ad un principio di solidarietà che impedirebbe all’ente una gestione concorrenziale, fatto che giustifica il riconoscimento dell’esenzione. Con riferimento ai contributi in convenzione, inoltre, secondo i giudici regionali, la loro erogazione contribuirebbe a realizzare i medesimi obiettivi perseguiti dall’amministrazione comunale con la gestione diretta della scuola. Nonostante le richiamate argomentazioni possano ritenersi condivisibili, occorre evidenziare come le stesse non siano state giudicate sufficienti a riconoscere l’esenzione in occasione di una altrettanto recente pronuncia dei giudici di legittimità.

In particolare, con la sentenza della CTP Reggio Emilia n. 271/2/2017 del 25.10.2017, i giudici emiliani hanno riconosciuto l’esenzione da Imu per un immobile di un ente ecclesiastico concesso in uso gratuito ad altro ente ecclesiastico per svolgervi attività didattica. Dal contenuto della sentenza emerge che, ai fini dell’esenzione, non deve sussistere la necessaria coincidenza tra chi “possiede” l’immobile e chi lo “utilizza” per attività istituzionali esenti dal tributo.

Più di recente la sezione XI della CTR Lazio, con la sentenza n. 2696 del 27.04.2018, ha sostenuto che va riconosciuta l’esenzione anche se un ente non commerciale titolare di un immobile lo concede in comodato a un altro ente non profit, qualora i due enti svolgano la stessa attività e perseguono le medesime finalità istituzionali e per il suo utilizzo non venga richiesto dal concedente il pagamento di alcun canone di locazione.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

La gratuità del comodato è motivo di esenzione.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 lettera i del D.Lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto. In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione. Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 19 novembre 2012 n. 200 ha individuato, all’articolo 3 e 4, rispettivamente i requisiti generali e di settore che gli enti non commerciali devono possedere per godere dell’esenzione IMU.

In particolare l’articolo 3 prevede che le attività istituzionali sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente (che deve essere redatto per atto pubblico, scrittura autenticata, ovvero semplicemente registrato all’agenzia delle entrate) prevedono:

a) il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione;

b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili o avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale;

c) l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga una analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta per legge.

Gli enti non commerciali devono tenere a disposizione dei comuni la documentazione utile allo svolgimento dell’attività di accertamento e controllo.

Sull'ampliamento della casistica dell'esenzione IMU e TASI, non limitandosi al solo possesso ma allargandosi anche al semplice utilizzo dell'immobile da parte di un ente non commerciale per attività senza scopo di lucro, oltre alla modifica dell'orientamento giurisprudenziale si sta assistendo al mutamento dell'orientamento da parte del nostro legislatore.  Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·           L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·           Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

In Conclusione si afferma che:

i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

Le motivazioni di rigetto sono riferite a sentenze richiamate che prendono in esame l’utilizzo dell’immobile da parte di un privato e non da parte di un ente non commerciale come la legge richiede. E quindi i richiami giurisprudenziali non possono essere applicati a questo caso, oggetto del presente ricorso. Nel presente ricorso si fa riferimento ad Ente utilizzatore che è un Ente non commerciale ed utilizza l’immobile senza fine di lucro ed il possessore, di fatto, è lo stesso ente in persona del suo presidente.

Il riferimento è sbagliato anche in virtù della logica giuridica.

Il regolamento comunale non può travalicare la volontà di una norma di rango superiore. Ogni interpretazione di una norma da parte di organi di rango costituzionale o istituzionale non può porsi in contrasto con la volontà popolare che ha emanato la stessa norma, tantomeno quando vi consegue l’interpretazione autentica della norma da parte del legislatore medesimo. Ove il contrasto succedesse vi si palesa un chiaro conflitto costituzionale tra Organi dello Stato. E vi si palesa una chiara lesione dei principi fondamentali della Costituzione di cui all’art. 1, in cui si riconosce l’esclusiva sovranità popolare e, quindi,  del legislatore quale suo rappresentante.

Dispositivo dell'art. 1 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto: Sono fonti del diritto : 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) [le norme corporative] ; 4) gli usi.

L'avvento della Costituzione Repubblicana ha innovato al previgente sistema delle fonti in un duplice senso: ha, innanzitutto, aggiunto ulteriori fonti a quelle già contemplate dalla disposizione in esame, rompendo il monopolio legislativo in ossequio alla sua vocazione pluralista; ha, quindi, modificato i criteri che regolano i rapporti tra le fonti. Nel primo senso, sono attualmente fonti di diritto (secondo un'elencazione non tassativa): la Costituzione; le leggi costituzionali di revisione ed integrazione della Costituzione nonché, in genere, le leggi di rango costituzionale (es.: gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale); le leggi ordinarie dello Stato; gli atti normativi del governo (decreti legge e decreti legislativi); il referendum popolare abrogativo; gli Statuti Regionali ordinari, le leggi regionali; le fonti comunitarie; i contratti collettivi di lavoro; i regolamenti governativi, regionali, provinciali, comunali e degli altri enti pubblici; la consuetudine etc. Nel secondo senso, il principio di gerarchia delle fonti (le fonti di grado superiore possono abrogare quelle inferiori ma non possono essere modificate da queste ultime) si è specificato nel senso imposto dalla rigidità della Costituzione attuale: la modificazione o l'abrogazione delle norme costituzionali non può più attuarsi a mezzo della legge ordinaria, ma soltanto secondo la procedura, aggravata da maggioranze qualificate, dettata dalla stessa Costituzione.

Dispositivo dell'art. 4 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto

I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi). I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell'art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.

Interpretazione della legge. Capo II - Dell'applicazione della legge in generale. Dispositivo dell'art. 12 Preleggi: Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società. Può confermare il tenore letterale della norma (i. dichiarativa), oppure può attribuirle un significato più ristretto, limitandone l’ambito di applicabilità (i. restrittiva), o viceversa estenderne il significato, rendendo la norma applicabile a casi che a prima vista non vi sembrano compresi (i. estensiva). Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione (Il legislatore espressamente contempla la possibilità che vi siano fattispecie non previste né risolte da norme giuridiche. Il legislatore prevede, cioè, l'esistenza di lacune le quali devono, tuttavia, essere colmate dal giudice che non può rifiutarsi di risolvere un caso pratico adducendo la mancanza di norme), si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (È questa la c.d. analogia legis, ammissibile soltanto se basata sui seguenti presupposti: a) il caso in questione non deve essere previsto da alcuna norma; b) devono ravvisarsi somiglianze tra la fattispecie disciplinata dalla legge e quella non prevista; c) il rapporto di somiglianza deve concernere gli elementi della fattispecie nei quali si ravvisa la giustificazione della disciplina dettata dal legislatore (eadem ratio); se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato (È questa la c.d. analogia iuris: nel richiamare i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, il legislatore ha inteso, innanzitutto, escludere il ricorso ai principi del diritto naturale. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi vadano identificati in norme ad alto grado di generalità) 

L'Interpretazione giudiziale: Proveniente dai giudici di ogni ordine e grado. Ha valore vincolante solo per il caso concreto ossia per le parti del processo perché è alla base della decisione che le riguarda e alla quale saranno obbligate ad attenersi. Non ha valore nei confronti degli altri giudici, in quanto ogni organo giudicante deve svolgere in piena indipendenza e autonomia la propria funzione.

Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

(È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.

CONSIDERATO CHE

Visto l'art. 7 comma 1 lett. I del DLgs 504/1992;

Visto l'art. 9 comma 8 del Dlgs 23/2011;

Visto l'art. 1 comma 3 del Dl 16/2014;

Visto l'art. 5 del Regolamento per l'applicazione dell'Imposta Municipale Propria, approvato con Delibera del Consiglio Comunale di Avetrana (TA);

Visto l'art. 1 comma 759 e comma 777 della legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019.

Visto l’articolo 1, comma 3 D.L. 16/2014.

Vista la giurisprudenza che sul tema si è pronunciata fissando, ai fini dell'esenzione dai tributi IMU e TASI, la condizione dell'esclusivo possesso e utilizzo del soggetto esente ed ha escluso l'applicabilità di IMU e TASI sugli immobili dati in comodato d'uso ad enti non commerciali;

Visto il mutamento dell'orientamento legislativo in ambito di esenzione IMU e TASI, allargandone i casi oltre al solo possesso degli immobili da parte dei soggetti esenti, estendendone gli ambiti anche ai casi di semplice comodato d'uso.

Accertati i principi previsti dal legislatore a tutela della solidarietà in attuazione dell’art. 2 della Costituzione (dovere di solidarietà) e 3 (principio di uguaglianza).

Vista la finalità sociale e senza fini di lucro dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, come da atto costitutivo, regolamento e iscrizione all'anagrafe delle ONLUS;

Visto il possesso nonché utilizzo esclusivo da parte dell'Associazione Contro Tutte le Mafie (di cui il dott. Antonio Giangrande è presidente) dell'immobile in via Piave 127 (di cui il dott. Antonio Giangrande è usufruttuario), ove ha sede legale e dove svolge le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, così come già attestato con Dichiarazione IMU-TASI del 27 aprile 2015, Prot. Comune Avetrana n. 9708396;

I provvedimenti

-           n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

sono illegittimi e/o infondati per la mancata applicazione dell'esenzione dal tributo IMU e TASI dell'immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA).

CHIEDE

ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, come modificato dall’art. 27 della Legge
18 febbraio 1999, n. 28, che codesto Ufficio riesamini le ragioni del proprio operato e provveda, in autotutela, all’annullamento degli avvisi di accertamento n. 550/2020 e 1240/2020, previa sospensione degli effetti dell'atto e consapevole che questa richiesta non sospende i termini per la proposizione  del ricorso alla Commissione Tributaria. Inoltre

DICHIARA

-           di essere informato che, ai sensi e per gli effetti del Dlgs 196/2003, i dati personali raccolti saranno trattati, anche con strumenti informatici, esclusivamente nell'ambito del procedimento per il quale la dichiarazione viene resa;

-           di essere consapevole che in caso di dichiarazioni false si rendono applicabili le sanzioni civili e penali previste per legge.

DELEGO

alla presentazione di tale richiesta l'Avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, con sede in Avetrana (TA) via Manzoni n. 51, cui allega fotocopia della carta d'identità n° AT1360879 rilasciata il 06/10/2011 dal Comune di Avetrana

 

Allegati:

1)         Avviso di accertamento IMU n. 550 del 17/11/2020;

2)         Avviso di accertamento TASI n. 1240 del 17/11/2020;

3)         Provvedimento iscrizione anagrafe ONLUS dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

4)         Nota di Trascrizione Agenzia del Territorio;

5)         Atto di costituzione dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

6)         Dichiarazione IMU – TASI 2015

7)         Fotocopia carta d'identità del dott. Antonio Giangrande

8)         Fotocopia carta d'identità dell'Avv. Mirko Giangrande

 

Avetrana, lì 12/01/2021

                                 Dott. Antonio Giangrande

 

Avv. Mirko Giangrande

 

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione  2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.

Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.

Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...

Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI,  gli permettono di mantenere il potere.

I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.

Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.

Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.

Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.

Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.

E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.

In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)

1 il povero lavora

2 il ricco sfrutta il povero

3 il soldato li difende tutti e due

4 il contribuente paga per tutti e tre

5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro

6 l’ubriacone beve per tutti e cinque

7 il banchiere li imbroglia tutti e sei

8 l’avvocato li inganna tutti e sette

9 il medico li accoppa tutti e otto

10 il becchino li sotterra tutti e nove

11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.

Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.

E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

I fratelli coltelli del Socialismo:

I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);

I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".

La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.

Non mi piace la finta allegria

non sopporto neanche le cene in compagnia

e coi giovani sono intransigente

di certe mode, canzoni e trasgressioni

non me ne frega niente.

E sono anche un po' annoiato

da chi ci fa la morale

ed esalta come sacra la vita coniugale

e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni

ma io non riesco a tollerare

le loro esibizioni.

Non mi piace chi è troppo solidale

e fa il professionista del sociale

ma chi specula su chi è malato

su disabili, tossici e anziani

è un vero criminale.

Ma non vedo più nessuno che s'incazza

fra tutti gli assuefatti della nuova razza

e chi si inventa un bel partito

per il nostro bene

sembra proprio destinato

a diventare un buffone.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

le strade, le piazze gremite

di gente appassionata

sicura di ridare un senso alla propria vita

ma ormai son tutte cose del secolo scorso

la mia generazione ha perso.

Non mi piace la troppa informazione

odio anche i giornali e la televisione

la cultura per le masse è un'idiozia

la fila coi panini davanti ai musei

mi fa malinconia.

E la tecnologia ci porterà lontano

ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano

c'è di buono che la scuola

si aggiorna con urgenza

e con tutti i nuovi quiz

ci garantisce l'ignoranza.

Non mi piace nessuna ideologia

non faccio neanche il tifo per la democrazia

di gente che ha da dire ce n'è tanta

la qualità non è richiesta

è il numero che conta.

E anche il mio paese mi piace sempre meno

non credo più all'ingegno del popolo italiano

dove ogni intellettuale fa opinione

ma se lo guardi bene

è il solito coglione.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

migliaia di ragazzi pronti a tutto

che stavano cercando

magari con un po' di presunzione

di cambiare il mondo

possiamo raccontarlo ai figli

senza alcun rimorso

ma la mia generazione ha perso.

Non mi piace il mercato globale

che è il paradiso di ogni multinazionale

e un domani state pur tranquilli

ci saranno sempre più poveri e più ricchi

ma tutti più imbecilli.

E immagino un futuro

senza alcun rimedio

una specie di massa

senza più un individuo

e vedo il nostro stato

che è pavido e impotente

è sempre più allo sfascio

e non gliene frega niente

e vedo anche una Chiesa

che incalza più che mai

io vorrei che sprofondasse

con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un'astrazione

è un'idea di chi appartiene

a una razza

in estinzione.

Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.

Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.

Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.

SOCIALISMO:

Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato

Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.

Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.

Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.

LIBERALISMO (LIBERISMO):

Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.

ECCLESISMO:

Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.

MONARCHISMO:

Il culto del Sovrano.

Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.

Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.

Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.

Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.

Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.

Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.

Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.

Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.

Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.

Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».

Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.

L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.

Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".

La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

PREMESSA: LA CENSURA.

Se questi son giornalisti...

Io, senza alcun Potere di intervento, non posso dare aspettative. Tantomeno non posso smuovere le acque con i fari mediatici, che a me mancano.

Io non sono un giornalista, che si deve attenere alla verità, attinenza e continenza ed all’interesse pubblico. Ergo, non posso e non voglio pubblicare inediti, pur potendo pubblicare le stesse denunce penali o altri atti pubblici pubblicabili. Non è la prima volta che il beneficiario, ingrato, si è rivoltato contro ed ha chiesto l’anonimato, o con minacce, il ritiro del pubblicato per paura di ritorsioni a lui rivolte.

Come sociologo, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, posso approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Questi casi, con me, hanno una notorietà che ad essi in origine manca e comunque creo un precedente utile a tutti.

In questo caso i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato.

In conclusione posso dire che non vi è alcun legame con le parti e la pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.

E’ una cautela legale e di opportunità al fine di tutelarmi dai mitomani e dai potenti.

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).

Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it,  limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:

la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;

l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;

l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;

l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;

devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);

infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.

Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.  

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Giornali online senza licenza: indagato manager di Data Stampa. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Virginia Picollillo. Violazione del diritto d’autore: è l’accusa contestata a Massimo Scambelluri, il presidente del Consiglio di amministrazione di “Data Stampa”, società che vende la rassegna stampa quotidiana per clienti privati e istituzionali. La procura di Roma aveva aperto un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni quotidiani che lamentavano di non aver mai dato il consenso e dunque senza aver concesso la licenza di utilizzo, vendita e diffusione dei contenuti protetti da copyright . La Guardia di Finanza ha verificato come la società ogni giorno dia ai propri clienti 21 quotidiani, italiani e internazionali, consentendo l’accesso con l’utilizzo di password rilasciate dalla stessa “Data Stampa” sia alla versione cartacea, sia facendo scaricare le pagine in formato pdf. Sul sito della società è specificato che tra i clienti ci sono la presidenza della Repubblica, il Senato e la Camera, il Csm, la Banca d’Italia, l’Agenzia delle entrate, la Polizia di Stato, il ministero dell’Interno, l’Arma e la Rai. Istituzione che pagano un abbonamento all’azienda ed è proprio questo ad aver convinto alcuni gruppi editoriali e testate - tra cui La Stampa, la Repubblica e il Messaggero - a presentare la denuncia. Data Stampa ha anche un contenzioso civile con la Fieg, la federazione editori di giornali, proprio per le rassegne stampa.

Da Data Stampa: DIRITTO D’AUTORE NON APPLICABILE ALLE RASSEGNE STAMPA. Il 12 giugno 2019, con sentenza n. 3931/2019, la Corte d’Appello di Roma, rigettando l’appello di Fieg e Promopress contro la sentenza n. 816/2017 del 18 gennaio 2017, ha legittimato l’attività svolta da Data Stampa fin dal 1981. La richiesta di Fieg era di inibire l’attività dei rassegnatori, chiedendo loro inoltre un risarcimento danni per l’uso che i rassegnatori fanno dei loro articoli, ritenendo che anche alle rassegne stampa dovesse essere applicato il principio del diritto d’autore. La Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi in favore di Data Stampa, ha confermato “con forza” il principio della libera riproducibilità degli articoli di giornale nelle rassegne stampa. Ora le aspettative di Data Stampa sono riposte nel Parlamento, che potrebbe regolare la materia nell’ambito del riordino del settore dell’editoria affidato agli Stati Generali, il termine dei cui lavori è previsto intorno alla metà del prossimo mese di ottobre. Una vittoria che, dopo il successo ottenuto due anni e mezzo fa da Data Stampa nel primo grado di giudizio, ci spinge a guardare al futuro con rinnovata fiducia, nella ferma convinzione che la libertà d’impresa e d’informazione vada difesa sempre, contro ogni azione arbitraria posta in essere al di fuori di un quadro normativo certo. La posizione di Data Stampa al riguardo, giova ricordarlo, è sempre rimasta immutata: Data Stampa auspica che venga approvato un quadro normativo fatto di regole certe e rispettose delle legittime esigenze di tutti gli operatori del settore, e non imposte unilateralmente.

“ Orbene la ratio dell’art 65 è quella di accrescere la circolazione dell’informazione, come si risulta evidente:

Dalla natura degli scritti di cui la norma consente la riproduzione (gli articoli di attualità, appunto che hanno eminente valore informativo)

Dalla natura del mezzo di riproduzione (giornali, riviste o strumenti di radiodiffusione che ancora una volta hanno finalità essenzialmente informative).

Così stando le cose non può essere allora negata  la possibilità di riprodurre anche nelle rassegne stampa gli articoli di attualità, giacchè anche alle rassegne stampa deve essere riconosciuta una finalità sicura finalità informativa, anche se diretta a volte e soddisfare interessi di particolari categorie di soggetti, informazione questa tuttavia non per ciò solo meno meritevole di tutela costituzionale. In definitiva, l’art. 65 va interpretato in base al canone di interpretazione estensiva fondato sulla ratio della norma, nel senso che esso al di là delle espresse previsioni letterali, ben può includere, tra gli strumenti informativi su cui si possono liberamente riprodursi gli articoli di giornale, anche la rassegna stampa…”

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

AMAZON. CENSURA LA CONTRO-INFORMAZIONE SUL COVID. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 7 Ottobre 2020. La scure della censura contro le verità che danno fastidio. L’oscuramento di tutto coloro i quali, in modo autonomo e indipendente, con i propri mezzi e sforzi personali, cercano di fare autentica controinformazione. Succede adesso, è il caso di dirlo, ad un pioniere della comunicazione, Alberto Contri. Proprio come è successo, alcuni mesi fa, ad un pioniere nel campo dei vaccini, Giulio Tarro, con il suo “Covid, il virus della paura”. Allievo di Albert Sabin che scoprì l’antipolio, per ben due volte nella cinquina del Nobel per la Medicina, Tarro è l’autore di un libro che ha subito cercato di far luce sul bollente tema del Coronavirus e la disinformazione imperante. Incorrendo subito negli strali di Amazon, che ha inserito il volume nella sua vetrina virtuale, impedendone però l’acquisto. La strategia di Amazon era il fresco frutto avvelenato di un accordo per la “non informazione” siglato addirittura con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il super organismo internazionale controllato da Bill Gates. L’OMS, infatti, non gradiva tutto ciò che avrebbe potuto aprire gli occhi a tanti cittadini. Costretti invece ad ingurgitare montagne di fake news propinate dai media di regime. Lo stesso copione, adesso, per l’altrettanto scomodo “La sindrome del criceto”, firmato da Alberto Contri ed edito da “La Vela”, piccola casa ma coraggiosa casa editrice guidata da David Nieri. Denunciano Contri e Nieri: “Abbiamo fatto in estate una intensa campagna social per promuovere il libro, con buoni risultati di vendita. Ma non con Amazon: sappiamo che ha ricevuto molte richieste alle quali non ha dato e non dà seguito, perché dicono che stanno ristrutturando i processi di acquisizione e vendita e poi hanno problemi di algoritmo”. Un modo come un altro per boicottare in modo palese l’uscita del Criceto. Sottolineano ancora Contri e Nieri: “I monopolisti della distribuzione, oltre a distruggere intere filiere concorrenti, intervengono sulla libertà di pensiero, agevolando od ostacolando la presenza di prodotti e di libri nei loro scaffali virtuali. Semplicemente vergognoso. Ricordiamo che il nostro libro si può ordinare direttamente andando sul sito edizionilavela.it”. Contri è stato il fondatore e per anni animatore della Federazione Italiana della Comunicazione, quindi presidente di Pubblicità Progresso.

Amazon denunziata per la censura di libri sul Coronavirus. su La Voce delle Voci il 30 Giugno 2020. Amazon nega anche ad un giornalista italiano, Francesco Amodeo, la vendita on line di un libro  sul coronavirus. Lo scrittore non si arrende e decide di chiedere alla giustizia l’autorizzazione alla vendita del suo  testo e il risarcimento danni subiti rispetto ad altri autori, preferiti da Amazon, conferendo mandato all’avvocato Angelo Pisani di trascinare in tribunale il colosso commerciale del web  per combattere ogni forma di censura. L’avvocato Angelo Pisani, nel denunciare all’Autorità Giudiziaria  ogni violazione  in danno del giornalista censurato  e la arbitraria e fuorviante strategia commerciale di Amazon, chiede anche l’immediato  intervento dell’Antitrust e massima tutela per le vittime indifese del sistema Amazon. Il caso del giornalista Amodeo non è l’unico. Anche il professor Giulio Tarro ed altri autori sono stati esclusi dalla piattaforma Amazon per il mancato gradimento da parte di qualcuno dei loro iscritti, ma non è possibile giustificare simili violazioni  dei fondamentali  principi di informazione legalità e democrazia. Insomma, esplode una guerra legale contro il colosso del web per porre freno a censure e discriminazioni e comprendere il perché di tanto interesse e volontà di indirizzamento. Questo l’attacco di Pisani. «Ingiustificabile e discriminatoria  la strategia della società Amazon, che la comunica al giornalista Amodeo il rifiuto  di vendere il suo libro-inchiesta “31 coincidenze sul coronavirus e sulla nuova Guerra Fredda USA-Cina” sulla loro piattaforma kindle, perché violerebbe le loro linee guida, spiegando che a causa del rapido cambiamento delle condizioni relative al Virus Covid19, si sarebbe deciso di indirizzare la clientela verso fonti ufficiali per ottenere informazioni sul virus, proponendo pertanto all’autore del libro l’assurda scelta di valutare la rimozione dei riferimenti al Covid19, affinchè lo stesso possa vendersi sulla piattaforma Amazon». Pare che l’algoritmo censuri in automatico i libri che fanno riferimento alla parola “coronavirus” nel titolo.  Non sembra però un’ipotesi plausibile, dal momento che sul portale Amazon sono in vendita libri che contengono nel titolo la parola “coronavirus”, come il libro di Roberto Burioni, intitolato: “Virus, la grande sfida: Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità”. «Purtroppo – denuncia l’avvocato Pisani  – risulta chiaro  che se il libro è in linea con una certa versione sul virus, non esistano linee guida né algoritmi capaci di intercettarne le parole. Se in fase di revisione i libri fossero  letti si sarebbero accorti  che nel libro inchiesta di Amodeo sono pubblicate 150 foto tratte solo da fonti ufficiali, analizzando oltretutto il coronavirus non dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista giornalistico e geopolitico. Non vi era quindi alcuna ragione di censurarlo, ma il sistema preferisce imporre un altro  sapere». Di fronte a queste condotte,  al di là degli approfondimenti e di indagini su tematiche delicate e stravolgenti come quelle su mondo del coronavirus – dichiara l’avvocato Pisani – non si può far finta di nulla e non chiedere tutela per l’autore discriminato  Francesco Amodeo  vittima di illegittima censura e discriminazione ingiustificabile da parte del sistema Amazon che, in barba ai fondamentali principi di trasparenza,  correttezza e buona fede non può escludere libri non graditi accettando invece il libro di Burioni (sul quale invece  il reportage delle Iene ha dimostrato il conflitto di interessi con le case farmaceutiche). Oltre a presentare ricorso cautelare  e richiesta risarcitoria alla Magistratura, ricorriamo anche dell’Antitrust e dell’Ordine dei giornalisti  per la tutela dei diritti di tutti noi e la difesa del diritto di informazione, in uno alla corretta concorrenza commerciale. Dalle prime indagini emerge in realtà che proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità non voglia vedere in giro tesi contrarie sul coronavirus. Stavolta però si mina la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nell’indirizzamento dei lettori e negano la commercializzazione e diffusione di altri testi, generando anche ingiustificabile  disinformazione. Così si impedisce ai cittadini di farsi una propria idea e di comprendere  la vera storia del coronavirus e quali sono i motivi e gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. «Pochi lo sanno – attacca Pisani – ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno deciso  di indirizzare i lettori a fonti preferenziali tramite un accordo che va sotto il nome di “Covid Policy”,  con lo scopo dichiarato  di “bloccare la vendita di libri che avrebbero, a dire del sistema dominante,  l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che nessuno mai in democrazia si sarebbe mai sognato di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri scomodi, invece che vigliaccamente impedirne la diffusione». «Pare che a qualcuno dia fastidio  la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: non si devono ricercare colpevoli della strage e capovolgimento del mondo in corso, ma fortunatamente noi continueremo sempre a scrivere per l’amore della verità e dell’informazione, garantisce l’avvocato al giornalista oscurato da Amazon».

AMAZON. BLOCCA l’USCITA DEL LIBRO-ACCUSA DI TARRO SUL COVID. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 20 Giugno 2020. L’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce ancora. Stavolta la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nella lotta per la disinformazione. Impediscono ai cittadini di conoscere la vera storia del coronavirus e quali sono gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. Pochi lo sanno, infatti, ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno sottoscritto un patto che va sotto il nome di “Covid Policy”, il cui scopo dichiarato e basilare è stato ed è quello di “bloccare la vendita di libri che hanno l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che neanche i nazisti si sarebbero mai sognati di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri eretici, invece che vigliaccamente oscurarli e con sotterfugi impedirne la diffusione. E soprattutto la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: dove ci sono nomi, cognomi e indirizzi dei colpevoli della strage, fino ad oggi impuniti, a piede libero. E guarda caso, i colpevoli si possono rintracciare proprio sotto i vessilli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e della Bill & Melinda Gates Foundation, come abbiamo documentato nell’inchiesta del 19 giugno. Ovvio, quindi, che killer e mandanti si siano ben attrezzati e premuniti – come testimonia la “Covid-Policy” – per nascondere le verità, per affossare quella contro-informazione, quei libri che spiegano e documentano la scientifica strage del Covid-19, ottimamente studiata a tavolino, mossa per mossa, azione per azione. Un esempio fresco e lampante? Amazon ha appena bloccato la vendita del libro firmato dal più autorevole virologo italiano, Giulio Tarro, intitolato “Covid, il Virus della paura”, che fa luce su una serie di fatti e vicende che la dicono lunga sulle responsabilità di Big Pharma nella coronavirus-story, su quelle dell’OMS, della Fondazione Gates, e – sul fronte di casa nostra – del governo e di tanti, troppi cialtroni travestiti da scienziati. Evidentemente un pugno nello stomaco per amici & sodali di Amazon, come appunto sancito dalla “Covid-Policy” ammazza libertà e democrazia. Così dichiara Tarro. “Invece di indossare i panni del martire, preferisco evidenziare come i condizionamenti posti dalla ‘Covid-Policy’ stanno facendo perdere credibilità soprattutto alle riviste scientifiche. Mi riferisco alla planetaria figuraccia della rivista ‘The Lancet’ sulla idrossiclorochina. Se "The Lancet" ha dovuto ritirare il suo articolo è solo perché centinaia di medici, tra i quali molti che avevano pazienti in cura con idrossiclorochina, si sono dovuti mobilitare contro quell’articolo che aveva immediatamente fatto sospendere la vendita di un farmaco efficace. Una mobilitazione che spero segni l’inizio di una presa di coscienza politica in una categoria, quale quella dei medici, che non brilla certo per coraggio. Basti pensare, ad esempio, alle vaccinazioni alle quali, come è noto, la stragrande maggioranza dei medici non si sottopone (e molti, addirittura, arrivano a redigere falsi certificati di vaccinazione per i propri pazienti). Ma quando si trattò di prendere posizione contro la radiazione del medico Roberto Gava, "colpevole" di esternare pubblicamente alcune sacrosante considerazioni sui vaccini, tra i 400mila medici italiani iscritti all’Ordine, solo pochissimi hanno sottoscritto una lettera di protesta”. Aggiunge Tarro: “Sembra normale che ‘The Lancet’, considerata la Bibbia della Medicina, non si sia degnata di verificare che gli strampalati dati sui quali si basava l’articolo erano falsi? Ma cosa c’era davvero dietro la pubblicazione di quell’articolo destinato a togliere di mezzo un farmaco che faceva svanire i guadagni legati al vaccino anti-Covid? Ma quali intrallazzi si nascondono dietro tanti articoli che pubblicati su autorevoli riviste scientifiche spianano ai loro autori una carriera accademica? Basta leggersi il libro di Marcia Angell, già direttrice del ‘New England Journal of Medicine’, ovvero ‘Farma&Co. Industria farmaceutica: storie di straordinaria corruzione’. Che ovviamente non è disponibile su Amazon”.

PER IL NUOVO COLOSSO MONDADORI-RIZZOLI IN ARRIVO L’ANTITRUST. MA ECCO COSA SUCCEDE NEGLI USA CON IL CASO AMAZON. Paolo Spiaga su La Voce delle Voci il 24 Ottobre 2015. Mondadori ingoia Rizzoli, un affare da 127 milioni di euro. Dopo sette mesi di tira e molla, di trattative, di “si dice”, manifesti anti fusione, esternazioni anti berlusconiane da parte di un nutrito gruppo di autori, ai primi di ottobre il matrimonio si fa e nasce il nuovo colosso che sfiora il 40 per cento del mercato dei libri, mettendosi alle spalle – iperdistanziate – le altri sigle (Gems al 10, Giunti al 6, Feltrinelli col 5 e De Agostini con il 2 per cento). Sconto da circa 8 milioni sulla base iniziale della trattativa, perchè Mondadori si “accolla” il rischio Antitrust: vale a dire cosa dirà, a questo punto, l’autorità di controllo circa la legittimità o meno di un colosso del genere, che – secondo alcuni addetti ai lavori – in qualche comparto (ad esempio i tascabili), arriva addirittura a detenere l’80 per cento del mercato. Minimizzano il rischio alla Mondadori: “nella scolastica – osservano – non superiamo il 25 per cento mentre nel commerciale in senso ampio non andiamo oltre il 35 per cento: quindi quote compatibili in un libero mercato”. Le cifre dei fatturati, comunque, sono elevatissime: ai circa 240 milioni di introiti della divisione libri della Mondadori, infatti, si sommeranno gli oltre 220 che arrivano dalle entrate di Rcs Libri (ossia i nuovi marchi Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Marsilio e la stessa Rizzoli). Un’operazione fortemente voluta da Ernesto Mauri, convinto che la nascita del nuovo colosso possa dare impulso al mercato del libro in Italia, allineandoci ai trend dei paesi esteri (e anche per fronteggiare l’assalto di Amazon). Di parere opposto, ad esempio, un altro Mauri, Stefano, al timone di Gems dalla sua nascita (in tandem con Spagnol), tra i parti più riusciti quello di Chiarelettere. Ai microfoni di Lilli Gruber per Otto e mezzo, Stefano Mauri ha espresso i suoi dubbi circa la nascita del colosso-competitor: e ha denunciato l’esistenza di un vero e proprio “monopsonio”. Tecnicamente si tratta della presenza, sul mercato, di “un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori” (mentre il monopolio è caratterizzato da “un unico venditore che offre il suo prodotto”). E’ la stessa accusa che negli Stati Uniti tre storiche e agguerrite sigle associative – American Bookseller Association, Authors United e Authors Guild – hanno formulato nei confronti di Amazon a metà luglio, chiedendo un pronunciamento da parte dell’Antitrust a stelle e strisce, in particolare al “Justice Department of the Antitrust Division”. I promotori chiedono di verificare l’esistenza di una “posizione dominante” nel mercato editoriale ormai detenuto da Amazon, che “ha ottenuto una posizione di monopolio nella vendita dei libri e di monopsonio nell’acquisto di libri”. Il gruppo di Seattle – spiegano alcuni esperti – sarebbe cioè “venditore unico o quasi nel primo caso, compratore unico o quasi nel secondo caso”. Se il buongiorno si vede dal mattino, Amazon ha buone chance per farla franca, o quasi. Il numero uno dell’Antitrust, William J. Baer, ha “esternato” a giugno in modo “leggermente” inappropriato, celebrando – scrive il New York Times – il modello economico “selvaggio” di Amazon nel campo degli e-book: “è servito ad alimentare la competizione”, “a ravvivare il mercato”, è il parere di Baer. Qualche “conflitto” in vista anche negli Usa e nelle “sentenze”? Di parere opposto – cita ancora il New York Times – una nota firma statunitense, Peter Meyers, fresco autore di “Breaking the Page” sul passaggio dalla stampa al digitale: “Il successo di Amazon – sottolinea Meyer – ha schiacciato la competizione”. Insomma un Golia senza alcun Davide all’orizzonte capace di intimorirlo. Ma vediamo, più in dettaglio, le principali accuse contenute nel documento (24 pagine) inviato al Dipartimento di giustizia dalle tre sigle associative, “gruppi che rappresentano – scrive ancora il New York Times – migliaia di autori, agenti e librai indipendenti”. In primo luogo, viene sottolineato, “Amazon ha usato la sua posizione dominante in modi che secondo noi danneggiano i lettori americani, impoveriscono l’industria editoriale nel suo complesso, danneggiano le carriere di molti autori (generando paura fra di essi) e impediscono il libero scambio delle idee nella nostra società”. Bordate da non poco. “Non esiste un solo esempio, nella storia americana, dove la concentrazione di potere nella mani di una sola compagnia abbia alla fine portato benefici ai consumatori”. Ecco alcune fra le pratiche più “distruttive” adottate da Amazon nella sua politica iperaggressiva: “vendere alcuni libri e non altri sulla base di precise tendenze politiche; vendere alcuni libri sottocosto in modo tale da mettere in serie difficoltà, fino ad estromettere, le aziende editoriali dotate di minori mezzi economici; bloccare o ridurre la vendita di alcuni libri (per milioni di copie) per esercitare pressione sugli editori; esercitare la sua posizione dominante per ottenere una percentuale sulle vendite superiore rispetto agli altri editori”. Pratiche e tattiche commerciali che “minano alla base l’ecosistema dell’intera industria del libro negli Stati Uniti”, in una misura che risulterà molto dannosa anche per gli autori della “mid list”, quelli emergenti, le “voci delle minoranze”. Ci voleva la guerra con Amazon (che oggi controlla un terzo del mercato dei nuovi prodotti stampati e i due terzi delle vendite di e-book) per riuscire a riunire sigle storicamente mai gemellate, come ad esempio la Bookseller Association e Author Guilds, che mettono insieme 9000 autori e 2.200 punti vendita. “I nostri punti di vista fino ad oggi sembra siano stati ignorati”, lamentano, ma confidano nel fatto che “il clima sta cambiando”. E, a quanto pare, sperano (sic) nell’Europa. “Ci sono dei grossi sforzi all’interno dell’Unione Europea – Germania e pochi altri Paesi – per esaminare con più attenzione il dossier Amazon. Ciò può avere dei positivi riflessi in quello che accade qui da noi”. Nota il sito “Consumerist”: “a giugno l’Unione Europea ha annunciato che aprirà formalmente una pratica di Antitrust per quanto riguarda i particolari contratti di vendita stipulati da Amazon sul fronte degli e-book”. Saranno allora curiosi, negli States, di conoscere gli sviluppi del nostro Antitrust alle prese con la patata bollente del nuovo colosso “Mondazzoli”?

PREMESSA: IL DIRITTO D’AUTORE ED IL DIRITTO DI CITAZIONE.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.

La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

PREMESSA: IL DIRITTO DI CRITICA.

NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.

Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.

PREMESSA: LE NUOVE IDEOLOGIE.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.

La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri.  La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).

La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).

La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive.  Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita.  La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.

Voltaire e l'illuminismo oscurato dalle catastrofi. Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana. Dino Cofrancesco, Sabato 11/04/2020 su Il Giornale. Mentre nel mondo infuria il Covid-19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l'intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto - philosophes e uomini comuni - sconvolto dal terremoto di Lisbona che nel 1755 provocò vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le désastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio. Principe indiscusso dell'età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad esempio, Semiramide, che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini, o Alzira, messa in musica da Giuseppe Verdi), l'evergreen Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice - uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu - per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l'uomo del terzo millennio (Mimesis, con una sobria e illuminante Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l'attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare. In riferimento al tema della catastrofe che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un'ottima guida al Disastro di Lisbona, nel senso che ci permette di inquadrarne il messaggio nel più vasto ambito dell'etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con «le magnifiche sorti e progressive» su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura, ma è il bastone che permette all'umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?», dirà Candido, il più famoso dei suoi personaggi. «Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all'elefante - si legge in Prendere partito - la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l'equivalente dell'astuzia e della ferocia con cui l'esecrabile ragno cattura e divora l'innocente mosca». Eppure queste considerazioni che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell'umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L'uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L'uomo appare al suo posto nell'ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l'uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l'uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal, così Voltaire lo è da Rousseau il quale, in una lettera dell'agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell'ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell'ottimismo razionalistico di Leibniz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione - dal peccato originale, al quale non credeva, all'ordine immutabile dell'universo - per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. E scrive: «La natura è muta e la s'interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/ consolare il debole, illuminare l'ingegno». E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta - allontanandolo dal trionfalismo illuministico - a una sorta di etica del destino. «Come voi - scrive ad Allamand nel dicembre 1755 - ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell'uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al Pantheon dei suoi resti mortali.

La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale.  L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].

La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.

L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso.  scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.

I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.

Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:

- libertà religiosa;

- Libertà di stampa;

- Abolizione dei privilegi fiscali;

- Limitazione dell'assolutismo regio.

VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.

ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.

MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;

il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:

- l'enorme estensione;

- La fitta popolazione;

- La relativa semplicità delle strutture sociali.

Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:

- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);

- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);

- L'amministrazione della Giustizia;

La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.

Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente. 

Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico. 

Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva. 

Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.

Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rap­porti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per sco­prire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aber­ranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.

DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.

PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.

MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.

SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).

LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

LA GUERRA ALLA CANAPA E IL POLITICALLY CORRECT DI DESTRA. Dimitri Buffa il 3 giugno 2019 su opinione.it. Il politically correct è un’invenzione della sinistra. Ma da tempo a destra viene scimmiottato. Basta cambiare di segno alcuni tabù e il gioco è fatto. La sinistra ha il buonismo, la destra il proibizionismo sulla droga e il punizionismo degli stili di vita. E questo è il primo parallelo che salta agli occhi. In entrambi i casi si tratta di cose stupide e poco pratiche. Dire “accogliamoli tutti” è altrettanto velleitario che dire “facciamo la guerra alla canapa”. Anche quella senza effetti stupefacenti. Ebbene, i rampanti nuovi “capitani” di questa destra che legittimamente aspira al governo della nazione Italia, perché non prendono esempio dai loro omologhi olandesi, come Geert Wilders, anche loro militanti anti islam e anti immigrazione selvaggia, ma tutt’altro che irragionevoli proibizionisti sulla canapa, light o hard che sia? Si parla dello “stato spacciatore”, ma perché si concentra questa furia proibizionista su un prodotto come la canapa che, con o senza il thc, rimane uno dei prodotti più innocui in natura alla faccia dei finti studi di alcuni scienziati politicizzati che dai tempi della Fini-Giovanardi sparano balle col cannone per dimostrare l’indimostrabile? Non esiste in natura la possibilità di avere effetti letali per ingestione o inalazione di cannabis. Mentre si può entrare in coma etilico alla seconda bottiglia di vodka, per arrivare a una dose letale di thc bisognerebbe mangiarsi in una botta sola qualche etto di resina di hashish. Ed esistono maniere più comode per suicidarsi. Ma al di là dell’effetto dopante, la canapa light dei negozi adesso di moda per la criminalizzazione propagandistica, semplicemente vendono un prodotto senza alcuna attività dopante. Lo stato spacciatore che vende alcool, sigarette e psicofarmaci perché dovrebbe menare scandalo se permettesse la vendita della cannabis con il thc e tanto più quella senza? Questo proibizionismo tutto centrato sulla canapa ricorda i primordi del proibizionismo degli anni ’30 in America. Guidato dalla mafia italo americana. Quando legavano il consumo da parte dei negri alla violenza sulle donne bianche nei manifesti che imbrattavano la New York di Fiorello La Guardia. Avevano appena perso la gallina dalle uova d’oro dell’alcool proibito   su qualche altro consumo di massa occorreva puntare. E si badi bene che la scelta cadde sulla canapa proprio perché la fumavano tutti. Già negli anni ’30. Nel mondo c’è un intero continente di assuntori di erba e hashish (le statistiche parlano di 300 milioni di persone) e con quelli la mafia fa i soldi. Tutto sommato eroina e cocaina al consumo di massa non sono mai arrivate. Non a quei numeri comunque. E i numeri che ogni anno la Direzione nazionale antimafia fornisce confermano questo assunto. Anche se con la cocaina un enorme sforzo criminale in questo senso  è stato fatto dalla fine degli anni ’70 in poi. Parlare come fa Salvini sulla canapa è anche fuorviante e pericoloso. Il messaggio che ogni droga è uguale tende a livellare tutto verso il consumo più pericoloso delle droghe pesanti. La propaganda è perniciosa e si rivolta sempre contro chi cavalca queste bugie. Da ultimo la parabola di Gianfranco Fini - che voleva mettere in carcere chi si faceva le canne e che rischia di finirci lui per riciclaggio insieme a questo signor Corallo il cui padre in America viene segnalato come uno dei boss del settore narco traffico - è molto significativa. Insomma si può essere di destra, per legge e ordine, senza necessariamente avventurarsi con le sirene del punizionismo moralista su sesso, droga e rock ‘n’ roll. I consumatori di canapa indiana, leggera o hard che sia, non sono tutti tribù di “zecche” dei centri sociali o apostoli dell’“accogliamoli tutti”. Ce ne sono milioni pure di destra. Così come ci sono centinaia di migliaia di omosessuali che votano Salvini. Perché allora regalare questa gente a una scialba a e opportunista sinistra che cavalca tutto quello in cui non crede pur di raccattare voti? Infine sulla cannabis light va fatta un’ulteriore riflessione, in attesa di conoscere le motivazioni di questa sentenza che molto probabilmente non cambierà nulla al di là di come è stata venduta  dai servili mass media della tv pubblica del “neo sovranismo de noantri” (si dice che il commercio non può continuare nel dispositivo “a meno che la sostanza non abbia effetti droganti”, cioè esattamente come è oggi, ndr):  se un ragazzo oggi spinto dagli amici va in giro a cercare cannabis non light ne trova quanta ne vuole anche sotto casa, visto che il mercato è capillare e incontenibile. Se invece si accontentasse della trasgressione “dethcizzata” dei negozi di cannabis light non sarebbe meglio? Quelli che non possono bere il caffè da sempre si bevono il decaffeinato, non è la stessa cosa? O si pensa di fare una cosa intelligente iniziando la battaglia contro l’alcoolismo vietando le birre analcoliche?

Il problema della destra con la canapa è solo una idiozia ideologica, un tabù, un politically correct all’incontrario. Si è rimasti col cervello infantilista all’epoca in cui i compagni si facevano gli spinelli e portavano i capelli lunghi e li si odiava per questo. E l’infantilismo della politica sembra non evolvere mai verso la razionalità.

Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019

GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.

Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.

Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».

CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.

COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani  

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

E la chiamano Democrazia…

"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo

Presto vieni qui ma su non fare così

ma non li vedi quanti altri bambini

che sono tutti come te

che stanno in fila per tre

che sono bravi e che non piangono mai...

E' il primo giorno però domani ti abituerai

e ti sembrerà una cosa normale

fare la fila per tre, risponder sempre di sì

e comportarti da persona civile...

Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere

e ad amare la patria e la bandiera

noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori

e discendiamo dagli antichi romani...

E questa stufa che c'è basta appena per me

perciò smettetela di protestare

e non fate rumore e quando arriva il direttore

tutti in piedi e battete le mani...

Sei già abbastanza grande

sei già abbastanza forte

ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore

ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...

E sempre in fila per tre marciate tutti con me

e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione

e andiamo dritti verso la gloria...

Ora sei un uomo e devi cooperare

mettiti in fila senza protestare

e se fai il bravo ti faremo avere

un posto fisso e la promozione...

E poi ricordati che devi conservare

l'integrità del nucleo famigliare

firma il contratto non farti pregare

se vuoi far parte delle persone serie...

Ora che sei padrone delle tue azioni

ora che sai prendere le decisioni

ora che sei in grado di fare le tue scelte

ed hai davanti a te tutte le strade aperte...

Prendi la strada giusta e non sgarrare

se no poi te ne facciamo pentire

mettiti in fila e non ti allarmare

perché ognuno avrà la sua giusta razione...

A qualche cosa devi pur rinunciare

in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere

perciò adesso non recriminare

mettiti in fila e torna a lavorare...

E se proprio non trovi niente da fare

non fare la vittima se ti devi sacrificare

perché in nome del progresso della nazione

in fondo in fondo puoi sempre emigrare...

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione  2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.

Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.

Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...

Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI,  gli permettono di mantenere il potere.

I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.

Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.

Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.

Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.

Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.

E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.

In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)

1 il povero lavora

2 il ricco sfrutta il povero

3 il soldato li difende tutti e due

4 il contribuente paga per tutti e tre

5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro

6 l’ubriacone beve per tutti e cinque

7 il banchiere li imbroglia tutti e sei

8 l’avvocato li inganna tutti e sette

9 il medico li accoppa tutti e otto

10 il becchino li sotterra tutti e nove

11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.

Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.

E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

I fratelli coltelli del Socialismo:

I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);

I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".

La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.

Non mi piace la finta allegria

non sopporto neanche le cene in compagnia

e coi giovani sono intransigente

di certe mode, canzoni e trasgressioni

non me ne frega niente.

E sono anche un po' annoiato

da chi ci fa la morale

ed esalta come sacra la vita coniugale

e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni

ma io non riesco a tollerare

le loro esibizioni.

Non mi piace chi è troppo solidale

e fa il professionista del sociale

ma chi specula su chi è malato

su disabili, tossici e anziani

è un vero criminale.

Ma non vedo più nessuno che s'incazza

fra tutti gli assuefatti della nuova razza

e chi si inventa un bel partito

per il nostro bene

sembra proprio destinato

a diventare un buffone.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

le strade, le piazze gremite

di gente appassionata

sicura di ridare un senso alla propria vita

ma ormai son tutte cose del secolo scorso

la mia generazione ha perso.

Non mi piace la troppa informazione

odio anche i giornali e la televisione

la cultura per le masse è un'idiozia

la fila coi panini davanti ai musei

mi fa malinconia.

E la tecnologia ci porterà lontano

ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano

c'è di buono che la scuola

si aggiorna con urgenza

e con tutti i nuovi quiz

ci garantisce l'ignoranza.

Non mi piace nessuna ideologia

non faccio neanche il tifo per la democrazia

di gente che ha da dire ce n'è tanta

la qualità non è richiesta

è il numero che conta.

E anche il mio paese mi piace sempre meno

non credo più all'ingegno del popolo italiano

dove ogni intellettuale fa opinione

ma se lo guardi bene

è il solito coglione.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

migliaia di ragazzi pronti a tutto

che stavano cercando

magari con un po' di presunzione

di cambiare il mondo

possiamo raccontarlo ai figli

senza alcun rimorso

ma la mia generazione ha perso.

Non mi piace il mercato globale

che è il paradiso di ogni multinazionale

e un domani state pur tranquilli

ci saranno sempre più poveri e più ricchi

ma tutti più imbecilli.

E immagino un futuro

senza alcun rimedio

una specie di massa

senza più un individuo

e vedo il nostro stato

che è pavido e impotente

è sempre più allo sfascio

e non gliene frega niente

e vedo anche una Chiesa

che incalza più che mai

io vorrei che sprofondasse

con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un'astrazione

è un'idea di chi appartiene

a una razza

in estinzione.

Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.

Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.

Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.

SOCIALISMO:

Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato

Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.

Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.

Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.

LIBERALISMO (LIBERISMO):

Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.

ECCLESISMO:

Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.

MONARCHISMO:

Il culto del Sovrano.

Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.

Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.

Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.

Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.

Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.

Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.

Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.

Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.

Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.

Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».

Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.

L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.

Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".

La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

PREMESSA: IL PROGRAMMA POLITICO.

Il programma politico di Antonio Giangrande: un Sindaco che Avetrana ha mai voluto…

"Dapprima ti ignorano. Poi ti ridono dietro. Poi cominciano a combatterti. Poi arriva la vittoria". Mahatma Gandhi.

Si deve portare l’attenzione verso i fondamentali concetti della democrazia quali bene comune, cosa pubblica (res publica), trasparenza, legalità, merito, servizio, serietà e mantenimento della parola data, ascolto e partecipazione della cittadinanza. Per essere rappresentanti dei cittadini ed al servizio di tutta la comunità e non solo di una parte, bisogna osteggiare il palesarsi ad una appartenenza politica di vecchio stampo. Chi si dichiara appartenere ad una vecchia ideologia è esso stesso vecchio e stantio oltre che motivo di tensione, attrito e, quindi, di divisione. Il partigiano non può far parte del rinnovamento. Sono le idee vive e geniali che fanno progredire e non le ideologie morte, spesso prone ai Poteri forti. Nelle piccole comunità i capaci ad amministrare son pochi e non bisogna disperderli in sciocche divisioni. Nella amministrazione pubblica non ci sarà posto per chi, egocentrico, ha ambizioni personali e pensa alla politica come strumento di realizzazione. Si dice che un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni. Facciamo sì che non ci si debba vergognare, ma essere onorati di chi ci rappresenta. Ci si deve impegnare ad essere di esempio per gli altri.

La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo».

In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).

IL PROGRAMMA.

LA POLITICA, LA PARTECIPAZIONE E LA TUTELA. La politica non è speculazione. La politica deve essere servizio al cittadino ed il cittadino deve partecipare alla politica. Il candidato, sia a Sindaco che a Consigliere Comunale, libero da vincoli di provenienza o appartenenza politica o familiare, deve essere capace, competente, serio, disponibile e non prono ai Poteri Forti. Non deve essere stato condannato in modo definitivo per reati gravi. Il candidato eletto deve lavorare per la comunità ed avere diritto all’equo compenso. Il cittadino, anche associato, deve far sentire i suoi bisogni e proporre le soluzioni. All’associazionismo deve essere dato sostegno ed esso deve aiutare gratuitamente l’Amministrazione alla gestione del bene comune. Per la tutela del cittadino deve essere istituita la figura del Difensore Civico con virtù e qualità maggiori di quelli del Sindaco e del Consigliere Comunale e scelto dal Consiglio Comunale tra i cittadini locali per la tutela dei diritti dei membri della comunità nei confronti della Pubblica Amministrazione locale e nazionale. Il Sindaco, gli Assessori ed il Presidente del Consiglio Comunale devono mettersi in aspettativa per il proprio lavoro o professione ed essere sempre presenti presso la casa comunale per ascoltare le esigenze della gente e controllare il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Ognuno di loro, per un contatto immediato e diretto, deve avere un recapito di posta elettronica ed avere una pagina social periodicamente aggiornata.

LA TRASPARENZA ED IL SERVIZIO AI CITTADINI. Si deve istituire l’ufficio dell’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico), al servizio dell’utenza per la conoscenza dell'iter della pratica amministrativa e del rispetto del tempo ad essa riservato dalla legge. Ciò nell’ottica di far percepire il Comune come un servizio al cittadino e non come un esattore e basta. Ai dipendenti deve essere data istruzione di disponibilità relazionale e comunicabilità adeguata rispetto all'utenza. Deve essere dato risalto dell'attività dell'amministrazione e degli eventi organizzati da essa o dalle associazioni locali sul sito web dell'istituzione e su bollettini periodici da distribuire dei punti di ritrovo e commerciali. Si deve verificare il percorso di assunzione dei dipendenti e collaboratori dell'Ente e l'evoluzione dei contratti in essere, scaduti e rinnovati senza gara e con mancanza di verifica di economicità. Si deve controllare modi e costi delle consulenze esterne ed interne. Si deve verificare ogni intervento reso ai cittadini ritenuti disagiati, affinchè non nasconda voto di scambio. Bisogna migliorare la tracciabilità di appalti e subappalti attraverso la pubblicazione online dei bandi di gara e dei risultati delle stesse ed avere l’autorizzazione scritta del Comune per qualsiasi tipo di subappalto. Ogni gara di appalto deve contenere l'impegno ad assumere un numero indeterminato di disoccupati locali, secondo la specializzazione richiesta. Bisogna aumentare le responsabilità degli appaltatori, attraverso regole di appalto che riconducano unicamente all’appaltatore le responsabilità di lavori non eseguiti nei termini od a regola d’arte o di danni provocati dal sub appaltatore, anche durante tutto il periodo di garanzia. Bisogna migliorare il sistema delle gare d’appalto. Rivedere il sistema delle gare economicamente vantaggiose (lo spirito della gara dovrebbe essere di chi fa l’offerta migliore) introducendo, come avviene in molti altri enti pubblici, un sistema di valutazione delle offerte attraverso l’utilizzo di parametri oggettivi e non soggettivi da parte della commissione scelta dalla stazione appaltante. Controllare che i lavori effettuati per conto proprio o per conto delle aziende terze sul suolo comunale siano effettuati a regola d’arte.

RISPETTO DELLA LEGGE, FISCALITA' E LOTTA ALLA EVASIONE. Il cittadino deve rispettare la legge, per la sicurezza, il rispetto dell'ambiente ed il quieto vivere. Bisogna essere inflessibili, ma non fiscali. Per contenere la pressione fiscale e garantire maggiore equità contributiva al cittadino bisogna chiedere il minimo indispensabile, agevolandolo per la riscossione, e il richiesto tradurlo al massimo in termini di servizi ed opere. Per la lotta all'evasione bisogna essere inflessibili, previo tentativo di verifiche e di conciliazione e mediazione. Tutelare la prima casa ed i cittadini poveri. I disoccupati possono pagare i tributi con una prestazione d'opera. Le associazioni devono essere agevolate sulla fiscalità. La Pubblica Amministrazione da parte sua deve rispettare i tempi dei procedimenti amministrativi e pagare i debiti entro 30 giorni dalla fattura.

TUTELA PATRIMONIO COMUNALE. Bisogna censire il patrimonio immobiliare del Comune (canoni riscossi per gli immobili concessi in locazione, canoni corrisposti per quelli di proprietà di terzi acquisiti in locazione). Elaborare un piano pluriennale di utilizzo, razionalizzazione e cessioni del patrimonio comunale. Valutare eventuali riqualificazioni, conversioni, cambi di destinazione d’uso e verificate possibilità di intervento, con riguardo alle priorità dei fabbisogni di spazi idonei e accessibili per sede degli uffici e dei servizi comunali e per sedi e attività delle associazioni.

URBANISTICA E TERRITORIO, AMBIENTE ED AGRICOLTURA. Basare una  riqualificazione  del  territorio  concentrata  sul  recupero  e  sulla  ristrutturazione  dell’esistente; agevolare il diritto alla prima casa con nuove costruzioni e la distribuzione dei servizi dal centro alle periferie; una gestione ambientale basata su una mobilità che valorizzi e crei percorsi di viabilità ecologica, ciclabile  e podistica;  sul valore  della forestazione e la piantumazione di piante e la relativa cura;   politiche  socio culturali ed economiche che  promuovano  uno  stile  ambientalista ed allo stesso tempo sfrutti le risorge offerte dal riciclo dei rifiuti, con creazione di posti di lavoro, ed agevolazioni per l'istallazione e lo sfruttamento di fonti di energia alternativa sui propri fabbricati; salvaguardia delle attività agricole, rilanciando la funzione dell’agricoltore e di attività  collegate  (mercati  a  filiere  corte, promozione  di prodotti  a  km  0, accordi  tra  agricoltori  e  proprietari dei fondi agricoli per mantenere i terreni coltivati, etc.). Stop al consumo del territorio per i nuovi impianti con pannelli fotovoltaici e favorire la loro realizzazione su capannoni industriali o fabbricati agricoli. Si deve controllare la viabilità e la salute delle strade, come l’ordinato parcheggio.

LAVORO. Attuare corrette misure di salvaguardia e di intervento e sfruttare le risorse di valore Storico, Archeologico, Paesaggistico e Naturalistico del territorio Comunale. Predisporre luoghi ed aziende per lo sfruttamento del turismo, specialmente dove è maggiore la vocazione turistica. Incentivare gli spostamenti in bicicletta verso le zone turistiche attraverso apposte iniziative comunali. Promuovere e gestire itinerari turistici culturali. Rendere la viabilità ciclabile appetibile grazie a percorsi più sicuri e rapidi. Predisporre un sistema di raccolta porta a porta per tutto il territorio comunale e favorire la crescita di un economia locale legata al recupero, riciclo e riutilizzo dei materiali post consumo, compreso lo sfruttamento del prodotto di sfalci e potature di viti ed ulivi. Predisporre e gestire in modo corretto, etico e trasparente un canile/gattile e favorire l'adozione degli animali. Predisporre le modalità di attuazione delle prestazioni di lavoro occasionale di tipo accessorio come disciplinate dall'art. 4 della L. n.30/03, dal D.Lgs. n. 276/03 (artt. 70-73), e successive integrazioni e modificazioni. Con lo "strumento" voucher si offre la possibilità di occupazioni temporanee a soggetti che si trovano in situazioni di svantaggio economico, di difficoltà finanziaria, di disagio personale e/o familiare. Uno strumento che dà la possibilità a tutti i disoccupati di prestare la loro opera per un dato periodo di tempo per lavori di pubblica utilità. Per incentivare ogni altra forma di impresa e debellare il fenomeno dell'usura, l'amministrazione si farà garante verso gli istituti di credito di ogni progetto presentato ed approvato dal Consiglio Comunale e comunque di favorire l’accesso al credito attraverso il sostegno economico ai Confidi (consorzi di garanzia) o forme similari di categoria o comunque la verifica degli immobili agibili e sfitti di proprietà diretta o indiretta del comune  per locazione agevolata alle attività imprenditoriali giovanili (fino a 35 anni). Predisporre un front office turistico multilinguistico di presentazione del territorio, con tour tematici.  

SANITA’.

Predisposizione telematica di conoscenza del medico disponibile nel momento del bisogno.

SICUREZZA.

Predisposizione di aree e vie pubbliche videosorvegliate e potenziamento del corpo di Polizia Municipale, con collaborazioni temporanee, coadiuvato da associazioni di cittadini locali per il controllo delle aree rurali.

PROMOZIONE DEL TERRITORIO.

Promuovere e sostenere ovunque ogni eccellenza locale nel settore dello sport, cultura e spettacolo o ogni altra forma di realizzazione e manifestazione. Tutelare la reputazione di Avetrana e della sua comunità con ogni mezzo e senza remore.

SPORT.

Curare e gestire in modo economico ogni struttura comunale e renderla fruibile a tutti.

FINANZIAMENTO.

Vogliamo farci conoscere in Europa per le nostre risorse naturali, storiche, culturali, artistiche. Abbiamo un patrimonio da valorizzare grazie alla progettazione europea. Si dovrà formare un gruppo compatto di professionisti locali o non locali, remunerato per presentare progetti ed accedere ai Fondi strutturali. 

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

La scriminante è configurabile anche in relazione alla cd. "critica storica"? A questa domanda risponde la Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con la sentenza 10 novembre 2016, n. 47506.

Quando l’esercizio del diritto di “critica storica” scrimina il delitto di diffamazione. Cassazione Penale, sezione quinta, sentenza n. 47506/2016. Il delitto di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., com’è noto ai più, consiste nell’offendere la reputazione di una persona, in quel momento assente, dinanzi più persone. La comunicazione in questione può avvenire verbalmente, ma anche per iscritto, nei modi più disparati ed anche per mezzo di libri o testi di vario genere. Ebbene, quando il reato di diffamazione è legato al mezzo della stampa, il diritto al rispetto della reputazione altrui deve convivere con il c.d. diritto di critica (disciplinato, in generale, dall’art. 51 c.p. sull’esercizio del diritto). Che succede, però, se la presunta offesa si trova in uno scritto, già diffuso da tempo e solo riedito, nel quale l’autore ha inserito delle conclusioni cui lo stesso è giunto sulla base dei propri studi? La Corte afferma che, in questi casi, soccorre il diritto di “critica storica”. Ma di che si tratta? E perché può giustificare tali condotte astrattamente diffamatorie?

Critica storica e metodo scientifico. Al fine di escludere la responsabilità penale di un autore, in casi come quello di specie, il giudice deve valutare se l’opera “corpo del reato” abbia o meno carattere storico. Tale analisi comporta un accertamento delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi. Ciò significa che, per poter parlare di critica storica, nell’opera deve essersi fatto “uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali”. Non rientra nel potere del giudice determinare se un soggetto possa ritenersi un vero storico. Infatti, la sua valutazione è finalizzata solo a stabilire se l’opera, quale risultato della ricerca svolta dall’autore, possa considerarsi storica, tenuto conto anche dei risultati e delle conclusioni cui è giunta. Le stesse, infatti, pur potendo differire rispetto alle ricostruzioni storiche finora riconosciute, devono fondarsi, tuttavia, su fonti certe ed individuabili.

Questo aspetto è assolutamente imprescindibile. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e d essere plausibili e sostenibili”.

Il diritto di critica quando la tesi proposta risulta non credibile.

Nel caso di specie, l’autore si è limitato a proporre una nuova edizione di un testo, seppur originariamente tacciato di antisemitismo (probabilmente un falso storico), perché da lui ritenuto meritevole di diffusione e commento in ragione della rispondenza del suo contenuto a fatti “falsi, ma veritieri”, in quanto concretamente avvenuti. Nessuna verifica di carattere storico al suo interno, dunque, eppure, secondo la Corte, nessuna diffamazione a sfondo antisemita è dato rinvenire, dato che la tesi dell’autore, seppure obiettivamente non credibile, risulta sostenuta (secondo le regole sopra precisate) sulla base di una pluralità di fonti ed analisi precise e nella stessa individuate. Laura Piras

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE

Il dr. Antonio Giangrande è nato ad Avetrana (TA) il 2 giugno 1963 da Oronzo ed Antonia Santo. Primogenito dei fratelli: Leonardo, Maria Giuseppa (portatore di handicap e di varie patologie) ed i gemelli Monica e Patrizio Gaetano.

Nel 1978 a 16 anni è costretto ad emigrare in Germania perché, figlio di indigenti, non può studiare, né lavorare in loco, in quanto gli amministratori e i politici del sud, malversando i contributi della Cassa per il Mezzogiorno, hanno impedito lo sviluppo economico e sociale del territorio. Inoltre non gli è stato concesso di entrare nell'arma dei Carabinieri dal comandante della locale stazione, il quale ha dato delle informazioni negative sul suo conto, sol perché si lamentava del fatto che andassero a lavare gratis le loro auto di servizio, mentre lavorava all'autolavaggio del padre.

Rientrato in Italia, nel 1984 ad un anno dall’apertura è costretto a chiudere la sua macelleria a causa di richieste estorsive.

Nel 1990 è costretto a rinunciare a svolgere l'attività di fruttivendolo e di coltivatore diretto per le richieste estorsive, estese fin anche a danno del suocero, che abitualmente lavorava da solo in campagna.

Nel marzo del 1991 è costretto a licenziarsi da un’impresa di costruzioni, con mansioni di guardia giurata particolare per vigilare su un cantiere. Il servizio era isolato e senza ricetrasmittente. Il tentativo del racket di far saltare gli automezzi fallisce per un suo intervento, a cui seguì un conflitto a fuoco. La denuncia è rimasta lettera morta. Dopo giorni, nelle vicinanze del cantiere uccisero un pregiudicato per regolamento di conti. Nessuno si preoccupò della sua incolumità, né come vigilante, né come possibile testimone da proteggere. Nel novembre dello stesso anno, cessa la sua attività di imprenditore. A quota 12 della marina di Manduria (TA),  incendiano il ristorante stagionale, condotto con il fratello. Tale atto era da ricondurre alla sua attività di Guardia Giurata. Il ristorante non fu ricostruito per impedimento dell’autorità amministrativa. Nel giorno dell’incendio era alle visite mediche per il concorso pubblico per agente di polizia indetto dal Ministero degli Interni. Qualche giorno prima aveva partecipato al concorso indetto dal Ministero della Giustizia per autista dei veicoli blindati a tutela dei Magistrati. In entrambi i concorsi, entrò vincente, avendone i titoli, uscì perdente. Le prove preliminari superate con i voti più alti, costituzione fisica da paracadutista, dove ha svolto il servizio militare, patenti dalla A alla B-C-D-E e il CAP, disoccupazione con moglie e due figli a carico, non bastarono. Quell’anno la mafia aveva mostrato le due facce della stessa medaglia.

Nel 1992 partecipa a Milano al concorso ATM per autista dei veicoli pubblici: escluso.

Nel 1997 partecipa al concorso pubblico indetto dal Ministero della Giustizia come Uditore Giudiziario: escluso.

Dal 1998 partecipa al concorso pubblico indetto dal Ministero della Giustizia per l’abilitazione forense, affinché, dopo anni di studi e di disoccupazione, potesse intraprendere l’attività di avvocato e lavorare. I Magistrati e gli Avvocati non lo abilitano, perché da sempre ha denunciato l’impedimento giudiziario al diritto di difesa dei non abbienti e il concorso forense truccato, in cui si abilitano i raccomandati, oltre che denunciare abusi ed omissioni della classe forense e giudiziaria.

Partecipa nel 1998 al Concorso di Comandante dei vigili Urbani di Manduria (TA). Lo vince chi ha indetto e regolato il concorso.

Partecipa nel 1999 al concorso per nomina di Giudice di Pace di Manduria, indetto dal Ministero di Grazia e Giustizia: la domanda presso il Consiglio Superiore della Magistratura rimane lettera morta.

Nel 2006 non è iscritto come sub agente assicurativo nella sezione “E” degli intermediari assicurativi, in quanto le agenzie di Manduria, pur collaborando con loro da 10 anni, condizionavano l’iscrizione, data alla loro facoltà, al mono mandato esclusivo, pur avendo le tariffe più alte.

Nel 2007 non può più svolgere l’attività di studio di infortunistica stradale perché le norme sull’indennizzo diretto impediscono la remunerazione per l’assistenza e la consulenza.

Giangrande Antonio, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/63, diplomato ragioniere e perito commerciale nel 1992, a 29 anni, sostenendo, in unica sessione, gli esami di maturità da privatista per tutti i 5 anni di corso presso l’Istituto Tecnico Statale “Einaudi” di Manduria (TA), laureato alla Università Statale di Milano alla Facoltà di Giurisprudenza nel 1996, superando i 26 esami accademici in soli 2 anni: già abilitato al patrocinio legale nei procedimenti giudiziari penali, civili, amministrativi e tributari; già guardia giurata particolare; già investigatore privato; già imprenditore commerciale.

Coniugato con Cosima Petarra, nata ad Erchie (BR) l’8/05/64, con cui ha due figli:

Mirko, nato a Manduria il 26/01/85, diplomato ragioniere, perito commerciale e programmatore nel 2002 in 4 anni, anziché in cinque e doppia laurea, a 20 anni, in Scienze Giuridiche nel 2005, a 22 anni, e in Magistrale in Giurisprudenza, nel 2007, abilitato avvocato nel 2010 a soli 25 anni, diventa l'avvocato più giovane d'Italia;

Tamara, nata a Manduria il 16/08/86, diplomata ragioniera, perito commerciale e programmatore nel 2005.

Il dr Antonio Giangrande denuncia le ritorsioni: «Sono scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”.

Il sistema mi impedisce: di pubblicare i miei libri; di insegnare nelle università ciò che ho scoperto  in 20 anni di studi sulla società italiana; di pubblicare i miei articoli; di esercitare la professione di Avvocato per potermi sostenere economicamente e per poter difendere nelle aule dei tribunali chi non può; di operare come associazione antimafia, perchè non di sinistra; di far conoscere la mia opera letteraria.

A causa della mia attività, per anni, con due cifre, sono stato vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, che tutti ritengono truccato. Da ciò è scaturita la mia disoccupazione ed indigenza. Addirittura, ho ritenuto maturo ed opportuno tutelare i miei diritti. In presenza di innumerevoli irregolarità commesse a mio danno dalla Commissione di Reggio Calabria, competente a correggere i compiti della sessione 2008 del concorso forense dei candidati di Brindisi, Lecce e Taranto, (elaborati non corretti, commissione illegittima, ecc.) e in virtù della consapevolezza delle mie ragioni sostenute dalla folta giurisprudenza, ho presentato, senza l’ausilio dei baroni del Foro, l’istanza per poter accedere al gratuito patrocinio per presentare il ricorso al Tar. Pur essendoci i requisiti di reddito e nonostante le eccezioni presentate fossero già state accolte da molti Tar, la Commissione presso il Tar di Lecce mi nega un diritto palesemente fondato e lo comunica, malgrado l’urgenza, un mese dopo, a pochi giorni dalla decadenza del ricorso principale. Hanno rilevato una mancanza di fumus, con un sommario ed improprio giudizio di merito senza contraddittorio e su elementi chiarissimi ed incontestabili. E’ stato fatto da chi, direttamente o per colleganza, avrebbe deciso, comunque, il proseguo, nel caso in cui il ricorso al Tar sarebbe stato presentato in forma ordinaria, inibendone l’intenzione. Per dire: subisci e taci. Lo hanno comunicato dopo un mese, nel pieno delle ferie e a 15 giorni dalla decadenza del ricorso principale al TAR, impedendo, di fatto, anche la proposizione del ricorso in forma ordinaria.

Mi sono rivolto al Governo per l’insofferenza delle istituzioni rispetto alle segnalazioni dei concorsi pubblici truccati, impuniti e sottaciuti, specialmente accademici, giudiziari, forensi e notarili, e ho segnalato la collusione della giustizia amministrativa per l’impedimento al ripristino della legalità. Fenomeno seguito dall’indifferenza, spesso indisponenza dei media. Il Governo mi ha risposto: hai pienamente ragione, provvederemo, stiamo già lavorando. Provvedimento mai arrivato.

Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui.

Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.

Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale. La stessa procura di Taranto ha già cercato, non riuscendoci, di farmi condannare per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farmi condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il mio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione infondata, tant’è che il vero responsabile è stato accertato nel dibattimento che ne è seguito; ovvero di farmi condannare per lesione per essermi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirmi di presenziare all’udienza contro l’aggressore; ovvero farmi condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura e di un avvocato che vinceva le cause, in cui a giudicare era un suo ex praticante; ovvero di farmi condannare per aver denunciato che a Taranto i magistrati responsabili di errori giudiziari erano gli stessi ad avere, in conflitto d'interesse, la competenza sulla loro declaratoria.

Procedimenti a mio carico sempre con impedimento alla difesa.

Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro l’ex Giudice di Milano, Clementina Forleo. Da questa acclamata incompetenza territoriale il fascicolo è passato a Taranto. La procura di quel foro, reitera il sequestro dell’intero sito, in cui, alla pagina di Taranto vi era un corposo dossier sull’operato degli stessi uffici giudiziari. Da un conflitto d’interessi ad un altro.

Potenza, foro in cui non si è proceduto contro un giudice del tribunale di Manduria, sezione distaccata di Taranto, che pensava bene di dare un esito negativo a tutte le cause in cui compariva Giangrande Antonio, come imputato o come difensore di parte, nonostante le ampie prove dimostrassero il contrario.

Ma le ritorsioni non si fermano qui. A Santi Cosma e Damiano (LT) un Consigliere Comunale, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa meritoria attività è conseguita una duplice Interrogazione Parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio. Dalle risposte istituzionali è scaturita una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei Consigli Comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici sui siti associativi, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del Consigliere Comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma si è dichiarata competente e pronta a procedere. Roma e non Latina o Taranto (foro del reato o dei presunti responsabili).

Da tutti questi tentativi, atti ad intimorire ed ad indurre alla tacitazione, nessuna condanna è scaturita. Anzi, molti procedimenti penali sono rimasti nel limbo, spesso fermi per anni per pretestuosi errori formali: insomma nel dibattimento non si voleva che uscisse la verità o che si presentasse istanza di ricusazione.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ai sensi degli artt. 21 e 118, comma 4, Cost., svolge attività di interesse generale e di utilità pubblica di informazione, di denuncia e di proposta, sulla base del principio di sussidiarietà.

Nonostante ciò non percepisce alcun finanziamento, né affidamento dei beni confiscati alla mafia, né alcuno spazio mediatico: solo perché non è di sinistra.

Tutte le Tv locali non offrono spazi nei loro programmi di approfondimento, nonostante l’apporto di competenza e di audience.

Tutte le tv nazionali non si avvalgono degli spunti esclusivi sulle tematiche nazionali.

Ballarò di Rai tre, invia una troupe da Roma, per un servizio sui concorsi truccati: servizio mai andato in onda.

RAI 1 stravolge il palinsesto per censurare lo spazio dedicato ad una associazione riconosciuta dal Ministero dell’Interno e che combatte in prima linea tutte le mafie. 10 minuti, il programma dell’accesso, previsto il 23 novembre 2007 alle 10.40, non è andato in onda. Nessun avviso, o comunicato, o motivazione è pervenuto alla sede dell'associazione, nè da parte della RAI, nè dalla Commissione di Vigilanza.

Da qui l'interrogazione parlamentare del senatore Giovanni Russo Spena, per chiedere perché è stato censurato il servizio, ovvero perché si è inviata la troupe da Roma per un servizio mai trasmesso, con aggravio di costi per l’azienda RAI.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente colluso o codardo, non accetta di subire e di tacere.»

Combatte per la LEGALITA’ e la tutela e la rappresentanza dei diritti di tutti i cittadini contro gli interessi di caste, lobby, mafie, massonerie. E’ nemico delle ideologie, che non ascoltano, ma impongono la loro visione delle cose, spesso con la forza. Unico strumento è l’informazione senza omertà o censura, tramite inchieste telematiche tematiche e territoriali; libri; film, ecc.

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

LOREDANA CAPONE & FRIENDS.

La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.

La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).

La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.

L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi.

Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.

«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia” del 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”.

Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»  

Turismo e risorse ambientali.

“Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”

19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".

Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.

Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».

Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...

Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.

I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.

L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».

Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».

Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni». Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».

Gianni Liviano presenta interrogazione su attività di Apulia Film Commission. Nell'interrogazione a risposta scritta il consigliere liviano chiede di fornire chiarimenti in merito alle eccezioni sollevate dall'Ordine di vigilanza di Apulia Film Commission, scrive il 25 settembre 2018 "Il Corriere di Taranto". È una lunga serie di rilievi quella mossa, all’indirizzo dell’operato di Apulia Film Commission, dal consigliere regionale del Gruppo Misto, Gianni Liviano, e tutti racchiusi in una interrogazione a risposta scritta indirizzata al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, e alla Corte dei Conti. Si tratta di un lavoro minuzioso e certosino portato avanti dal consigliere regionale tarantino e che fa seguito a quello sull’affidamento al Teatro pubblico pugliese della somma di 1 milione di euro nell’ambito del “Polo territoriale delle Arti e della Cultura Fiera del Levante 2018“. E, allora, eccoli i rilievi: assenza puntuale nella trasmissione dei flussi informativi; assenza dell’autorizzazione da parte del consiglio di amministrazione di Apulia Film Commission per  l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra il presidente della Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale PugliaPromozione con durata di tre anni a partire dall’accordo; assenza, all’interno del nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione” ( approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018), delle procedure di affidamento di incarichi professionali, e il non recepimento, all’interno del l’art. 7 di tale regolamento “commissioni esaminatrici”, di quanto suggerito dall’Organismo di vigilanza nel parere espresso in data 31 luglio 2017, e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017, sui criteri di nomina delle commissioni;  assenza di trasparenza nelle procedure finalizzate alla richiesta di sponsorizzazione della fondazione; abuso nell’utilizzo della procedura di affidamento diretto anche nelle more dell’assenza dei requisiti di unicità ed esclusività nei servizi offerti e la non chiarezza delle motivazioni che inducono all’individuazione di tale procedura di aggiudicazione; individuazione di soggetti affidatari direttamente da parte del direttore generale dell’Afc e non già da parte del rup; assenza, nelle determine di nomina, delle motivazioni  che hanno condotto alla scelta dei commissari delle commissioni esaminatrici; assenza dei riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità; assenza sul sito della Fondazione dei curricula dei commissari. “Si tratta – spiega ancora Liviano – di rilievi espressi dall’Organismo di vigilanza della stessa fondazione Apulia film commission (che fa riferimento all’assessorato all’Industria turistica e culturale presieduto dall’assessore Capone) nei verbali di maggio e del 13 e del 18 luglio del 2018.  Ecco – conclude Liviano – di questi rilievi chiedo conto nella mia interrogazione (che si allega)”. Pubblichiamo, di seguito, il testo dell’interrogazione a risposta scritta indirizzata al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e, per conoscenza, al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, nonché alla Corte dei Conti.

«Premesso che  

- l’Organismo di vigilanza (Odv) monocratico della fondazione Apulia film commission (Afc), istituito ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 231 del 2001 e rappresentato dal dott. Ernesto De Vito il quale riveste anche la funzione di responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza giusta nomina del cda di Afc del 27 marzo 2017;

– lo stesso organismo si è recentemente riunito, tra l’altro, nelle date 21 maggio 2018, 13 luglio 2018 e 18 luglio 2018;

– in data 21/05/2018, nel verbale di riunione, l’Odv ha segnalato un’assenza nella trasmissione dei seguenti flussi informativi (con richiesta di invio immediato):

a) adempimenti presso le autorità pubbliche di vigilanza e presso gli enti pubblici per l’ottenimento delle autorizzazioni, abilitazioni, licenze, concessioni o provvedimenti simili attraverso un report delle richieste di autorizzazioni e licenze presentate. L’Odv indica, altresì, che il referente per l’invio di tali documenti è il direttore generale, che la periodicità di invio sarebbe semestrale e che allo stato all’Odv non era mai arrivato alcun flusso in merito;

b) rendicontazioni contributi, sovvenzioni e finanziamenti erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dall’unione europea attraverso un riepilogo delle rendicontazioni effettuate e segnalazioni di eventuali anomalie o altre criticità. L’Odv indica altresì che il referente per l’invio di tali documenti è l’ufficio gestione e rendicontazione progetti, che la periodicità di invio sarebbe trimestrale e che allo stato all’Odv l’ultimo flusso era pervenuto in data 05/05/2017;

c) sponsorizzazioni, partnership e rapporti commerciali con soggetti privati attraverso un report su sponsorizzazioni, partnership e rapporti commerciali con soggetti privati con indicazione degli importi e dell’oggetto.  L’Odv indica altresì che il referente per l’invio di tali documenti è il direttore generale, che la periodicità di invio sarebbe semestrale e che allo stato all’Odv non era mai arrivato alcun flusso in merito;

– in data 13/07/2018 nel verbale di riunione l’Odv:

a)  lamenta di non aver ancora ricevuto il flusso informativo sulle sponsorizzazioni e partnership effettuate dalla Fondazione;

b) esamina a campione l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della Puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra la Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale Puglia Promozione con durata di tre anni a partire dall’accordo, esamina le schede riepilogative delle spese effettuate a valere su detto accordo, chiede copia delle determine del rup sulle spese di importo più rilevante con particolare riferimento agli affidamenti diretti,  e  segnala l’assenza della delibera del consiglio di amministrazione di autorizzazione alla realizzazione di tale attività, nonostante la firma dell’accordo stesso da parte del presidente consiglio di amministrazione;

c) prende atto che il nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione”, approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018, a differenza del precedente regolamento per il reclutamento del personale non disciplina le procedure di affidamento di incarichi professionali ma solo l’assunzione di personale dipendente e l’instaurazione di rapporti di collaborazione e che l’art. 7 di tale “commissioni esaminatrici”, non recepisce quanto suggerito dall’Odv nel parere espresso in data 31 luglio 2017 e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni.

d) fa richiesta al c.d.a di chiarire se l’attuale regolamento per il reclutamento del personale ha abrogato quanto deliberato il 01 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni o se tali criteri sono ancora validi eventualmente integrando l’art. 7 e per quanto riguarda l’affidamento degli incarichi professionali di stabilire se sia da considerarsi ancora in vigore il precedente regolamento per la parte riferibile a tali conferimenti di  incarichi ovvero si proceda alla predisposizione di un nuovo regolamento che vada a disciplinarli;

– in data 18/07/2018 nel verbale di riunione l’Odv:

a) raccomanda di prevedere una procedura di evidenza pubblica anche per le richieste di sponsorizzazione della Fondazione al fine di rendere più trasparente l’individuazione dello sponsor e permettere ad altri operatori economici di partecipare;

b) esamina a campione le modalità di affidamento del servizio di accoglienza e ospitalità per l’evento “BIFeST 2018” (per la quale è stato disposto l’avvio della procedura di affidamento diretto da assegnare con il criterio del minor prezzo attraverso un’indagine di mercato effettuata attingendo dall’elenco dei fornitori presente sulla piattaforma regionale Empulia a seguito della quale sono stati individuati cinque operatori idonei a soddisfare la domanda. Tra questi cinque operatori il servizio di accoglienza e ospitalità è stato affidato alla ditta PROTEM COMUNICAZIONE SRLS). Al fine di garantire l’integrità e la correttezza delle modalità di presentazione delle offerte, l’Odv suggerisce o di inserire una password che permetta l’apertura delle offerte dopo il termine di scadenza stabilito o che si proceda tramite invio delle offerte in busta chiusa;

c) esamina a campione gli affidamenti diretti di importo maggiormente rilevante assegnati all’interno dell’accordo di cooperazione per la realizzazione di servizi volti alla promozione della Puglia come destinazione turistica e come industria cinematografica tra Afc e PugliaPromozione (già sopra riportato).  In particolare esamina la determina di affidamento diretto del 1/12/2017 all’associazione CHERLOVEKMAKAK per servizi di promozione e marketing nell’ambito della fiera internazionale di Mosca e la determina di affidamento diretto del 21/06/2018 alla stessa associazione per servizi di promozione, organizzazione e allestimento. L’Odv evidenzia che per tali affidamenti diretti la scelta dell’operatore è ricaduta sempre sullo stesso fornitore, (così come per un precedente affidamento diretto nell’ambito del progetto Riff 2017) e che dai servizi offerti non si evince l’esclusività e l’unicità degli stessi. Inoltre esamina la determina di affidamento diretto del 07/03/2018 alla SOCIETA’ COOP PASSO UNO PRODUZIONI, sempre nell’ambito dell’accordo succitato. Rispetto a questo affidamento diretto l’Odv rileva che, oltre a non rilevarsi dai servizi offerti l’esclusività e l’unicità degli stessi, le procedure sono state adottate con determinazioni del direttore generale e non con determinazione della responsabile unica del procedimento (rup). L’Odv esamina anche la determina di affidamento diretto dell’11/05/2018 al gruppo TERRAROSS e nella stessa data alla società LE BUL snc. L’odv osserva che in entrambi i casi non è stato adeguatamente motivato il ricorso all’affidamento diretto;

d) l’Odv esamina la nomina delle commissioni di valutazioni da parte del Direttore Generale a partire dal 1 agosto 2017 data in cui è stato ratificato il parere rilasciato dall’Odv. L’Odv rileva che nelle determine di nomina dei componenti delle commissioni non sono riportate le motivazioni che hanno condotto alla scelta dei commissari individuati da Apulia film commission, che non sono riportati i riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità, che sul sito della Fondazione non vi è evidenza dei curricula dei commissari.

CONSIDERATO che Dai verbali dell’Odv si evince:

–  l’assenza puntuale nella trasmissione dei flussi informativi sopra indicati;

–  l’assenza dell’autorizzazione da parte del consiglio di amministrazione di Apulia Film Commission per  l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della Puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra il presidente della Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale PugliaPromozione con durata di tre anni a partire dall’accordo;

–  l’assenza, all’interno del nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione”, ( approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018), delle procedure di affidamento di incarichi professionali, e il non recepimento, all’interno del l’art. 7 di tale regolamento “commissioni esaminatrici”, di quanto suggerito dall’Odv nel parere espresso in data 31  luglio 2017 e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni;

–  l’assenza di trasparenza nelle procedure finalizzate alla richiesta di sponsorizzazione della fondazione;

–  la frequenza nell’utilizzo della procedura di affidamento diretto anche nelle more dell’assenza dei requisiti di unicità ed esclusività nei servizi offerti e la non chiarezza delle motivazioni che inducono all’individuazione di tale procedura di aggiudicazione;

  l’individuazione di soggetti affidatari direttamente da parte del direttore generale dell’Afc e non già da parte del rup;

– l’assenza nelle determine di nomina, delle motivazioni che hanno condotto alla scelta dei commissari delle commissioni esaminatrici, l’assenza dei riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità, l’assenza sul sito della Fondazione dei curricula dei commissari;

  Il sottoscritto Gianni Liviano nella sua qualità di consigliere regionale CHIEDE alle SS.VV di fornire chiarimenti in merito alle eccezioni sollevate dall’Odv e indicate nella presente interrogazione».

Dopo l’AFC anche Pugliapromozione nel ciclone per affidamenti diretti. Liviano: “Chi c’è dietro la Protem?”, scrive il 26 settembre 2018 Telerama News. Non c’è solo l’Apulia Film Commission a generare dubbi e sollevare polveroni per l’affidamento diretto di incarichi senza passare da procedure pubbliche. Nel mirino ora finisce anche Puglia Promozione, agenzia satellite della Regione Puglia. Nel primo caso a finire sotto la lente dell’Organismo di vigilanza interno di Apulia, e poi in una interrogazione e in una segnalazione alla Corte de Conti da parte del consigliere tarantino Gianni Liviano, sono stati gli incarichi per 37mila euro conferiti alla Protem Comunicazione per servizio accoglienza al Bi&Fest, e ripetuti affidamenti diretti alla Cherlovek makak, anch’essa di Lecce. Perché tanti e tutti diretti? Si chiede l’organismo di vigilanza. E la stessa domanda ora viene posta a Puglia Promozione. Con la specifica che dal 2016 al 2018 le cifre salgono e gli affidamenti diretti avrebbero superato anche l’ostacolo della soglia dei 40mila euro. A fare due conti sempre Liviano. E così, dai dati aggregati, risulterebbe che in due anni: l”88% di bandi si sarebbero chiusi con affidamenti diretti. Per la precisione 590 affidamenti per un valore di 11 milioni 110mila euro.  Ma non solo: ci sarebbero anche 43 procedure negoziate previa pubblicazione del bando per un totale di euro 1 milione 648 mila euro, procedure senza bando per ulteriori 2 milioni di euro e altre varie procedure dello stesso tenore. In più alcune società come la Protem e la società Salento d’Amare che orbita sempre nel raggio della prima, risultano destinatarie di affidamenti. Di qui le nuove richieste di Liviano: “Considerato che in molti casi non sono indicati i nomi beneficiari degli affidamenti, che l’importo massimo consentito per questo tipo di procedura – 40mila euro – è stato superato spesso, che oltre alle due società già citate risultano essere stati assegnati fondi anche a associazioni datoriali come Confindustria e Confartigianato, perché si è agito così? E, chiude Liviano, “il rappresentante legale della Protem è vicino a personaggi impegnati nella politica?”. Intanto i vertici di Pugliapromozione difendono l’operato dell’agenzia spiegando che gli affidamenti diretti sono possibili. Che le scelte fatte hanno seguito le disposizioni normative, che la quasi totalità degli affidamenti diretti ha seguito procedure comparative. E che sarà tutelato il nome dell’agenzia.

Appalti, Pugliapromozione: affidamenti a società Protem senza gara. Dopo i rilievi su Apulia Film Commission. Ex assessore Gianni Liviano: «Nell'agenzia il 92% di contratti senza gara», scrive Massimiliano Scagliarini il 27 Settembre 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Dal 2016 a oggi la società leccese Protem ha beneficiato da parte di Pugliapromozione di cinque affidamenti per un totale di 135mila euro, quattro dei quali senza gara. Un altro affidamento per 20mila euro (con gara) è andato alla Salento D’Amare, riconducibile a Massimiliano Torricelli, lo stesso amministratore della Protem. Dopo il caso degli appalti alla Apulia Film Commission, sollevato dall’Organo di vigilanza e amplificato da un esposto dell’ex assessore Gianni Liviano, la Protem spunta pure in un’altra delle agenzie regionali riconducibili al mondo della cultura. E la politica, specie quella salentina, rumoreggia. Torricelli è figlio dell’ex consigliere comunale del Pd di Lecce, Antonio, recentemente coinvolto nell’indagine sulle case popolari, uomo vicinissimo all’attuale assessore alla Cultura, Loredana Capone. In Protem ha lavorato come art director (non è un segreto: il suo curriculum è pubblicato su Linkedin) anche Antonio Martella, che tutti ricordano in Regione nella segreteria della Capone nell’assessorato allo Sviluppo economico, dove si occupava dei rapporti con le Camere di commercio pugliesi. Liviano, ex assessore alla Cultura, fatto fuori da Emiliano proprio per via di un affidamento diretto alla società di un suo amico, ieri ha presentato una seconda interrogazione incentrata proprio sugli affidamenti diretti in Pugliapromozione e sul ruolo di Protem. Ne emerge che dal 2016 a venerdì scorso l’agenzia regionale per il turismo ha effettuato 590 affidamenti diretti, pari all’88% degli affidamenti totali, per 11 milioni di euro, pari al 70% di quanto complessivamente speso. Se si aggiungono le 63 procedure negoziate, si sale al 92% della spesa totale effettuata senza procedura di gara. «L’importo massimo di 40.000 euro per l’affidamento diretto risulta essere superato in svariate circostanze - secondo Liviano - e alcune società, come Protem e Salento d’Amare, risultano essere destinatarie svariate volte di affidamenti diretti». «Il consigliere Liviano ha preso una cantonata - risponde il direttore generale Matteo Minchillo - anche le procedure sotto soglia hanno avuto contenuto comparativo, quegli affidamenti diretti con unico partecipante sono motivati dal fatto che si tratta di attività in continuazione rispetto ad altre attività affidate con procedura comparativa. Ma siamo comunque molto lontani dall’80% di cui parla Liviano».

"Affidamenti diretti". L' attacco di Liviano a PugliaPromozione finirà in Tribunale, scrive il 28 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Puntuale ed immediata la replica di Matteo Minchillo direttore generale di PugliaPromozione: “Nessun caso appalti. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di PugliaPromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale PugliaPromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato”. Nella sua interrogazione il consigliere regionale del Gruppo Misto (eletto nelle liste di Emiliano) , il tarantino Gianni Liviano si chiede  “Perché PugliaPromozione ha fatto un uso diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori ai 40mila euro? E quali sono le ragioni per le quali risultano ancora aperte procedure del 2017 oltre che del 2018 e quali le ragioni per cui spesso non sono indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi?”. Questi alcuni dei quesiti alla base dell’interrogazione che il consigliere regionale ha indirizzato al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, ed all’ Anac l’  Autorità nazionale anticorruzione. Un’interrogazione molto dettagliata quella di Liviano che quanto riguarda l’attività di PugliaPromozione, l’agenzia regionale per la promozione turistica pugliese che punta a fare chiarezza su diversi punti. Tra le contestazioni evidenziate da Liviano nella sua interrogazione il fatto “che alcune società, a mero titolo esemplificativo si cita la società Protem srl e la società Salento d’amare, risultano essere svariate volte destinatarie di affidamenti diretti e che risultano essere destinatari di fondi alcune associazioni datoriali, Confindustria Lecce e Confartigianato Lecce”. Una nostra fonte interna alla società di promozione regionale, racconta che la rabbia di Livianosarebbe esplosa dopo i ripetuti rifiuti del vertice di Puglia Promozione ad assumere l’addetto stampa del consigliere regionale, sin dai tempi in cui era assessore al turismo, incarico da cui dovette dimettersi dopo aver assegnato un contratto ad un suo sostenitore elettorale. Puntuale ed immediata la replica di Matteo Minchillo direttore generale di PugliaPromozione : “Nessun caso appalti. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di PugliaPromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale PugliaPromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato”. Minchillo evidenzia invece come “PugliaPromozione procede secondo la legge, con bandi e procedure ad evidenza pubblica» e precisa che “non è vero affatto che il 92 per cento delle attività dell’agenzia sono state assegnate con affidamento diretto; lo stesso Liviano parla di 670 bandi, il che vuol dire che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica. La polemica dunque del consigliere è finalizzata a generare l’idea, da lui affermata, che PugliaPromozione eroghi risorse a pioggia senza procedure comparative. È questo il dato falso che lede l’immagine di PugliaPromozione le cui procedure sono invece assistite da trasparenza e correttezza, oltre che nel rispetto delle norme del codice”. Il direttore dell’Agenzia Regionale del Turismo pugliese ricorda inoltre che il Collegio dei Revisori dei Conti “non ha mai mosso rilievi, così come gli organi di controllo europei, che hanno certificato la spesa, validando le procedure. Il consigliere Liviano riporta dati confusi e mischiati e definisce affidamenti diretti quelli che sono quasi sempre atti di conclusione di procedure di evidenza pubblica. Ora, come quando lui era Assessore al Turismo. I reali affidamenti diretti nel 2018, per esempio, sono solo due. Se il consigliere Liviano avesse richiesto all’Agenzia le informazioni di cui aveva bisogno, gli sarebbero state prontamente fornite”. Minchillo elenca alcuni numeri abbastanza significatici ed indicativi: “Ai bandi e alle procedure di evidenza pubblica hanno partecipato centinaia di imprese e di associazioni: dal 2016 al 2018 sono stati 909 i partecipanti a Inpuglia 365 fra imprese, associazioni e comuni per un totale di 3 milioni 627.541 euro. Dal 2017 ad oggi sono stati 216 i partecipanti al bando per gli infopoint per un totale di 2 milioni 407mila euro; persino sugli educational Pugliapromozione effettua avvisi pubblici, perché riteniamo che attraverso una sana competizione tra i territori si può ottenere una migliore promozione dell’intera Puglia. Perciò – conclude la nota – le accuse lanciate dal consigliere appaiono doppiamente lesive dell’immagine dell’Agenzia, della Regione e dell’intera Puglia con il suo comparto turistico”.

Liviano attacca, PugliaPromozione risponde. Il consigliere: "Si sta accontentando tutti". La replica: "Falso!" Scrive il 27 settembre 2018 "Il Corriere di Taranto". “Perché PugliaPromozione ha fatto un uso diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori ai 40mila euro? E quali sono le ragioni per le quali risultano ancora aperte procedure del 2017 oltre che del 2018 e quali le ragioni per cui spesso non sono indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi?”. Sono solo alcuni dei quesiti alla base dell’interrogazione che il consigliere regionale del Gruppo Misto, Gianni Liviano, ha indirizzato al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, nonché al responsabile dell’Anac. Questa volta è l’attività di PugliaPromozione, agenzia regionale per la promozione turistica, a finire sotto la lente di ingrandimento del consigliere Liviano. Un’interrogazione molto dettagliata per quanto riguarda l’attività di PugliaPromozione e che punta a fare chiarezza su diversi punti. “Al di là della dimensione etica dell’intera vicenda che segnalo nella mia interrogazione – spiega Liviano -, il ricorso agli affidamenti sotto soglia significa che, così, si sta accontentando un po’ tutti e che, quindi, alla base non c’è un vero progetto nè una programmazione degna di tal nome”. Altri punti evidenziati nell’interrogazione, il fatto che alcune società risultano essere svariate volte beneficiare di affidamenti diretti e che risultano essere destinatari di fondi anche associazioni datoriali. Di qui la risposta del Direttore generale di Pugliapromozione Matteo Minchillo: “Nessun ‘caso appalti’ in Pugliapromozione. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di Pugliapromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale Pugliapromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato. Pugliapromozione procede secondo la legge, con bandi e procedure ad evidenza pubblica. Non è vero affatto che il 92 per cento delle attività dell’agenzia sono state assegnate con affidamento diretto; lo stesso Liviano parla di 670 bandi, il che vuol dire che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica.  La polemica dunque del consigliere è finalizzata a generare l’idea, da lui affermata, che Pugliapromozione eroghi risorse a pioggia senza procedure comparative. E’ questo il dato falso che lede l’immagine di Pugliapromozione le cui procedure sono invece assistite da trasparenza e correttezza, oltre che nel rispetto delle norme del codice. Ciò emerge chiaramente dal sito di Pugliapromozione su cui sono pubblicate tutte le determine delle procedure ad evidenza pubblica, tra cui bandi ed avvisi. D’altronde il Collegio dei Revisori dei Conti non ha mai mosso rilievi, così come gli organi di controllo europei, che hanno certificato la spesa, validando le procedure. Il consigliere Liviano riporta dati confusi e mischiati e definisce affidamenti diretti quelli che sono quasi sempre atti di conclusione di procedure di evidenza pubblica. Ora, come quando lui era Assessore al Turismo. I reali affidamenti diretti nel 2018, per esempio, sono solo due. Se il consigliere Liviano avesse richiesto all’Agenzia le informazioni di cui aveva bisogno, gli sarebbero state prontamente fornite in modo completo e probabilmente non avrebbe inteso le definizioni associate ai Cig (codici identificativi di gara), presenti sul DMS, come reali “affidamenti diretti”, ma come atti conclusivi delle procedure selettive, come realmente sono. Del resto è noto, invece, anche a tutti agli organi di stampa che ne hanno dato ampia diffusione, che ai bandi e alle procedure di evidenza pubblica di Pugliapromozione  – Inpuglia 365, infopoint, co-branding, educational, media Planning – hanno partecipato centinaia di imprese e di associazioni: dal 2016 al 2018  sono stati 909 i partecipanti a Inpuglia 365 fra imprese, associazioni e comuni per un totale di 3 milioni 627.541 euro.  Dal 2017 ad oggi sono stati 216 i partecipanti al bando per gli infopoint per un totale di 2 milioni 407mila euro; persino sugli educational Pugliapromozione effettua avvisi pubblici, perché riteniamo che attraverso una sana competizione tra i territori si può ottenere una migliore promozione dell’intera Puglia. E questo solo per fare alcuni esempi. Per ottenere le risorse di Pugliapromozione, insomma, concorrono i comuni, le imprese, le agenzie perché più ampia é la partecipazione e più si va verso la qualità delle proposte selezionate. Questo è stato l’indirizzo dell’Assessorato al Turismo e questa la strategia contenuta nel Piano strategico del Turismo. Perciò le accuse lanciate dal consigliere appaiono doppiamente lesive dell’immagine dell’Agenzia, della Regione e dell’intera Puglia con il suo comparto turistico”.

Questo, invece, il testo dell’interrogazione di Gianni Liviano:

“PREMESSO

– che come si evince dal sito agenziapugliapromozione,it, nella pagina indicata come bandi di gara e contratti: informazioni sulle singole procedure in formato tabellare, l’agenzia regionale Pugliapromozione ha aggiudicato nel periodo dal 1/1/2016 al 21/9/2018 un numero pari a 670 bandi per un ammontare complessivo di euro 15.833.225,22;

– che tali bandi sono stati così ripartiti:

1. anno 2018 n. 182 per un ammontare complessivo di euro 5.550.873,11;

2. anno 2017 n. 362 per un ammontare complessivo di euro 8.191.098,00;

3. anno 2016 n. 126 per un ammontare complessivo di euro 2.141.254,11;

– che nell’anno 2018 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:

1. n. 159 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 2.598.452;

2. n. 1 PROCEDURA risultante ancora APERTA per un totale di euro 408.900,00;

3. n. 2 PROCEDURE NEGOZIATA PREVIA PUBBLICAZIONE DEL BANDO per un totale di euro 269.881,14;

4. n. 19 PROCEDURE NEGOZIATE SENZA PUBBLICAZIONE DEL BANDO per un totale di euro 2.003.639,63;

5. n 1 PROCEDURA NEGOZIATA DERIVANTE DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 220.000,00;

– che nell’anno 2017 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:

1. n. 321 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA. AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 6.902.811,00;

2. n.1 PROCEDURA risultante ancora APERTA per un totale di euro 9.049,00;

3. n. 38 PROCEDURE negoziate PREVIA pubbl. bandi per un totale di euro 1.054.147,11;

4. n. 2 PROCEDURE ristrette derivanti da AVVISI con cui si indice la gara per un totale di euro 228.722,00;

– che nell’anno 2016 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:

1. 110 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 1.606.119,95;

2. n. 2 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: COTTIMO FIDUCIARIO per un totale di euro 28.000;

3. n. 3 PROCEDURE NEGOZIATE PREVIA PUBBLICAZIONE BANDO per un totale di euro 324.197,00;

4. N. 10 PROCEDURE RISTRETTE per un totale di euro 171.063,16;

5. N. 1 PROCEDURE NEGOZIATE SENZ A pubblicazione di bando per un totale di euro 11.875;

che pertanto nel triennio considerato, i dati risultano così aggregati:

1. n. 590 AFFIDAMENTI DIRETTI (88,05% dei bandi complessivi) per un totale di euro 11.110.383,29 euro (pari al 70% dell’importo complessivo erogato);

2. n. 43 PROCEDURE NEGOZIATE PREVIA PUBBLICAZIONE BANDO (6,42% deibandi complessivi) per un totale di euro 1.648.225 (pari al 10,41%);

3. n. 20 PROCEDURE NEGOZIATE SENZA PUBBLICAZIONE BANDO (2,98%) per un totale di euro 2.015.514,63 (pari al 12,73%);

4. n. 3 PROCEDURE NEGOZIATE DERIVANTI DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 428.722,00;

5. n. 10 PROCEDURE RISTRETTE per un totale di euro 171.063,16;

6. n. 2 AFFIDAMENTI A COTTIMO FIDUCIARIO per un totale di euro 28.000;

7. n. 2 PROCEDURE NEGOZIATE DERIVANTI DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 428.722;

8. n. 2 PROCEDURE APERTE per un totale di euro 417.949,00.

CONSIDERATO:

– che in molti casi non sono indicati sul sito i nomi di soggetti di impresa beneficiari di affidamenti diretti o di procedure negoziate previa pubblicazione dei bandi;

– che l’importo massimo di 40.000 per l’affidamento diretto risulta essere superato in svariate circostanze;

– che alcune società (a mero titolo esemplificativo si cita la società Protem srl e la società Salento d’amare) risultano essere svariate volte destinatarie di affidamenti diretti;

– che risultano essere destinatari di fondi alcune associazioni datoriali (Confindustria Lecce e Confartigianato Lecce p.e.s);

CHIEDE ALLA S.V.

– di conoscere le ragioni per cui sono state adottate queste modalità nell’aggiudicazione dei bandi;

– in particolare le ragioni per cui si è fatto un utilizzo così diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori a 40.000;

– se il rappresentante legale della società Protem è persona vicina a personaggi impegnati nel mondo della politica;

– quali sono le ragioni per cui risultano sul bando ancora aperte procedure nel 2017 (oltre che del 2018);

– quali sono le ragioni per cui nel sito non sono spesso indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi”. 

Il capogruppo di FI in Consiglio regionale, Rocco Palese, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Il Sindacato lavoratori della Comunicazione (Slc) aderente alla Cgil concorda come noi sull'illegittimità ed inutilità del progetto “Puglia Night Parade” 2008, puntando il dito accusatore sui benefici e sui ritorni dell'iniziativa tanto decantati dall'accoppiata Ostillio-Vendola, mente e braccio del più colossale spreco di denaro pubblico che la storia regionale ricordi e rileva che dei 6 milioni di euro della spesa prevista, solo il 5% (300.000 euro) andrà agli artisti pugliesi, mentre la parte da leone la faranno artisti di fama nazionale ed internazionale, il cui “peso" nel cast individuato è pari all'88%.

"Per giorni ho resistito alla tentazione di chiamare giornali e tv per dire ciò che penso sulla questione Notti Bianche regionali; ma essendo venuto a conoscenza di troppi particolari, non posso che gridare Vergogna! - Questo dice Mauro Arnesano, della “Notte Bianca” di Lecce... quella vera! - Per due anni consecutivi ho organizzato a Lecce l’evento “Notte Bianca”, che ha coinvolto ogni volta circa 300.000 persone, consentendo  a chiunque ha voluto aderire la possibilità di esserci, di farsi conoscere,  di divertirsi. Il tutto è stato sempre organizzato CON IL SOLO CONTRIBUTO DI PRIVATI, SENZA RICEVERE UN SOLO EURO NE’ DALLA REGIONE PUGLIA, NE’ DAL COMUNE DI LECCE, NE’ DALLA PROVINCIA DI LECCE. Le richieste di contributo non hanno avuto neanche l'onore di una risposta, sarebbe costata al massimo 60 centesimi di francobollo".

Oggi la Regione Puglia spende circa 6 MILIONI di Euro, di danari di tutti, per organizzare un evento “Le Notti Bianche Regionali”, il corrispondente dell’intera somma prevista per la cultura regionale nel quinquennio 2007-2013.

Io, nell’organizzare la Notte Bianca a Lecce, ho scelto una strategia completamente diversa: ho preferito 57 eventi gratuiti dislocati in tutta la città, coinvolgendo anche le periferie fino alle più tarde ore possibili (mission dell'evento, far vivere i luoghi della città di notte); ho scelto di promuovere gli  artisti locali (che rappresentavano il 90% dell’offerta culturale), anziché pagare solo quelli di fuori; ho coinvolto nell’apertura gli esercizi commerciali, ma anche  musei,  luoghi di interesse architettonico e culturale, Università,  Fondazioni, Enti, Associazioni di volontariato, culturali etc etc. Ho scelto un periodo morto, quando “non gira una lira”, ed ho saputo offrire il tutto esaurito ad alberghi, Ristoranti, Bar, Pub,  bed and breakfast ed anche alle Ferrovie dello Stato sulla tratta Roma-Lecce. Dopo tutto questo bel lavoro (che è stato possibile solo grazie alla collaborazione dei volontari, che non hanno preso un Euro ed hanno lavorato notte e giorno, con me per primo), qualcosa però abbiamo ricevuto dalla Regione, il patrocinio GRATUITO del Presidente della Regione Vendola  e dell'assessore Godelli: come si direbbe volgarmente in gergo, “se è gratis, ungimi tutto”….

Regione Puglia. L' assessore Capone querela il consigliere regionale Gianni Liviano, scrive Il Corriere del Giorno il 24 ottobre 2018. Anche l’ agenzia Pugliapromozione si riserva di procedere con ogni azione possibile a tutela della sua immagine., nei confronti del consigliere regionale tarantino del Gruppo misto, Gianni Liviano. “Dietro un’agenzia come questa, ci sono persone che ogni giorno si impegnano con passione e responsabilità, gestiscono fondi pubblici per la promozione turistica del territorio, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti, e sono profondamente colpite da affermazioni del tutto infondate che discreditano l’onorabilità personale e dell’ente”. Il consigliere regionale tarantino del Gruppo misto, Gianni Liviano, che è stato per un brevissimo periodo anche assessore della Giunta Emiliano, essendo stato eletto in una delle liste civiche a supporto della candidatura a Governatore di Michele Emiliano,  non si dà pace e continua a generare sospetti sugli appalti dell’ agenzia regionale  Pugliapromozione, attaccando l’assessore regionale alla Cultura e turismo, Loredana Capone (la quale ha sostituito proprio Liviano dopo le sue dimissioni alla guida dell’ assessorato)  accusandola di aver favorito alcuni soggetti, nella gestione dei fondi pubblici sul turismo. Quegli stessi fondi per cui il consigliere regionale tarantino a suo tempo dovette dimettersi. Il consigliere regionale tarantino ieri mattina in una conferenza stampa ha sostenuto che le sue sei interrogazioni relativamente alle partecipate regionali Pugliapromozione, Apulia Film Commission e Teatro Pubblico Pugliese sarebbero tutte rimaste senza risposta . Nelle sue interrogazioni Liviano poneva tutta una serie di interrogativi in relazione ad assunzioni, nomine dei componenti esterni, bandi e finanziamenti rivolgendosi anche al presidente del consiglio regionale, Mario Loizzo, ed al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, chiedendo se i bandi di gara contenessero requisiti ed elementi di valutazione obiettivi che garantiscano a chiunque partecipi pari opportunità e assenza di “valutazione privilegiata“. Liviano ha insistito ieri in particolare su un punto evidenziando “l’adozione con frequenza inaudita dell’affidamento diretto nella erogazione di fondi da parte delle partecipate regionali”. Livianoha chiesto inoltre “per quale ragione sono sempre frequenti i nominativi di alcune società e per quali ragioni alcune aziende risultano appartenenti sempre alle stesse persone, in una sorta di meccanismo a scatole cinesi. Vorrei anche sapere se è vero che alcune persone che hanno lavorato negli anni con l’assessore Capone sono dipendenti, hanno o hanno avuto delle prestazioni lavorative con alcune di queste società“. Non contento delle gravi accuse mosse al termine della conferenza stampa Liviano ha voluto anche polemizzare con il presidente Emiliano: “Ha parlato di sforzo da parte dell’Agenzie di superare le rigidità burocratiche e mi fa specie che un presidente della Regione, per di più magistrato, immagini che le leggi siano delle rigidità burocratiche, ma comprendo che a seconda dell’opportunità del momento valga tutto ed il contrario di tutto“. Con una nota l’assessore regionale alla Cultura e al Turismo Loredana Capone oltre ad annunciare delle azioni legali, ha replicato alle gravi affermazioni odierne del consigliere regionale Gianni Liviano: “Il consigliere Liviano ha varcato ogni limite di tolleranza e di pazienza. Sino a quando si esercitano le legittime prerogative del consigliere rispetto all’azione amministrativa della Giunta e degli Assessori è un discorso, ma quando la critica politica si trasforma, come in questo caso, in gravissime illazioni e si attaccano direttamente le persone, allora non può essere tollerata, specie da chi, come me, ha sempre improntato il proprio operato all’onestà, alla legittimità ed alla correttezza dei comportamenti. Sono costretta, pertanto, ad intraprendere ogni azione giudiziaria, civile e penale nei confronti del consigliere Liviano a tutela del mio buon nome, del mio operato e dell’immagine dell’Assessorato che rappresento“. L’ assessore Capone  prosegue nella sua nota: “In merito alle 7 interrogazioni del consigliereGiovanni d’Arcangelo Liviano  nonostante ne abbia appreso l’esistenza dai suoi comunicati stampa, ho chiesto subito alle agenzie regionali, Pugliapromozione, Apulia Film Commission eTeatro Pubblico Pugliese, di fornirmi una dettagliata relazione in merito alle richieste e alle osservazioni del consigliere, impegnando su ogni opportuna verifica anche il dirigente della sezione competente“. La Capone conclude la sua nota precisando inoltre che “Ho già inoltrato le risposte alle prime interrogazioni  inerenti il Teatro Pubblico Pugliese ed Apulia Film Commission ed attendo il completamento dell’istruttoria di Pugliapromozione per inoltrare le altre“. A confutare le gravi accuse di Liviano, anche una nota di Matteo Minchillo Direttore Generale di Pugliapromozione: “Il Consigliere D’Arcangelo Liviano è confuso e dice cose incoerenti con la realtà. Oggi in conferenza stampa è tornato a parlare delle presunte irregolarità relative all’aggiudicazione dei bandi di Pugliapromozione. Sostiene, infatti, che dei 670 «bandi» di Pugliapromozione, 590 sarebbero affidamenti diretti. Ha detto bene: bandi. Il che vuol dire che il consigliere sa che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica. Perché le definizioni associate ai Cig (codici identificativi di gara), presenti sulla piattaforma DMS(Destination Management System), non sono sempre “affidamenti diretti», ma soprattutto atti conclusivi di procedure selettive“. “Le sue illazioni – prosegue  la nota di Matteo Minchillo– sono sconfessate dai dati. Dal 2016 al 2018 gli affidamenti diretti sono stati solo il 7,6% del totale, le gare il 78,6% mentre il 13,8% affidamenti ad esclusivisti (Fiera di Rimini, Fiera di Milano Bit, ecc.). Per quanto riguarda l’avvicendamento delle imprese affidatarie, su cui Liviano mostra delle perplessità, un dato per tutti: dal 2012 la percentuale di rotazione è di oltre 70%. D’altra parte il consigliere Liviano afferma che negli affidamenti diretti «il più gettonato» sarebbe un gruppo di società; di fatto gli affidamenti alle società di tale gruppo incidono sul monte totale nell’ultimo triennio per lo 1,86%“. “Puntualmente l’Agenzia sta ultimando le relazioni richieste dall’Assessore in riscontro alle interrogazioni del Consigliere Liviano a cui sarà data risposta in sede di Consiglio regionale. – conclude la nota del Direttore Generale Minchillo.  “Nel frattempo l’Agenzia Pugliapromozione si riserva di procedere con ogni azione possibile a tutela della sua immagine. Dietro un’agenzia come questa, ci sono persone che ogni giorno si impegnano con passione e responsabilità, gestiscono fondi pubblici per la promozione turistica del territorio, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti, e sono profondamente colpite da affermazioni del tutto infondate che discreditano l’onorabilità personale e dell’ente”.

Striscia la Notizia 24 novembre 2018 il servizio di Pinuccio sull’appaltopoli pugliese. Pinuccio intervista l’Avv. Loredana Capone, Assessore Turismo e Cultura della Regione Puglia.

Pinuccio all’esterno sulla spiaggia: Carissimi amici ritorniamo a parlare di appalti in Puglia. Qualche tempo fa vi abbiamo fatto vedere alcune società con nomi di fantasia: Polpo, Pasticiotto, Riccio che erano tutte collegate alle stesse persone...ad una stessa società, che si chiama Protem. Abbiamo cominciato a fare questi servizi perché l’organo interno di valutazione della Regione aveva sollevato alcuni dubbi rispetto alla rotazione delle aziende che vincevano appalti, soprattutto in alcuni settori: quelli della Cultura e del Turismo. A questo punto andiamo a parlare con l’assessore che si occupa di turismo e cultura per avere dei chiarimenti. No Sabino?

Sabino: sono emozionato.

Capone: Gli affidamenti diretti sono una percentuale minima, mediamente il 7, 6% nel corso del triennio. Il resto sono procedure di gare o procedure negoziate.

Pinuccio: anche sulle procedure negoziate, diciamo, non è proprio trasparente il sito. Perché diciamo che nella procedura negoziata io vorrei sapere chi partecipa.

Capone: appunto è tutto qui guardi.

Pinuccio: E sì però non è online.

Pinuccio all’esterno: l’organo di valutazione interna dice un fatto, lei ne dice un altro.

Sabino: se la vedessero loro.

Pinuccio all’esterno: se la vedessero loro, però poi ci sono state anche delle interrogazioni che hanno sollevato alcuni dubbi all’interno dell’assegnazione dei bandi di “Puglia Promozione”, che è quest’ente che si occupa di turismo che dipende sempre dallo stesso assessorato. E si sono fatte, anche, in queste interrogazioni dei nomi. Dei nomi di persone che sono di Protem, questa società, e che però vengono accostate alla Capone. Ovvero: Conte e Martella. Li conosci Sabino?

Sabino: non li conosco…(parafrasando Mina)

Pinuccio all’esterno: però queste persone vengono taggate nelle foto della Capone in campagna elettorale. Sai che vuol dire?

Sabino: non conosco questo tago.

Pinuccio all’esterno: no, taggato vuol dire ti taggo, così poi magari vieni, vieni a vedere, così il fatto. Queste due persone l’assessore le conosce.

Pinuccio: è curioso, è una coincidenza vedere che alcuni dello staff elettorale che l’hanno appoggiata anche in campagna elettorale si trovano a lavorare in queste aziende.

Capone: una cosa sono le coincidenze, una cosa è la legalità. Per noi vale la legge. E non ci sono coincidenze che tengano.

Pinuccio: diciamo che è gente che lei può avere incontrato come ha incontrato migliaia di persone.

Pinuccio all’esterno: Sabino, allora sarà pure una coincidenza che ha fatto la testimone di nozze a Martella insieme a Conte.

Sabino: sicuro?

Pinuccio all’esterno: e che cosa ti devo dire.

Capone: quando lei ha fatto il servizio che io ho visto e di cui la ringrazio, ho chiesto subito chiarimenti a Puglia Promozione e devo dire anche all’ufficio, perchè potesse fornirmi, diciamo, delucidazioni, rispetto a queste aziende che sembrano collegate dal suo…

Pinuccio: parliamo del gruppo Protem. Sono collegate. Sono le stesse persone del gruppo di amministrazione.

Capone: ecco. Questi chiarimenti sono stati forniti con una nota che abbiamo depositato, proprio in risposta anche all’interrogazione, che poi il giorno dopo è stata fatta.  Ed emerge come la procedura è stata fatta nella piena legalità. Se ci sono, come dire, delle elusioni della norma, di quello si tratterebbe. Ben venga che magari ci sia un regolamento ancora più intransigente. Ancora più, come dire, stringente, relativamente a questa opportunità. Però sempre rispettando il codice degli appalti, perché altrimenti avremmo il caso contrario. Avremmo il ricorso da parte delle imprese.

Pinuccio: qua si parla di opportunità.

Pinuccio all’esterno: Un’altra coincidenza è che del gruppo Protem, di queste società, uno dei soci che vediamo spesso è Gabriele Torricelli, che è il vice segretario cittadino di Lecce del PD. Sabino questo lo deve conoscere per forza.

Sabino: io non ti conosco…

Capone: io conosco Torricelli Gabriele senz’altro. Sta ne PD. Io sono del PD ed ovviamente sono assessore regionale che è eletta in quel collegio. Ma questo prescinde totalmente dal mio rapporto con le agenzie e con le gare.

Pinuccio all’esterno: Va bè. Questo lo conosce, però la legge. Tutto legale. Non centra niente con le società.

Sabino: conoscere non vuol dire amare.

Pinuccio all’esterno: va bè, però c’è una coincidenza strana. Quando la Capone diventa assessore allo sviluppo economico nasce la Protem, che si occupa di software e in qualche modo lavora con l’assessorato. Quando la Capone è diventata assessore al turismo nascono due società con le stesse persone, che si occupano di turismo ed ottengono finanziamenti da Puglia Promozione, ovvero dall’assessorato al turismo.

Sabino: io non ti conosco…

Pinuccio all’esterno. Adesso parliamo di altre due società riconducibili ad una stessa persona che si chiamano Password Ad e 365 giorni in Puglia. Anche queste lavorano con Puglia Promozione, ma queste, Sabino, le deve conoscere per forza.

Sabino: io non ti conosco…non so chi sei…

Pinuccio: La società Password Ad le dice qualcosa?

Capone: …no!

Pinuccio: è colei che ha comprato il dominio del sito “LoredanaCapone.it” e lavora con Puglia Promozione. Anche questa è una coincidenza che però….

Capone: Password Ad….

Pinuccio: Puglia 365….non le dice niente? Sono due società gemelle.

Capone: non conosco. Non lo gestisco neanche direttamente. Quindi…non conosco questa persona.

Pinuccio: lo gestisce una società, comunque…

Capone: nel senso che è il dominio...no, no…

Pinuccio: il sito lo gestisce un’altra società.

Capone: no! Nel senso che c’è una società che ha il dominio, di cui, oggettivamente, non ricordo neppure il nome, perché feci una cool ed ha vinto questa società.

Pinuccio fuori capo: sono titolari del suo sito personale, ma non li conosce. Quindi è un poco ingrata, Sabino…

Sabino: mi spiace ma non li conosco

Pinuccio all’esterno: Sabino, non si ricorda. Ora gli facciamo vedere un video, in cui si capisce che lei e il titolare di queste aziende si conoscono.

Sabino: io non li conosco…

Pinuccio all’esterno: vedete, qui a sinistra, c’è il titolare di Password AD e sentite la Capone cosa dice: “tre anni fa…no quattro anni fa andai a vedere…Diciamo, ho ricevuto Nevio che mi ha chiesto: ma perché la regione non si interessa alla nostra fiera?”

Pinuccio all’esterno: Adesso parliamo di una persona che conosce sicuramente: Alessandra Caiulo, che in queste foto di facebook di Loredana Capone faceva parte del suo staff in campagna elettorale. Questa persona ha delle consulenze al Teatro Pubblico Pugliese, che è un altro ente che dipende dall’Assessorato alla Cultura ed il Turismo e nel 2016 ha avuto una consulenza da Puglia Promozione per seguire un evento della Protem cofinanziato da Puglia Promozione. Pure l’evento, Sabino…

Sabino: questa neppure la conosco…

Pinuccio all’esterno: Tutto legale…

Capone: Alessandra Caiulo lavora con una attività in Teatro Pubblico Pugliese e segue tutte le attività culturali che noi facciamo con il Teatro Pubblico Pugliese. Quindi è frequentemente accanto a me perché si occupa proprio della comunicazione culturale proprio in virtù di questo ruolo che svolge.

Pinuccio all’esterno: Sabino, allora sono solo rapporti istituzionali con questa persona. Però nelle foto che adesso vediamo, insomma, sembrano un poco amiche. Sta pure questo video boomerang. Abbiamo trovato una intervista alla Caiulo, in cui lei stessa conferma di essere addetto stampa dell’assessore dal 2011. Ma è addetto stampa dell’assessore o è consulente del Teatro Pubblico Pugliese?

Sabino: boh…non ho capito!

Pinuccio all’esterno: Però noi ci poniamo una domanda: tutto legale, sì, però è una questione di opportunità. Ovvero: è opportuno che persone che hanno fatto parte dello staff elettorale di un politico, in questo caso di un assessore, poi si ritrovano ad orbitare nell’attività dell’assessorato? Sabino vuoi dire qualche cosa?

Sabino: io non ti conosco...non so chi sei?

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

Pur battendosi per la legalità, Antonio Giangrande è colpito da ritorsione, indifferenza ed ingratitudine. Non una novità per le cose umane.

|11. Giunto in una città, incontrò dieci lebbrosi che stavano ai margini della strada. Ed alzarono la loro voce dicendo: "Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!”

12. E vedendoli, Egli disse loro: "Andate e mostratevi ai sacerdoti.” Ed avvenne che, mentre se ne andavano, furono purificati. Ed uno di loro, vedendo di essere guarito, tornò indietro e lodò Dio a gran voce e si prostrò col volto a terra davanti a Gesù, ringraziandoLo. Ed era un Samaritano.
13. E Gesù disse: "Non erano dieci ad essere purificati? Dove sono gli altri nove? Costoro non sono tornati indietro e non hanno lodato Dio come questo straniero.” E gli disse: "Alzati e vai per la tua strada. La tua fede ti ha risanato.” (Luca 17, 11-19)|

“L'ITALIA DEL TRUCCO, L'ITALIA CHE SIAMO” - è la sua opera. Il libro bianco delle illegalità sottaciute, pedagogico ed informativo, riporta il sunto coordinato delle tematiche approfondite da libri ed inchieste giornalistiche, dati e documenti ufficiali. Tematiche di pubblico interesse nazionale, sezionate per argomento e per territorio, contenute sui portali associativi.

Nel libro si svelano gli abusi e le omissioni del sistema di potere e le collusioni e le omertà di una società civile codarda o indifferente. Dietro la normalità propinata, si nasconde un'evidenza innegabile: un'Italia, da Nord a Sud, fondata sul trucco e sull'inganno.

Gli argomenti trattati sono le anomalie pertinenti: Politica e Pubblica Amministrazione; Mafia e Giustizia; Welfare; Economia; Informazione; Istruzione; Ambiente e Sport.

Verità oggettive che nessun editore ha voluto pubblicare e nessun organo mediatico ha voluto pubblicizzare. Verità nascoste o dimenticate che rappresentano un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e tacere.

Egli per la sua attività si è posto in contrasto con i magistrati che svolgono il loro mandato con abusi ed omissioni, impuniti e sottaciuti.

La ritorsione non si è fatta attendere.

Le sue denunce in autotutela: tutte insabbiate.

L’abilitazione all’avvocatura impedita dalle annose bocciature all’esame forense, i cui compiti non erano corretti, ma falsamente dichiarati tali dai commissari denunciati.

La sua reputazione violata da tanti procedimenti penali, senza che vi sia stata mai condanna definitiva: per aver svolto l’attività forense; per essersi difeso da un’aggressione; per aver denunciato infiltrazioni mafiose o per aver denunciato sinistri falsi o perizie giudiziarie false; per  aver denunciato gli insabbiamenti o per aver denunciato errori giudiziari.

Comunque, aldilà della reazione dei magistrati abituati ad essere venerati e non contestati, vi è stato riscontro istituzionale:

dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che apre il procedimento "Giangrande contro Italia";

dalla Commissione Europea, che ha mostrato interesse;

dal Presidente della Repubblica, che ha chiesto chiarimenti al C.S.M.;

dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che concorda e si attiva;

dal Presidente della Corte d'Appello di Potenza, che investe le autorità  giudiziarie locali contro gli insabbiamenti;

dal Commissario Straordinario del Governo per il Coordinamento Delle Iniziative Antiracket ed Antiusura, che invita a relazionare sui problemi antimafia in una conferenza di Prefetti; 

dai migliori parlamentari che si sono degnati di dare riscontro, pur infruttuoso, al contrario della stragrande maggioranza dei loro colleghi.

Si evince che i nostri rappresentanti politici, specie meridionali, se ne fregano dei problemi dei loro cittadini. Ci sono 5 interrogazioni parlamentari:

1......... del deputato Augusto Di Stanislao, IDV, XVI legislatura, per l'esame forense truccato, che impedisce l'abilitazione del dr Antonio Giangrande;

2......... del deputato Giampaolo Fogliardi, PD, XVI legislatura, per l'esame forense truccato, che impedisce l'abilitazione del dr Antonio Giangrande e per l'impedimento all'accesso al 5x1000 a danno dell'associazione contro tutte le mafie;

1......... del senatore Giovanni Russo Spena, R.C, XV legislatura, per la censura Rai a danno dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

1......... del senatore Euprepio Curto, AN, XIV legislatura, sullo stato della malagiustizia a Taranto, con atti ritorsivi a danno del dr Antonio Giangrande.

“Un uomo deve chiedersi cosa può fare per lo Stato e non chiedersi cosa lo Stato può fare per lui. Un uomo fa il suo dovere, a dispetto delle conseguenze personali, nonostante gli ostacoli, i pericoli e le pressioni, e questo è il fondamento della moralità umana; in qualsiasi sfera dell'esistenza un uomo può essere costretto al coraggio, quali che siano i sacrifici che affronta seguendo la proprio coscienza: la perdita dei suoi amici, della sua posizione, delle sue fortune e persino la perdita della stima delle persone che gli sono care. Ogni uomo deve decidere da sé stesso qual è la via giusta da seguire; le storie che si raccontano sul coraggio degli altri ci insegnano molte cose, possono offrirci una speranza, possono farci da modello, ma non possono sostituire il nostro coraggio... per quello ogni uomo deve guardare nella propria anima. John Fitzgerald Kennedy” ( citazione, spesso, ripresa da Giovanni Falcone).

L’autore del libro è Antonio Giangrande, nato e cresciuto in Italia. Nato perdente per destino, perché figlio di gente povera ed onesta. Ogni suo tentativo di cambiare le sorti dei propri simili è fallito. Denunciare gli abusi e le omissioni perpetrate contro i più deboli, informare i cittadini in tutta Italia della realtà taciuta ed impunita e proporre norme di intervento legislativo, (tra cui "Una Repubblica democratica e federale fondata sulla libertà, l'uguaglianza e la solidarietà, con vincolo di mandato per i rappresentanti politici e di responsabilità per tutti i funzionari amministrativi e giudiziari" e "Istituzione obbligatoria del Difensore Civico amministrativo e giudiziario"), si è scontrato con il radicato sistema di potere, che prende forza dalla codardia e dalla collusione degli italiani, pronti a chiedere aiuto, ma poco inclini a darlo. Unico risultato concreto conseguito è l’indifferenza e la ritorsione, con l’impedimento alla professione forense e al lavoro, l’insabbiamento delle sue denunce circostanziate e provate e la persecuzione calunniosa per reati inesistenti, ostacolandone la difesa. Inutile il tentativo di palesare l'evidenza della realtà. Per i carabinieri di Avetrana e Manduria è un mitomane sol perché ha denunciato abusi ed omissioni; per gli amministratori di Avetrana e della Regione Puglia non degno di attenzione sol perché ne ha denunciato i loro misfatti; per il giudice di Manduria è inattendibile sol perché ha denunciato un sistema di malagiustizia; per i Pubblici Ministeri di Taranto e Brindisi è diffamatore sol perché ha denunciato il loro sistema di insabbiamenti; per il Commissariato di Manduria e la Prefettura di Taranto non degno di avere il porto d'armi per difesa personale, pur essendo, forse, l'unico a meritarlo, tenuto conto dell'attenzione che le cosche di tutta Italia gli pongono. Tutto ciò è avvenuto nonostante ricoprisse anche incarichi pubblici: ad Avetrana è stato il primo presidente di circolo di Alleanza Nazionale; è stato il primo vicepresidente provinciale di Taranto dell'Italia dei Valori; è stato il primo presidente provinciale di Taranto dell'Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati.

A chi gli chiede perché lo fa, lui risponde: « Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Sono il virus della verità che infetta le coscienze. Verità nascoste o dimenticate che rappresentano un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione. Chi si ribella come me ad uno stato di cose, in cui il vincente è destinato ad esserlo ancora di più ed il perdente è condannato ad esserlo ancora di più, è emarginato, condannato, affamato o ucciso. Non è sbagliato quello che dico, ma è sbagliato il posto in cui lo dico. Purtroppo qualcuno lo deve fare, perché il male vince dove il bene rinuncia a combattere. Solo i combattenti le battaglie giuste in una esistenza utile prestata ad aiutare gli altri, diventano eroi. Se soccombono sono Martiri. In una moltitudine di esistenze omologate, colluse o codarde, fotocopia di un modello comune imposto dal potere mediatico genuflesso a quello politico ed economico, il martirio rende immortali e indimenticati ».

Egli è Presidente nazionale dellAssociazione Contro Tutte Le Mafie, ONLUS, la più grande ed importante associazione d’Italia contro le illegalità, le ingiustizie e l’omertà. E’ casa madre di molti sodalizi monotematici territoriali, che usufruiscono di visibilità e coordinamento nazionale. Formalmente si è costituita con atto pubblico il 26 novembre 2004. E’ riconosciuta dal Ministero dell’Interno. L’iscrizione nell’elenco dei sodalizi antiracket ed antiusura, avvenuta il 13 febbraio 2006 con quasi 100 aderenti, per obbligo di legge è solo presso la Prefettura di Taranto, competente sulla sede legale, ma ciò non è d'impedimento all'associazione nel dare assistenza e consulenza a cittadini di altre province e regioni, ai quali manca un riferimento. L’Associazione nel tempo, tramite il web, operando in tutta Italia a favore delle vittime di tutte le mafie, contro caste e lobby, mafie e massonerie, ha aumentato le sue adesioni e meritato stima e attenzione da parte dei media, ma non delle istituzioni, specie quelle territoriali, che la emarginano. Nonostante ciò, data la peculiare attività, l’Associazione ha un rapporto diretto e privilegiato con il Commissario Straordinario del Governo per il Coordinamento delle Iniziative Antiracket ed Antiusura. Tra le altre cose, essa partecipa alla Conferenza Interregionale dei Prefetti del Sud – Italia. Essa partecipa al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica.

L’Associazione Contro Tutte Le Mafie, tramite il suo presidente dr Antonio Giangrande, ai sensi dell’art. 21 e 118, comma 4, della Costituzione, svolge attività di interesse generale e di pubblica utilità. La sua attività è basata sull’informazione, sulla denuncia e sulle proposte. In Italia, se tutte le associazioni di volontariato si adoperano a sopperire agli effetti della inefficienza del sistema pubblico, l’Associazione Contro Tutte Le Mafie è l'unica che, riconoscendone le responsabilità, ne combatte le cause. Per questo motivo spesso è sottoposta a ritorsioni, fin anche a subire, con atti illegali, la censura del sito web informativo.

Il libro è stato adottato da  molti istituti scolastici statali superiori, per discuterne le problematiche in gruppi di studio o di lettura.

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Un mondo dove ci sono solo obblighi e doveri. Un mondo dove ci sono solo divieti, impedimenti e, al massimo, ci sono concessioni. Un mondo dove non ci sono diritti, ma solo privilegi per i più furbi, magari organizzati in caste e lobbies. In un mondo come questo, dove tutti ti dicono cosa puoi o devi fare; cosa puoi o devi dire; dove l’uno non conta niente, se non essere solo un mattone. In un mondo come questo che mai cambia, che cazzo di vita è.

Pink Floyd – Another Brick In The Wall. 1979

Part 1 (“Reminiscing”) ("Ricordando")

Daddy’s flown across the ocean – Papà è volato attraverso l’oceano.

Leaving just a memory – Lasciando solo un ricordo.

Snapshot in the family album – Un’istantanea nell’album di famiglia.

Daddy what else did you leave for me? – Papà cos’altro hai lasciato per me?

Daddy, what’d’ja leave behind for me?!? – Papà, cos’hai lasciato per me dietro di te?!?

All in all it was just a brick in the wall. – Tutto sommato era solo un altro mattone nel muro.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

“You! Yes, you! Stop steal money!” – “Tu! Si, Tu! Smettila di rubare i soldi!”

Part 2 (“Education”) ("Educazione")

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We dont need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers, leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei soltanto un altro mattone nel muro.

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We don’t need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei solo un altro mattone nel muro.

“Wrong, Do it again!” – “Sbagliato, rifallo daccapo!”

“If you don’t eat yer meat, you can’t have any pudding. – “Se non mangi la tua carne, non potrai avere nessun dolce.

How can you have any pudding if you don’t eat yer meat?” – Come pensi di avere il dolce se non mangi la tua carne?

“You! Yes, you behind the bikesheds, stand still laddy!” – “Tu! Sì, tu dietro la rastrelliera delle biciclette, fermo là, ragazzo!”

Part 3 (“Drugs”) ("Droghe-Farmaci")

“The Bulls are already out there” – “I Tori sono ancora là fuori”.

“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!” – “Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!”

“This Roman Meal bakery thought you’d like to know.” – “Questo è un piatto Romano al forno, pensavo che lo volessi sapere.”

I don’t need no arms around me – Non ho bisogno di braccia attorno a me.

And I dont need no drugs to calm me. – E non ho bisogno di droghe per calmarmi.

I have seen the writing on the wall. – Ho visto la scritta sul muro.

Don’t think I need anything at all. – Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

No! Don’t think I’ll need anything at all. – No! Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

All in all you were all just bricks in the wall. – Tutto sommato eravate tutti solo mattoni nel muro.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Di seguito l’inchiesta di Marianna Gianna Ferrenti pubblicata su “L’Indro” il 17 maggio 2016. “La storia della Repubblica tra gli anni Settanta e Ottanta, fino al 1993, è stata macchiata da alcuni clamorosi depistaggi che hanno alterato, con modalità diverse, il percorso delle indagini riferite ad alcuni eccidi più sanguinari. Una macchia oscura che con le sue metastasi si estende all’Italia di oggi. Dalle stragi di Bologna e di Piazza Fontana a Milano, fino a quella di Piazza della Loggia a Brescia. Dall’omicidio di Aldo Moro a quello di Peppino Impastato, sino al mistero che avvolge il ritrovamento dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e alla Trattativa Stato-Mafia, tanti sono stati i tentativi di inquinare le prove o di occultare la documentazione che avrebbe potuto rappresentare un tassello importante per scoprire tutta la verità, senza strascichi o zone d’ombra. Antonio Giangrande, sociologo e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore di numerosi libri sulle più grandi stragi del passato, tra cui “‘Aldo Moro. Quello che si dice e quello che si tace’ esprime numerose perplessità sul Disegno di Legge in questione. “Dopo tanti anni ancora non sappiamo la verità su una vicenda storica che ha cambiato l’Italia. L’esigenza della verità su un fatto storico, induce le persone offese dal reato, da singoli o in associazione, a pretendere più la punibilità dell’ostracismo, che la conoscenza della stessa verità. Il legislatore, da parte sua, prima o poi, questa esigenza la soddisfa”. È risaputo, infatti, che molti lati oscuri di queste inchieste, che hanno portato alla decelerazione, affievolimento o addirittura al fermo delle indagini derivano proprio dalla mancata collaborazione di pubblici ufficiali con l’autorità giudiziaria, come testimoniano numerosi dossier  (dossier mitrokhin, dossier Ustica, i documenti sui depistaggi nella strage di Bologna e molti altri ancora). L’11 maggio è stato approvato in Commissione Giustizia un DDL che predispone le condizioni per introdurre nell’ordinamento giuridico il reato di depistaggio e di inquinamento processuale. Il provvedimento prevede l’introduzione di pene detentive dai 6 ai 12 anni per chi, con modalità diverse, depista le indagini, e si arriva 20 anni di carcere, con applicazione della pena massima, nel caso in cui intervengano particolari aggravanti, come il coinvolgimento di persone innocenti. Saranno considerate inoltre tutte le aggravanti che vanno dal traffico illegale di armi o del materiale nucleare, chimico o biologico, fino al favoreggiamento di attività terroristiche. L’attuale relatore del provvedimento, Felice Casson (Pd) annuncia che il provvedimento sarà calendarizzato sicuramente per la fine del mese e puntualizza che dovrà comunque tornare alla Camera perché sono state apportate alcune sostanziali modifiche al testo originario. Per esempio l’inasprimento delle pene se a commettere il reato è un pubblico ufficiale. Eppure Giangrande non è affatto convinto che il Disegno di Legge apporterà dei cambiamenti significativi, soprattutto in relazione alla scoperta della verità sulle stragi passate e presenti, ma neppure configura degli elementi di chiarezza in una prospettiva futura. “Non è una norma aggiuntiva a quelle già esistenti ad indurre l’autore del depistaggio o dell’inquinamento processuale a cambiare comportamento o a far conoscere l’agognata verità. Il Codice Penale italiano prevede già la calunnia, la falsa perizia, la falsa testimonianza, la falsa informazione al Pubblico Ministero od al difensore, la frode processuale o il favoreggiamento processuale. La novella speciale si aggiunge alle precedenti, affidandosi all’interpretazione delle toghe per la sua applicazione. Inoltre, applicata all’autore del reato primario, come concorso del reato, potrebbe in alcuni casi aggravare la pena, tanto da farla diventare non proporzionale al fatto commesso” chiarisce il sociologo. Tra gli aspetti preminenti del provvedimento vi è anche la reclusione fino a quattro anni per chiunque impedisca, ostacoli o svii un’indagine o un processo penale, anche attraverso l’occultamento delle prove o l’alterazione della documentazione, con un inasprimento della pena (da un terzo alla metà) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale. La pena invece è diminuita dalla metà a due terzi nei confronti di coloro che si adoperano a ripristinare lo stato originario dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove, o ad evitare che il delitto commesso comporti d ulteriori conseguenze. In pratica, la riduzione della pena è prevista per coloro che collaborano con la Polizia o l’autorità giudiziaria per ricostruire il fatto che ha causato l’inquinamento processuale e per identificarne gli autori. L’Indro su questo Disegno di Legge ha interpellato anche uno dei relatori del provvedimento, il senatore Nico D’Ascola (AP), che ha seguito gran parte del percorso legislativo conclusosi con l’approvazione del testo in Commissione Giustizia. Gli abbiamo chiesto le motivazioni che hanno allungato i tempi di approvazione, tenendo conto che si tratta di un provvedimento già approvato alla Camera nel settembre 2014. Sembrava aver subito un blocco dei lavori al Senato, fino a quando non è stato assegnato alla Commissione competente nel luglio 2015. D’Ascola riferisce la difficoltà di dover intervenire su una materia così complessa come quella che riguarda norme del diritto penale incriminatrici e fortemente limitative della libertà personale. Ma ammette che una volta superati gli ostacoli tecnico-giuridici, il proseguo dell’iter parlamentare è stato in discesa. Non ci sarebbe stato quindi alcun conflitto di natura politica, tant’è che l’11 maggio il provvedimento è stato approvato all’unanimità. Tra gli aspetti che il provvedimento prende in considerazione vi è la proporzionalità del reato in relazione sia alla sua gravità sia allo stato di luogo, di cose o di persone. “Il depistaggio nasce sostanzialmente da una sommatoria tra le falsità processuali e la falsa testimonianza. Si punisce separatamente la condotta di chi abbia commesso depistaggio durante l’attività processuale, ovvero abbia reso falsa dichiarazione o taciuto con falsa testimonianza circostanze rilevanti, con attività di inquinamento durante la fase di accertamento del giudice. Il depistaggio, inoltre, è aggravato se commesso in relazione a procedimenti dedicati all’accertamento di reati particolarmente gravi” aggiunge D’Ascola. In pratica, viene punita soltanto la fattispecie in cui vi è l’intenzionalità a compiere un reato, magari per favoreggiare persone o organizzazioni criminali. È proprio su questo, secondo Giangrande, che il Disegno di Legge non interviene adeguatamente per punire, in proporzione alla gravità del fatto commesso, chi colposamente commette delle gravi imperizie che ostacolano, impediscono o fuorviano il proseguo delle indagini. “Il provvedimento non aggiunge niente di nuovo all’effetto sperato. D'altronde si dà sempre per scontato che l’opera degli inquirenti e degli investigatori sia meritoria. La carenza strutturale è che non si prevede la punibilità del responsabile delle indagini che durante le sue funzioni abbia trascurato per "Colpa" degli elementi probatori essenziali e non rinnovabili alla soluzione del caso ed alla conoscenza della verità. Questo affinché l’impunità dello stragismo non sia impunità di Stato” commenta il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Su questo aspetto, però, D’Ascola obietta che “punire una sottovalutazione per colpa, cioè di un soggetto che non si è reso conto dell’importanza dell’elemento investigativo, magari sulla base d elementi intervenuti successivamente ai fatti contestati, creerebbe un circuito mostruoso di presunzioni. Francamente, mi sembrerebbe fortemente limitativo della libertà dell’investigatore. Non credo che nessun ramo del Parlamento avrebbe avallato una impostazione di questo genere. Poi, nel caso in cui si verificano gravi imperizie, imprudenze o negligenze da parte di un investigatore, un Pubblico Ministero o un giudice c’è già la responsabilità disciplinare o civile, che interviene a seconda del contesto, del tipo di antigiuridicità, valutando se ci sono degli elementi illeciti rispetto ai quali commisurare una sanzione. In certi casi, la sottovalutazione può essere del tutto incolpevole” precisa il senatore. Arriviamo quindi all’aspetto politico della vicenda legata all’occultamento delle prove o all’universo delle omissioni, delle bugie o alla distruzione di materiale che poteva essere utile allo svolgimento delle indagini. Pur non essendoci elementi che facciano pensare ad un coinvolgimento diretto di influenze politiche nel depistaggio delle indagini, esistono delle comprovate connivenze, per esempio, tra alcune frange estreme della politica e alcune associazioni criminali o terroristiche. La vicenda del rapimento di Aldo Moro e della conseguente uccisione ne è la dimostrazione lampante, ma anche la strage di Piazza Fontana a Milano su cui “le indagini si susseguiranno nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e neo-fascisti; tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria” argomenta Giangrande.  O ancora, sulla Strage di Piazza della Loggia a Brescia, le indagini si protrarranno a lungo, per ben 41 anni. “Nella strage dalla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, si giunse ad una sentenza definitiva della Corte di cassazione il 23 novembre 1995. Vennero condannati all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, i neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti (mentre hanno ammesso e rivendicato decine di altri omicidi, con l'eccezione di quello di Alessandro Caravillani, di cui la Mambro si dice innocente” chiosa il sociologo. Per Giangrande la vera falla di questo provvedimento è che interviene semplicemente per punire coloro che depistano le indagini, ma non contribuisce in alcun modo alla scoperta della verità. Inoltre non interviene sulle complicità istituzionali, che non sono quelle strettamente legate al mondo politico, come si potrebbe pensare, ma sono ad esempio legate ai Servizi Segreti. “I politici nel tempo cambiano e se fossero loro gli influenzatori o gli occultatori, prima o poi uno di loro canterebbe. Credo che si debba intervenire di più sulla capacità investigativa e sulle complicità istituzionali ed avere diritto a dirlo quando questi sono carenti o devianti e porvi rimedio. Cosa diversa è il mea culpa che la stampa dovrebbe farsi. Un buon cane da guardia della democrazia, se fosse all’altezza della sua autocelebrazione, la verità la scoverebbe al posto degli inquirenti incapaci o delle istituzioni deviate, come fosse un osso nascosto. Senza partigianeria” sottolinea il presidente dell’associazione Contro Tutte le Mafie. All’interno del provvedimento non è prevista la retroattività che, come sostiene il relatore Nino D’Ascola, sarebbe incostituzionale. Tuttavia se fosse stato introdotto molti anni fa, secondo il presidente dall’associazione ‘Tutte le mafie’, non sarebbe cambiato molto nel proseguo delle indagini sulle più grandi stragi del passato. “Non sono le aspettative della piazza a far cambiare le cose, ma la consapevolezza che le norme sono solo frasi in nero su foglio bianco. Quando qualcuno sarà veramente libero di scrivere o parlare e gli sarà permesso di farlo senza ritorsioni, allora la verità verrà a galla. Perché oggi viviamo in un mondo dove se parte la legittima critica, scatta immediata la querela per diffamazione o per calunnia. E purtroppo il potere probatorio è solo in mano alle toghe: giudicanti, ingiudicate” conclude Giangrande.” Marianna Gianna Ferrenti.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016 sulla querela del dr. Alessio Coccioli Sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto, prima, e di Lecce, poi.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande. Procedimento 907/2011 RGNR e sentenza n. 530/2014.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo il 25 novembre 2010 ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. I fatti de quo, oggetto di imputazione, sono già stati materia di giudizio reso in data 23 gennaio 2014 (n. 147/2014) dal giudice del Tribunale di Taranto in composizione monocratica, dr.ssa Maria Christina De Tommasi, attivata su denuncia dellla Cavallo del 10 giugno 2005 con procedimento 5089/05 RGNR dalla dr.ssa Pina Montanaro, nonostante la frase incriminata era riportata su siti web non riconducibili al Giangrande, col proseguo n. 2612/06 (Gip Ciro Giore e Pompeo Carriere) e 10306/06 – 10346/10 RGNR di Manduria (giudici monocratici Rita Romano, ricusata, Vilma Gilli e Maria Christina De Tommasi). Tale dispositivo disponeva il non doversi procedere nei confronti del Giangrande per intervenuta prescrizione di cui al capo B (Diffamazione non accertata) ed assoluzione per il reato di cui al capo A (calunnia infondata perché denunciato un fatto vero e non dal Giangrande) per non aver commesso il fatto. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso il 30 luglio 2014 dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio su richiesta del sost. Procuratore della Repubblica Mariano Evangelista Buccoliero. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato a seguito di opposizione predisposto dal GIP Giuseppe Tommasino presso il Tribunale di Taranto e fissato per l’1 febbraio 2011. Il processo 1937/11 RGNR è passato dal giudice Got dr.ssa Vita Lavecchia al togato dr.ssa Sara Gabellone, che il 24 settembre 2018 ha emesso sentenza di proscioglimento n. 2076/2018.

Insomma a Taranto tutti vogliono condannare Antonio Giangrande, ma nessuno, sembra, voglia assumentrsi la responsabilità di farlo in prima persona.

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.

Un indagato/imputato prescritto non è un colpevole salvato, ma un soggetto, forse innocente, NON GIUDICABILE, quindi, NON GIUDICATO!!!

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. C'è del marcio nei palazzi di giustizia. Si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma sono la prova che il sistema è al collasso, fin nelle fondamenta, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime e ripercorriamole a ritroso.

Eppure i figli di…Travaglio divulgano certi messaggi fuorvianti atti ad influenzare gli ignoranti cittadini, che poi votano ignoranti rappresentanti politici e parlamentari.

A tal proposito viene in aiuto l’esempio lampante di come un tema scottante ed attuale venga trattato dai media arlecchini, servi di più padroni.

Assolti? C’è sempre un però. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo.

TG1: ROMA PROCESSO MALAGROTTA, ASSOLTO CERRONI. Andato in onda il 06/11/2018. "Il processo sulla discarica di Malagrotta e la gestione dei rifiuti a Roma. Assolto l'ex patron dello stabilimento, Manlio Cerroni, dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti". Flavia Lorenzoni.

Nel servizio si fa cenno al fatto che il processo è durato 4 anni. E meno male che l’abbia detto. Ma lì si è fermato. Però, di seguito, il TG1 ha mandato in onda il servizio sulla strage di Viareggio e sugli affetti che la prescrizione avrebbe avuto su di esso.

Nel servizio al TG5 di questo tempo processuale di Cerroni nemmeno se ne fa cenno.

A cercare su tutta la restante stampa e sugli altri tg non si trova altro che cenni all’assoluzione, tacendo i tempi per il suo ottenimento, ma insistendo ad infangare ed inficiare la reputazione dell’ultra novantenne Cerroni.

Solo il detuperato e vituperato giornale di Piero Sansonetti mi apre gli occhi: "Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere", scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". "Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto".

14 anni sotto la scure della giustizia. Ma in tema di campagna contro la prescrizione meglio tacciare quest'aspetto della notizia, sia mai si ledano i favori dei potenti di turno.

Una censura o un’omertà assordante, nonostante: "In 30 anni ho finanziato tutta la politica. Tutta no, i Radicali non me l'hanno mai chiesto". Manlio Cerroni, intervistato da Myrta Merlino su La 7 il 6 settembre 2017.

Lo scandalo non sta nel fatto che scatta la prescrizione, dopo anni dal presunto reato e anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati anni alla magistratura per concludere l’iter processuale.

La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento.

Nonostante la verità si appalesa, certi politici, continuano a cavalcare barbare battaglie di inciviltà giuridica e sociale.

Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti. La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.

Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.

Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.

Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino.

Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti.

Il Giustizialista Giacobino è colui che usa la differenziazione della giustizia. Ciò ha un che di antiquato, di classista, distinguere ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa.

Il Giustizialista Giacobino è colui che invoca una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Sì, però, va detto che la giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti.

La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. 

Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara (Lucca, 18 settembre 1805 - Lucca, 15 gennaio 1888), abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».

Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri.

Ma se è mediocre la veemenza, è antica la genesi dell’istituto della Prescrizione.

E' indubbio che l'istituto della prescrizione - nato come istituto di natura processuale (la longi temporis praescriptio del diritto romano) che estingue l'azione (civile o penale) e come tale disciplinato nel diritto penale, risponde in primo luogo all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, esigenza cui è evidentemente interessato soprattutto l'imputato.  Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.

“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 - Milano 28 novembre 1794). CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

Ancora a parlare di concorsi truccati. Questa volta nelle Forze di Polizia.

Il metodo di correzione negli esami di Stato o nei concorsi pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto non si abbisogna di microfoni o micro spie nelle segrete stanze delle commissioni e dei "Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco: perchè così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.

L’inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce inascoltate di centinaia di migliaia di candidati estromessi di tutta Italia.

Parliamo della Magistratura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Parliamo della Avvocatura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in avvocatura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dal dr Antonio Giangrande, che ha provato sulla sua pelle per ben 17 anni l’ignominia e la gogna di non essere all’altezza per una funzione meritatissima. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. Ha scritto dei saggi in base alla sua esperienza. Ha pubblicato dei video per chi non vuol leggere. Per questo gli hanno inibito la professione di avvocato e, addirittura, processato per aver denunciato e scritto cose che tutti sanno.

Potevano bastare questi esempi per dimostrare l’illibatezza dei nostri tutori della legalità? Certo che no!!

Parliamo della Guardia di Finanza: Lo dice il maresciallo capo della Finanza Antonio Izzo ai genitori di un aspirante finanziere, mentre davanti a un caffè illustra la proposta indecente: 1500 euro in cambio del superamento dei test attitudinali per il figlio. “Signora, questa è una cosa normale. Voi pensate che non ci siano persone corrotte? Qui tutto il sistema è corrotto”, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Non si entra in Guardia di Finanza se non per queste vie». È la frase che il maresciallo della Gdf Bruno Corosu ha pronunciato, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno" del 24 marzo 2015. Un finanziere romano e alcuni aspiranti marescialli avevano in casa copia dei test a risposta multipla del concorso svolto a Bari nell’aprile scorso. Lo hanno scoperto i militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanzi di Bari durante le perquisizioni disposte dalla magistratura barese nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Bari dove si ipotizzano i reati di corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio nei confronti di sette persone, tra finanzieri in servizio e ex militari, tutti romani, e partecipanti al concorso per 297 posti da allievo maresciallo nella Guardia di finanza, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 2 dicembre 2013.

Parliamo della Polizia Penitenziaria. Concorso agenti polizia penitenziaria a Roma: scoperti dal servizio di sorveglianza durante i controlli. Tutto per un posto in carcere. Anche, magari, rischiando il carcere stesso. 88 persone tra gli undicimila uomini e le duemila donne partecipanti al concorso per agenti della polizia penitenziaria, tenutosi a Roma tra il 20 e il 22 aprile, sono state indagate e denunciate a piede libero: le operazioni di controllo effettuate dalla task force di vigilanza tra i banchi della Nuova Fiera di Roma hanno infatti portato a scoprire materiale con cui i presunti furbetti cercavano di passare il test a pieni voti. Ne scrive il 26 aprile 2016 il Messaggero con Michela Allegri.

E poi, non poteva mancare lo scandalo per la Polizia di Stato.

Parliamo della Polizia di Stato. Concorso Vice Ispettori: gli esclusi devono avere delle risposte, scrive Il Sap Nazionale il 21 marzo 2016. I candidati non idonei alla prova scritta del concorso per 1.400 posti da Vice Ispettore devono avere delle risposte e tanti dei loro elaborati risultano non essere inferiori di altri che hanno superato l’esame. E’ quanto emerge con chiarezza dalla lettera inviata il 18 marzo 2016 dal SAP al Capo della Polizia Alessandro Pansa e per conoscenza al Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Secondo il SAP non è accettabile che i numerosi colleghi risultati non idonei alla prova scritta del concorso siano così bistrattati anche quando, dopo il difficilissimo accesso agli atti, hanno scoperto le carte e le hanno messe sul tavolo. Documenti che sono stati analizzati dallo stesso Sindacato, il quale condivide quanto è stato rappresentato da molti degli esclusi. Non c’è mai stata una manifestazione di dissenso così forte. Basti pensare che è stata costituita anche un’associazione chiamata “Tutela e Trasparenza” con l’obiettivo di tutelare i colleghi esclusi ingiustamente dalla prova scritta. La stessa associazione ha ricordato che la pubblica amministrazione deve assicurare il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, senza dimenticare il principio di trasparenza che deve valere anche per gli appartenenti alla Polizia di Stato. Il SAP auspica che l’Amministrazione riveda i temi giudicati non idonei e rivaluti quelli che effettivamente risultano meritevoli di consentire l’accesso alle prove orali. Da ultimo, e forse la cosa più importante, l’Amministrazione deve valutare un allargamento dei posti previsti dall’attuale bando, che avrebbe costi esigui e non paragonabili con quelli abnormi che si dovranno affrontare con il concorso esterno.

L’incontro organizzato dall’associazione “Tutela & Trasparenza” che si è svolto lunedì 7 marzo 2016 a Milano presso Hotel Galles, relativa all’esito dell’accesso agli atti della prova scritta per 1400 v.isp, è stato un autentico successo di pubblico. Il Presidente Walter Massimiliani ha approfondito il discorso, ricostruendo per intero gli avvenimenti che hanno portato all’incontro e, dopo aver precisato che non si tratta di una guerra a coloro che sono stati ritenuti idonei alla prova scritta ma semplicemente di una richiesta di equità di giudizio, ha mostrato alcuni dei numerosi elaborati che sono stati analizzati e per i quali sono state rilevate evidenti criticità sotto vari punti di vista, in particolare:

presenza di elaborati con segni o frasi non inerenti lo svolgimento della traccia;

elaborati con ampi passi identici a testi o link presenti sulla rete;

elaborati con contenuti palesemente inadatti e scarsi dal punto di vista sintattico grammaticale e/o di concetti giuridici. L’Avvocato Leone il 28 gennaio 2016 ha preso parte all’importante incontro/dibattito svoltosi all’Hotel Holiday Inn di Cava de’ Tirreni (SA) in merito al ricorso per il Concorso Interno per 1400 Vice Ispettori della Polizia di Stato, organizzato dalla Associazione di agenti “Tutela e Trasparenza”. Tantissimi i presenti accorsi presso la sede designata, per cercare di approfondire dal punto di vista giuridico il bando di concorso, che presenta una serie di criticità degne di nota, nonché la fase di correzione e di valutazione degli elaborati che, in modo manifesto, appare illogico e illegittimo.

Al fine di consentire di capire di cosa stiamo parlando descrivo brevemente il concorso in argomento: nel mese di giugno 2014 si è svolta una prova preselettiva articolata con nr. 80 quiz a risposta multipla su 5 materie d’esame (diritto penale, procedura penale, diritto amministrativo, diritto civile, diritto costituzionale) cui hanno partecipato 22mila candidati ed alla quale sono risultati idonei 7032 candidati;

nel mese di gennaio 2015 si è svolta una prova scritta consistente nella stesura di un elaborato di diritto penale, conclusa da 6355 candidati ed alla quale sono risultati idonei 2127 candidati che hanno riportato una votazione superiore a 35/50.

Il 17 dicembre 2015, a distanza di 11 mesi dalla prova scritta, è stata diffusa una lista degli idonei che sin da subito a suscitato forti dubbi di correttezza per la distribuzione dei voti. Infatti oltre 2/3 degli idonei (più di 1400) hanno superato la prova con il voto di 35/50; nessun candidato ha conseguito 34/50 e solo in 73 hanno conseguito la sufficienza compresa tra 30/50 e 33/50. Inoltre una gran parte dei candidati sono stati valutati non idonei con il voto di 25/50 e 28/50. Si evidenzia che l’associazione “Tutela & Trasparenza”, ha effettuato un accesso agli atti straordinario e storico richiedendo ed ottenendo TUTTI i 2127 elaborati dei candidati idonei e TUTTI gli atti endoprocedimentali. L’analisi di tale materiale effettuata con una task force di colleghi poliziotti che in dieci giorni ha controllato tutti gli elaborati, ha permesso di scoprire delle considerevoli anomalie, in particolare:

numerosissimi elaborati con palesi errori sintattico grammaticali diffusi;

numerosissimi elaborati con palesi errori concettuali grossolani e confusione su elementi basilari di diritto penale tali da stravolgerne completamente le basi;

numerosi elaborati singolarmente identici a libri di testo e/o da documenti rinvenuti sulla rete internet;

alcuni elaborati con segni o con messaggi di testo rivolti alla commissione come: SI RINGRAZIA PER L’ATTENZIONE, NOTA PER IL FUNZIONARIO CHE CORREGGE, SCUSATE PER LA CALLIGRAFIA E GRAZIE et.

Il lavoro dell’associazione non si è comunque esaurito in tale fase, sono stati infatti presentati circa 400 ricorsi al TAR, circa 50 al Presidente della Repubblica e circa 150 istanze di ricorrezione al Dipartimento di P.S., tali numeri hanno di fatto bloccato le udienze in Camera di Consiglio al TAR Lazio al punto che ad oggi non risultano ancora calendarizzati la maggior parte dei ricorsi.

D'altronde di cosa parliamo: è tutta “Cosa nostra”. Si sa la famiglia in Italia è sacra.

Parliamo del Corpo Forestale. Amici e parenti la grande famiglia della Forestale. E’ sempre una notizia attuale e quindi utile leggere l’articolo de “La Stampa” del 13 maggio 2009 riguardo il Corpo Forestale. I figli di dirigenti e comandanti alla corte di papà. Bravi. Anzi, bravissimi. Ma non c’erano dubbi, visto che spesso la sapienza passa di padre in figlio. E così, da una parte il caso, dall’altro le conoscenze e le tante doti è accaduto che tra i 500 vincitori al concorso allievi per il Corpo forestale, molti tra questi sono figli di comandanti, dirigenti, uomini di stretta vicinanza del capo del Corpo, Cesare Patrone. Il fato, infatti, è stato così generoso nei loro confronti, che molti di costoro sono stati, addirittura, assegnati nelle stazioni dove comandano i loro capo famiglia. Non sfugge, infatti, che la sorte abbia riservato a Matteo Colleselli la stazione di Candaten proprio nell’area dove papà, comanda la regione Veneto; e così è accaduto a Stefano Piastrelli figlio del capo di Perugia, o a Massimiliano Giusti discendente diretto del numero due della regione Umbria. Ma le regalie della dea bendata non finiscono qui. Tanto che a trarne beneficio è toccato pure a Matteo Palmieri, «omonimo» del capo della segreteria del Corpo e destinato in Puglia, terra d’origine, a Francesco Polci (figlio del vice comandante d’Abruzzo assegnato a Chieti), a Massimo Priori (omonimo del caposervizio del personale assegnato a Livorno), a Vittorio Scarpelli (figlio del dirigente del servizio ispettivo assegnato nel vicino Abruzzo), nonché al figlio del comandante di Taranto, Pasquale Silletti, assegnato alla stazione di Cassano Murge a Bari, a Dante Stabile, parente del capo di Napoli finito alla stazione di Boscoreale in Campania. E’ chiaro, però, che la fortuna non poteva girare a tutti. Ma dove non osò la sorte, giunsero i «pizzini» del patronato: per Alfonso, figlio di Rosetta, per Emidio figlio di Cesarina di zio Antonio, o per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria. E ancora, per Massimiliano, cugino di Rosetta, ma anche per Paolo che è nel cuore di zio Domenico e altri. Del resto si sa, in Italia le cose marciano spedite solo se stanno veramente a cuore a qualcuno. E tra le camicie verdi del Corpo Forestale la regola, stavolta, non fa eccezione. I capisaldi sembrano tre: l’ambiente e il soccorso, il rispetto della legge ma anche la famiglia. Non a caso, infatti, a capo del Corpo è finito Cesare Patrone, figlio dell’ex geometra della Forestale, Michele. Al suo fianco ci sono anche il fratello Amato (sovrintendente), la moglie di quest’ultimo Serena Pandolfini (sovrintendente), Domenico, zio del capo ma ora in quiescenza, dalla fulgida carriera e la figlia di quest’ultimo Rosa, primo dirigente del Corpo, la quale classificatasi quarta al concorso da primo dirigente (i posti erano tre) si è vista riconoscere dall’amministrazione il ruolo, ma senza arretrati per la decorrenza della nomina dal 1 gennaio 2002 (data del posto vacante), secondo quanto stabilito dall’ufficio centrale del bilancio del Ministero. Nomina sì, dunque, ma senza «indennizzo». Ma per la serie, la speranza è l’ultima a morire, ecco che in soccorso di Rosa Patrone, la Camera ha approvato un emendamentino ad hoc che si «applica anche agli idonei nominati, nell’anno 2008, nelle qualifiche dirigenziali» e che risarcisce e stabilisce anche le quantificazioni economiche: oltre 177mila euro per il 2008, 24mila per il 2009 e altri 24 mila per il 2010. Insomma, un indennizzo niente male, che desta non pochi malumori. Così come destano sorpresa i risultati del concorso per 182 posti da vice ispettore. Dopo la prova scritta tra i primi posti a piazzarsi ci sono i più stretti collaboratori del capo del Corpo. Uomini certamente brillanti e qualificati come il suo autista Domenico Zilli (voto 30 su 30), Marco Giurissich della segreteria (30/30), Amato Patrone, fratello del capo (30/30), Noemi La Motta, segretaria del capo (29,5/30), Serena Pandolfini, la cognata di Patrone (29,5/30), Claudio Bernardini, segreteria della cugina del capo del corpo (29/30), Cristiano De Michelis, assistente del capo (29/30), Quintilia Pomponi, segreteria della cugina del capo (29/30), Vania La Motta, sorella di Noemi, cognata di Zilli l’autista del capo. Tanta conoscenza e bravura, nelle prove scritte, ha stupito il parlamentare del Pdl, Marco Zacchera che in una interrogazione spiega «che dall’esame dei 50 concorrenti che hanno superato il punteggio di 28/30 appaiono alcune anomalie, ovvero che ben 32 di essi hanno sede di lavoro a Roma, molti negli uffici dell’ispettorato generale, mentre altri 8 hanno sede di lavoro in Calabria e solo 10 nel resto d’Italia», e quindi chiede «di accertare se i testi dei quiz siano stati resi pubblici a nicchie» e se non si ritenga di «dover sospendere il concorso». Niente da fare, ovviamente. Il concorso va avanti, così come procede spedita anche un’altra interrogazione. Stavolta, a siglarla è il parlamentare leghista, Maurizio Fugatti al quale non sfugge che «dei 29 candidati che hanno riportato voti tra il 29 e il 30, ben 21 provengono dal medesimo ispettorato generale». Attitudini spiccate? Chissà. Di certo, nemmeno Fugatti sembra capacitarsi di «un personale così altamente qualificato in servizio all’ispettorato - scrive - e che sarebbe consigliabile correggere tale squilibrio sul territorio nazionale, assegnando a compiti territoriali almeno parte delle migliori risorse ora collocate a mansioni amministrative». Ma nonostante ciò al Corpo si guarda avanti. L’attenzione nelle ultime ore è rivolta a tutta una serie di promozioni varate in una delle riunioni del cda della Forestale presieduto dal ministro Zaia. Anche qui, la fortuna ha lasciato il segno. Tangibile, ma solo per pochi, «posandosi» sui fascicoli di nove candidati, otto dei quali del nord Italia e Veneto, che così hanno ottenuto il punteggio massimo pur non avendo alcuni titolo speciale valutabile.

Esame di avvocato e lo scandalo ciclico delle copiature. L’Opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger e youtuber. Bufera sul concorso di Napoli. Noi nel 2009 avevamo già documentato i controlli inesistenti su Roma, scrive Antonio Crispino e lo documenta su Corriere TV il 25 febbraio 2016. «Milano smaschera Napoli», «Trento smaschera Potenza», «Catania smaschera Lecce». Periodicamente sui giornali si leggono titoli di questo tipo. Si riferiscono alle prove d’esame che le commissioni di turno annullano agli aspiranti avvocati che si cimentano con l’esame di Stato. Perché risultano essere elaborati copiati dalla prima all’ultima parola. I candidati di una regione, infatti, sono esaminati da una commissione di provenienza territoriale diversa, scelta tramite sorteggio dal ministero della Giustizia. Basta prendersela con qualche candidato per giustificare l’incapacità di tutti. Da sempre si copia tra candidati o si detta da parte dei commissari. Certo che nè giornalisti, né magistrati osano verificare quello che di ignobile succede dentro le stanze buie e segrete dove si riuniscono le commissioni di esame. Da arrestare tutti. I compiti sono dichiarati falsamente letti e corretti: cosa non vera. Giornalisti e magistrati verifichino i tempi dedicati al singolo elaborato rispetto ai tempi di apertura e chiusura del verbale e verifichino sugli elaborati quanti errori sono stati corretti. Ho scritto un libro per dimostrare che da sempre l’esame forense è truccato ed ho scritto un altro libro per dimostra che tutti i concorsi pubblici sono truccati, anche quello per magistrati. In questo caso coloro che sono stati abilitati con tale sistema, commissioni di esame e magistrati inquirenti e giudicanti, hanno il coraggio di perseguire? 

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1. Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2. Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3. Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4. Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5. Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6. Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione.

7. Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”. 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto. “Porta a Porta” programma della Rai condotto per anni da Bruno Vespa. Il salotto buono dove la mafia è di casa. E’ prerogativa della politica dire “è cosa nostra”. Guai quando essi sono spodestati e le interviste dedicate all’altra sponda.

Porta a Porta Rai 1 del 6 aprile 2016 alle ore 23.35. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri. Tempa Rossa. Petrolio e mafia. Potenza, Corleto Perticara e la Basilicata. Voti di scambio mafiosi. No. Voti PD antimafiosi.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti. La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

Mini trattato del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd del 4 aprile 2016: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo. Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza. Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». All'indomani delle parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva, dura, la replica del presidente della sezione della Basilicata dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), Salvatore Colella: «Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti. Inopportune perché arrivano in un momento molto delicato dell'inchiesta, con un intervento “a gamba tesa” e le sue insinuazioni sono quantomeno viziate da un interesse di parte, inconsistenti perché smentite, solo poche ore dopo, da un pesante verdetto di condanna contro i vertici della Total nel processo “Totalgate” (dopo 8 anni, con inchiesta nata nel 2008 per mani di Woodcock). Se è vero che in un paese civile, come dice il Presidente Renzi, “i processi arrivano a sentenza”, e noi abbiamo dimostrato di saperlo fare - ha continuato l'Anm lucana - è anche vero che in un Paese civile “il governo rispetta i lavoro dei magistrati”, sempre, anche quando toccano la propria parte politica. Ci saremmo aspettati la stessa intransigenza e fermezza di condanna annunciata dal Presidente in occasione di altre inchieste di rilievo nazionale». Renzi sceglie Facebook per rispondere alle critiche sulle sue affermazioni sulla Procura di Potenza: «Oggi leggo che Renzi accusa i magistrati, noi stiamo incoraggiando i magistrati a fare il più veloce possibile. Non accuso i magistrati, accuso un sistema che non funziona, voglio mettere in galera i ladri, per questo incalzo i magistrati perché siano veloci», ha detto Matteo Renzi in diretta da Palazzo Chigi utilizzando Facebook Mentions. Ma a prescindere dalla diatriba farsesca, tra parti che si coprono a vicenda, parliamo dei danni inflitti alla comunità dalle lungaggini processuali ed a cui nessuno vuol porre rimedio per non inimicarsi “le sacre toghe”.

Per porre rimedio alle condanne inflitte dalla CEDU il legislatore italiano ha inventato la Legge Pinto, ossia la legge che, man mano annacquata da riforme restrittive, è a tutti gli effetti una legge truffa.

Chi è stato coinvolto in un processo – civile, penale, amministrativo, pensionistico, militare, in una procedura fallimentare o concorsuale ovvero, a certe condizioni, tributario, ecc. – per un periodo di tempo considerato «irragionevole», cioè troppo lungo, può richiedere, in base alle disposizioni della legge 24 marzo 2001, n. 89, meglio conosciuta come “legge Pinto”, una equa riparazione, cioè un risarcimento del danno allo Stato italiano, nella misura determinata dalla legge stessa in ragione degli anni o frazione eccedenti la durata ragionevole.

Secondo l’art. 2-bis, si considera rispettato il termine ragionevole per la durata del giudizio «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità».

La legge Pinto è stata modificata col D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. È stata poi modificata dalla legge di stabilità 2016. L’ammontare effettivo del risarcimento concesso dipende dalla materia del procedimento e dalla sede territoriale della Corte: di solito vengono liquidati risarcimenti più alti per questioni in materia di famiglia o status della persona, per procedimenti penali o pensionistici, meno per altre questioni; inoltre le corti d’appello che si trovano al Nord sono, solitamente, più di manica larga rispetto a quelle del meridione, parallelamente alla differenza del costo della vita, almeno tendenzialmente. In materia, valgono inoltre le regole poste dall’art. 2 bis della legge Pinto. Il risarcimento può essere chiesto anche se il giudizio è terminato con una transazione e cioè mediante un accordo tra le parti (Cass. 8716/06, Cass. 11.03.05 n. 5398). Il risarcimento va chiesto con ricorso alla Corte d’Appello territorialmente competente e viene deciso dalla corte con un decreto che poi va notificato al ministero, con una procedura simile a quella prevista per l’ingiunzione di pagamento.

La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) è una legge della Repubblica Italiana. Essa prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l'irragionevole durata di un processo. La norma nacque come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in base all'art. 13 della Convenzione che prevede il diritto ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. In tal modo, si introduce un nuovo ricorso interno, che i ricorrenti devono avviare prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. Tuttavia le Corti d'Appello inizialmente non hanno applicato i parametri della CEDU per la definizione dell'irragionevole durata del processo, ma hanno chiesto ai ricorrenti la dimostrazione dell'aver subito un danno (cosa che, secondo l'art.6 CEDU, è incluso nel fatto stesso). Tali casi sono stati quindi ri-appellati alla Corte CEDU di Strasburgo per scorretta applicazione della Legge Pinto. Nel 2004 la Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel decidere in casi relativi alla legge Pinto, senza poter richiedere la prova del danno subito dal ricorrente. La sentenza Brusco della CEDU ha infine statuito che tutti i casi pendenti a Strasburgo dal 2001 (sui quali non sia ancora stato dato un giudizio di ricevibilità da parte della Corte) debbano tornare in Italia per l'appello interno secondo la legge Pinto. La sentenza Brusco è stata criticata per gli alti costi processuali presenti nella procedura interna italiana, ed inesistenti a Strasburgo. L'art. 55 del Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente "misure urgenti per la crescita del paese" (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), ha apportato importanti modifiche alla legge, volte a porre un freno alle richieste di risarcimento. Infatti, la riforma introdotta dal c.d. DL Sviluppo 2012 è stato profondamente mutato il procedimento delineato dalla Legge Pinto per permettere un più agevole ed efficace accesso al giudizio di equa riparazione ed ottenere in tempi più rapidi (che non siano a loro volta “irragionevoli”) il giusto risarcimento.

1) Non è più investita della decisione la Corte d'Appello in composizione collegiale. A decidere sarà un giudice monocratico di Corte d'appello con una procedura modellata su quella del decreto ingiuntivo e quindi, senza inutili appesantimenti procedurali (a titolo di esempio basti pensare che per la fissazione dell'udienza, specie avanti le Corti di appello più oberate, occorrono mesi o anni di attesa).

2) Viene fissato un preciso tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa “irragionevole” facendo così sorgere il diritto all'equa riparazione. Il processo non è svolto in termini ragionevoli quando supera i sei anni (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).

3) Sono stati puntualmente fissati gli importi per gli indennizzi commisurati in 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccedente rispetto al termine di ragionevole durata.

4) In ogni caso la domanda può essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta "Legge di Stabilità 2016", introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo ancor di più la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia. 

SCHEMA ESEMPLIFICATIVO.

IL DANNO

Danno da lungaggine del processo per la Cedu: patrimoniale o non patrimoniale.

Danno da lungaggine del processo per lo Stato Italiano: Forfettario. Prima, da 500 euro a 1500 euro, dopo, da 400 euro a 800 euro.

IL DIRITTO

Diritto al risarcimento per la CEDU: è incluso nel fatto stesso (onere della prova a carico dello Stato, an e quantum) senza valutazione ed interpretazione.

Diritto al risarcimento per lo Stato Italiano: ai ricorrenti tocca la dimostrazione dell'aver subito un danno (onere della prova a carico dei ricorrenti, an e quantum) e valutazione data dai magistrati responsabili essi stessi del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice collega durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

DURATA

Durata ragionevole del processo per la Cedu: ragionevole inteso in senso oggettivo europeo.

Durata ragionevole del processo per lo Stato Italiano: 3 anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno per il terzo grado. Precisando che il processo si considera iniziato, nell’ambito dei procedimenti civili, con il deposito del ricorso o con la notifica dell’atto di citazione; penali, con l’assunzione della qualità di imputato e non di indagato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero, quando l’indagato ha legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

ITER

Iter risarcitorio per la Cedu: procedimento amministrativo semplificato, veloce e gratuito.

Iter risarcitorio per lo Stato Italiano: procedimento giudiziario di competenza dell’ordine professionale foriero del danno attivato. Prima presso la Corte di Appello competente ex art. 11 c.p.p., poi, presso la Corte di Appello foriera del danno in composizione monocratica ed inaudita altera parte. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis”o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.

ATTIVAZIONE

Attivazione dell’iter per la Cedu: semplice domanda.

Attivazione per lo Stato Italiano: Prima semplice ricorso giudiziario, dopo una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.

GRAVOSITA' DELL'ONERE DELLA PROVA

Onere della prova per la Cedu: Fascicolo acquisito d’ufficio.

Onere della prova per lo Stato Italiano: copie fascicolo conformi all’originale con oneri di bollo e diritti.

DIFFICOLTA' ARTEFATTE 

Intoppi ed ostacoli per la Cedu: nessuno.

Intoppi ed ostacoli per lo Stato Italiano: La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, (insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa, come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola), istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".

TERMINE DELLA DOMANDA

Termine della domanda per la Cedu: ragionevole.

Termine della domanda per lo Stato Italiano: In ogni caso la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

PAGAMENTO

Pagamento per la Cedu: immediato e semplice.

Pagamento per lo Stato Italiano: gli indennizzi potranno essere erogati entro il limite delle risorse disponibili di un apposito capitolo del ministero della Giustizia. Per fortuna sarà possibile un‘anticipazione di tesoreria, ma solo nel caso venga attivata l’esecuzione forzata. In quel caso sarà Banca d’Italia a provvedere registrando il pagamento in "conto sospeso" in attesa che il ministero regolarizzi la partita contabile non appena abbia le risorse per farlo. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato.

TERMINI DEL PAGAMENTO

Termini ragionevoli di adempimento per la Cedu: due anni.

Termini ragionevoli di adempimento per lo Stato Italiano (Pinto su Pinto): prima 4 mesi, dopo, 6 anni ordinari, dopo le pronunzie giurisprudenziali, 2 anni e tre anni. 2 anni. La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Infine 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata". E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001). Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".

SANZIONI 

Sanzioni per la Cedu: nessuna, se non la pronuncia di rigetto della domanda.

Sanzioni per lo Stato Italiano: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!! 

A proposito di omertà e censura…puoi parlar male di Avetrana, ma mai parlar male dell’Islam. L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. L’Italia delle libertà mancate, dell’omertà e della censura. Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione. Ma di tutto questo non se ne deve parlare. Si deve parlare sempre e comunque solo di Avetrana omertosa. “Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti”. Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia. Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

D’altro canto bisogna ricordare a questo signore, come a tutt'Italia che gli Avetranesi parlano e non hanno paura di nessuno, nonostante le ritorsioni. Da ricordare che il sottoscritto è un avetranese doc, e non può certo essere tacciato di omertà, visto quello che scrive, tanto che alcuni magistrati questa prolificità non gliela perdonano affatto. Ma esiste un altro avetranese che paga il suo non essere omertoso: Riccardo Prisciano, tanto da essere perseguitato per le sue idee espresse contro Islam e gay. Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele. Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta. Ecco perché a sinistra se ne dolgono quando dell’Islam o dei gay se ne parla male. È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.

Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.

Ma non è la prima volta che cala la scure della censura. 

Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.

Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Italia Liberale”. 

Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive il 9 marzo 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini. 

Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.

Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015. 

Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?

«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».

Perché allora questa difformità di trattamento?

«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».

La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?

«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».

Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?

«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:

– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.

– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.

– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.

– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;

– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;

– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;

– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.

Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».

Oriana Fallaci, ex partigiana, ha combattuto l’Islam esattamente come combatteva il nazifascismo. Eppure, dalla sinistra è stata considerata una “traditrice”. Come si può spiegare l’antifascismo abbinato al filoislamismo della sinistra?

«La grande Oriana, che nel saggio in questione chiude con le sue citazioni ogni capitolo, è quasi da ringraziare per le grandi verità che tramandò a noi (oggi come ieri) poveri buonisti. Mi trovo perfettamente d’accordo con la Fallaci (e con i grandi autori citati poco fa): bisogna svegliarsi e rendersi conto che la nostra utopia (o quella di qualcuno …) ci farà ritrovare molto presto in una guerra dove non saremo padroni a casa nostra. La tolleranza è la base della democrazia; tuttavia, essa non deve mai tradursi nel buonismo relativista radical-chic, tipico della Sinistra Italiana di oggi. Aristotele diceva che “l’apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente”. L’integrazione va bene, purché sia tale, ma ad oggi mi sembra che questa volontà non si sia mai palesata. “Integrazione” vuol dire adattarsi alle regole del Paese ospitante. Pericle (il “Padre della Democrazia”) se fosse vissuto ai nostri giorni si sarebbe sentito chiamare “razzista”, “xenofobo”, “omofobo” finanche “islamofobo”. La Sinistra italiana, tanto brava a sventolar bandiere rosse in piazza a difesa della libertà, non è capace di capire che l’Islam ne è oggi la più grande minaccia. Questo discorso è da farsi nei confronti dei “militanti” della Sinistra italiana; per i vertici, ci sono ben altri interessi dietro … ma questo è un altro discorso».

Esiste un pericolo terrorismo in Italia, oltre che in Europa?

«Ovvio! I numerosi arresti, le iscrizioni nel registro degli indagati nelle varie Procure italiane, nonché i bigliettini dell’Isis che girano sornioni e spaventosi su facebook, parlano chiaro. Smettiamola di dire “io conosco tizio che è mussulmano ed è una bravissima persona”: non si può (e non si deve) ragionare sulle eccezioni, soprattutto dinanzi a simili pericoli. Se ancora qualcuno si ostina a dire che non tutti i mussulmani sono terroristi, certamente dovranno darmi atto che, quantomeno, tutti i terroristi sono islamici».

Sarebbe pronto e disponibile ad un dibattito con Khalid Chaouki del PD?

Io sì … non so lui, semmai!»

Sciacalli ed omertà. L’ennesima vile aggressione ad Avetrana. Da Sarah Scazzi a Salvatore Detommaso.

Ne scrive il dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Ad Avetrana, alle 5.30 di mattina del 27 marzo 2016, dì di Pasqua, il 63enne disoccupato ed incensurato Salvatore Detommaso esce di casa da via Magenta (via per Manduria - Salice Salentino) ed in sella alla sua bicicletta si dirige lungo via Roma (via per Nardò) che si interseca alla sua via. A quell'ora va a prendere il caffè presso il solito bar. Lungo il tragitto ne approfitta per comprare le sigarette dalla macchinetta automatica posta lungo la via. Sua intenzione è poi andare a raccogliere gli asparagi in campagna. Da casa al suo bar ci sono da percorrere poche centinaia di metri. Un vita da cavamonte (estrattore di blocchi di tufo per l’edilizia) lo porta a svegliarsi all’alba. Un’abitudine. Alle 5,45 il fratello Leonardo Detommaso esce anche lui da casa. Stessa abitudine da manovale. Lungo la strada incontra uno spazzino che gli comunica che più avanti c’è suo fratello ferito. In effetti vicino al bar c’è suo fratello che presso la fontana pubblica cerca di lavarsi la testa sanguinante. Non c’è alcuno strumento contundente, né la vittima ragguaglia suo fratello da questo interpellato sulle modalità dell’accaduto: se sia caduto, se sia stato investito o se sia stato aggredito con mazze, bottiglie o spranghe di ferro. Per questa ipotesi, tantomeno, lui stesso non riferisce i nomi dei presunti assalitori. Lui che era cosciente. Tanto cosciente che da solo si è riavviato per tornarsene a casa, nei pressi della quale è stato poi prelevato dall’ambulanza, chiamata da chi era accorso nei primi momenti dell'accaduto. Cosciente è rimasto nei due giorni successivi e nulla ha riferito di utile alle indagini. La mattina di Pasqua non c’è gente che va a lavorare, solo eventuali ragazzi che rincasano da pub o discoteche. Gente anche non del posto: di passaggio. Ora troppo tarda per vedere in giro ladri a cui dare le colpe. In quel frangente la via, man mano, si è riempita di curiosi. L’unico che era presente nell’immediatezza ha raccontato ai carabinieri quello che ha visto e ricordato, così desunto dai quotidiani ben informati dagli inquirenti.

Bene. Un fatto di cronaca come tanti e come in altre parti d’Italia. 

Sì, ma qui siamo ad Avetrana: il paese degli omertosi, così come definito da Mariano Buccoliero, il Pubblico Ministero del delitto di Sarah Scazzi. Allora ecco che scatta la speculazione mediatica e politica.

La vittima Salvatore Detommaso inizialmente è stato trasportato all’ospedale Giannuzzi di Manduria. Poi, data la grave emorragia cerebrale riportata, è stato in seguito trasferito nel reparto di neurochirurgia del Santissima Annunziata di Taranto. Solo dopo due giorni dal ricovero, una volta finite le feste, nonostante strazianti sofferenze e lancinanti dolori, si è provveduto a stabilizzare il paziente e ad operarlo alla testa, per poi ricoverarlo nel reparto di rianimazione. Ciò dovuto all’aggravamento della sua condizione clinica, in riferimento anche ad un peggioramento di natura cardiaca. Di questo, però, del comportamento dei sanitari, nessuno ne parla. Nemmeno quelli che sparlano di omertà. Ed a proposito di omertà ad Avetrana, il 2 aprile 2016 si organizza una fiaccolata per la legalità e per invogliare chi sa, a parlare. E’ stata messa in piedi, anche, una raccolta di fondi per sostenere la famiglia della vittima che versa in condizioni economiche preoccupanti. Ma ancora una volta nessuno, però, difende Avetrana dall’ennesima aggressione gratuita e ingiustificata. Tantomeno i politicanti locali. Anzi è proprio il vicesindaco, Alessandro Scarciglia ad esortare il "chi sa, parli".

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Tra gli altri anche il programma Mediaset Rete 4 “Quarto Grado" di Gianluigi Nuzzi ci ricasca a fare informazione spazzatura, vomitando, con i suoi invitati, liquame sulla comunità avetranese. Soggetti non nuovi a queste nefandezze.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Ma i nostri prodi si ripetono. Quarto grado 1 aprile 2016. Questo è il conduttore imparziale, Gianluigi Nuzzi: «Oltre 10 persone (su oltre 8mila ndr) accusate di aver intralciato le indagini, tra reticenze e sogni e quant’altro. Qui abbiamo una proiezione di paese fatte di una maglia di complicità…».

Ospite fisso del programma è ancora Carmelo Abbate, giornalista di Panorama: «Io penso che la gente di Avetrana andrebbe riportata a scuola a studiare daccapo l’educazione civica. Questa è gente omertosa, parliamoci chiaro. Questa è gente omertosa. Forse hanno ragione i giudici quando dicono che “tutti sapevano quello che è successo, molti sapevano quello che è successo a Sarah, ma nessuno ha aperto bocca. Ricordiamoci che l’unica testimone che si presenta spontaneamente a fare dichiarazioni è Anna Pisanò. Tutte le altre persone vengono in qualche modo braccate, costrette a raccontare qualcosa. Tutte le altre non vanno spontaneamente. Cinque giorni fa, la mattina di Pasqua, ad Avetrana, prima mattinata, davanti ad un bar un uomo, una brava persona di 62 anni è stato aggredito selvaggiamente. In queste ore lotta tra la vita e la morte. Quest’uomo è stato aggredito davanti ad un bar. Decine e decine di persone ascoltate dai carabinieri “non so”, “non ricordo”, “non ho visto”. Ci sono appelli del sindaco “chi lo sa, per favore, dica qualcosa”. Ci sono appelli del sacerdote. Appelli pubblici “per favore parlate. Per favore non siate omertosi”. Il risultato è che non dicono nulla. E quest’uomo sta morendo».

Per il resto è ancora ospite Grazia Longo, cronista de “La Stampa”: «Il teatro dell’orrore non ha mai fine in questo paese».

Ma vaffanculo ai giornalisti da strapazzo. Questa imprecazione non è riferita in particolare a quelli citati, ma a tutti coloro che tra tutti i fatti di cronaca di cui si sono occupati, solo ad Avetrana hanno trasfigurato i criminali in tutta la loro comunità. 

Prendete lezione ed esempio dall’ex Generale Luciano Garofano: «Ma io ho avuto sempre forti dubbi su quella che è la conclusione dell’autorità giudiziaria. Per altro, scusatemi, io sono molto rispettoso, ma non credo che sia un bello spettacolo che le motivazioni escano dopo 11 mesi (primo grado) e dopo otto mesi (appello). Significa che noi non vogliamo contribuire ad un paese in cui il processo sia giusto ed in cui le persone si possano anche difendere. E non credo a tantissimi degli elementi a partire dal movente. Perché questo è un movente assolutamente inconsistente. Peraltro con il prof. Picozzi ci siamo occupati di questo caso. E anche nell’incidente probatorio, che fu considerato il trionfo della prova, effettivamente ci rendemmo conto che c’era qualche cosa che non funzionava. Tra le tante cose, ma voi ve lo immaginate un papà che è pronto a coprire immediatamente un omicidio che non ha motivo d’essere. Già pronto, confeziona quel corpo, lo porta via. Insomma, per non parlare poi di altri particolari che riguardano le intercettazioni. Il punto in cui avrebbero telefonato e non telefonato. Una mamma che rincorre Sarah, per riprenderla, così poi che l’hanno acchiappata, scusate il termine, possono finalmente portarla a casa ed eliminarla? Io credo che ci siano ancora molti dubbi e spero che la Giustizia, come sempre trionfi con puntualità.»

Il Prof. Massimo Picozzi conferma: «I dubbi li condivido con il generale Garofano che ho sentito di questo famoso incidente probatorio, in cui Michele Misseri raccontò un po' tutta la vicenda. Ricordiamo poi, molta della credibilità, pochissima, che poi lo zio Michele, come lo abbiamo imparato a conoscerlo, si è portato appresso, derivò anche dal fatto che lui disse “io ho ucciso questa poveretta. E' stata uccisa con una corda, anziché con una cintura". Ti assicuro, l’interrogatorio di Michele Misseri fu il più suggestivo possibile. Lui continuava a dire, ad insistere sul fatto che sulla scena ci fosse una corda. Gli si diceva “ma è proprio una corda? E' proprio sicuro? Noi sappiamo diversamente. Non è una cinta per caso?” Alla fine, alla quindicesima insistenza, lui cambiò versione. 

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Ed a proposito di credibilità.

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

INCHIESTA SULL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TARANTO.

Un'inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. Ne scrive il dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. 

"Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione).

Ordine Avvocati, buco nel bilancio. Indaga la Procura, scrive Michele Montemurro su “Il Quotidiano di Puglia” dell’11 aprile 2016. Spese di rappresentanza istituzionale indebite o solo assenze di “giustificativi”? È quanto dovrà accertare la procura di Taranto, chiamata in causa dal consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo jonico, che avrebbe accertato nel suo bilancio un “buco” di oltre 90mila euro. A investire della questione il pm dottor Maurizio Carbone è stato lo stesso Consiglio presieduto dall’avvocato Vincenzo Di Maggio. All’appello, nei libri contabili del Consiglio, mancherebbe una cifra complessiva che non risulta essere “coperta” da alcuna documentazione. Allo stato, l’ipotesi di reato per cui si procede a carico di ignoti è quella di peculato, dal momento che il Consiglio dell’Ordine è ritenuto Ente pubblico non economico.

La Procura indaga sul “buco” del bilancio dell’Ordine Avvocati di Taranto sotto la guida dell’Avv. Angelo Esposito. E sulla fuga di notizie…? Si chiede e scrive Antonello De Gennaro su “Il Corriere del Giorno” del 12 aprile 2016. Spese di rappresentanza istituzionale indebite o solo assenze di “giustificativi”? Chi rimborserà l'Ordine degli Avvocati di Taranto delle spese allegre e non giustificate di qualcuno? L’intervento della Procura di Taranto che ha affidato le indagini al pm Maurizio Carbone, contrariamente a quanto pubblicato dai soliti cronisti giudiziari a “gettone” è avvenuta in conseguente di una segnalazione, obbligatoria per legge ai sensi dell’art. 331 c.p.p. che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo jonico, presieduto dall’avvocato Vincenzo Di Maggio, ha inteso rispettare. Singolare anche come ancora una volta la notizia sia “filtrata” dagli uffici giudiziari tarantini sulla solita stampa “ventriloqua” di alcuni magistrati, nonostante la discrezione e riservatezza adottata dal presidente Di Maggio che ha depositato personalmente il tutto soltanto giovedì scorso e direttamente negli uffici della Procura, e non a quelli della polizia giudiziaria, proprio per evitare delle possibili fughe di notizie.

Il popolo dei nimbini (mai da me) è sempre all’opera. Probabilmente non hanno niente da fare. Generalmente son comunisti di varie sigle. Aggiungiamoci tra di loro pure i pentastellati, bastian contrari alla riscossa. Ma che cazzo centrano quelli di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia con il referendum di Domenica? Da quando in qua interessa a loro la lotta ambientalista? O comunque la lotta sociale e civile? Sono disabituati perchè, generalmente, i referendum sono previsti contro le loro leggi capitaliste. Il paradosso è che, questa volta, la sinistra nimbina scende in campo contro se stessa. Se i referendum, come gli scioperi, sono prettamente politici, perché ci fanno spendere un “mare” di soldi per un referendum per il quale nessuno va a votare? Tranquillamente possono far cadere i governi e cambiare le norme che non piacciono in Parlamento!!! D'altronde, quando mai hanno rispettato l’esito dei referendum? Specialmente quando il referendum era serio, come quello sulla responsabilità dei magistrati!!Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

A proposito di primarie ad Avetrana ed in tutta Italia…fascismo e comunismo facce della stessa medaglia: sete di potere o di poltrone.

Cosa accomuna gli interisti ai comunisti? Quando si perde è perché gli altri hanno rubato. Ad Avetrana, tanti anni fa, il sottoscritto emergeva in politica. Presidente di Alleanza nazionale, non sono stato mai accettato perché non avevo il sangue nero ed i miei sostenitori non erano di destra, ma erano dei moderati. Per la nomenclatura ero buono solo a portare voti ai soliti noti. Li mandai a fanculo…e sostenni Conte a sinistra che con i voti dei miei sostenitori vinse le Comunali.

Ad Avetrana, a sinistra c’è Emanuele Micelli, mai accettato dai comunisti perché non ha sangue rosso. Alle primarie 2016 tutta la nomenclatura comunista era schierata contro di lui in previsione di una futura scissione del PD e la cui figura della Petracca, (con i soliti 200 voti degli ultracomunisti) era solo specchio per le allodole. Il vero intento era contarsi per valere. Micelli per la nomenclatura è buono solo a portare i voti dei moderati alle elezioni…per Conte e per altri. Voti dell’aria moderata che, però, non sono accettati alle primarie: perché fanno schifo ai comunisti.

Lo schifo per i voti moderati ha fatto sì che il mio interesse per chi si professa diverso è cessato e da allora la sinistra ad Avetrana ha sempre perso, nonostante, per fottersi i miei voti, hanno messo mio fratello nelle loro liste e che io stesso non ho votato. Fino a che, a sinistra come a destra, le nomenclature locali saranno più interessate alle poltrone che alle cose reali, perderanno sempre, perché non è vittoria quella con il 50% di astensione. Messaggio di gente che manda a fanculo gli schieramenti con le solite facce.

… fascismo e comunismo facce della stessa medaglia: sete di potere o di poltrone per persone incapaci.

Avetrana. La strage degli alberi.

Il commento del Dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger, youtuber. 

Mi ero ripromesso di non occuparmi più della politica locale per la sua inutilità, ritenuta stantia e stagnante e periodicamente riproposta da gente di destra e di sinistra ambiziosa e senza alcun valore, ma di fronte alla desertificazione che l’odierna amministrazione di destra di Avetrana sta attuando al fine del suo mandato non è possibile rimanerne complici con il proprio silenzio. Questi signori stanno per finire di tagliare tutti gli alberi piantati dall’ultima amministrazione di sinistra, affinchè alla fine del loro mandato non ne rimanga nessuna testimonianza. Nessun motivo o giustificazione può essere avvalorato dalla logica. Hanno usato la scusa delle radici che spaccano il manto stradale; delle foglie che sporcano, del pericolo di cadute per cedimento. Hanno usato, addirittura, la scusa della presenza della Processionaria su qualche albero, per tagliarli tutti. Usano il metodo Xylella. Come dire: se il cane ha le pulci o le zecche, il coglione non disinfesta i parassiti, ma uccide il cane. Questi signori non hanno alcuna cultura ambientalista. Usare la potatura o la disinfestazione non è ipotesi alla loro portata. Meglio eliminare ogni pianta dal paese. Credevo che fosse il rosso il colore da costoro odiato…invece è il verde. Che peccato condividere il paese con gente che non ama la Natura, anche perché chi non ama la Natura, non ama l’uomo.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

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Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato.  Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare»

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.

Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.

Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.

A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.

Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte,  sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.   

La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.

In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.

D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.

Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci. Avevo, con la mia famiglia, un bar ristorante discoteca al mare. Tutto autorizzato. Lavoravo con la pistola sotto il bancone per difendermi dai criminali, perchè le Forze dell'Ordine, quando ne hai bisogno, non ci sono mai. D'inverno qualcuno ha incendiato il tutto. Nessuna richiesta estorsiva. Solo un atto dimostrativo per gli altri. Succede anche questo, anche se i benpensanti parlano di omertà. Ti rovinano e non sai chi ed il perchè. Non mi è rimasto niente. Non ho ricevuto niente dallo Stato. Volevo riaprire con le mie forze e con coraggio ricominciare da zero. Quello Stato che prima mi ha fatto aprire, poi da vittima di mafia mi ha impedito di ricominciare, negandomi le autorizzazioni che già mi aveva rilasciato. Scegliendo la via professionale mi è stato impedito di esercitare l'avvocatura, così come la magistratura: non abilitato perchè non ero omologato. Non sopportavo corruzione ed ingiustizia nei tribunali. Mi sono ribellato difendendo le vittime, raccontando le loro storie. I Magistrati insabbiano le mie denunce e tentano in tutti i modi di condannarmi ingiustamente per diffamazione a mezzo stampa. Se sei diverso ti fanno passare per pazzo o mitomane. Non ci riescono. Ecco perchè la mia associazione nazionale si chiama "Associazione Contro Tutte le Mafie", perchè quelli come me i veri nemici li hanno nelle istituzioni. I servitori dello Stato, quindi "servi" nostri e pagati da noi, abusano dei loro poteri e nessuno li perseguita. Sbandierano leggi e sparlano di legalità: leggi e legalità che "lo stato" (s minuscola) calpesta sotto i piedi. Mi si dica: qual è la differenza tra chi ti fa chiudere l'azienda con le bombe e chi non te la fa riaprire? Io, Antonio Giangrande, non trovo differenza e per questo non sono pubblicizzato come Don Ciotti e "Libera": sostenuti da magistratura, media e politica e sindacati di sinistra.

La Mafia dell’Antimafia, non solo in testi, ma anche in video sui miei canali Youtube.
I veri amici condividono e fanno condividere le mie battaglie e fanno conoscere i miei strumenti di divulgazione. Chi non condivide in compagnia: è un ladro o una spia!

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD. Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta.

«Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo. Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà. E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno.
Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano.La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati. Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD. Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta. «Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo. Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà. E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno. Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano. La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati. Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.

I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.

IO NON SONO RAZZISTA, MA….

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Dr. Antonio Giangrande – Avvocato e scrittore perseguitato dal sistema.

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali.

A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. 

I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. 

Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. I non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. 

L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. 

Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso. 

Quando qualcuno, bianco o nero, cristiano, mussulmano o induista, ricco o povero, gay o etero, italiano o straniero, entra in casa nostra senza permesso è occupazione.

Quando questo qualcuno ci occupa casa e ci impone di sostentarlo è assoggettamento.

Quando qualcuno ci assoggetta e ci obbliga di abbracciare la sua cultura e la sua religione è invasione.

Quando qualcuno ci invade e noi ci rifiutiamo e reagiamo e questo poi ci mette la bomba in casa e/o ci uccide è conquista.

Bene. Se la legge è uguale per tutti, per tutti va applicata anche in caso di conquista di beni e persone. Quindi, di cosa stiamo parlando? 

Io non sono razzista e fascista: chiedo solo rispetto! A chiunque suoni alla mia porta e chiede permesso io lo faccio entrare! E se chiede aiuto io lo aiuto. 

Però non voglio essere occupato, assoggettato, invaso, conquistato o addirittura ucciso: sono razzista e fascista?

Sono nato bianco...

Sono nato bianco, il che fa di me un razzista.

Non voto a sinistra, il che fa di me un fascista.

Sono eterosessuale, il che fa di me un omofobo.

Non sono sindacalizzato, il che fa di me un traditore della classe operaia e un alleato del padronato.

Sono di religione cristiana, il che fa di me un cane infedele.

Rifletto, senza prendere per buono tutto ciò che mi dice la stampa, il che fa di me un reazionario.

Tengo alla mia identità e alla mia cultura, il che fa di me uno xenofobo.

Vorrei vivere in sicurezza e vedere i delinquenti in galera, il che fa di me un agente della Gestapo.

Penso che ognuno debba essere ricompensato secondo i suoi meriti, il che fa di me un antisociale.

Ritengo che la difesa di un Paese sia compito di tutti i cittadini, il che fa di me un militarista.

Amo l’impegno e lo sforzo di superare se stessi, il che fa di me un ritardato sociale.

Pertanto ringrazio tutti i miei amici, che hanno ancora il coraggio di frequentarmi, nonostante tutti questi difetti. 

(Marina Priami)

Sono nato mussulmano...

Sgozza gli infedeli ovunque li trovi (Corano 2:191)

Fa’ la guerra agli infedeli che vivono vicino a te (9:123)

Quando si presenta l’occasione, uccidi gli infedeli ovunque vengono catturati (9,5)

Gli ebrei ed i cristiani sono pervertiti. Combattili (9:30)

Uccidi gli ebrei ei cristiani, se non si convertono all’islam o se rifiutano di pagare la tassa jizya [tassa dell'umiliazione] (9,29)

Mutila e crocifiggi gli infedeli che criticano l’islam. (05:33)

Punisci i miscredenti con indumenti (gabbie) di fuoco, aste di ferro con ganci, acqua bollente, si fondano la loro pelle e il ventre (22:19)

Ogni religione diversa dall’Islam non è accettabile (3:85)

Non cercare la pace con gli infedeli. Decapitali quando li prendi prigionieri (47:4)

Terrorizza e decapita chiunque creda in altre scritture che il Corano (8:12)

I miscredenti sono stupidi. Esorta i musulmani di combatterli (8:65)

I musulmani non devono avere amici fra gli infedeli (3:28) )

I musulmani devono usare tutte le armi possibili per terrorizzare gli infedeli (8:60)

Gli infedeli sono impuri e non vanno lasciati entrare nelle moschee (9,28)

Sono vostri nemici. Evitateli. Che Dio li stermini. Come sono falsi ! (4,63)

Vi esortiamo a marciare contro le nazioni potenti. Le combatterete finché avranno abbracciato l’islam (16,47)

Gli infedeli sono cattivi (2, 25,26,255 - 8, 38 - 46, 29 - 3, 54) perfidi (2,26)- impostori(3- 54), empi (3, 144) - perversi (5,75) - i più perversi di tutti gli esseri creati (97,5) - bugiardi (6, 28 -51, 10) - gli animali più vili (8, 22, 57) -idolatri (9,5 )- criminali (10,14 -55,43)) - ingiusti (9 e 10, 53)- ipocriti (9, 69) - maledetti (9, 69) -prevaricatori 46, 19)

Metterò il terrore nel cuore degli infedeli. Tagliate loro la testa e schiacciategli le dita (8,12)

Che spettacolo, quando gli angeli uccidono gli infedeli! Li picchiano sulla faccia e sulle reni, gridando: “Voi giusterete il supplizio del fuoco (8,52)

Non sei tu che uccidi gli infedeli, è Dio. Quando tiri una freccia, non sei tu che la tiri, è Dio per mettere alla prova i fedeli, perché Dio sente e sa tutto (8,52)

Credenti! Combattete gli infedeli che vi avvicinano, che vi trovino sempre severi nei loro confronti (9, 124) (A&F)

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste.

Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno abbiamo bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane.

E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS?

Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti.

Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

Lo stesso sistema si adotta per la lotta alla mafia. Sostentamento e sovvenzioni alle associazioni vicine alla CGIL ed a loro assegnazione dei beni confiscati alla mafia.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci.

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

Cos’è la politica oggi?

Un bambino va dal padre e dice: Papà cos' è la politica? Il padre ci pensa e poi dice: Guarda te lo spiego con un esempio:

io che lavoro e porto a casa i soldi sono il CAPITALISTA;

tua madre che li amministra è il GOVERNO;

la nostra cameriera è la CLASSE OPERAIA;

il nonno che controlla che tutto sia in regola è il PARTITO COMUNISTA ed il SINDACATO;

noi tutti ci preoccupiamo che tu stia bene e tu, ormai, che hai qualche voce in capitolo sei il POPOLO;

tua sorella che è appena nata e porta ancora i pannolini è il FUTURO.

Hai capito figlio mio?

Il piccolo ci pensa e dice al padre che vuole dormirci su e riflettere una notte.

Il bambino va a dormire, ma alle due di notte viene svegliato dalla sorella che comincia a piangere perché ha sporcato il pannolino.

Il bambino va a cercare qualcuno.

Visto che non sa cosa fare, va nella camera dei suoi genitori. 

Lì c’è solo sua madre che dorme profondamente e chiamata dal bambino non si sveglia.

Così va nella camera della cameriera, ma la trova a letto col padre,

mentre il nonno sbircia dalla finestra.

Tutti sono così occupati che non si accorgono del bambino che chiede aiuto.

Perciò il bimbo ritorna a dormire.

Il mattino dopo il padre chiede al figlio se ha capito cosa sia la politica.

Sì, risponde il figlio.

Il CAPITALISMO approfitta della CLASSE OPERAIA;

Il SINDACATO sta a guardare;

Intanto il GOVERNO dorme;

Il POPOLO che chiede aiuto regolarmente non lo ascolta nessuno e viene completamente ignorato;

Il FUTURO è e resterà nella merda.

QUESTA E’ LA POLITICA!!!

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Amministratori pubblici di Avetrana. Ogni partigiano si scelga il migliore. Anche tra quelli che sfoderano una finta verginità o un presunta superiorità morale.

Ad Avetrana Il difensore del fioraio Buccolieri. «Raggirò i suoi clienti»: sotto processo l'avvocato ex sindaco, scrive Nazareno Di Noi Lunedì 24 Ottobre 2016 su “Il Quotidiano Di Puglia”. Avrebbe truffato il suo cliente facendosi consegnare la somma di quasi 200mila euro che sarebbe servita al liquidatore dell’assicurazione il quale era all’oscuro di tutto. Per questo l’avvocato di Avetrana Giovanni Scarciglia, già sindaco del suo Comune, è stato invitato a comparire il prossimo 7 dicembre davanti al giudice monocratico del tribunale di Taranto per rispondere dei reati di truffa aggravata e appropriazione indebita. Nei suoi confronti il pubblico ministero Filomena Di Tursi ha emesso un decreto di citazione in giudizio che salta la fase dell'udienza preliminare facendo a meno del controllo circa la fondatezza dell'accusa. Persone lese della presunta truffa sono due avetranesi, Antonio Minò, importatore di animali da macello con la moglie Maria Teresa Carrozzo, involontari protagonisti di una intricata e tristissima storia che parte dalla morte del proprio figlio Leonardo Luigi Minò, vittima di un incidente mortale della strada quando era ancora minorenne avvenuto il 19 settembre del 2000 ad Ancona. Il ragazzo viaggiava a bordo di un auto guidata da un suo zio di 23 anni, deceduto anche lui nell’incidente. Due lutti terribili che sconvolsero la famiglia Minò e l’intera comunità avetranese. I rilievi e le indagini della polizia stradale che si conclusero riconoscendo la non responsabilità della giovane vittima diedero il via alle pratiche risarcitorie a danno dell’assicurazione del mezzo. Fu allora che la famiglia Minò si rivolse al noto professionista il quale accettò di buon grado il compito di trattare il giusto compenso con la compagnia assicuratrice Unipol Sai. Il contenzioso si concluse con il riconoscimento a favore dei Minò della somma complessiva di 700mila euro suddivisa tra padre (280mila euro), madre (300mila) e sorella della vittima (120mila euro). L’avvocato Scarciglia, secondo quanto scrive la pm Di Tursi nella citazione a giudizio, «mediante raggiri ed artifici» fece credere al capofamiglia, suo assistito, che la somma concordata di 700mila euro «era condizionata alla dazione illecita della somma in contanti di 200.000 euro in favore del liquidatore Luca Coeli» (di Unipol Sai, ndr). Dalle indagini condotte, sarebbe emersa l’estraneità del liquidatore che, scrive il magistrato inquirente, era «in realtà del tutto ignaro della vicenda». L’avvocato imputato, sostiene l’accusa, avrebbe dunque «indotto in errore lo stesso Minò circa la necessità di corrispondere tale ingente somma». Tutto questo quanto l’assicurazione aveva già saldato il conto consegnando la somma pattuita nelle mani dell’avvocato, in parte con bonifico bancario in favore dell’assistito e in parte con assegni circolari non trasferibili intestati alla mamma e alla sorella della vittima. «Il predetto difensore – scrive il pm -, si procurava un ingiusto profitto consistito nel farsi consegnare in varie tranche da Minò la somma complessiva di 191.000 euro asserendo falsamente di doverla riversare al liquidatore». Lo stesso deve inoltre rispondere di appropriazione indebita perché, sostiene sempre il pm, «con abuso delle proprie relazioni di legale di fiducia, nell’ambito della pratica di risarcimento dei danni al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropriava di tre assegni circolari dell’importo di 50.000 euro ciascuno emessi a favore della moglie e della figlia» del suo assistito. A difendere l’avvocato Scarciglia sarà il suo collega Raffaele Errico.

In questo caso i giornalisti stanno molto attenti a non riportare i nomi.

Otto avetranesi condannati ad un'ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l'ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all'altezza del bivio per il Chidro, scrive il 06/04/2018 "Manduria Oggi. Per sette di loro la pena è sospesa per 7 anni. Condannati ad un’ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l’ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all’altezza del bivio per il Chidro. E’ la condanna inflitta a otto avetranesi, colpevoli di aver violato, secondo quanto riportato dal decreto penale di condanna del giudice per le indagini preliminari Benedetto Ruberto, il Regio Decreto numero 773 del 18 giugno 1931, contenuto nel testo unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. In altre parole, avrebbero manifestato, bloccando il transito degli autoveicoli, senza aver ricevuto il preventivo assenso da parte degli organi preposti a garantire la sicurezza nelle manifestazioni pubbliche. Per sette di loro, però, la pena pecuniaria, diminuita al di sotto del minimo edittale, è sospesa per due anni, a termini e condizioni di legge. Pena che diventerebbe esecutiva qualora uno o più soggetti sanzionati dovessero commettere nuovamente il reato. Ad uno degli otto avetranesi condannati, invece, la pena non è stata sospesa. Probabilmente avrà dei precedenti. Alcuni dei sanzionati, ascoltati ieri sera, hanno annunciato che, non appena sarà loro notificato il decreto di condanna, impugneranno l’atto. In tal senso, hanno quindici giorni di tempo per proporre opposizione, a partire dalla data di notifica dell’atto. Come è noto, nella primavera scorsa a più riprese gli ambientalisti di Avetrana (in particolar modo) e quelli di Manduria (in numero ridotto), si mobilitarono per cercare di impedire l’apertura del cantiere per la costruzione del depuratore consortile. In un paio di circostanze, gli agenti della Polizia di Stato verbalizzarono le generalità di alcuni manifestanti, facendo notare che non era stata concessa alcuna autorizzazione a manifestare in quell’area, bloccando peraltro il traffico automobilistico. Fra gli otto condannati, anche un attuale amministratore (Alessandro Scarciglia? nda) e un ex amministratore (Luigi Conte? nda).

Protestarono contro il depuratore a Urmo, condannati otto manifestanti. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette...scrive Lino Campicelli su Quotidiano di Puglia mercoledì 04 aprile 2018 riportato da "la Voce di Manduria". Decreto penale di condanna per gli otto avetranesi che l’8 marzo dell’anno scorso manifestarono nella zona di Specchiarica, marina di Manduria, dove l’Acquedotto pugliese installò il cantiere per realizzare il depuratore consortile dei due comuni di Manduria e Sava. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette degli otto coinvolti. Si è chiuso così il caso giudiziario legato alla partecipazione ad una manifestazione che non fu autorizzata. La stessa si tradusse nella identificazione dei protagonisti da parte degli uomini della Digos. Proprio quegli otto, infatti, furono identificati dalla Divisione di investigazioni generali e furono poi chiamati, alcuni giorni dopo, a presentarsi nel commissariato di polizia di Manduria per “comunicazioni”. Come si ricorderà, al momento della loro identificazione, gli operai dell’Aqp non erano ancora arrivati per delimitare il futuro cantiere, per cui la contestazione a carico dei partecipanti fu, appunto, quella della manifestazione non autorizzata. La stessa cosa, peraltro, che rischiarono successivamente i partecipanti ad un altro sitin inscenato nella stessa zona, su invito del «Comitato per la difesa del territorio e del mare». In quella circostanza, per disguidi di natura tecnica, fu spiegato dagli organizzatori ai numerosi partecipanti che l’autorizzazione non era stata presentata in tempo. Pertanto, tutti furono invitati a lasciare il punto d’ingresso del cantiere dove si erano assiepati, per spostarsi all’ in- terno di un vicino uliveto dove il leader del comitato, Pino Scarciglia, aveva improvvisato un comizio. Quell’avvertimento doveroso era giunto proprio in considerazione delle contestazioni operate dalla polizia l’8 marzo precedente. Nonostante quella manifestazione si fosse tradotta in proteste assolutamente pacifiche e ricche solo di slogan non offensivi, restava il fatto che non fosse stata autorizzata. Non è un caso, a questo proposito, che nei confronti degli otto destinatari del decreto penale di condanna sia stato contestata la violazione dell’articolo 18 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che sanzione appunto i promotori di una riunione pubblica che non abbia avuto il placet del questore. Per la cronaca, questa disposizione non si applica solo nel caso di riunioni elettorali. Quella in contrada Specchiarica, però, non fu affatto una riunione elettorale. Rappresentò, al contrario, lo sconcerto dei cittadini nei confronti di una realizzazione di cui, in ogni caso, non si aveva ancora del tutto contezza ed era ancora ricca di punti interrogativi. Il timore maggiore, come è noto, era legato all’ ipotesi de- gli scarichi in mare che avrebbero danneggiato per sempre la purezza delle acque locali. Scarichi che, a distanza di un anno da quella manifestazione, dovrebbero essere stati definitivamente banditi dal progetto definitivo.

Proteste a Urmo, denunciato anche Scarciglia e Di Lauro: solidarietà e silenzi, scrive sabato 24 giugno 2017 Nazareno Dinoi su "la Voce di Manduria". E’ salito a dieci il numero dei manifestanti denunciati dalla polizia per avere preso parte, lunedì 19 giugno, alla protesta pacifica che ha respinto le ruspe dal cantiere del depuratore previsto in zona Urmo-Specchiarica. Oltre alle tre mamme coraggio, Claudia Indrizzi, Alfonsina Costantini e Emilia Tarantini, all’assessora al Turismo, Claudia Scredo e all’ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, ieri l’invito a comparire è arrivato ad altri tre avetranesi tra cui il vicesindaco Alessandro Scarciglia. Unico manduriano raggiunto dall’avviso a comparire, l’avvocato Francesco Di Lauro, esponente dell’associazione Azzurro Jonio. I dieci devo rispondere del reato di violenza privata aggravata, dovranno ora nominarsi un legale per affrontare l’indagine che li riguarderà. Le donne si faranno difendere dall’avvocatessa Anna Macina che ieri ha accompagnato le sue assistite nel breve incontro avuto con il commissario Francesco Correre. Silenzio, intanto, da parte dell’amministrazione manduriana e dai politici con cariche di governo o istituzionali. Gli unici ad esprimere solidarietà, da questo fronte, sono i Verdi. «La Federazione dei Verdi di Manduria – si legge in una nota - esprime piena solidarietà ai sei manifestanti (solo dopo si saprà degli altri quattro, ndr), denunciati per avere, nella giornata del 19 giugno, impedito ai mezzi della ditta Putignano di accedere al cantiere del costruendo depuratore in contrada Urmo. I reati loro contestati sono di notevole gravità e contemplano anche la violenza privata. Non si può certo dire che le forze dell’ordine abbiano avuto la mano leggera – affermano i Verdi -, e dispiace constatare che, ancora una volta, cittadini, ambientalisti, mamme, tutti di specchiata onestà, debbano vedersi trattati come delinquenti solo perché, dopo aver tentato con ogni mezzo legale, possibile e immaginabile, di opporsi ad un intervento devastante, sono dovuti ricorrere ad un sit-in, per altro assolutamente pacifico, come estremo atto di difesa del proprio territorio». Ad Avetrana, invece, si parla e si prendono posizioni. Secco il commento del vicesindaco Scarciglia, destinatario ieri pomeriggio di una seconda denuncia (la prima l’aveva presa nel corso del precedente sit-in di marzo). «Chi protesta ad Urmo Belsito – dice - non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, ma è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio». L’ex sindaco Conte se la prende con i politici assenti, alludendo in questo alle forze politiche di Manduria del tutto lontani da quanto sta accadendo «Questa storia – scrive Conte - mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto».

Depuratore e polemiche: mamme coraggio ed ex sindaco, oggi tutti al commissariato di polizia, scrive Nazareno Dinoi su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 24 Giugno 2017.  Mentre per questa mattina alle 10,30 è prevista la convocazione in polizia dei sei manifestanti denunciati per aver preso parte al blocco del cantiere a Urmo-Specchiarica dove è previsto il depuratore di Manduria-Sava, il presidente del Consiglio comunale di Avetrana, Francesco Saracino, sta predisponendo i permessi per un nuovo sit-in di protesta per lunedì e martedì prossimi. A quanto pare, però, il vice questore aggiunto, Francesco Correra, dirigente del commissariato di Manduria, non ha dato ancora l’assenso chiedendo delle garanzie che l’amministratore avetranese non ha potuto dare. Il commissario vorrebbe concedere il nulla osta a condizione di circoscrivere la zona dove stazioneranno i manifestanti escludendo a priori sia le strade che le piazzone dell’incrocio sulla litoranea interna «Tarantina» che dà accesso all’uliveto, futura sede del depuratore consortile. Sempre ieri, intanto, il movimento politico di opposizione «Avetrana Riparte», ha diffuso un comunicato in cui si esprime solidarietà nei confronti dei propri rappresentanti, l’ex sindaco Luigi Conte e il giovane Silvio Mammano, tra i convocati di questa mattina dalla polizia. La stessa nota solidarizza anche con le mamme coraggio, Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi e Emilia Tarantini, componenti del comitato «Donne e mamme di Avetrana», anche loro denunciate per la manifestazione dello scorso 19 giugno quando l’opposizione di un centinaio di avetranesi con qualche manduriano riuscì a mandare indietro le ruspe dell’impresa Putignano di Noci, aggiudicataria dell’appalto per la realizzazione dell’opera. Il consigliere Conte ha diffuso così su Facebook la notizia dell’invito a presentarsi alla polizia. «Depuratore-mostro; sabato prossimo alle 10,15 sono stato invitato a comparire presso il commissariato di Manduria per affari di giustizia che mi riguardano il merito alla protesta contro la realizzazione del depuratore-mostro. Ritengo questo invito giusto e doveroso – aggiunge l’ex sindaco di centrosinistra - ed auspico che la polizia sulla scorta di un esposto e di una richiesta di accesso agli atti già di propria conoscenza, possa avere la stessa cura nell’invitare i vertici dell’Acquedotto pugliese e i responsabili regionali per chiedere chiarimenti in merito alle procedure seguite e alle autorizzazioni a monte dell’avvio dei lavori».Proprio di questo ha parlato ieri in un intervento Anna Macina, l’avvocatessa che ha perfezionato l’esposto alle procure della Repubblica di Taranto e Brindisi e la domanda di accesso agli atti presentata al comune di Manduria. «In merito al depuratore – scrive - ricordo che si è ancora in attesa di leggere autorizzazioni, valutazioni di impatto ambientale che consentano l’inizio dei lavori con variante! Su una cosa siamo tutti d’accordo – conclude l’avvocatessa Macina -, siamo fuori tempo massimo! La politica è fuori tempo massimo, quella che non ha teso l’orecchio, che non ha ascoltato e non ha dato voce ai territori. La politica “buona” si muova e si arrenda – conclude - perché i manifestanti non sono affetti da alcuna sindrome, sanno perfettamente cos’è un depuratore, lo vogliono ma lontane dalle coste, e la vera notizia è che non si arrenderanno». 

Depuratore: le denunce ai manifestanti e i commenti, scrive il 24 giugno 2017 Ciak Social. Alcuni partecipanti alla manifestazione in zona Urmo del 19 giugno, sono stati denunciati per organizzazione di manifestazione non autorizzata e violenza privata. Oggi sono stati convocati negli uffici del commissariato di polizia di Manduria per l’identificazione e la notifica dell’atto.  

Ad essere denunciate da parte dell’AQ sono alcune attiviste del comitato “Donne e mamme di Avetrana”: Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi, Emilia Tarantini; il consigliere comunale del gruppo “Avetrana Riparte” Luigi Conte; l’assessore al turismo del comune di Avetrana Claudia Scredo e Silvio Mammano.

Di ritorno oggi dal commissariato, Luigi Conte scrive su Facebook: “Appena tornato dal commissariato di Manduria con tanta serenità e con la consapevolezza di lottare per una causa giusta. Questa storia mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto! Care Donne e Mamme continuiamo a lottare…qualche piccolo risultato è già stato ottenuto ma non bisogna mollare! Conoscervi e lottare con voi è stato per me un privilegio ed un grande onore”.

Altro grande attivista della lotta contro lo scarico a mare prima e la localizzazione del depuratore ad Urmo poi, è Alessandro Scarciglia che commenta: “Oggi sono state denunciate sei persone che si aggiungono a chi, come il sottoscritto, fu già denunciato a marzo. Le ipotesi di reato variano: dall’organizzazione di manifestazione non autorizzata alla violenza privata. Leggo (non posso ricordare perché ero troppo piccolo) che nei primi anni ’80, i nostri genitori ci portavano per strada al fine di bloccare i mezzi che qualche prezzolato politico aveva inviato ad Avetrana per costruire la centrale nucleare. La forza di quelle persone e la presenza di quei bambini fece in modo di far tornare indietro, verso il mittente, le ruspe. La politica (o meglio, parte di essa) si svegliò solo dopo la grande rivoluzione popolare. Nel caso odierno del depuratore, invece, dopo le grandi proteste popolari, molti politici di ogni livello (parlamentari, regionali e comunali) sono scomparsi. Oggi, trovare politici che si oppongono ai poteri forti è diventato veramente raro. Chi protesta ad Urmo Belsito non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, professionisti di ogni genere. In poche parole, chi protesta oggi ad Urmo Belsito, è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio. Perché, ognuno nel suo piccolo, lo ha costruito con le proprie mani, con il proprio sudore e i sacrifici imposti alla propria famiglia. Qualcuno cerca di intimorire le mamme dicendo loro che rischiano una denuncia al tribunale dei minori se continuano a portare i propri figli sul luogo della protesta. MA questo “qualcuno” non comprende che la più grande condanna che potrebbero subire queste mamme e questi padri è quella che fra dieci o venti anni il proprio figlio possa dire “mamma, papà, perché avete permesso di distruggere il nostro territorio pur di salvaguardare gli interessi di pochi?”. Chi protesta se ne frega se qualche tecnico (divenuto mezzo politico) insiste a mettere delle enormi vasche (che loro intellettuali chiamano buffer) in mezzo alle case di Specchiarica. Chi protesta se ne frega di qualche amministratore o di qualche politico che non ha le palle di decidere. Chi protesta se ne frega anche di quelle associazioni (o pseudo tali) che credono di fare la rivoluzione sulla stampa ma che al momento di bloccare i mezzi non ci sono mai. Chi protesta oggi ad Urmo se ne frega del potere di AQP e dei suoi scagnozzi. Chi protesta ad Urmo Belsito oggi, difende il suo domani e, sicuramente, anche il futuro di chi oggi preferisce essere accomodante dei potenti”.

Ed ancora su Luigi Conte

Sindaco contro ex sindaco, Longo querela Conte per la questione del Crap di Avetrana. ​La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali, scrive martedì 3 aprile 2018 "La Voce di Manduria". La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali. Il sindaco di Maruggio, Alfredo Longo, ha querelato il consigliere comunale di opposizione ed ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, per delle affermazioni di quest’ultimo riguardanti un presunto coinvolgimento diretto del primo cittadino maruggese nella gestione della struttura di prossima apertura. Ne danno notizia in un comunicato stampa gli esponenti del “Comitato No-Crap” e del “Comitato per la tutela del territorio associato a Italia Nostra” (che si battono contro il depuratore a Urmo), entrambi di Avetrana. Nel documento in questione, gli autori esprimono “piena solidarietà al proprio socio dottor Luigi Conte che nelle sue funzioni di consigliere comunale – si legge -, ha avanzato critiche e rilievi sulla scelta amministrativa di far nascere una Crap dedicata a pazienti psichiatrici autori di reato, scelta che ha generato perplessità e preoccupazioni in gran parte della popolazione”. Il centro di recupero che molti avetranesi non vogliono, tra questi i partiti di minoranza nel consiglio comunale, è una “comunità assistenziale psichiatrica dedicata a soggetti che necessitano di interventi terapeutici ad alta intensità riabilitativa di lungo periodo con valutazione di rischio alto o moderato di comportamenti violenti (Così la definizione che ne dà la Regione Puglia nell’apposito atto costitutivo). Secondo i comitati avetranesi, le affermazioni di Conte, che Longo vuole censurare con la denuncia, non sono altro che “un pensiero critico sulle insufficienti garanzie di sicurezza del servizio e della struttura individuata come sede della Crap all’interno del contesto cittadino, sulla scarsa chiarezza dell’iter amministrativo seguito, sui ruoli e sulle responsabilità assunte dagli amministratori comunali, nel normale esercizio di dialettica politica democratica certamente è stato espresso dal consigliere Conte così come da altri consiglieri e da varie personalità chehanno voluto partecipare al dibattito pubblico che si è sviluppato di conseguenza”. L’incontro pubblico cui si fa riferimento nel comunicato, nel corso del quale il consigliere Conte avrebbe pronunciato le parole che non sono piaciute al sindaco di Maruggio, è quello organizzato dall’amministrazione comunale avetranese il 12 ottobre del 2017 con la presenza, appunto, del sindaco Longo (che intervenne in quel dibattito) e della società che gestirà il Crap, la “Sol Levante”. “Quel pensiero critico – conclude il comunicato stampa dei Comitati - rappresenta il sentire di tanti cittadini, a partire da tutti i componenti del comitato No Crap e meriterebbe il rispetto da parte di tutti coloro che amano la trasparenza e il libero svolgimento del dialogo democratico.”

Taranto, arrestate 27 persone per mafia: coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie. “Appalti, estorsioni e riciclaggio”. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così "soggiogati al sistema mafioso". Arrestati anche Antonio Minò e Giuseppe Margheriti, rispettivamente alla guida dei comuni di Avetrana ed Erchie. Un ex consigliere comunale di Manduria è accusato di scambio elettorale politico-mafioso, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 luglio 2017. Avevano creato un clima di intimidazione tra gli imprenditori locali, teso ad aggiudicarsi appalti pubblici, a imporre estorsioni e all’imposizione delle proprie ditte nella movimentazione terra. E avevano agganci “in alto”, fino ai vertici di due amministrazioni comunali, sospettano gli inquirenti, che questa mattina hanno eseguito 27 arresti (venti in carcere, 7 ai domiciliari) tra le province di Taranto e Brindisi nei confronti di un presunto sodalizio criminale di stampo mafioso.

Tra le persone coinvolte ci sono i primi cittadini di Avetrana ed Erchie, Antonio Minò e Giuseppe Margheriti. Oltre al vice-sindaco del paese nel Brindisino, Domenico Margheriti, e di un ex consigliere comunale di Manduria, sempre in provincia di Taranto, accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Minò è indagato per concorso esterno ed è stato rinchiuso in carcere, mentre Margheriti si trova ai domiciliari. I 27 sono ritenuti responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, voto di scambio, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il presunto clan, secondo la polizia di Taranto e la Dda di Lecce, voleva strutturarsi in un “centro di potere” che avesse la capacità di intrattenere rapporti con le realtà istituzionali del territorio e con la società civile, grazie all’infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così soggiogati al sistema mafioso. Sono 57 in tutto gli indagati nell’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce conclusa oggi con l’arresto in carcere di 20 persone e 7 ai domiciliari che devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, associazione mafiosa esterna, traffico di droga, estorsioni ed altri reati.

In carcere sono finiti: Giuseppe Buccoliero, Antonio Campeggio, Francesco D’Amore, Luciano Carpentiere, Davide Blasi, Agostino De Pasquale, Daniele Lorusso, Giampiero Mazza, Vito Mazza, Cosimo Merola, Fabrizio Monte, Cataldo Panariti, Cosimo Damiano Pichierri, Massimiliano Rossano, Oronzo Soloperto, Cosimo Storino, Leonardo Trombacca, Antonio Minò, Pasquale Pedone, Riccardo De Santis.

Ai domiciliari: Nicola Dimonopoli, Domenico Margheriti, Giuseppe Margheriti, Gianluca Mazza, Erminio Vitillio, Marco Monaco, Giorgio Pitardi.

I giudici riesaminano il sindaco Minò: "non ci fu estorsione", scrive Lino Campicelli su Quotidiano di Taranto ed il 7 marzo 2018 riportato da "la Voce di Manduria". Questo il risultato del secondo Riesame, celebrato dal tribunale di Lecce, che sancisce l’insussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico. Antonio Minò, sindaco di Avetrana coinvolto nell’inchiesta antimafia sui presunti intrecci fra criminalità organizzata e politica, non andava arrestato. E soprattutto non era da incriminare. Questo il risultato del secondo Riesame, celebrato dal tribunale di Lecce, che sancisce l’insussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico, relativamente all’episodio legato al tentativo di far assumere all’interno dell’associazione “Croce verde Faggiano” un uomo raccomandato dal boss Antonio Campeggio. Il Riesame, in accoglimento dei rilievi dell’avvocato Nicola Marseglia, ha fatto un passo indietro. Questa volta in ossequio alle indicazioni fornite di recente dai supremi giudici. Come si ricorderà, il 25 gennaio scorso, la Corte di Cassazione aveva annullato la decisione adottata in precedenza dal Riesame secondo cui, per il tentativo di estorsione contestato a Minò, vi sarebbero stati i gravi indizi di colpevolezza ma non “le esigenze cautelari”. In pratica, i giudici salentini avevano confermato la sussistenza dei gravi indizi. La Cassazione, però, aveva annullato con rinvio quell’ordinanza, non condividendone le motivazioni. E aveva dato mandato al collegio di “rivisitare” quel giudizio. Ieri, il Riesame ha esaminato il caso alla luce delle argomentazioni difensive ed ha concluso anche per l’insussistenza dei gravi indizi. In pratica, la condotta di Minò non si sarebbe tradotta in nulla di penalmente rilevante. Se tutto ciò si aggiunge al fatto che già in quella circostanza il Riesame aveva autonomamente annullato l’ordinanza degli arresti domiciliari a carico di Minò, in riferimento alla presunta accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, si comprende come il procedimento, che sfocia davanti al gup di Lecce a partire dal 20 marzo prossimo, dovrà fare i conti, proprio nel caso del sindaco di Avetrana, con la decisione del Riesame. Ovviamente, il giudizio del Riesame non ha carattere vincolante. Tuttavia, se l’ulteriore ordinanza emessa ha costituito una sorta di adesione convinta agli orientamenti proposti dai supremi giudici, il risultato che ne è scaturito non può non avere un riflesso sulla valutazione complessiva. Tanto più che a carico di Minò era stata già esclusa, in origine, e su decisione del tribunale del Riesame (peraltro presieduto dal dottor Silvio Maria Piccinno, lo stesso presidente che ha guidato ieri il collegio) la presunta condotta attuata per favorire l’associazione mafiosa. Sul punto, infatti, il Riesame sostenne all’epoca che «non può ritenersi realizzato dal Minò quel concreto e sostanziale contributo al rafforzamento del sodalizio di stampo mafioso».

Le mani della mala sul 118, la Fiera Pessima e l’eolico, scrive il 4 luglio 2017 “La Voce di Manduria. Emergono i primi particolari dall’inchiesta della polizia e dell’antimafia di Lecce che coinvolge 44 persone tra indagati a piede libero e arrestati in carcere e ai domiciliari, in gran parte provenienti dai comuni di Manduria, Avetrana, Erchie. Tra i reati contestati figurano il traffico di droga, estorsione e giro di tangenti. Si ipotizzano reati per il controllo della Fiera Pessima e del servizio ambulanze del 118, ma anche appalti milionari sull’eolico. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di aver concorso con esponenti della malavita organizzata per il controllo e la gestione del servizio ambulanze del 118 imponendo ad altre associazioni l’assunzione di alcuni esponenti della mala. Per la Fiera pessima si ipotizzano tentate estorsioni all’imprenditore che l’aveva gestita nel 2013 (si parla di una mazzetta, non consegnata, di 15 mila euro). Il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti, è indagato nell’ambito dei lavori di appalto dell’eolico affidato all’impresa Pedone di Manduria. Il consigliere comunale e medico del pronto soccorso, Nicola Dimonopoli è invece accusato di voto di scambio. Avrebbe fatto favori di natura sanitaria con pregiudicati del posto in cambio di appoggi alle ultime elezioni amministrative.

Mafia, 27 arresti, coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie, scrive Giacomo Rizzo, su “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 luglio 2017. Ha svelato un presunto intreccio tra mafia e politica l’inchiesta della Squadra Mobile di Taranto, coordinata dalla Dda di Lecce, sfociata oggi nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 27 indagati, due dei quali sfuggiti alla cattura. Gli inquirenti ritengono di aver disarticolato un’associazione di tipo mafioso, considerata frangia della Sacra Corona Unita, strutturata in tre gruppi collegati tra loro, che operavano nel versante orientale della provincia di Taranto e nei comuni limitrofi del Brindisino e del Leccese. Sono cinque i politici raggiunti da misura cautelare: in carcere il sindaco di Avetrana Antonio Minò (eletto nel 2016, a capo della Lista civica «Per Avetrana»), ai domiciliari invece il sindaco di Erchie (Brindisi) Giuseppe Margheriti (eletto nel 2015 per il terzo mandato con una coalizione di centrodestra), l’ex vice sindaco Domenico Margheriti, l’ex consigliere comunale di Manduria Nicola Dimonopoli (fu eletto nel 2013 con la lita civica «Proposta per Manduria») e l’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano.  Il presunto clan, secondo gli inquirenti, oltre ad occuparsi del traffico di droga e delle estorsioni, mirava a strutturarsi in «centro di potere» in grado di relazionarsi con le realtà istituzionali e con la società civile attraverso la sua capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Delle 27 ordinanze emesse dal gip del tribunale di Lecce Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore della Dda Alessio Coccioli, 20 prevedono la custodia in carcere e 7 ai domiciliari. Sessanta in tutto gli indagati. Sono indicati come organizzatori e promotori Antonio Campeggio, Francesco D’Amore (del gruppo che operava a Manduria e San Giorgio Jonico), Giuseppe Buccoliero (referente nel Comune di Sava), Gianpiero e Vito Mazza (sempre per la zona di Manduria). Tra gli episodi contestati spicca la tentata estorsione ai danni dei vincitori (nel 2012) dell’appalto di realizzazione della 272ma “Fiera pessima” di Manduria, ai quali fu chiesta una tangente di 30mila euro, con la giustificazione, da parte di Antonio Campeggio, di dover «accontentare persone di Bari, di Taranto e di Mesagne». Una parte sostanziosa dell’ordinanza del gip Vergine è dedicata al ruolo dei politici. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa non per la sua carica istituzionale ma in qualità di presidente dell’Associazione «Avetrana Soccorso» del 118. Secondo l’accusa, avrebbe fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari del clan, mettendosi a disposizione di Antonio Campeggio e Francesco D’Amore. Il sindaco di Erchie Giuseppe Margheriti e l’ex vice sindaco Domenico Margheriti rispondono di corruzione aggravata, per aver ottenuto, a titolo di tangente, - secondo gli investigatori - il pagamento di 80mila euro, oltre alla promessa di ulteriori dazioni di danaro, dietro l’impegno ad agevolare l'assegnazione di futuri appalti di opere pubbliche: in particolare i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip per un importo complessivo di oltre un milione di euro alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella.  All’ex consigliere comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che si è dimesso pochi giorni fa, è contestato il voto di scambio politico mafioso. Infine, l’ipotesi di corruzione è contestata all’ex assessore comunale di Manduria Massimiliano Raso, il quale si sarebbe interessato, dietro la promessa di pagamento di 1500 euro da parte del legale rappresentante di una società sportiva, per garantire l’affidamento diretto dei lavori di messa a norma della pista di pattinaggio del Centro Sportivo Polivalente di Manduria. (Giacomo Rizzo, ANSA) 

Mafia pugliese. Operazione della Polizia, 27 arrestati, scrive "Il Corriere del giorno" il 5 luglioluglio 2017. Gli uomini dalla Squadra Mobile di Taranto Polizia di Taranto, affiancati dai colleghi dello S.C.O. il  Servizio Centrale Operativo, delle Squadre Mobili di Lecce, Foggia, Brindisi, L’ Aquila ed Alessandria, e del Reparto Prevenzione Crimine di Lecce, col supporto del Reparto Volo e di unità cinofile di Bari,  hanno eseguito  all’alba di oggi  20 ordinanze di custodia cautelare in carcere e 7 ai arresti domiciliari,  provvedimenti restrittivi disposti dal gip del tribunale di Lecce dr.ssa Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore dr. Alessio Coccioli della Direzione Distrettuale Antimafia, nell’ambito di un’operazione che ha visti impegnati circa 200 poliziotti, le unità cinofile ed un elicottero del Reparto Volo di Bari, eseguita  nei confronti di un sodalizio criminale di stampo mafioso . Nell’inchiesta risultano indagate complessivamente 60 persone. Un importante contributo è derivato dalle attività d’intercettazione, i cui contenuti sono risultati nella maggior parte dei casi facilmente intellegibili, a dimostrazione dell’arroganza criminale dei soggetti intercettati, che parlavano apertamente della azioni criminali già compiute e rivelavano la loro appartenenza al clan, in uno scambio di opinioni col quale si voleva allo stesso tempo infondere il potere mafioso e capacità di assoggettamento verso i componenti delle altre articolazioni. Fra le ipotesi contestate vi è anche quella di riciclaggio, avendo taluni indagati (fra i quali Riccardo De Santis , attinto da misura) acquistato dal clan “D’Amore-Campeggio”, pur conoscendone la provenienza delittuosa, migliaia di capi di abbigliamento per un valore di 150mila euro da pagare in denaro contante, ostacolando l’ identificazione della stessa merce , occupandosi poi del suo smistamento, commercializzazione, trasferimento e sostituzione, il tutto in nero e senza fatture. Legata a tali condotte è pure l’intestazione fittizia a terze persone di società riconducibili al De Santis.

Fra i 27 arrestati compaiono anche amministratori ed esponenti politici locali fra i quali il sindaco di Avetrana, indagato per concorso esterno, Antonio Minò (a sinistra nella foto) infermiere professionale ed ex presidente dell’associazione Avetrana Soccorso, ed un’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano il quale avrebbe anche ricevuto una tangente per i lavori alla pista di pattinaggio, indagato per scambio elettorale politico-mafioso (entrami comuni della provincia di Taranto ). Minò all’ epoca dei fatti (2013) era presidente dell’ Associazione Avetrana Soccorso del 118 provincia Jonica, ha fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari, del prestigio e della fama criminale dell’ articolazione rappresentata dal citato clan, mettendosi a completa disposizione degli indagati  Antonio Campeggio e Francesco D’Amore, nonché degli altri esponenti della medesima articolazione, agevolando l’ imposizione dell’assunzione del secondo, in qualità di autista, presso la postazione di San Giorgio Jonico, ai danni del presidente dell’ associazione Croce Verde Faggiano, ovvero provvedendo lui stesso all’ assunzione di altri sodali indicatigli dal Campeggio. Le tre diramazioni del clan mafioso agivano prevalentemente nel triangolo della provincia tarantina, fra Manduria, San Giorgio e Sava, e sono qualificabili come frange della Sacra Corona Unita. Grazie a intestazioni fittizie, secondo l’accusa il clan è riuscito anche a vincere gare d’appalto per il servizio di 118 in diversi comuni, reinvestendo circa 150mila euro di fondi pubblici in bar e ristoranti.

Ai domiciliari è finito Nicola Dimonopoli, un medico ex consigliere comunale di Manduria, il quale era stato eletto nel 2013 con la lista civica “Proposta per Manduria”, dimessosi lo scorso 30.06.2017 poco prima dell’arresto , il quale come si evince dall’ordinanza, per ottenere voti alle amministrative del 2013 si era rivolto al clan con cui  ha stretto un patto di scambio politico-mafioso garantendo denaro e prestazioni mediche (una prognosi gonfiata in occasione di un sinistro stradale), arrivando persino a fare pressioni e minacciare gli altri consiglieri inducendoli a eleggerlo presidente del consiglio comunale. L’organizzazione mafiosa ha altresì procurato voti ad esponenti politici ad essa vicini, nell’ aspettativa di ricevere in cambio favori e appalti pubblici, in particolare in occasione della competizione elettorale comunale di Manduria, per la elezione diretta ·del sindaco e del consiglio comunale, tenutasi nel Maggio – Giugno del 2013. A fronte della promessa di ottenere l’appoggio elettorale, con procacciamento di voti raccolti mediante l’esercizio della forza di intimidazione dell’associazione, il candidato Nicola Dimonopoli (destinatario della misura degli arresti domiciliari) aveva assunto impegno nei confronti del Campeggio capo della propria articolazione mafiosa a versargli cospicue somme denaro con cadenza mensile. Da qui la contestazione del reato (scambio politico mafioso) di cui all’ art. 416 ter c.p. .nei confronti del Dimonopoli, che all’ epoca dei fatti svolgeva servizio al pronto soccorso dell’ ospedale M. Giannuzzi di Manduria, risulta aver concesso prestazioni mediche facendo ottenere, sempre su richiesta di Antonio Campeggio, giorni di prognosi a persone a costui vicine e coinvolte in incidenti stradali, ed ottenendo in cambio un intervento da parte del primo nei confronti di coloro che, di seguito all’elezione, non volevano sostenerlo per la carica alla presidenza del consiglio del comune di Manduria.

Agli arresti domiciliari sono finiti anche Giuseppe Margheriti, sindaco di Erchie, comune della provincia di Brindisi, e l’ex vicesindaco ed attuale consigliere comunale Domenico Margheriti, accusati entrambi di corruzione aggravata per aver incassato una tangente da 80mila euro per pilotare un appalto per i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip del valore di un milione di euro per lavori da eseguire  nella zona industriale alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella. Il sindaco di Erchie viene accusato anche di aver mandato segnalazioni false alla Regione Puglia ed emesso un’ordinanza per bloccare un cantiere eolico in cambio della promessa di una percentuale sul subappalto che una ditta vicina al clan voleva ottenere per i lavori di movimento terra nel cantiere. Il clan mafioso smantellato era diretto da Antonio Campeggio (noto come Tonino scippatore), Antonio Buccoliero (noto come Peppolino capone) e Francesco D’Amore, secondo gli inquirenti, cercava di strutturarsi  in un “centro di potere”, in occasione delle amministrative di maggio 2013 a Manduria procurando voti, capace di infiltrarsi  nelle istituzioni e con la società civile grazie alla capacità di inserirsi negli affari economico-imprenditoriale locali, puntava a ricevere appalti in lavori pubblici e servizi del 118 creando un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano in tal modo sottomessi al sistema mafioso, che così si insinuava nell’aggiudicazione di appalti pubblici alle estorsioni, dall’imposizione nelle attività di «movimento terra» al riciclaggio. Campeggio, Buccoliero e D’amore avevano già un ruolo direttivo in seno alla frangia manduriana della Sacra Corona Unita, ed in particolare di affiancamento al Cinieri Massimo, alias Massimino molletta, durante la contrapposizione, alla fine degli anni ’80 e primi anni ’90, del gruppo da quest’ultimo capeggiato alla cosca di Stranieri Vincenzo (elemento di vertice della SCU). Periodo in cui si registrarono delle vere e proprie lotte armate per il controllo delle attività illecite sul territorio, culminate anche in omicidi o tentati omicidi di esponenti di vertice, sino alla scalata al vertice del Cinieri ed alla costituzione del sodalizio mafioso denominato “Sacra Corona Libera”, operante nelle province di Brindisi e Taranto. Negli anni, a seguito della riconciliazione tra il vecchio padrino ed il Cinieri, Antonio Campeggio è divenuto il soggetto sul quale il clan Stranieri decideva di puntare. Gli arrestati vengono ritenuti dalla Direzione Distrettuale Antimafia, responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, scambio politico elettorale-mafioso, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti.  In carcere il sindaco di Avetrana, Antonio Minò. Il primo cittadino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito assunzioni al 118 imposte dal clan. Molteplici gli episodi accertati di estorsione. Tra le quali una ad un cantiere da 10 milioni di euro che lavorava alla realizzazione della nuova rete di acqua potabile per i comuni di Leporano e Pulsano, ma anche quella perpetrata nel 2010 ai danni degli organizzatori della Fiera Pessima di Manduria, che vennero costretti a pagare un pizzo di 30mila euro per non avere problemi e ritorsioni dal clan mafiosi.

Questi i destinatari della custodia cautelare in carcere:

BIASI Davide, anni 39, nato a Taranto;

BUCCOLIERO Giuseppe, anni 48, nato a Sava (TA), attualmente detenuto presso il carcere di Sulmona;

CAMPEGGIO Antonio, anni 47, nato a Manduria (TA);

CARPENTIERE Luciano, anni 51, nato a Brindisi;

D’AMORE Francesco, anni 49, nato a San Giorgio Jonico (TA);

DE PASQUALE Agostino, anni 58, nato a Manduria (TA);

DE SANTIS Riccardo, anni 49, nato a Taranto;

LORUSSO Daniele, anni 38, nato a Taranto;

MAZZA Gianpiero, anni 36, nato a Manduria (TA) attualmente detenuto presso il carcere di Taranto;

MAZZA Vito, anni 40, nato a Manduria (TA);

MINO’ Antonio, anni 57, nato a Manduria (TA);

MONTE Fabrizio, anni 48 nato a Latiano (BR);

PANARITI Cataldo, anni 38, nato a Manduria (TA);

PICHIERRI Cosimo Damiano, anni 53, nato a Sava (TA);

ROSSANO Massimiliano, anni 46, nato a Bologna;

SOLOPERTO Oronzo, anni 36, nato a Manduria (TA);

TROMBACCA Leonardo, anni 37, nato a Manduria (TA);

PEDONE Pasquale, anni 63, nato a Manduria (TA);

Questi i destinatari della misura degli arresti domiciliari:

DIMONOPOLI Nicola, anni 52, nato a Manduria (TA);

MARGHERITI Domenico, anni 58, nato a Erchie (BR);

MARGHERITI Giuseppe Antonio Salvatore, anni 46 nato a Brindisi;

MAZZA Gianluca, anni 23, nato a Manduria (TA);

MONACO Marco, anni 24, nato a Mesagne (BR);

PITARDI Giorgio, anni 26, nato a Melpignano (LE).

Blitz antimafia. La piovra manduriana nel potere economico e politico, scrive Nazareno Dinoi il 5 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale. Esponenti della malavita organizzata tra potere economico e politico in un intreccio quasi asfissiante che mirava a controllare l’economia e le risorse pubbliche del territorio. La «piovra messapica» come non era stata mai presentata prima, ha sconvolto la tranquilla comunità manduriana sbattuta in prima pagina e nelle notizie d’apertura dei telegiornali per fatti che lasciano a bocca aperta. Sono quasi tutti nomi di spicco e di peso, sia criminale che politico, quelli finiti nelle 592 pagine di un’informativa dai contenuti per certi aspetti inquietanti. Dal sindaco di Avetrana, Antonio Minò, all’ex presidente del Consiglio e consigliere comunale dimissionario di Manduria, Nicola Dimonopoli, passando per l’ex assessore al Turismo e spettacolo, Massimiliano Rossano con ombre che si allungano su alte cariche pubbliche della stessa città Messapica i cui nomi vengono solo citati nell’inchiesta perchè i «risvolti penali a loro carico sono risultati esigui» e pertanto risparmiati da ogni provvedimento nemmeno da indagati. Dal girone dei politici, sono due i personaggi che più di tutti hanno provocato sgomento e incredulità in questo versante della provincia jonica: quelli del sindaco di Avetrana Minò e del consigliere Dimonopoli. Il primo è stato coinvolto non in qualità di politico ma in quanto imprenditore. Fondatore e patron di un’associazione per l’assistenza e il soccorso di infermi convenzionata con la Asl che gli ha affidato la gestione della postazione del 118 di Manduria, su di lui pesa l'accusa di concorso esterno di associazione mafiosa e per questo è stato rinchiuso nel carcere di Taranto. Il dottore Dimonopoli, medico in servizio al pronto soccorso di Manduria, ai domiciliari, è accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Associazione mafiosa per Rossano ritenuto invece organico al presunto clan capeggiato da Antonio Campeggio, entrambi in carcere. Il sindaco Minò, secondo l’accusa, avrebbe fornito «consapevolmente e volontariamente» un contributo importante al rafforzamento, dell'articolazione del sodalizio del «padrino» Campeggio, «mettendosi a completa disposizione agevolando l'imposizione dell'assunzione di un componente del clan, in qualità di autista, nella postazione del 118 di San Giorgio Jonico, obbligando per questo il presidente l'associazione Croce Verde Faggiano. Sempre secondo la procura antimafia che lo indaga, il primo cittadino avrebbe provvedendo lui stesso all'assunzione, nella sua associazione «Avetrana soccorso» di altri membri della stessa organizzazione mafiosa. Ad incastrare Minò ci sono diverse intercettazioni telefoniche e ambientali mentre prende accordi diretti con il presunto capoclan Campeggio. Di diversa natura il coinvolgimento dell’ex consigliere Dimonopoli (da quattro giorni dimissionario per divergenze politiche con il resto del gruppo di minoranza), il quale avrebbe chiesto e ottenuto appoggi elettorali ad esponenti della malavita in cambio di favori legati alla sua attività professionale come certificazioni mediche con giorni di prognosi. Più complessa la posizione dell’ex assessore Rossano che deve rispondere di accuse ben più pesanti. Secondo gli inquirenti, il dipendente Asl (anche lui impiegato al pronto soccorso del Giannuzzi), farebbe parte dell’organizzazione mafiosa del «padrino» manduriano. Inoltre, nel periodo in cui ha ricoperto la carica assessorile, avrebbe favorito una ditta locale con la promessa di una tangente di 1.400 euro. Molto più grave la terza accusa: avrebbe costretto l’impresa che gestiva l’edizione della Fiera Pessima manduriana del 2012 ad assumere il controllo sulla guardiania della campionaria. La «piovra», spiegano gli investigatori nelle loro indagini, investiva il denaro sporco accumulato con il traffico di sostanze stupefacenti, rilevando aziende sane. Tra queste, i cui nomi compaiono nel fascicolo, i ristoranti balneari di Campomarino, Don Piccio e Bikini. L’investimento della mala non risparmiava il business del 118. Per questo è stato arrestato l’imprenditore Leonardo Trombacca, nome storico nel campo delle pompe funebri, affidatario di una convenzione con la Asl per la gestione della postazione 118 di Avetrana. Per la procura una parte dei guadagni finivano nelle casse del sodalizio criminale guidato da Campeggio. L’associazione, di fatto controllata da Trombacca, era stata intestata fittiziamente ad uno dei suoi dipendenti che risulta per questo indagato. Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale, Giuseppe Caforio, titolare dell’azienda di serramenti. Dalle indagini è emerso che nessuno di loro ha ceduto al pizzo.

Mafia e politica, la difesa di Minò e Dimonopoli, scrive Nazareno Dinoi il 7 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Tra le lacrime di alcuni e i silenzi di altri, si è conclusa ieri la prima delicata fase degli interrogatori di garanzia delle persone raggiunte martedì mattina dai provvedimenti di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessi dal Tribunale di Lecce su richiesta della della Direzione distrettuale antimafia che indaga su presunte contaminazioni della sacra corona unita nel tessuto imprenditoriale e politico dei comuni di Manduria, Avetrana e Erchie. Il più drammatico confronto con il gip Pompeo Carriere, delegato con rogatoria dalla giudice Cinzia Vergine che ha disposto le misure, è stato sicuramente quello con il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo cittadino, coinvolto nell’inchiesta non nel suo ruolo istituzionale ma come presidente di un’associazione di volontariato, «Avetrana Soccorso», convenzionata con la Asl di Taranto per la gestione della postazione 118 di Manduria, ha dichiarato tra le lacrime la propria innocenza dicendosi quindi estraneo a qualsiasi collusione con gli ambienti della malavita. In merito alla sua presunta pressione esercitata nei confronti del presidente di un’altra associazione di San Giorgio per l’assunzione di un esponente del clan di Antonio Campeggio, ritenuto a capo dell’organizzazione mafiosa, Minò avrebbe giustificato tale circostanza come un atto di solidarietà su cui si fonderebbe l’associazione di cui è presidente. Nel corso dell’interrogatorio non sarebbero mancati momenti di profondo sconforto da parte del politico che in più occasioni è stato costretto a fermarsi perché impossibilitato ad andare avanti. Parlando poi con uno dei suoi avvocati, Mario De Marco, che è anche componente della giunta, il sindaco si è raccomandato per il buon andamento dell’amministrazione invitando il vicesindaco Alessandro Scarciglia, che lo sostituisce, a fare di tutto per non far sentire la sua mancanza e per difendere l’ente nel migliore dei modi. Anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che deve rispondere di scambio elettorale politico – mafioso, ha preferito rispondere alle domande del gip sottraendosi anche lui da ogni accusa. L’ex consigliere, medico alle dipendenze della Asl di Taranto, avrebbe negato qualsiasi accordo con elementi della malavita ai quali non avrebbe chiesto appoggi dicendosi certo di conoscere quasi tutti i suoi elettori. A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Una mossa, questa, spiegata probabilmente dalla necessità, per gli avvocati, di prendere visione degli atti in mano alla procura antimafia prima di imbastire una linea di difesa. Tutto il folto collegio difensivo composto dai penalisti Nicola Marseglia, Mario De Marco, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo, Mimmo Micera, Gaetano Vitale, Luigina Brunetti, Antonio Liagi ed altri, sono già al lavoro per il ricorso al Tribunale del riesame al quale chiedere intanto la revoca delle misure imposte ai propri assistiti. Desterebbero preoccupazioni infine le condizioni di salute dell’ex assessore manduriano, Massimiliano Rossano, anche lui in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, sottoposto più volte a visita medica. Rossano che è operatore socio sanitario in servizio al pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria, è sospettato di essere parte attiva dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Antonio Campeggio, detto “Tonino scippatore”.

Inchiesta Dia, parlano gli indagati. Minò: rifarò il sindaco - Dimonopoli: basta con la politica, scrive Nazareno Dinoi il 27 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò e l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, sono tornati liberi. Ieri il Tribunale del Riesame di Lecce ha accolto le richieste dei rispettivi avvocati, Nicola Marseglia del primo e Franz Pesare e Armando Pasanisi il secondo. Il primo cittadino di Avetrana ha lasciato il carcere di Taranto dove era rinchiuso dal 4 luglio, mentre Dimonopoli può lasciare il proprio domicilio dove era ristretto. Il sindaco è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa mentre Dimonopoli di voto di scambio. Minò ha fatto rientro a casa nel tardo pomeriggio di ieri accolto da una folla di parenti e cittadini in festa. Lui, visibilmente commosso e provato, ha abbracciato tutti prima di chiudersi in casa con i parenti e i suoi più stretti collaboratori. Ed ha trovato il tempo per rilasciare delle dichiarazioni. «Non ho mai dubitato e non dubiterò mai della giustizia, il mio – dice Minò - lo considero un incidente di percorso che, sono sicuro, sarà risolto definitivamente». Pronto a rimettersi in gioco, il primo cittadino non vede l’ora di riprendere la sua attività politica. «Già da lunedì – racconta – sarò nel mio ufficio in municipio e riprenderò le redini del mio comune con più energie di prima». Poi l’appello rivolto agli organi d’informazione. «Voi fate il vostro dovere e lo comprendo, ma adesso tocca a voi darmi quello che merito, la mia figura ha bisogno di positività e in questo confido in voi». Infine i ringraziamenti. «Alla mia famiglia prima di tutto che mi è stata molto vicina in questi terribili giorni, e poi a tutti gli amici e agli amministratori anche di opposizione che hanno compreso. Un ringraziamento particolare - conclude il sindaco –, al mio avvocato Marseglia che si è dimostrato un uomo e un professionista all’altezza della situazione».

Uno degli avvocati di Antonio Minò, Mario De Marco, così commenta: “La decisione del Tribunale di riesame oltre a dare grande sollievo al Sindaco ed alla sua famiglia conferma la debolezza di indagini molto sommarie svolte con metodo inquisitorio ma soprattutto allontana anche il mero accostamento tra la comunità avetranese ed ogni forma di attività criminale”. Altrettanto sollevato ma di umore differente si è presentato invece l’ex presidente del consiglio, il manduriano Dimonopoli che di politica non ne vuole più sapere. «Con questa storia ho chiuso completamente con la politica; ho capito ora più che mai quanto sia sporca; adesso – conclude Dimonopoli che è medico ospedaliero – devo concentrarmi a riconquistare la fiducia delle persone che mi stimano e dei miei pazienti». Naturalmente sia Minò che Dimonopoli restano indagati a piede libero e rischiano comunque il processo.

Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari nonostante le pesanti accuse di corruzione in associazione mafiosa di cui è accusato e i suoi numerosi precedenti penali. Confermate invece le misure detentive per i manduriani Luciano Carpentiere e Vito Mazza. Resta ai domiciliari anche il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti mentre è libero l’ex suo vicesindaco, Domenico Margheriti. Il collegio difensivo di ieri era composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo, Nicola Marseglia, Raffaele Missere, Fabrizio Lamanna e Michele Iaia.

Amministratori pubblici di Avetrana. Ogni partigiano si scelga il migliore. Anche tra quelli che sfoderano una finta verginità o un presunta superiorità morale.

Ad Avetrana Il difensore del fioraio Buccolieri. «Raggirò i suoi clienti»: sotto processo l'avvocato ex sindaco, scrive Nazareno Di Noi Lunedì 24 Ottobre 2016 su “Il Quotidiano Di Puglia”. Avrebbe truffato il suo cliente facendosi consegnare la somma di quasi 200mila euro che sarebbe servita al liquidatore dell’assicurazione il quale era all’oscuro di tutto. Per questo l’avvocato di Avetrana Giovanni Scarciglia, già sindaco del suo Comune, è stato invitato a comparire il prossimo 7 dicembre davanti al giudice monocratico del tribunale di Taranto per rispondere dei reati di truffa aggravata e appropriazione indebita. Nei suoi confronti il pubblico ministero Filomena Di Tursi ha emesso un decreto di citazione in giudizio che salta la fase dell'udienza preliminare facendo a meno del controllo circa la fondatezza dell'accusa. Persone lese della presunta truffa sono due avetranesi, Antonio Minò, importatore di animali da macello con la moglie Maria Teresa Carrozzo, involontari protagonisti di una intricata e tristissima storia che parte dalla morte del proprio figlio Leonardo Luigi Minò, vittima di un incidente mortale della strada quando era ancora minorenne avvenuto il 19 settembre del 2000 ad Ancona. Il ragazzo viaggiava a bordo di un auto guidata da un suo zio di 23 anni, deceduto anche lui nell’incidente. Due lutti terribili che sconvolsero la famiglia Minò e l’intera comunità avetranese. I rilievi e le indagini della polizia stradale che si conclusero riconoscendo la non responsabilità della giovane vittima diedero il via alle pratiche risarcitorie a danno dell’assicurazione del mezzo. Fu allora che la famiglia Minò si rivolse al noto professionista il quale accettò di buon grado il compito di trattare il giusto compenso con la compagnia assicuratrice Unipol Sai. Il contenzioso si concluse con il riconoscimento a favore dei Minò della somma complessiva di 700mila euro suddivisa tra padre (280mila euro), madre (300mila) e sorella della vittima (120mila euro). L’avvocato Scarciglia, secondo quanto scrive la pm Di Tursi nella citazione a giudizio, «mediante raggiri ed artifici» fece credere al capofamiglia, suo assistito, che la somma concordata di 700mila euro «era condizionata alla dazione illecita della somma in contanti di 200.000 euro in favore del liquidatore Luca Coeli» (di Unipol Sai, ndr). Dalle indagini condotte, sarebbe emersa l’estraneità del liquidatore che, scrive il magistrato inquirente, era «in realtà del tutto ignaro della vicenda». L’avvocato imputato, sostiene l’accusa, avrebbe dunque «indotto in errore lo stesso Minò circa la necessità di corrispondere tale ingente somma». Tutto questo quanto l’assicurazione aveva già saldato il conto consegnando la somma pattuita nelle mani dell’avvocato, in parte con bonifico bancario in favore dell’assistito e in parte con assegni circolari non trasferibili intestati alla mamma e alla sorella della vittima. «Il predetto difensore – scrive il pm -, si procurava un ingiusto profitto consistito nel farsi consegnare in varie tranche da Minò la somma complessiva di 191.000 euro asserendo falsamente di doverla riversare al liquidatore». Lo stesso deve inoltre rispondere di appropriazione indebita perché, sostiene sempre il pm, «con abuso delle proprie relazioni di legale di fiducia, nell’ambito della pratica di risarcimento dei danni al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropriava di tre assegni circolari dell’importo di 50.000 euro ciascuno emessi a favore della moglie e della figlia» del suo assistito. A difendere l’avvocato Scarciglia sarà il suo collega Raffaele Errico.

In questo caso i giornalisti stanno molto attenti a non riportare i nomi.

Otto avetranesi condannati ad un'ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l'ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all'altezza del bivio per il Chidro, scrive il 06/04/2018 "Manduria Oggi. Per sette di loro la pena è sospesa per 7 anni. Condannati ad un’ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l’ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all’altezza del bivio per il Chidro. E’ la condanna inflitta a otto avetranesi, colpevoli di aver violato, secondo quanto riportato dal decreto penale di condanna del giudice per le indagini preliminari Benedetto Ruberto, il Regio Decreto numero 773 del 18 giugno 1931, contenuto nel testo unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. In altre parole, avrebbero manifestato, bloccando il transito degli autoveicoli, senza aver ricevuto il preventivo assenso da parte degli organi preposti a garantire la sicurezza nelle manifestazioni pubbliche. Per sette di loro, però, la pena pecuniaria, diminuita al di sotto del minimo edittale, è sospesa per due anni, a termini e condizioni di legge. Pena che diventerebbe esecutiva qualora uno o più soggetti sanzionati dovessero commettere nuovamente il reato. Ad uno degli otto avetranesi condannati, invece, la pena non è stata sospesa. Probabilmente avrà dei precedenti. Alcuni dei sanzionati, ascoltati ieri sera, hanno annunciato che, non appena sarà loro notificato il decreto di condanna, impugneranno l’atto. In tal senso, hanno quindici giorni di tempo per proporre opposizione, a partire dalla data di notifica dell’atto. Come è noto, nella primavera scorsa a più riprese gli ambientalisti di Avetrana (in particolar modo) e quelli di Manduria (in numero ridotto), si mobilitarono per cercare di impedire l’apertura del cantiere per la costruzione del depuratore consortile. In un paio di circostanze, gli agenti della Polizia di Stato verbalizzarono le generalità di alcuni manifestanti, facendo notare che non era stata concessa alcuna autorizzazione a manifestare in quell’area, bloccando peraltro il traffico automobilistico. Fra gli otto condannati, anche un attuale amministratore (Alessandro Scarciglia? nda) e un ex amministratore (Luigi Conte? nda).

Protestarono contro il depuratore a Urmo, condannati otto manifestanti. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette...scrive Lino Campicelli su Quotidiano di Puglia mercoledì 04 aprile 2018 riportato da "la Voce di Manduria". Decreto penale di condanna per gli otto avetranesi che l’8 marzo dell’anno scorso manifestarono nella zona di Specchiarica, marina di Manduria, dove l’Acquedotto pugliese installò il cantiere per realizzare il depuratore consortile dei due comuni di Manduria e Sava. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette degli otto coinvolti. Si è chiuso così il caso giudiziario legato alla partecipazione ad una manifestazione che non fu autorizzata. La stessa si tradusse nella identificazione dei protagonisti da parte degli uomini della Digos. Proprio quegli otto, infatti, furono identificati dalla Divisione di investigazioni generali e furono poi chiamati, alcuni giorni dopo, a presentarsi nel commissariato di polizia di Manduria per “comunicazioni”. Come si ricorderà, al momento della loro identificazione, gli operai dell’Aqp non erano ancora arrivati per delimitare il futuro cantiere, per cui la contestazione a carico dei partecipanti fu, appunto, quella della manifestazione non autorizzata. La stessa cosa, peraltro, che rischiarono successivamente i partecipanti ad un altro sitin inscenato nella stessa zona, su invito del «Comitato per la difesa del territorio e del mare». In quella circostanza, per disguidi di natura tecnica, fu spiegato dagli organizzatori ai numerosi partecipanti che l’autorizzazione non era stata presentata in tempo. Pertanto, tutti furono invitati a lasciare il punto d’ingresso del cantiere dove si erano assiepati, per spostarsi all’ in- terno di un vicino uliveto dove il leader del comitato, Pino Scarciglia, aveva improvvisato un comizio. Quell’avvertimento doveroso era giunto proprio in considerazione delle contestazioni operate dalla polizia l’8 marzo precedente. Nonostante quella manifestazione si fosse tradotta in proteste assolutamente pacifiche e ricche solo di slogan non offensivi, restava il fatto che non fosse stata autorizzata. Non è un caso, a questo proposito, che nei confronti degli otto destinatari del decreto penale di condanna sia stato contestata la violazione dell’articolo 18 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che sanzione appunto i promotori di una riunione pubblica che non abbia avuto il placet del questore. Per la cronaca, questa disposizione non si applica solo nel caso di riunioni elettorali. Quella in contrada Specchiarica, però, non fu affatto una riunione elettorale. Rappresentò, al contrario, lo sconcerto dei cittadini nei confronti di una realizzazione di cui, in ogni caso, non si aveva ancora del tutto contezza ed era ancora ricca di punti interrogativi. Il timore maggiore, come è noto, era legato all’ ipotesi de- gli scarichi in mare che avrebbero danneggiato per sempre la purezza delle acque locali. Scarichi che, a distanza di un anno da quella manifestazione, dovrebbero essere stati definitivamente banditi dal progetto definitivo.

Proteste a Urmo, denunciato anche Scarciglia e Di Lauro: solidarietà e silenzi, scrive sabato 24 giugno 2017 Nazareno Dinoi su "la Voce di Manduria". E’ salito a dieci il numero dei manifestanti denunciati dalla polizia per avere preso parte, lunedì 19 giugno, alla protesta pacifica che ha respinto le ruspe dal cantiere del depuratore previsto in zona Urmo-Specchiarica. Oltre alle tre mamme coraggio, Claudia Indrizzi, Alfonsina Costantini e Emilia Tarantini, all’assessora al Turismo, Claudia Scredo e all’ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, ieri l’invito a comparire è arrivato ad altri tre avetranesi tra cui il vicesindaco Alessandro Scarciglia. Unico manduriano raggiunto dall’avviso a comparire, l’avvocato Francesco Di Lauro, esponente dell’associazione Azzurro Jonio. I dieci devo rispondere del reato di violenza privata aggravata, dovranno ora nominarsi un legale per affrontare l’indagine che li riguarderà. Le donne si faranno difendere dall’avvocatessa Anna Macina che ieri ha accompagnato le sue assistite nel breve incontro avuto con il commissario Francesco Correre. Silenzio, intanto, da parte dell’amministrazione manduriana e dai politici con cariche di governo o istituzionali. Gli unici ad esprimere solidarietà, da questo fronte, sono i Verdi. «La Federazione dei Verdi di Manduria – si legge in una nota - esprime piena solidarietà ai sei manifestanti (solo dopo si saprà degli altri quattro, ndr), denunciati per avere, nella giornata del 19 giugno, impedito ai mezzi della ditta Putignano di accedere al cantiere del costruendo depuratore in contrada Urmo. I reati loro contestati sono di notevole gravità e contemplano anche la violenza privata. Non si può certo dire che le forze dell’ordine abbiano avuto la mano leggera – affermano i Verdi -, e dispiace constatare che, ancora una volta, cittadini, ambientalisti, mamme, tutti di specchiata onestà, debbano vedersi trattati come delinquenti solo perché, dopo aver tentato con ogni mezzo legale, possibile e immaginabile, di opporsi ad un intervento devastante, sono dovuti ricorrere ad un sit-in, per altro assolutamente pacifico, come estremo atto di difesa del proprio territorio». Ad Avetrana, invece, si parla e si prendono posizioni. Secco il commento del vicesindaco Scarciglia, destinatario ieri pomeriggio di una seconda denuncia (la prima l’aveva presa nel corso del precedente sit-in di marzo). «Chi protesta ad Urmo Belsito – dice - non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, ma è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio». L’ex sindaco Conte se la prende con i politici assenti, alludendo in questo alle forze politiche di Manduria del tutto lontani da quanto sta accadendo «Questa storia – scrive Conte - mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto».

Depuratore e polemiche: mamme coraggio ed ex sindaco, oggi tutti al commissariato di polizia, scrive Nazareno Dinoi su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 24 Giugno 2017.  Mentre per questa mattina alle 10,30 è prevista la convocazione in polizia dei sei manifestanti denunciati per aver preso parte al blocco del cantiere a Urmo-Specchiarica dove è previsto il depuratore di Manduria-Sava, il presidente del Consiglio comunale di Avetrana, Francesco Saracino, sta predisponendo i permessi per un nuovo sit-in di protesta per lunedì e martedì prossimi. A quanto pare, però, il vice questore aggiunto, Francesco Correra, dirigente del commissariato di Manduria, non ha dato ancora l’assenso chiedendo delle garanzie che l’amministratore avetranese non ha potuto dare. Il commissario vorrebbe concedere il nulla osta a condizione di circoscrivere la zona dove stazioneranno i manifestanti escludendo a priori sia le strade che le piazzone dell’incrocio sulla litoranea interna «Tarantina» che dà accesso all’uliveto, futura sede del depuratore consortile. Sempre ieri, intanto, il movimento politico di opposizione «Avetrana Riparte», ha diffuso un comunicato in cui si esprime solidarietà nei confronti dei propri rappresentanti, l’ex sindaco Luigi Conte e il giovane Silvio Mammano, tra i convocati di questa mattina dalla polizia. La stessa nota solidarizza anche con le mamme coraggio, Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi e Emilia Tarantini, componenti del comitato «Donne e mamme di Avetrana», anche loro denunciate per la manifestazione dello scorso 19 giugno quando l’opposizione di un centinaio di avetranesi con qualche manduriano riuscì a mandare indietro le ruspe dell’impresa Putignano di Noci, aggiudicataria dell’appalto per la realizzazione dell’opera. Il consigliere Conte ha diffuso così su Facebook la notizia dell’invito a presentarsi alla polizia. «Depuratore-mostro; sabato prossimo alle 10,15 sono stato invitato a comparire presso il commissariato di Manduria per affari di giustizia che mi riguardano il merito alla protesta contro la realizzazione del depuratore-mostro. Ritengo questo invito giusto e doveroso – aggiunge l’ex sindaco di centrosinistra - ed auspico che la polizia sulla scorta di un esposto e di una richiesta di accesso agli atti già di propria conoscenza, possa avere la stessa cura nell’invitare i vertici dell’Acquedotto pugliese e i responsabili regionali per chiedere chiarimenti in merito alle procedure seguite e alle autorizzazioni a monte dell’avvio dei lavori».Proprio di questo ha parlato ieri in un intervento Anna Macina, l’avvocatessa che ha perfezionato l’esposto alle procure della Repubblica di Taranto e Brindisi e la domanda di accesso agli atti presentata al comune di Manduria. «In merito al depuratore – scrive - ricordo che si è ancora in attesa di leggere autorizzazioni, valutazioni di impatto ambientale che consentano l’inizio dei lavori con variante! Su una cosa siamo tutti d’accordo – conclude l’avvocatessa Macina -, siamo fuori tempo massimo! La politica è fuori tempo massimo, quella che non ha teso l’orecchio, che non ha ascoltato e non ha dato voce ai territori. La politica “buona” si muova e si arrenda – conclude - perché i manifestanti non sono affetti da alcuna sindrome, sanno perfettamente cos’è un depuratore, lo vogliono ma lontane dalle coste, e la vera notizia è che non si arrenderanno». 

Depuratore: le denunce ai manifestanti e i commenti, scrive il 24 giugno 2017 Ciak Social. Alcuni partecipanti alla manifestazione in zona Urmo del 19 giugno, sono stati denunciati per organizzazione di manifestazione non autorizzata e violenza privata. Oggi sono stati convocati negli uffici del commissariato di polizia di Manduria per l’identificazione e la notifica dell’atto.  

Ad essere denunciate da parte dell’AQ sono alcune attiviste del comitato “Donne e mamme di Avetrana”: Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi, Emilia Tarantini; il consigliere comunale del gruppo “Avetrana Riparte” Luigi Conte; l’assessore al turismo del comune di Avetrana Claudia Scredo e Silvio Mammano.

Di ritorno oggi dal commissariato, Luigi Conte scrive su Facebook: “Appena tornato dal commissariato di Manduria con tanta serenità e con la consapevolezza di lottare per una causa giusta. Questa storia mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto! Care Donne e Mamme continuiamo a lottare…qualche piccolo risultato è già stato ottenuto ma non bisogna mollare! Conoscervi e lottare con voi è stato per me un privilegio ed un grande onore”.

Altro grande attivista della lotta contro lo scarico a mare prima e la localizzazione del depuratore ad Urmo poi, è Alessandro Scarciglia che commenta: “Oggi sono state denunciate sei persone che si aggiungono a chi, come il sottoscritto, fu già denunciato a marzo. Le ipotesi di reato variano: dall’organizzazione di manifestazione non autorizzata alla violenza privata. Leggo (non posso ricordare perché ero troppo piccolo) che nei primi anni ’80, i nostri genitori ci portavano per strada al fine di bloccare i mezzi che qualche prezzolato politico aveva inviato ad Avetrana per costruire la centrale nucleare. La forza di quelle persone e la presenza di quei bambini fece in modo di far tornare indietro, verso il mittente, le ruspe. La politica (o meglio, parte di essa) si svegliò solo dopo la grande rivoluzione popolare. Nel caso odierno del depuratore, invece, dopo le grandi proteste popolari, molti politici di ogni livello (parlamentari, regionali e comunali) sono scomparsi. Oggi, trovare politici che si oppongono ai poteri forti è diventato veramente raro. Chi protesta ad Urmo Belsito non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, professionisti di ogni genere. In poche parole, chi protesta oggi ad Urmo Belsito, è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio. Perché, ognuno nel suo piccolo, lo ha costruito con le proprie mani, con il proprio sudore e i sacrifici imposti alla propria famiglia. Qualcuno cerca di intimorire le mamme dicendo loro che rischiano una denuncia al tribunale dei minori se continuano a portare i propri figli sul luogo della protesta. MA questo “qualcuno” non comprende che la più grande condanna che potrebbero subire queste mamme e questi padri è quella che fra dieci o venti anni il proprio figlio possa dire “mamma, papà, perché avete permesso di distruggere il nostro territorio pur di salvaguardare gli interessi di pochi?”. Chi protesta se ne frega se qualche tecnico (divenuto mezzo politico) insiste a mettere delle enormi vasche (che loro intellettuali chiamano buffer) in mezzo alle case di Specchiarica. Chi protesta se ne frega di qualche amministratore o di qualche politico che non ha le palle di decidere. Chi protesta se ne frega anche di quelle associazioni (o pseudo tali) che credono di fare la rivoluzione sulla stampa ma che al momento di bloccare i mezzi non ci sono mai. Chi protesta oggi ad Urmo se ne frega del potere di AQP e dei suoi scagnozzi. Chi protesta ad Urmo Belsito oggi, difende il suo domani e, sicuramente, anche il futuro di chi oggi preferisce essere accomodante dei potenti”.

Ed ancora su Luigi Conte

Sindaco contro ex sindaco, Longo querela Conte per la questione del Crap di Avetrana. ​La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali, scrive martedì 3 aprile 2018 "La Voce di Manduria". La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali. Il sindaco di Maruggio, Alfredo Longo, ha querelato il consigliere comunale di opposizione ed ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, per delle affermazioni di quest’ultimo riguardanti un presunto coinvolgimento diretto del primo cittadino maruggese nella gestione della struttura di prossima apertura. Ne danno notizia in un comunicato stampa gli esponenti del “Comitato No-Crap” e del “Comitato per la tutela del territorio associato a Italia Nostra” (che si battono contro il depuratore a Urmo), entrambi di Avetrana. Nel documento in questione, gli autori esprimono “piena solidarietà al proprio socio dottor Luigi Conte che nelle sue funzioni di consigliere comunale – si legge -, ha avanzato critiche e rilievi sulla scelta amministrativa di far nascere una Crap dedicata a pazienti psichiatrici autori di reato, scelta che ha generato perplessità e preoccupazioni in gran parte della popolazione”. Il centro di recupero che molti avetranesi non vogliono, tra questi i partiti di minoranza nel consiglio comunale, è una “comunità assistenziale psichiatrica dedicata a soggetti che necessitano di interventi terapeutici ad alta intensità riabilitativa di lungo periodo con valutazione di rischio alto o moderato di comportamenti violenti (Così la definizione che ne dà la Regione Puglia nell’apposito atto costitutivo). Secondo i comitati avetranesi, le affermazioni di Conte, che Longo vuole censurare con la denuncia, non sono altro che “un pensiero critico sulle insufficienti garanzie di sicurezza del servizio e della struttura individuata come sede della Crap all’interno del contesto cittadino, sulla scarsa chiarezza dell’iter amministrativo seguito, sui ruoli e sulle responsabilità assunte dagli amministratori comunali, nel normale esercizio di dialettica politica democratica certamente è stato espresso dal consigliere Conte così come da altri consiglieri e da varie personalità che hanno voluto partecipare al dibattito pubblico che si è sviluppato di conseguenza”. L’incontro pubblico cui si fa riferimento nel comunicato, nel corso del quale il consigliere Conte avrebbe pronunciato le parole che non sono piaciute al sindaco di Maruggio, è quello organizzato dall’amministrazione comunale avetranese il 12 ottobre del 2017 con la presenza, appunto, del sindaco Longo (che intervenne in quel dibattito) e della società che gestirà il Crap, la “Sol Levante”. “Quel pensiero critico – conclude il comunicato stampa dei Comitati - rappresenta il sentire di tanti cittadini, a partire da tutti i componenti del comitato No Crap e meriterebbe il rispetto da parte di tutti coloro che amano la trasparenza e il libero svolgimento del dialogo democratico.”

Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.

Avetranesi nel Mondo: Leonardo Nigro, attore sempre più ricercato dai registi italiani ed esteri, scrive Salvatore Cosma il 19 maggio 2017 su La Voce di Maruggio. Un talento avetranese tra i personaggi del cinema italiano ed estero. E’ uno dei più ricercati attori della generazione più giovane. Leonardo Nigro, figlio di genitori immigrati a Zurigo, nato 43 anni fa ad Avetrana, paese che porta nel cuore, al quale sono legati i suoi ricordi più cari della sua infanzia, dove ci ritorna appena gli impegni di lavoro glielo consentono. “Ho la doppia cittadinanza italo-svizzera, – ci racconta l’attore – i miei sono emigrati da Avetrana negli anni sessanta a Zurigo, mia madre per il parto tornò ad Avetrana dove tra l’altro c’era mia sorella che viveva con i miei nonni. Dopo sei mesi – continua Leonardo – ci siamo trasferiti in Svizzera, dove ci aspettava mio padre che faceva il muratore”. Mi sento italiano anche se sono cresciuto in Svizzera.” La sua passione per il “mestiere” di attore nasce alla Missione Cattolica Italiana di Zurigo, ancora piccolo all’età di cinque anni, ha iniziato a recitare imparando i testi con l’aiuto della mamma. Dopo la maturità ha frequentato le scuole di recitazione a Berlino per cinque anni e nel 2005 è rientrato a Zurigo.  “Quando mi propongono un nuovo personaggio, – racconta l’artista – credo che la base di tutto sia la sceneggiatura: se leggendola ho delle immagini ben precise di come dovrò recitarlo significa che sono sulla strada giusta.” L’attore ha calcato le scene teatrali di Basilea, Berlino, Amburgo e Dresda. Ha interpretato ruoli importanti, in sceneggiati televisivi e opere cinematografiche sia in lingua tedesca che italiana. Ha anche rivestito il ruolo di Antonio da giovane, personaggio interpretato da Lino Banfi, nel film Italo-tedesco “Maria, ihm schmeckt’s nicht!” (Indovina chi sposa mia figlia!), commedia del 2009 diretta da Neele Vollmar e mandata in onda su Rete 4 di Mediaset lo scorso giugno. Ultimo, nel personaggio di Fantinari nel film-commedia di Antonio Morabito “Rimetti a noi i nostri debiti” al fianco di Claudio Santamaria, Marco Giallini, Jerzy Stuhr, Flonja Kodheli, Agnieszka Zulewska. Leonardo che ha ricevuto diversi premi tra cui “il Salento Award” nel 2012, per lui che si definisce salentino doc è un importante riconoscimento dato dalla sua Terra natale. Al suo attivo una importante nomination nel 2016 al Swiss Film Award 2016: «Miglior attore non protagonista».  Per il suo ruolo di padre disoccupato in ORO VERDE, Leonardo Nigro ha vinto il Premio del film della televisione svizzera Swissperform come miglior attore non protagonista. “Leonardo Nigro esplora in modo convincente ma anche pieno di humour la difficile situazione di un padre di famiglia divorziato e disoccupato che si arrabatta come può per soddisfare tutti.” Nel 2009 è Igor in “Sinestesia” di Erik Bernasconi, per la cui interpretazione riceve numerosi riconoscimenti. Leonardo Nigro vanta esperienze cinematografiche anche in Italia con i “Big” del nostro cinema tra cui Lino Banfi, Alessio Boni, Marco Giallini e Claudio Santamaria, ma siamo convinti che presto lo vedremo alle prese con nuovi personaggi con l’orgoglio fiero e la passione della terra natia: Avetrana.

Avvocato di Avetrana è Maria Pia Scarciglia, figlia di Giuseppe (Pino) Scarciglia, noto attivista socialista locale e noto come consigliere ed assessore comunale, oltre che promotore del comitato no depuratore Ulmo.

Giovedì 12 Maggio 2016 dal palco del Primo Maggio a Taranto Maria Pia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia, è intervenuta parlando di carceri (e non solo). Lei che ne conosce bene l’aspetto sociale, avendo subite dolorose traversie.

Centro sociale perquisito. Due arresti, scrive Venerdì, 26/05/2006 da Bologna Il Giornale. Due arresti e quattro denunce, insieme al sequestro di diverse sostanze stupefacenti: hashish, marijuana, ecstasy e altre droghe sintetiche. È questo il bilancio delle perquisizioni effettuate ieri dai carabinieri di Bologna, e disposte dal pm Paolo Giovagnoli, nelle due sedi Livello 57, il centro sociale che organizza la Street Rave Parade: la parata antiproibizionista al centro delle polemiche che dovrebbe svolgersi a Bologna il primo luglio. In manette sono finiti il 30enne Sebastien Gianoglio, francese ma domiciliato a Bologna, trovato «in possesso di 10 pastiglie di ecstasy e di munizionamento per armi da guerra e comuni da sparo» e la 32enne Maria Pia Scarciglia, patrocinatore legale nata a Taranto ma residente a Bologna, «trovata in possesso di circa 514 grammi di hashish».  Sequestrati inoltre 14 personal computer, «tuttora all'esame degli inquirenti». Denunciate, inoltre, altre quattro persone, trovate in possesso di sostanze stupefacenti. Il blitz era scattato in mattinata dopo che le indagini condotte nei mesi scorsi avevano portato alla luce «l'illecita diffusione, lo spaccio e l'uso di droghe all'interno dei locali del Livello 57», vendute «in occasione di spettacoli, feste e raduni ad avventori occasionali ed abituali». In questi giorni, tra il centro sociale e l'amministrazione comunale, è in corso un duro braccio di ferro proprio sulla parata antiproibizionista del primo luglio, che il sindaco di Bologna Sergio Cofferati vorrebbe «stanziale» per evitare danni alla città e lamentele dei cittadini.

Droga in centro sociale, giovane condannata a 2 anni e 8 mesi, scrive il 6 giugno 2006 Romagnaoggi. Nel corso di un blitz dei carabinieri nel centro sociale Livello 57 di Bologna aveva cercato di disfarsi di tre panetti di hashish per un totale di 514 grammi. Oggi la praticante legale Maria Pia Scarciglia, la ragazza di 32 anni di Manduria (Taranto) arrestata dai carabinieri del Reparto operativo di Bologna lo scorso 25 maggio, e' stata condannata a 2 anni e 8 mesi di reclusione dal giudice monocratico di Bologna, Stefano Marinelli. Il pm d'udienza Paolo Giovagnoli aveva chiesto 6 anni, ma la pena (da scontare ai domiciliari) si e' ridotta sia per la scelta del rito abbreviato che per le attenuanti generiche concesse alla ragazza difesa dall'avvocato Rossano Parasido che nell'udienza del 26 maggio scorso aveva chiesto la scarcerazione e in subordine i domiciliari. In quel caso il processo era stato rinviato a oggi perchè il legale aveva chiesto i termini a difesa. In carcere con l'accusa di detenzione di droga ai fini di spaccio erano finiti Sebastien Gianoglio, nato a Tolosa (Francia), 31 anni, ma domiciliato a Bologna nei locali del centro sociale, già noto alle forze dell'ordine. Lui era stato trovato con 10 pastiglie di ecstasy e con munizionamento per armi da guerra e comuni da sparo, reato per il quale era stato denunciato. Al processo del giorno dopo era stato scarcerato, ma con l'obbligo di andare via da Bologna perchè gli era stato notificato il foglio di via obbligatorio. In totale, nel corso del blitz, erano stati recuperati complessivamente 514 grammi circa di hashish; 14 pastiglie di ecstasy; 6 piantine di marijuana; 35 pastiglie di ''subutex'', 2 grammi di cocaina e altri piccoli quantitativi di hashish e marijuana. Sequestrati inoltre un frigorifero opportunamente modificato (lampade ad incandescenza, ventilatori e timer) per fare da mini serra per la coltivazione di marijuana; materiale per il confezionamento di stupefacente; munizionamento da guerra; 14 computer ora all'esame degli inquirenti.

Solidarietà per la Scarciglia e per il Centro Sociale Livello 57!!! Scrive il 24 novembre 2006 Buco1996. Lo scorso 25 luglio, come molti ricorderanno in prossimità della street-parade antiproibizionista a Bologna, il centro sociale Livello 57 fu chiuso dopo un’irruzione da parte delle forze dell’ordine. Il tutto, proprio in una città governata dall’Unione, dove molti sono stati i contrasti sui temi della sicurezza e della legalità. Ancora oggi è aperta la vicenda di Maria Pia Scarciglia, la legale del Livello 57 condannata, il 30 maggio, a 2 anni e 8 mesi per detenzione di stupefacenti in seguito all’irruzione al centro sociale avvenuta il 25 luglio. Adesso Maria Pia è agli arresti domiciliari e la scarcerazione è stata negata perché, secondo il giudice, Maria Pia non era spinta da ragioni contingenti ma “convinzioni ideologiche legate all’antiproibizionismo delle droghe leggere”, un vero e proprio reato d’opinione. Il 17 gennaio 2007 ci sarà l’appello, ma nei prossimi giorni il giudice della corte d’appello dovrebbe decidere se trasformare i domiciliari in carcere regolare, perché Maria Pia è stata trovata fuori casa, mentre stava telefonando, 30 minuti prima dell’ora stabilita da un permesso regolarmente concesso dal giudice. Nel frattempo il centro sociale Livello 57 rimane chiuso, più volte il pm Paolo Giovagnoli ha negato l’autorizzazione a rientrare, solo il 23 ottobre scorso è stato concesso, ai ragazzi, di prendere alcuni oggetti personali e quest’ultimi hanno notato diversi segni di vandalismo avvenuti in seguito all’irruzione, ciò a dimostrazione che non sono le occupazioni che creano degrado ma, la polizia. Lo stabile, adesso, è stato assegnato al comune, nonostante Sergio Cofferati (autore di questo “piano”) abbia assicurato di non voler interferire, prima della fine delle indagini e dei processi, nei mesi scorsi, intanto, ha fatto arrivare la richiesta del comune di pagare l’affitto…Se il buon giorno si vede dal mattino, allora c’è da preoccuparsi.

Droga al Livello, avvocatessa assolta, scrive Luigi Spezia il 18 gennaio 2007 su "La Repubblica". Per nove mesi tagliata fuori dal mondo, dalle amicizie, dalla professione e ieri assolta dalla Corte d' Appello. Maria Pia Scarciglia, praticante legale, ha festeggiato «la fine di un incubo. Credo di essere stata una delle primissime persone a subire gli effetti della legge Fini-Giovanardi, che noi contestiamo. Una legge sbagliata che ho subìto sulla mia pelle, sono stata una vittima prediletta». Maria Pia, una bella ragazza alta e bionda, era stata arrestata il 25 maggio scorso, dieci ore dopo il blitz dei carabinieri al Livello 57, il centro sociale bolognese antiproibizionista depositario del marchio della «Street rave parade». Un' assoluzione - spiegano gli avvocati Marcello Petrelli e Rossano Parasido - per non aver commesso il fatto, con il 530 secondo comma, la vecchia insufficienza di prove. In primo grado era stata condannata con il rito abbreviato a due anni e otto mesi, ma il pm Poalo Giovagnoli ne aveva chiesti quattro. Al processo di appello, invece, è stato addirittura il sostituto procuratore generale Mauro Monti a chiedere l'assoluzione, perché le prove appaiono contradditorie. «Ringrazio il dottor Monti - dice una entusiasta Maria Pia - mi ha fatto un bellissimo regalo insieme ai giudici che mi hanno assolto. Sono felicissima, posso finalmente tornare a vivere, riprendere la mia professione, continuare a occuparmi di riduzione del danno in tema di stupefacenti. Credo che accetterò di lavorare per Forum Droghe, che si occupa di difesa dei diritti dei consumatori». Per il Livello 57 «è crollato il teorema del delirio». Maria Pia Scarciglia era accusata di aver gettato dalla finestra della sede del Livello mezzo chilo di hascisc, che un cane antidroga ha trovato sotto un'automobile. Era stato un maresciallo a testimoniare contro di lei. «Ha anche detto di avermi vista, dopo essere scesa fuori, nascondere la droga ancora meglio sotto l'auto. Io la chiamo "suggestione investigativa": si è stabilito infatti che dalla posizione in cui si trovava non poteva vedere i miei piedi. Ma se mi aveva visto così bene, perché mi hanno arrestata solo dopo dieci ore?». La contradditorietà delle prove contro la legale del Livello la spiega l'avvocato Petrelli: «Da un lato il progetto dei carabinieri era quello di aspettare ad eseguire l'arresto per vedere chi sarebbe ritornato a prendere quella droga gettata da qualcuno durante il blitz, mentre da un altro viene detto che il ritrovamento dell'hascisc è stato casuale, eseguito da un cane antidroga. Appare una ricostruzione decisa a posteriori, in caserma». Il Tribunale, presieduto dal giudice Salvatore Guarino, ha dato ragione alla difesa e Maria Pia è tornata libera dopo i nove mesi di arresti a Manduria, provincia di Taranto, con il permesso di lavorare in un negozio di ottica. «Sei mesi dopo la condanna - racconta - ho fatto ricorso al Tribunale del Riesame per tornare libera. Hanno respinto la mia richiesta affermando che, siccome sono una antiproibizionista, ero pericolosa, potevo reiterare il reato. Una decisione che mi ha fatto più dispiacere della condanna di primo grado, perché avevo fiducia in questo Tribunale». La praticante legale, che per il Livello ha curato anche la stesura della convenzione con il Comune, dice di essere ancora «incazzata dura» per la sua sventura giudiziaria, costretta a chiudersi in casa dei genitori in un paese «dove tutti hanno saputo». Riconferma che tornerà a lavorare per il Livello, per le sue scelte antiproibizioniste e di "riduzione del danno", «che per me significa anzitutto l'affermazione che le sostanze stupefacenti sono nocive». Sull' inchiesta che riguarda tutto il centro sociale, dice solo: «Non ho potuto vedere le carte, ma le accuse mi sembrano un po' vaghe. Se in una festa ragazzi si drogano, è colpa dei gestori?. Vedremo come finisce la storia».

A BOLOGNA LA RIVINCITA DELLA GIUSTIZIA. Scrive il 31 gennaio 2007 Fuoriluogo. La vicenda del Livello 57 a Bologna si è dipanata lungo tutto il 2006 come un intreccio perverso tra vari piani convergenti, quello mediatico, quello politico e quello giudiziario. Questo pasticciaccio brutto di via Stalingrado è stato costruito con l’utilizzo spregiudicato delle norme più repressive della legge sulle droghe, dall’uso degli infiltrati come agenti provocatori all’esaltazione dell’art. 79 del dpr. 309/90 riveduto e aggravato dalla legge Fini-Giovanardi che punisce l’agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti in un locale pubblico o un circolo privato con la reclusione da tre a dieci anni. Dalla magistratura “progressista” di Bologna e dal mondo della politica e degli intellettuali ci si sarebbe aspettati la denuncia e la contestazione della legge più proibizionista d’Europa. Invece, non solo si è assistito a un silenzio assordante e imbarazzante, ma addirittura se ne è fatto un implicito elogio. Il clima da inquisizione non si è fermato alla chiusura di un punto di aggregazione giovanile caratterizzato da una costante e riconosciuta azione per interventi di politica di riduzione del danno verso i giovani consumatori di sostanze stupefacenti, ma si è dispiegato in vari atti della magistratura. Nello scorso settembre in una conferenza stampa di Forum Droghe e dell’Mdma, denunciammo le aberranti tesi ideologiche espresse dal tribunale di Sorveglianza nelle motivazioni del rigetto di una istanza di sostituzione della misura degli arresti domiciliari per un’imputata con una meno afflittiva: si teorizzava la necessità di produrre effetti deterrenti «a maggior ragione su persona che abbia agito non già sotto la spinta di ragioni contingenti ma per convinzioni ideologiche legate all’antiproibizionismo delle droghe leggere» (sic!). Quella persona era Maria Pia Scarciglia, praticante legale e collaboratrice di Fuoriluogo proprio per fornire assistenza e informazione a tanti giovani perseguitati dalla legge. La condanna a due anni e otto mesi per spaccio presunto in primo grado nel maggio scorso è stata ribaltata in appello. Chi era presente il 17 gennaio nel Palazzo di Giustizia di Bologna ha vissuto una giornata indimenticabile. Si è capito il significato profondo dell’invocazione piena di speranza e fiducia «ci sarà un giudice a Berlino». È un bene che la costruzione del castello accusatorio sia stata superata proprio grazie alla netta presa di posizione del sostituto procuratore generale Mario Monti, il quale ha sostenuto che nel processo penale non ci si può fondare sul pregiudizio. I dubbi sulla ricostruzione del fatto, le contraddizioni e le incongruenze messe in luce dalla difesa hanno portato a una sentenza che ha ristabilito la fiducia nella giustizia. Speriamo che questa decisione faccia riflettere i troppi cultori di teoremi fuori tempo. È comunque assai triste che esponenti di Magistratura Democratica siano additati come forcaioli. Prima che alcuni mozzorecchi del diritto facciano altri guasti ci aspettiamo che Giovanni Palombarini, citiamo lui per tutti, prenda la parola per fermare i guasti culturali dell’intolleranza.

Vivere in un carcere: il doppio dramma della condizione delle donne detenute. Antigone è l'associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. La delegazione leccese ha effettuato, dopo un anno a mezzo, una visita a Borgo San Nicola: migliorato il dato sul sovraffollamento. Intervista alla responsabile, scrive Gabriele De Giorgi il 6 maggio 2014 su Lecce Prima. I detenuti, a Lecce come in tutte le carceri italiane, vivono una condizione che più volte, da osservatori indipendenti ma anche dagli organismi di vigilanza dell’Unione Europea, è stata definita disumana e degradante. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ancora una settimana addietro chiedeva alle istituzioni di fare il punto della situazione. L’Italia ha tempo fino al 27 maggio per presentare alla Corte di giustizia di Strasburgo le soluzioni individuate per migliorare il sistema detentivo. LeccePrima ha intervistato Maria Pia Scarciglia, responsabile per Lecce e Taranto dell’associazione Antigone – per i diritti e le garanzie nel sistema penale – che opera su tutto il territorio nazionale e membro dell'Osservatorio sulle condizioni delle carceri. Una delegazione ha infatti effettuato nelle scorse settimane una visita a Borgo San Nicola, diretta da Antonio Fullone.

Qual è il bilancio dell’ultima visita al penitenziario?

«L’Osservatorio di Antigone aveva effettuato l’ultima visita nella casa circondariale di Lecce nel settembre 2012 ed aveva trovato una situazione molto critica sul piano della vivibilità visto che i detenuti all’epoca erano circa 1290. Il sovraffollamento li costringeva a stare in tre in una cella di soli 10,5 metri quadrati.  Oggi invece i detenuti presenti a Borgo San Nicola sono sotto i 1123 di cui 1038 uomini e 85 donne e nelle celle ci sono al massimo due persone, in alcune anche una. Inoltre abbiamo potuto notare che la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle cosiddette celle aperte è stata prontamente applicata quasi in tutte le sezioni del carcere leccese, fatta eccezione per il circuito dell’alta sicurezza. Devo dire che l’attività dell’osservatorio quest’anno si sta concentrando molto sulla applicazione della predetta circolare, un provvedimento che sollecita tutti gli istituti di pena a non circoscrivere i detenuti in una gabbia chiusa, ma consente libertà di movimento all’interno del padiglione. A Lecce le celle sono aperte in alcune sezioni dalle ore 08.40 alle ore 11.45 dalle ore 13.00 alle 14.50 dalle 15.00 alle 18.10. Questo accade in tutto il blocco R1 e nella sezione dei dimittendi e di transito. Il sistema appena descritto incide positivamente sulla vita del detenuto e dell’intera struttura detentiva che al di là delle iniziali resistenze, in particolare da parte degli agenti, si sta abituando gradualmente a questa piccola rivoluzione. I detenuti grazie a questo regime hanno maggiore libertà di movimento, perché possono circolare nei corridoi e passare il tempo in delle stanze definite di socialità. A nostro parere occorrerebbe lavorare di più proprio sugli spazi comuni, luoghi dove i detenuti possono riunirsi per parlare o fare attività ma che allo stato, sono poco sfruttati e privi di modalità di vera interazione. Il carcere di Lecce non ha all’interno delle sezioni un luogo deputato al consumo di cibo che viene somministrato dalla mensa interna e consumato dentro le celle. Questo impedisce ai detenuti di socializzare e condividere un momento importante della giornata quale è il pranzo o la cena. Altra proposta è quella di creare all’interno di ogni sezione una cucina spazio fondamentale dove favorire socialità, ma anche creatività soprattutto se pensiamo alle donne».

La cancellazione della Fini-Giovanardi, in che misura può incidere sul sovraffollamento?

«I detenuti presenti nelle carceri italiane per violazione della legge sulla droga erano a fine 2012 25mila 269, il 38,46 per cento del totale. Il dato che più impressionava era quello dei denunciati per cannabis, pari a circa il 42 per cento. Ora abbiamo stimato che saranno oltre 20mila i detenuti interessati dall’abrogazione della legge Fini, in particolare quelli condannati per le droghe leggere: coloro che lo sono stati in maniera definitiva possono chiedere alla Procura un incidente di esecuzione. Si tratterà di uno sconto di pena notevole considerato che la nuova legge ne prevede una, in regime di detenzione, da 2 a 6 anni per cannabis. Nulla a che fare insomma con le pene draconiane previste dalle legge Fini Giovanardi: dai 6 a 20 anni di reclusione per tutte le sostanze. Finalmente è stato posto uno stop a quella scellerata e criminogena legge che era la Fini Giovanardi colpevole di avere fatto salire vertiginosamente il numero dei consumatori detenuti che per pochi grammi finivano nel circuito carcerario anche se incensurati».

Altra zavorra è quella dei tempi giudiziari. Quanti sono a Lecce i detenuti in attesa di giudizio?

«Dai dati a nostra disposizione 197 sono i giudicabili, 138 gli appellanti e 127 i ricorrenti».

Una delle criticità riguarda la condizione femminile in carcere. Com’è la situazione a Lecce?

«Le donne al momento della visita erano 85 di cui 16 straniere. La sezione femminile a Lecce è piuttosto piccola, perché l’istituto era stato pensato solo per gli uomini.  Le celle sono aperte quasi tutto il giorno e non appena termineranno di installare le telecamere gli orari di apertura saranno uguali alla sezione a trattamento avanzato. La giornata è scandita da orari e da attività. Nella sezione femminile vi è la scuola primaria e la scuola secondaria. Al momento sono attivi i seguenti corsi: Street art e il progetto Orti Verticali. Vi è poi la sartoria dove lavorano appena 7 donne. Il problema della formazione al lavoro è serio e i recenti tagli alla spesa dell’amministrazione penitenziaria pesano non poco se si pensa che tra gli obiettivi della pena detentiva vi è il reinserimento sociale della persona detenuta. La donna per natura ha un modo differente di vivere la reclusione e basta visitare un reparto maschile ed uno femminile per capirne le differenze. Il carcere non è per le donne e questo sistema carcerario ancora meno. La donna detenuta nella maggior parte dei casi è moglie e madre. I sensi di colpa delle madri detenute non hanno eguali e il distacco dai figli è uno degli aspetti più drammatici della detenzione femminile che nemmeno la legge Finocchiaro è riuscita realmente a risolvere. Oggi la norma dice che le madri detenute possono tenere il figlio con sé fino al compimento dei 3anni».

Ma cosa significa per un bambino separarsi dalla propria madre al superamento di tale età?

«Da qui si dovrebbe ragionare e pensare a soluzioni e circuiti differenti per coloro che, se non possono andare agli arresti domiciliari devono essere collocate in luoghi a custodia attenuata, insieme al proprio bimbo.  Gli studi ci dicono che la donna si ritrova in carcere il più delle volte a causa del suo compagno, ma al contrario degli uomini, che fuori riescono dopotutto a mantenere un legame con moglie e famiglia, la donna è stigmatizzata e spesso abbandonata dal marito e dalla famiglia che non le perdona la violazione del patto sociale a cui lei era stretta».

Diverse volte è stata rimarcata la quasi totale assenza di attività formative e di reinserimento sociale. Sono stati fatti dei passi in avanti?

«La casa circondariale di Lecce sta lavorando molto sul trattamento e il fatto che in un istituto di pena operano diverse associazioni, non può che essere positivo. Sono diversi i corsi e le attività ludico culturali all’interno così come le iniziative organizzate dalla direzione per accorciare la distanza tra il carcere e la società civile. Resta però un punto dolente che è il lavoro, troppo pochi i detenuti e le detenute che svolgono per conto dell’amministrazione o per ditte esterne attività lavorativa rispetto ai numeri della detenzione».

Una parte dell’opinione pubblica ragiona spesso con la “pancia” e vede le battaglie per la condizione carceraria con insofferenza. Cosa si sente di dire a queste persone?

«Il problema è che l’opinione pubblica è stata sin troppo isterizzata dalla classe politica sulla questione sicurezza e legalità. Se pensiamo che al governo abbiamo avuto un partito razzista come la Lega che non ha perso occasione di puntare il dito contro i rom, i neri, gli stranieri, i drogati o gli omosessuali, possiamo certamente comprendere, perché quando si parla di detenuti la gente ragiona con la pancia. La nostra società è stata avvolta negli ultimi venti anni da una cappa di ignoranza e intolleranza che ha portato leggi nefaste e abominevoli anche sul piano giuridico, come la legge sull’ immigrazione, sulla droga e gli innumerevoli ‘pacchetti sicurezza’. Una società, la nostra che non è cresciuta come avrebbe dovuto con politiche dal volto più umano e capaci di proteggere le fasce più deboli. Ma al contrario è stata nutrita dal mal costume, dalla furbizia e dall’ arroganza.  Ecco dove sta il problema ed ecco, perché oggi si predilige sempre di più lo strumento penale simbolo per eccellenza di controllo e selezione, abdicando così a politiche sociali il cui compito è quello di rimuovere le diseguaglianze e promuovere il bene comune».

Bimba di due anni vive in carcere con la mamma, scrive Francesca Pastore Giovedì 21 Giugno 2018 su Il Quotidiano di Puglia. La chiameremo Azzurra - un nome di fantasia –, ha soltanto due anni e due mesi e la mattina scorge il sole tra le sbarre gialle e fredde della casa circondariale di Lecce. Ci sono tanti giocattoli intorno a lei, quelli non mancano di certo, c’è anche la sua mamma, ma le manca la libertà. La libertà di poter correre in giardino appena sveglia, di giocare con i suoi fratelli o fare una passeggiata con il suo papà. Azzurra “sta scontando” insieme a chi l’ha messa al mondo una pena detentiva. Ma è solo una bambina e ha il diritto di addormentarsi guardando le stelle, andare a scuola, praticare sport. Ha diritto ad essere felice. Da circa quattro mesi Borgo San Nicola è diventata la sua casa, lontane lei e mamma da Foggia, luogo di residenza e dove si trovano anche papà e i fratellini. La denuncia della situazione in cui vive Azzurra e la richiesta di trovare una soluzione consona per lei e la sua mamma, giunge dall’associazione Antigone Puglia, in prima linea per i diritti e le garanzie nel sistema penale con lo scopo di promuovere elaborazioni e dibattiti sulla realtà carceraria in Italia. Sono parole dettate dall’impegno e dall’indignazione quelle della presidente dell’associazione, l’avvocata Maria Pia Scarciglia. «Nel corso di una delle nostre visite in carcere, svoltasi lo scorso 5 giugno, abbiamo incontrato una donna Rom con una figlia di anni 2 e mesi 2. Questa detenuta – spiega la responsabile di Antigone - è stata trasferita dal carcere di Foggia a quello di Lecce, nonostante a Foggia viva il marito e gli altri 5 figli minori». Per Maria Pia Scarciglia «non è concepibile tutto questo, è contro i principi dell’ordinamento penitenziario». Dal carcere di Lecce intanto già la direttrice, Rita Russo, ha da tempo sollecitato nelle sedi opportune, chiedendo che la giovane donna venga trasferita immediatamente, ma ancora non ha ricevuto risposta. «Sono trascorsi 4 mesi – continua Scarciglia - e madre e bambina si trovano nella sezione Alta Sicurezza, non per tipologia di reato, ma perché il circuito in questione è meno problematico rispetto a quello delle detenute comuni. Abbiamo lasciato il carcere di Lecce qualche giorno fa – prosegue la presidente di Antigone - con l’immagine di questa bambina di 2 anni e poco più seduta nel suo passeggino nella cella dove è allocata sua madre. La sconfitta della società rispetto al tema delle carceri è anche questa. Anche solo un bambino dietro le sbarre è una resa dello Stato di diritto», conclude l’avvocata. Intanto qualche dato emerso dalla visita di Antigone nella casa circondariale leccese: al momento i detenuti erano 1.006 (68 donne e 165 stranieri), a fronte di una capienza di 610 posti. Si registra una maggiore presenza di detenuti stranieri, in particolare albanesi, rumeni e qualche russo. Alcuni dei detenuti sono sotto osservazione per radicalizzazione: 2 detenuti ad un livello alto. L’istituto si presenta molto curato e con ampi ha spazi, nonostante siano assenti aree verdi per i detenuti e le loro famiglie. Le celle ospitano due detenuti, salvo nel reparto di osservazione psichiatrica dove sono uno per cella. Il nuovo reparto di Osservazione psichiatrica vanta 20 posti ma al momento sono presenti 10 pazienti. Poco il lavoro per i detenuti e poche le aziende del territorio che decidono di assumere detenuti in misura alternativa. I tagli all’assegnazione dei fondi non ha permesso alla direzione di garantire il numero dei lavorando dell’anno precedente. A Lecce i detenuti che lavorano sono 253, di cui solo 10 per datore esterno.

 “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso. Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

I costi occulti di TIM ed Enel. Gli abusi ed i soprusi delle grande aziende di servizi. Di Antonio Giangrande.

Chi di voi è passato da TIM Smart a Tim Connect Fibra Gold? Sicuramente siete stati allettati dalla nuova offerta.

La fibra ultraveloce fino a 1000, il cui costo era azzerato per il primo anno, ed il modem e TIMVISION sempre inclusi, con l’obbligo del servizio TIM Expert di euro 6,90 mensili.

Una volta scelta la nuova offerta e leggi la nuova fattura, ti accorgi che qualcosa non va.

Il servizio Tim Expert non sai cosa sia e se mai lo utilizzerai.

La velocità della fibra ultraveloce fino a 1000 di 5,20 euro al mese (gratis il primo anno) è identica a quella precedente, ossia 100 mega circa. Ed in più te la fanno pagare, altro che gratis il primo anno.

Il noleggio del precedente decoder Tim Vision continua ad essere addebitato nel costo del servizio.

Intanto ti inviano, non richiesto, un nuovo decoder Tim Vision, le cui 48 rate ti vengono addebitate alla voce “Altri Importi” per una volta, due volte, ecc. nella stessa fattura, in numero conseguenziale alle rate contenute nella fattura precedente, come se i decoder Tim Vision fossero più d’uno. Come se tu ne vuoi tanti da metterli in vetrina per tutta la tua casa.

Spesso il Decoder Tim Vision non funziona o si guasta. Essendo in garanzia lo devi cambiare, sì, ma in uno specifico punto vendita lontano oltre 50 km.

Se ti lamenti del fatto che tra noleggio ed acquisto stai pagando 2 o tre Decoder Tim Vision non richiesti e non utilizzabili, il servizio clienti Tim 187 fa finta di non capire, fermandosi a controllare solo i costi del servizio in offerta e non analizzando anche gli altri costi.

Se insisti a spiegare, ti rispondono che è tutto regolare o ti chiudono la telefonata.

Sanno che nessuno inizia una guerra per pochi euro.

Comunque ti consigliano di consegnare a tue onerose spese con pacco postale e con ricevuta di ritorno il decoder Tim a noleggio e di recedere dal servizio.

Rivolgerti all’AGCOM è inutile, per via della farraginosa procedura, che si dimostra altresì inutile, perché la denuncia vale solo ai fini statistici.

La via giudiziaria è da escludere per la ripetizione dell’indebito o per il risarcimento del danno, in quanto devi prima attivare la procedura di conciliazione presso il CoReCom, per poi attivare il Giudice di Pace.

Attivare tutta la trafila per pochi euro non puoi e poi la spesa non vale la candela.

Devi per forza accumulare l’indebito addebitato. Insomma: subisci e taci.

Rivolgersi a quelle trasmissioni televisive di denuncia è vano, sostentandosi, queste, con la pubblicità della Tim.

Alla fine non resta che aspettare una offerta più vantaggiosa dai concorrenti della Tim, sempre che non siano peggio. 

L’ENEL poi, fa ancora peggio. Ti addebita:

spesa per materia energia  19,42

spesa per il trasporto energia elettrica e gestione del contatore 18,18

spesa per oneri di sistema 13,16

totale Iva 11,17

Totale bolletta 61,93

CONSUMO EFFETTIVO: 0 (ZERO) 

Un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Diogene di Sinope. Un giorno Alessandro Il Grande si recò a Corinto per incontrare il famoso Diogene di Sinope. L'imperatore, entrato nella botte dentro la quale il filosofo viveva, chiese se non ci fosse qualche desiderio che avrebbe potuto esaudirgli. Diogene rispose: " Si, che tu ti tolga dal mio sole". Allora Alessandro replicò:" Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene". Così narrava Diogene Laerzio ne " La vita di Diogene il Cinico", principale fonte di informazioni sulla vita del filosofo di Sinope, scrive Andrea Chinappi il 29 settembre 2013 su L’Intellettuale dissidente. Figlio di Icesio, cambiavalute incarcerato per aver alterato le monete, Diogene si spostò ad Atene dove seguì gli insegnamenti di Antistene, discepolo di Socrate e fondatore della scuola cinica di Cinosarge, ginnasio ateniese. Inizialmente trattato rudemente, superò Antistene in austerità della vita e in personalità. “Colpisci pure, che non troverai un legno così duro che possa farmi desistere dall’ottenere che tu mi dica qualcosa, come a me pare che tu debba” diceva Diogene al maestro che inizialmente lo respingeva. Di Diogene non ci sono pervenuti scritti ma biografie e aneddoti che illustrano perfettamente il pensiero e il carattere del filosofo. In perenne ricerca dell’autosufficienza (autarkeia) rispetto ai bisogni giudicati superficiali dell’uomo sociale, individuava negli animali, nei mendicanti e nei bambini i modelli di vita naturale. Soprattutto questi ultimi rappresentavano per il filosofo l’esemplare di uomo non ancora corrotto dalle convenzioni sociali, a differenza di Aristotele che vedeva il bambino come semplice “uomo in potenza”, in contrapposizione all’uomo maturo portatore di valori e virtù. Per il filosofo bisognava rifiutare ogni tipo di tabù e convenzioni, disprezzare i valori correnti come il denaro e il potere, e vivere secondo natura, attraverso un esercizio fisico e morale in modo tale da restare ai margini della società e dalla polis, itinerando e presentando sé stesso come modello di vita. Si raccontava che girasse per Atene con un mantello, un bastone, una ciotola, un catino e una bisaccia, dormendo ogni tanto in una botte; quando un giorno vide un fanciullo bere nel cavo delle mani, gettò la ciotola e esclamò: “Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità”. Non era solito predicare o indottrinare attraverso ragionamenti articolati, ma quando voleva confutare una teoria o impartire un insegnamento utilizzava delle battute rapide dette “apoftegmi” o più spesso mediante gesti e dimostrazioni, come mettendosi a camminare in risposta alla teoria di Diodoro Crono che negava la realtà del movimento. Molti aneddoti parlano dei suoi comportamenti paragonabili a quelli di un cane, tanto che considerò come un elogio l’epiteto “cinico” (da kyon, cane), rivoltogli per i suoi atteggiamenti. Dedicò molto tempo allo studio del comportamento dei cani, elogiandone le virtù e la condotta, tanto da assumerne lo stile di vita vagabondo e addirittura la fisiologia. Secondo le storie raccontate da narratori del tempo, Diogene viveva in una botte accanto al tempio di Cibele, mangiava e defecava in pubblico. Durante un banchetto gli gettarono degli ossi, come a un cane. Diogene, andandosene, pisciò loro addosso, come un cane. (Diogene Laerzio). Diogene di Sinope fu anche il primo filosofo ad usare la parola “cosmopolita” in quanto, sempre in sprezzo alle convenzioni, si dichiarava cittadino del mondo, affermazione sorprendente in un’epoca dove il cittadino era fortemente legato alla polis di appartenenza. In viaggio verso Egina venne fatto prigioniero dai pirati, portato a Creta e messo in vendita come schiavo. Qui gli venne chiesto cosa sapesse fare, al che prontamente rispose: “Comandare gli uomini”. Venne venduto ad un uomo di Corinto chiamato Xeniade. Divenne tutore dei due figli del padrone e restò a Corinto per il resto della sua vita, predicando l’autocontrollo e amministrando con estrema cura la casa tanto che Xeniade andava dicendo “Un demone buono è venuto a casa mia”. Si narrava ancora che andasse girovagando per la città con una lanterna accesa e a chi gliene domandava la ragione rispondeva: “Cerco l’uomo”. Lo sprezzo nei confronti della società e delle convenzioni, i comportamenti bizzarri e talvolta grotteschi lo portarono ad una fama tale che per ben due volte Alessandro Magno volle incontrarlo. Lo stesso Platone lo definì “un Socrate impazzito”, con il quale il filosofo condivideva l’alto compito di moralizzare l’uomo e la società. Morì a 89 anni a Corinzio sepolto dai due figli di Xeniade: venne eretto in sua memoria un pilastro di marmo sul quale v’era incisa l’immagine di un cane. Una volta il filosofo Diogene stava cenando con un piatto di lenticchie. Per caso lo vide Aristippo, filosofo che trascorreva la vita negli agi, trascorrendo i suoi giorni a corte e adulando il re. Disse Aristippo: – Caro Diogene, se tu imparassi ad essere ossequioso con il re, non saresti costretto a dover vivere mangiando robaccia come quelle lenticchie. Al che Diogene gli rispose: – E se tu avessi imparato a vivere mangiando lenticchie, ora non saresti costretto ad adulare il re. (Diogene Laerzio, Vita dei Filosofi).

Henri-Frederic Amiel: le masse saranno sempre al di sotto della media: "Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà, e la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’uguaglianza, che dispensa l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi. Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga. Henri-Frédéric Amiel, Frammenti di diario intimo, 12 giugno 1871

Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

L’Italia è un parassitario senza fondo, dove i soldi non bastano mai. Reso così dai catto-comunisti, dissimulati anche sotto mentite spoglie (5 Stelle-Lega). Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura. Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi. Quei catto-comunisti che vogliono il lavoro, ma non vogliono le imprese che creano lavoro. Per loro il lavoro è inteso ancora come il posto fisso statale parassitario. Oggi il lavoro si inventa, non lo si subisce o lo si cerca senza trovarlo. Si agevoli, allora, l’invenzione dell’impresa.

La differenza tra uguaglianza ed equità. Tre ragazzi di differenti altezze dietro una staccionata, intenti a seguire la partita di calcio della loro squadra del cuore. Sono poveri e non possono permettersi il biglietto di ingresso allo stadio. A tutti e tre lo Stato, per il diritto di uguaglianza, dà a disposizione una identica cassetta di legno ciascuno, per guardare oltre la staccionata. Il primo da sinistra è avvantaggiato: essendo già “alto” di suo, ha i requisiti necessari per poter vedere la partita senza l’ausilio della cassetta. Il secondo, quello al centro, ha bisogno di quella cassetta per vedere lo spettacolo e con quella ci riesce benissimo. Il terzo a destra, molto più piccolo di statura rispetto agli altri due, anche con quel supporto, non arriva a vedere oltre l’ostacolo: non le basta una cassetta per poter vedere la partita. Con l’equità il primo dei tre può fare a meno del supporto e, offrendolo al terzo in aggiunta al suo, riesce a fornirgli la possibilità di raggiungere l’altezza necessaria per vedere la partita. In Italia con i catto-comunisti c'è il diritto di uguaglianza, non di equità. Non siamo tutti uguali e non ci può essere diritto di uguaglianza, ma dare a tutti la possibilità di vedere il futuro, specie ai più meritevoli, allora sì che si ha l’equità sociale.

LA DITTATURA DEI MEDIOCRI. Scrive Stefano Zurlo il 23 febbraio 2016 su Radiomontecarlo. «Rimettere la decisione sulle cose più grandi ai più incapaci». Questo il destino della democrazia indicato, 150 anni fa, da Henri-Frédéric Amiel. Il filosofo che, dal suo pensatoio nel cuore di Ginevra, aveva già previsto i danni della demagogia di cui oggi paghiamo le conseguenze. A causa di un’«uguaglianza» politicamente corretta che ha dato il potere alla mediocrazia. Frustate sulla schiena liscia della modernità. Giudizi affilati come coltelli che scrostano la patina lucente del progresso e mostrano le piaghe dell’umanità, incamminata verso le magnifiche sorti e progressive. Aforismi che fanno a pezzi il pensiero politically correct. Forse per questo la profondità di Henri-Frédéric Amiel è inversamente proporzionale alla sua fama. In Italia, per esempio, questo irregolare svizzero, vissuto a Ginevra nell’800, non viene pubblicato da anni ed è sconosciuto ai più. Peccato, perché le sue rasoiate fanno male e quindi fanno pensare. Lampi che squarciano la notte ottusa del più ingenuo ottimismo. «L’uomo che non ha una vita interiore è schiavo del suo ambiente», scrive Amiel. Che poi, perfido, va ben oltre: «Dimmi cosa pensi di essere e ti dirò cosa non sei». Poche parole, come una scossa, per fare a pezzi la coperta soffice del pensiero dominante, quello che copre le nostre fragilità, la poca voglia di guardarci allo specchio scoprendo le nostre rughe e le cicatrici profonde che il tempo lascia sulla società. L’Illuminismo, le scoperte scientifiche, la democrazia ci spingono in avanti. C’è chi canta questo mondo favoloso, finalmente affrancato, e chi, guardandolo in controluce, ne pesa i difetti. Il conformismo, la massificazione, la democrazia ridotta a mangime per le frustrazioni del popolo. E poi la fine del rapporto antico come il mondo fra il bene e il male. Il caos come prodotto paradossale dello sforzo razionalistico dei secoli precedenti. Sembra di leggere i quotidiani di oggi, lo sgretolarsi del consorzio civile e il capovolgersi stupefacente della moralità. E invece siamo a Ginevra, a metà dell’800. Amiel è professore di letteratura francese, di estetica e di filosofia all’università. Ha tempo per riflettere, anche perché lui sta in tribuna, ai bordi, non vive l’eccitazione e non partecipa alla grande corsa. Così distilla le sue annotazioni in un’unica, monumentale, interminabile opera: il diario, il Journal intime, sterminata fucina di 16.840 pagine che sono il controcanto sommesso e formidabile ai tanti testi imbevuti come biscotti nella fede cieca del domani. Chissà, forse Amiel vede lontano perché si trova a Ginevra, la città di Calvino, uno dei luoghi chiave per capire il passaggio alla contemporaneità. Forse certi meccanismi, smontati dall’interno, mostrano prima crepe e incongruenze. Così il professore scruta con il suo binocolo il cielo e come un profeta prevede tempesta. Quella che squassa il nostro universo, ma già esemplificata nell’immane tragedia della Prima guerra mondiale. «Il destino castiga tutto ciò che è falso», ammonisce il visionario. E ancora, con quella disperazione sottile che anima tutte le Cassandre: «Un errore è pericoloso per quante più verità contiene». Sarà difficile rimediare ai disastri compiuti, ma lui con un vantaggio di 100-150 anni e con la precisione di un sociologo già disegna il nostro paesaggio: «Le masse saranno sempre al disotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà e la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci». Sembra una fotografia feroce e cupa scattata vicino a un seggio elettorale o davanti al Parlamento, oppure in uno dei tanti divertimentifici che riempiono l’industria delle nostre vacanze. Invece è il 12 giugno 1871 e Amiel compone la pagina forse più celebre del suo Journal. «Sarà la punizione del principio astratto dell’uguaglianza», prosegue implacabile, «che dispensa l’ignorante dall’istruirsi, l’imbecille dal giudicarsi, il bambino dall’essere uomo e il delinquente dal correggersi». Poche frasi quasi ciniche nella loro capacità di scorticare la corteccia delle nostre certezze. Facile cavarsela relegando Amiel nel limbo degli antimoderni, degli snob che disprezzano il sudore del popolo e ne temono perfino il contatto, nel girone dei misogini dove pure il docente ginevrino era di casa. Lui avanza come una ruspa, demolendo quell’illuminismo prêt-à-porter, quel radicalismo di massa che è l’ossatura del nostro oggi: «Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga».

Notazioni furiose e attualissime che costringono ciascuno di noi a interrogarsi e a porsi domande scomode, quelle che in fondo in fondo restano sospese per una vita. Probabile che su Amiel abbia influito anche la biografia di un’infanzia luttuosa, a conferma che i drammi di un’epoca si mischiano alle tragedie personali: la madre Caroline muore di tubercolosi nel 1832, quando lui ha solo 11 anni e il padre Henri, negoziante, la fa finita due anni più tardi gettandosi nel Rodano. Altro che ballo Excelsior: l’esistenza ha l’andamento di un corteo funebre. Né Amiel riesce a trovare una sponda nel rigido protestantesimo che ha aperto le vie del capitalismo più aggressivo, così diverso dal cattolicesimo più autentico che tiene insieme, nel più precario ma stabile degli equilibri, la misericordia e il peccato originale. La grandezza e la miseria dell’uomo. Lui resta appartato nel suo corner, consapevole che la sua voce non verrà ascoltata: «Preferisco tacere piuttosto che parlare all’indifferenza». Ma il suo compito non cambia e lui continuerà ad annunciare fino alla morte, arrivata nel 1881 a 60 anni, quel che gli altri non vogliono sentirsi dire: «Mille cose avanzano, novecentonovantanove regrediscono: questo è il progresso». Imbattibile. Per chi non avesse inteso, ecco pronta un’altra lezione, più sottile ma non meno devastante: «La verità pura non può essere assimilata dalla folla, si deve propagare per contagio». Folgorante. Come quell’immagine definitiva che ci spalanca la visione di tutte le dittature possibili, da quella della razza a quella del brutto: «L’uomo è un automa e i suoi tic sopravvivono alle sue opinioni e ai suoi gusti».

La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere, scrive il 7 aprile 2018 Angelo Mincuzzi su L’urlo. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate? “Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) è stato tradotto in italiano dall’editore Neri Pozza, con il titolo “La Mediocrazia”. Meritava di essere pubblicato anche in Italia, se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia. Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto? Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello.

Chi sono i mediocri. Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco».

Giocare il gioco. Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata. È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre. Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista”. Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo.

I mali della politica. All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo. La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia. Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori. E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica. Che fare? La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P”, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto. Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.

Il trionfo della Mediocrazia spiegato da un filosofo. Nel Settecento si facevano strada grazie agli intrighi. Oggi si moltiplicano ovunque (politica, scienza, cultura) travestiti da esperti. Il canadese Alain Deneault svela le ragioni della loro ascesa, scrive Anais Ginori su "La Repubblica" il 25 gennaio 2017. «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Il filosofo canadese Alain Deneault non pensava di avere così tanto successo quando ha pubblicato il suo saggio sulla rivoluzione silenziosa che ci ha fatto precipitare nel regno del conformismo.

Il suo La Mediocrazia, pubblicato ora anche in Italia, ha provocato una presa di coscienza tra molti lettori.

«Evidentemente ho captato qualcosa, un malessere, che era nell’aria» commenta Deneault seduto in un caffè dal design retrò. «Nell’America del Nord persino i caffé sono tutti così omologati» confessa il filosofo cinquantenne che insegna sia a Montreal che a Parigi ed ha già pubblicato numerosi studi sui paradisi fiscali.

In quale momento storico ha inizio la Mediocrazia?

«È interessante vedere quando nasce la parola. Una prima descrizione degli esseri mediocri è fatta da Jean de La Bruyère nel Settecento. Nella sua galleria di caratteri descrive Celso, un uomo che ha scarsi meriti e non possiede abilità particolari ma riesce a farsi strada tra i potenti grazie alla conoscenza di intrighi e pettegolezzi. Nell’Ottocento il mediocre ha nuove pretese: non è solo in cerca di favoritismi e compiacenze, ma tenta di essere protagonista nel mondo politico, culturale, scientifico. È in quel momento che appare il termine mediocrazia. Ne parla ad esempio il poeta Louis Bouilhet citato da Gustave Flaubert, denunciando la “cancrena” della società».

Il mediocre è un uomo senza qualità?

«Non per forza. Mediocre è chi tende alla media, vuole uniformarsi a uno standard sociale. In breve: è il conformismo. Robert Musil diceva: “Se la stupidità non somigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Esistono mediocri di talento. Un tecnico delle luci di una tv commerciale può essere bravo e dedito quanto uno del Piccolo di Milano. Anzi, spesso serve ancor più impegno, dedizione. La Mediocrazia riconsoce alcuni meriti, ma solo alcuni».

È un golpe invisibile, senza dover sparare un colpo.

«L’ingranaggio sociale si è attivato con la prima rivoluzione industriale. Karl Marx l’aveva intuito. Il capitale ha reso i lavoratori insensibili al contenuto stesso del lavoro. La mediocrazia è l’ordine in funzione del quale i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all’esecuzione pura e semplice. Il lavoro diventa solo un mezzo di sostentamento, con una progressiva perdita di soggettività. Una situazione che provoca malessere sociale».

Negli anni Ottanta la fine ideologie e il trionfo del neoliberismo segnano una nuova svolta: è così?

«Già prima, nel Dopoguerra, si sviluppa il concetto di governance con la comparsa di grande aziende e multinazionali, poi mutuato da alcuni leader politici come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Nella governance la misura dell’efficacia è la salute del settore economico e finanziario. Così muore la politica, cancellata dai diktat manageriali. Basta osservare il linguaggio nel dibattito pubblico. Non parliamo più di popolo ma di società civile, i cittadini diventano partner, riprendendo appunto un lessico del settore privato anche nella politica e le relazioni sociali. E oggi vediamo Emmanuel Macron che si vanta di essere pragmatico, sentiamo parlare di realismo da parte di Manuel Valls. Nel 2012 François Hollande si è fatto addirittura eleggere con lo slogan di “Presidente normale”».

Perché ha deciso di scrivere un libro su questo tema?

«Abbiamo davanti problemi troppo gravi: il riscaldamento climatico, l’inquinamento atmosferico, il crollo delle istituzioni pubbliche. Ci sono tante e tali minacce che non possiamo accontentarci di affidare il potere a capetti senza visione e senza convinzioni. Siamo a una svolta, un momento in cui la gente soffre nel doversi piegare a norme sbagliate. Le nostre società sono piene di persone che finiscono in depressione, vanno avanti con gli psicofarmaci. Ci sentiamo oppressi da strutture sociali vessatorie, alienanti. Siamo sottoposti a una dittatura soft della norma, dello standard unico. E se non ci adeguiamo veniamo rigettati, espulsi. In sintesi: la governance è la teoria, la mediocrazia è la modalità. E l’estremo centro è l’ideologia».

L’estremo centro? Che intende?

«La mediocrazia fa sì che non ci sia più molta differenza tra Donald Trump e Alexis Tsipras. In ogni caso si applica un solo programma: sempre più capitali per le multinazionali e i paradisi fiscali, meno diritti per i lavoratori, meno soldi per il servizio pubblico. Queste scelte vengono presentate come ineluttabili e soprattutto come ragionevoli. Chi non si vuole allineare viene trattato da irragionevole, pericoloso, non realista. L’estremo centro cancella la distinzione tra destra e sinistra, si presenta come visione unica ed esclusiva, esprimendo intolleranza per tutto ciò che tenta di rappresentare un’alternativa. E non può essere messo in discussione anche se è distruttore dal punto di vista ambientale, socialmente iniquo e intellettualmente imperialista».

Non esiste nessuna alternativa, come diceva Thatcher?

«L’alternativa che si profila in questo momento all’estremo centro è il ritorno a metodi di governo violenti, brutali, una sorta di ritorno alle origini dello Stato primitivo. E quello che vediamo con i vari Trump, Le Pen. È una differenza di tono, di immagine. In Canada abbiamo avuto come premier Stephen Harper, che era più a destra di certi Repubblicani americani, e ora abbiamo il giovane liberal Justin Trudeau. Ma è un cambio apparente. Uno è arrabbiato, l’altro sorride sempre. Alla fine il programma, e gli interessi rappresentati, sono gli stessi».

Lei denuncia l’ascesa degli “esperti” nel mondo accademico e nei media. Cosa rimprovera loro esattamente?

«L’esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell’intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali. I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti. Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcercato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita».

Quali sono le reazioni possibili per combattere la mediocrazia?

«Nel libro ho elencato almeno cinque modi. C’è chi rifiuta le facezie e le aberrazioni della società contemporanea e si mette in disparte: è l’uomo che dorme, come diceva Georges Perec. Esiste il mediocre per difetto, che subisce tutte le menzogne, soffre in silenzio ma si consola quando vince la sua squadra del cuore o può progettare una vacanza al mare. La vera piaga è il mediocre zelante, maestro del compromesso: il presente gli somiglia, il futuro gli appartiene. Poi c’è il mediocre per necessità, consapevole della situazione ma che tiene famiglia, non può permettersi il lusso di uscire dai ranghi. E infine ci sono i fustigatori della mediocrazia: sono pochi, ma possono tentare di allearsi con i mediocri in disparte e quelli per necessità. La loro unione può portare alla nascita di movimenti come Occupy o le Primavere arabe. Nonostante mille difetti queste insurrezioni tentano di sovvertire le fondamenta delle istituzioni mediocratiche. E magari altri mediocri, fiutando il vento, potrebbero allora decidere di unirsi a loro per conformismo. È già successo. L’abbiamo visto negli anni Sessanta e Settanta, quando molte persone sono diventate fintamente di sinistra».

I pericoli dell'anarco-marxismo dietro la democrazia diretta. Il potere anche se espropriato finisce ai dirigenti politici, non certo al popolo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". La democrazia moderna è nata dalla concezione di Hobbes e Locke. Essa distingue fra governanti e governati. I governati rinunciano al loro potere a favore dei governanti (classe politica, Parlamento) perché garantisce loro la pace, la proprietà e il rispetto dei diritti fondamentali e inalienabili. Se i governanti governano male verranno sostituiti. A questa concezione, in epoca moderna si sono opposte in modo radicale due concezioni: quella marxista e quella anarchica. Il marxismo nega la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore, chiamato capitalista, deruba il lavoratore di parte del suo lavoro (plusvalore) e con questo acquista i mezzi di produzione con cui ruberà altro pluslavoro ad altri lavoratori. Bisogna perciò espropriarlo di questo furto e restituire il maltolto ai lavoratori. E chi inventerà, chi dirigerà la produzione? I lavoratori stessi. In realtà i lavoratori da soli non organizzano e non dirigono niente. Dopo la rivoluzione sovietica a farlo sarà lo Stato, in realtà la classe politica formata dai dirigenti del Partito comunista. Gli anarchici invece negano la funzione dei governanti: il popolo sa fare tutto da solo. In questo caso bisogna espropriare i politici del loro potere e restituirlo al popolo. Questa idea, che si è realizzata nel passato nelle piccole comunità come decisione di tutti i cittadini riuniti in assemblea, è stata riportata alla ribalta in Italia dai Cinque Stelle come democrazia diretta attraverso il web in cui il popolo fa tutte le leggi, prende tutte le decisioni senza bisogno di una classe politica e dirigente. Dove viene applicato questo sistema il potere lo prendono i dirigenti del partito. Di solito promettendo anche ciò che non potranno dare, e lo conservano con la repressione.

In Italia per molto tempo è stato diffuso il marxismo, oggi si è fatto strada l'anarchismo e il mito della democrazia diretta. È strano che queste concezioni e il tipo di conseguenze che hanno sul sistema politico ed economico non siano oggetto di analisi e di approfondimenti sulla stampa e la tv perché si tratta di una svolta radicale che stiamo vivendo ed è la causa del disagio di questa nostra epoca ed è un pericolo per la democrazia.

Umberto Eco, quando disse che "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli", scrive Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato, il 26 febbraio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". In una lectio magistralis tenuta all’università di Torino, nel giugno del 2015, Umberto Eco scatenò un ampio dibattito pubblico affermando: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Molti furono coloro che insorsero contro quella che ritennero un’arrogante manifestazione di cultura élitaria da parte del Maestro, non avendo neppure percepito il senso di quella sua semplice constatazione, tesa a stigmatizzare piuttosto il fatto che, per ripetere la metafora di Alex Horowitz, il cittadino del ventunesimo secolo somiglia sempre più a una fulminea lepre della tecnologia, la quale si comporta e comunica come una tartaruga dell’etica, cioè disconosce o ignora volontariamente i limiti e i rischi etico-dialogici delle opportunità tecniche offertegli dagli strumenti avanzatissimi che ha in mano, senza perciò migliorare la qualità di ciò che ci scambia. In ogni caso, simili scomposte e chiassose reazioni sono sintomatiche esse stesse d’imbecillità, intesa questa come condizione umana di cui si hanno continue manifestazioni su scala anche vasta e nei campi più disparati, vita politica compresa, diffusa statisticamente in modo uniforme nel tempo e nello spazio, senza distinzioni di titolo di studio, di professione, di reddito; con alcune concentrazioni statistiche, tuttavia, di cui sarebbe interessante ricercare ragioni e modalità di sviluppo. Bisogna stare attenti agli indizi, perché gli imbecilli sono pericolosi, molto di più dei mascalzoni, perché se non ci fossero tanti imbecilli in giro non sarebbe così facile trovare un furbone che li seduce. Non sempre, per individuarli, basta l’aspetto fisico, poiché spesso esibiscono facce convincenti, fronti inutilmente spaziose, tratti d’eleganza, magari posticcia. Più significativi i tic verbali e le frasi fatte: se afferma che il liberalismo è di sinistra; se parla della famiglia e della religione, della scuola e dei bambini, tirando fuori i “valori”; se dice che Roberto Benigni ha avvicinato il pubblico alla Divina commedia, o che Luciano Pavarotti i giovani alla lirica; se pensa di dissimulare una patente mutazione genetica definendola un mero ribilanciamento; beh, questi sono indizi gravi d’imbecillità, ma ancora insufficienti, da soli, per una definizione della categoria, generale e dettagliata a un tempo. Occorre, dunque, rivolgere altrove lo sguardo. Una ricerca dei sintomi di imbecillità catalogati in passato, condotta in ambito filosofico, lascia francamente delusi: tutti i grandi interrogativi dell’uomo, quali la morte, l’esistenza e l’essenza, la vita, l’essere e il non essere, hanno trovato spazio in vasti sistemi interpretativi; non anche, però, l’imbecillità, che il suo filosofo lo sta ancora aspettando. Ciò non significa, comunque, che diversi pensatori non abbiano girato intorno alla questione; che almeno talvolta non l’abbiano sfiorata. Si pensi, per esempio, a Platone: cosa sarebbe il suo celebre mito della caverna nella Repubblica, se non la storia di una banda d’imbecilli, che scambiano lucciole per lanterne? E che dire di Cartesio? Cos’è il suo “Cogito, ergo sum”, se non una macchina da guerra contro l’imbecillità? Non s’è mai visto, infatti, un imbecille che pensa, là dove, invece, li si sente continuamente esclamare: “Non ci avevo pensato”. E il dubbio che Cartesio pone al centro della propria dimostrazione, non è forse l’esatto opposto dell’approccio tipico dell’imbecille? Sottolineò, in proposito, Voltaire che “il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. Solo gli imbecilli sono sicuri di ciò che dicono”. È paradossale, insomma, che l’imbecillità nella teoria filosofica sia niente, quando basta interessarsi alla storia per rendersi conto, invece, di come ne fioriscano gli esempi. Si pensi a Luigi XVI che nel suo diario del 14 luglio 1789 aveva annotato: “Oggi niente…”. Ma si sa, con i re non c’è da stupirsi: nulla v’è di peggio del ‘figlio di’ che succede al padre, basti vedere i danni che subiscono le aziende quando il junior eredita l’impero senza averne le competenze. Per dirla con Pino Aprile, se “l’intelligenza, per le società umane, è sabbia negli ingranaggi”, che rischia di fare inceppare i meccanismi, “l’acume, o semplicemente il buon senso, portano confusione”; ciò spiega la gran quantità d’imbecilli chiamati a ricoprire ruoli decisivi, eppur capaci di calarsi subito nella parte, i quali, forse convinti del cataclisma che di lì a poco scateneranno, si sentono in obbligo di pronunciare almeno una frase memorabile. Fortunatamente, la pochezza dei molti è controbilanciata dalla genialità di alcuni, si pensi a Mao Tsetung, il “libretto rosso” delle cui massime, ancora pargolo pieno d’ambizioni, vidi, in fotografia, agitare, ma mai leggere, da folle oceaniche. Quale messe d’insegnamenti! Quale concentrato di sapere! A ogni pagina una sensazionale scoperta; il frutto di una sapienza millenaria. Spigolo: “Se il partito non applica una politica giusta, applica una politica errata”; “Se non si applica una politica consapevolmente, la si applica ciecamente”; “Dove la scopa non arriva, la polvere da sola non se ne va”. Tutte verità sacrosante! “Quali sono i nostri amici e quali i nostri nemici? Ecco un problema che nella guerra ha un’importanza capitale”. Giustissimo: sarebbe dolorosissimo credere d’aver vinto e accorgersi, dopo il combattimento, d’aver sbaragliato gli amici anziché i nemici. “Tra gli scopi della guerra, la distruzione delle forze nemiche è lo scopo principale”, profonda verità: sarebbe un errore bombardare il proprio esercito e circondare di affettuose attenzioni l’esercito nemico. “È del tutto falso asserire che prevalgano gli errori, quando prevalgono i successi”, l’asserzione è un po’ audace; anche peggio sarebbe asserire, però, che prevalgano i successi, quando prevalgono gli errori.

Identikit del cretino per capire l’Italia: il bestiario ironico di Fruttero e Lucentini. Dal piagnisteo collettivo all’abitudine di scaricare le colpe. Il libro disponibile da martedì. Alla Fondazione Corriere della Sera un evento a loro dedicato, scrive Paolo Di Stefano il 16 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". È sorprendente come l’identikit del cretino, disegnato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini a partire dagli anni Ottanta, riesca ad acquisire un profilo ancora più nitido alla luce dell’imbecillità attuale. Al punto da avvalorare il titolo del nuovo libro, «Il cretino è per sempre» (Oscar Mondadori), costruito da Carlotta Fruttero (figlia di Carlo). Ad eccezione dell’esilarante racconto iniziale (le inedite «Istruzioni per l’uso dell’Italia» preparate nel 1997 per il lettore tedesco), si tratta di «pezzi» firmati, nel corso di un ventennio, dalla coppia più famosa della letteratura italiana.

L’idea del cretino. Nell’introdurre questo «viaggio d’autore nell’Italia che non cambia mai» (sottotitolo), Michele Serra ha maturato una sua idea del cretino prefigurato da F&L, che coinciderebbe con il lagnoso, e cioè l’irresponsabile, colui il quale attribuisce agli altri ogni sua caduta, disgrazia, errore, dabbenaggine. «Tutto il mondo — si legge in un articolo del 1982 — sta ormai facendo una lagna tremenda. La fanno gli operai e gli industriali, i poliziotti e i carcerati, i tassati e i tassatori, i giovani, i vecchi, i transessuali, i medici, i paramedici, i giornalisti, i tramvieri». E i politici? Beh, basta pensare all’allegra consuetudine dello scaricabarile: il disastro di Roma? La lagna risponde che è stato ereditato dal sindaco precedente... E il sindaco precedente? La catastrofe è stata ereditata dal sindaco di prima... E così via lagnandosi a ritroso, finisce tutto sulle spalle di Giulio Cesare.

Il grande piagnisteo collettivo. E va da sé che al grande piagnisteo collettivo collabora attivamente anche il lagnoso cittadino comune quando rivendica che se abita in una casa abusiva è colpa della burocrazia e se le strade sono piene di cicche è perché il comune... Lagna su lagna, persino la meno aggirabile delle disgrazie, la morte, finisce per essere sempre a carico di qualcun altro: inadempienze, omissioni, cialtronerie, incompetenze (dei legislatori che non hanno legiferato, dei controllori che non hanno controllato, delle strutture sanitarie impreparate, dell’amministratore corrotto, del bagnino distratto...). «Pretendiamo ormai di vivere in garanzia».

Il lagnoso e la farsa. Ma aprendo un poco il grandangolo sul bestiario formicolante di F&L, la messinscena del lagnoso appare come parte di uno spettacolo più maestoso, la gigantesca farsa italiana che si nutre di quotidiane farse minori su cui i due scrittori posano il loro sguardo tra l’ironico, il comico e lo sferzante: i cretini sono sempre pronti a inscenare una farsa, e c’è sempre una farsa a disposizione del cretino. Ecco che il libro ricostruito per il lettore del 2018 come fosse davvero una diagnosi ex novo del famoso carattere nazionale ci illustra per piccoli sondaggi in forma di cronaca, di apologo, di racconto filosofico, di dialogo, di favoletta, di rapido corsivo un vasto repertorio di spettacoli-farsa: i ministri infantiloidi intervistati da giornalisti infantiloidi e votati da cittadini infantiloidi; le folle compresse in estasi davanti a un Manet («ma questi sono qui per Manet o per poter pensare e dire di aver visto Manet?»); l’eufemismo da treno (per comunicare il ritardo); il rito sfinente del tema scolastico; le veline dei Tg (vivaci come un rubinetto che perde); gli chef che sfornano «anguille sublimi» e «timballi inarrivabili»; i libri banditi come fossero merce da dj; i cortei di protesta (contro un muro da abbattere che pochi sanno dov’è, qual è, e forse non c’è); la sciatteria del linguaggio pubblico, tra «nutella lessicale» e «forbita lingua da pattumiera»; la catena dei condoni e dei condoni dei condoni; la parata dei «frivoli tromboni», delle «piccole volpi politiche» e dei «grossi sciacalli» sulle rovine fumanti dopo le catastrofi, dove «tutti se la prendono con tutti e tutti paralizzano tutti». Era il dicembre 1980 dopo il terremoto dell’Irpinia. Sembra oggi dopo il crollo del ponte Morandi. Eternamente in bilico tra solennità e squallore, tra autoassoluzione e filippica, fra tragedia e comicità, il cretino è per sempre, ed è sempre di più.

Per capire il paese reale vinci l’orrore, e guarda “Uomini e donne”, scrive il 17 novembre 2018 L’Inkiesta. Ode al programma che più di ogni altro definisce le dinamiche sociali e amorose del Belpaese, il vero capolavoro di Berlusconi e Maria De Filippi. Che non è trash. È la realtà italiana. Poche cose al mondo della nostra televisione credo sappiano raccontare l’Italia, i suoi balconi affacciati sulle umane attese, allo stesso modo di “Uomini e donne”, capolavoro mediatico di Maria De Filippi, un dating show pomeridiano da lei condotto con distaccato interesse, postura da attesa dell’aliscafo sui gradini, Canale 5, fascia cruciale per un pubblico sinceramente, spietatamente popolare. Lo scrittore Goffredo Parise, commentando le foto del barone Von Gloeden, aristocratico omosessuale tedesco che tra ‘800 e ‘900 amava ritrarre nudi i ragazzi di Taormina ispirandosi alla Grecia e all’Arcadia, provò a ravvisare in quei volti i progenitori dei nostri contemporanei, destinati a diventare chi assessore e chi carabiniere. I pronipoti dei fauni ritratti dal barone si sono forse spettacolarmente reincarnati nelle creature presenti negli studi dove Maria De Filippi li rende “tronisti” o “troniste”, ancora meglio se “Over”, spettacolo dedicato agli ultraquarantenni e perfino più su; i protagonisti di “Uomini e donne” sono infatti lo spietato terminale antropologico dell’“orgogliosa razza italica”, i nostri parenti, i nostri vicini, i nostri cognati, i nostri zii e zie, talvolta perfino noi stessi, i volti “lavorati” dai nostri cugini che, metti, hanno scelto di diventare parrucchieri e visagisti, non certo dedicarsi alla lettura dei “Sillabari” del citato Parise, e ancor meno di Pasolini dell'omologazione culturale. Provo a dirla meglio: maschio e femmina medi, curati nei dettagli fin dalla barba, metti, come un Massimo Bossetti o una dirimpettaia procace, visi perfetti per figurare se non proprio nell’osceno leggendario “Autoscatto” di un tempo, piuttosto nella platea dei protagonisti del “Trono Over”, nome e bocciolo di rosa al petto; pronti, lui, lei, l’altro, l’altra e ogni altro ancora, a rendere l’idea di una “romantica” assemblea condominiale: incontrarsi, studiarsi, scrutarsi, piacersi, blandirsi, scazzare, mettere il muso, sentirsi talvolta un cazzo e un barattolo, come dicono a Roma. Così nel gioco dell’oca e dell’oco del corteggiamento davanti alle telecamere, e ancora precipitare giù dallo scivolo del (presunto) “fascino” maschile o femminile, dove questa parola, un tempo magica, si carica di doverosa banalità.

Così nel gioco dell’oca e dell’oco del corteggiamento davanti alle telecamere, e ancora precipitare giù dallo scivolo del (presunto) “fascino” maschile o femminile, dove questa parola, un tempo magica, si carica di doverosa banalità

Sarebbe tuttavia un errore catalogare il tutto sotto la voce perfino edificante del trash, magari pensando che le liti tra Gemma Galgani e Tina Cipollari, o la presenza di Gianni Sperti, summa di ballerino sedentario, siano il sale di Uomini e donne. È semmai l’insieme a dare solennità: lo Stivale dei maschi e delle femmine italici che, come la foresta di Macbeth, si muove prodigiosamente per mostrarsi e finalmente accedere - direbbe la canzone dei Matia Bazar - a un’ora d’amore. Aggiungo che il momento più alto della trasmissione, ripeto, da Maria De Filippi condotta con distaccata perizia da sala d'attesa, non inquadra tanto i fregni (i “tronisti”, vedi: Costantino Vitagliano, forse l’unico vero erede di Rodolfo Valentino che la tv abbia mai saputo generare) destinati infine al gradino superiore del Grande Fratello, il vero picco semmai giunge, appunto, con il Trono Over, i vecchi, i non più giovani, le tardone, le milf, carburante da sempre dell’onanismo nazionale. Chi scrive, vanta una ipnotica frequentazione di Uomini e donne, da quando a brillare accanto a Tina c’era “la signora Claudia” Montanarini, sorta di Catherine Deneuve di Vigna Stelluti o forse via Cola di Rienzo, luoghi assoluti della topografia capitolina, dove quest’ultima ambiva alla mano di Roberto, che, a sua volta, offriva alla dama un anello con “brillocco”, non se ne fece nulla, così, poco dopo, giunse Benny, cioè Benedetto, palermitano, ballerino convinto, passi da scimmia di Villa d’Orléans; Benny addirittura rilanciava portando in dote un appartamento, aprezzabili le immagini di sfondo del “villino” di città che il cavaliere sicano offriva alla fortunata, Benny non giovanissimo, alla frase: «Sarebbe bello avere anche dei figli», con strascico d’accento da impiegato di concetto dell’Enasarco, tuttavia chiosò: «Questo mi pare un po’ difficile». Soffermarsi sulle prime, le seconde e le terze file di chi è giunto in studio per corteggiare o magari essere corteggiato, notato, conquistare un tozzo di attenzione, un miracolo per maschi e femmine non più freschi, esponenti tutti di un’Italia da libretto della pensione nel comodino, la mobilia di fòrmica in cucina a fare da fondale. Domanda: è forse un’agenzia matrimoniale o si tratta piuttosto dell’eco delle canzoni afflitte di Aznavour?

Gli uomini sono gli stessi che, nelle proprie villette, al piano interrato, non hanno potuto fare a meno di prevedere, già in fase di costruzione, una stanza da battezzare “tavernetta”, le pareti magari foderate di sughero, come già Marcel Proust, possibile sala da pranzo per gustare il Pata Negra o anche da trasformare in alcova, le mutandine verde malva della dama rimaste sul pavimento. Le donne che sognano le estati all’agriturismo “Il Tucano” o al villaggio turistico, a sera l’abito lungo e la pochette per danzare, dopo avere passato magari il pomeriggio al minigolf; le nostre zie, i nostri zii…Il vero picco semmai giunge, appunto, con il Trono Over, i vecchi, i non più giovani, le tardone, le milf, carburante da sempre dell’onanismo nazionale.

A volte penso che il vero capolavoro della televisione di Silvio Berlusconi sia proprio Uomini e donne, chissà se è Maria De Filippi ne è cosciente, non Amici o C’è posta per te, non Stranamore, non Drive In. Certi giorni, muovendo da quel format torna in mente un collega di mio padre, i capelli un po’ lunghi sulle spalle, la Porsche, il maglione mod “Coppa Davis” annodato sulle spalle, immagino proprio lui tra i partecipanti, improbabile eppure corteggiato, intuisco che a un certo punto inviti a ballare Gemma o chi per lei, trovo quasi lo sguardo di invidia di Antonio Jorio (già, che fine ha fatto Antonio, che poteva pure vantarsi romanziere?),il fascino del brizzolato, un frasario assai povero e tuttavia che conquista, «…lo sa che sei tanto bella!», «…come sei romantico», e poi, «…balliamo? Sì, balliamo», se non Aznavour perfino un brano di Adele, le mani di lei sul collo di lui, «la tua giacca sul mio viso…». Certi giorni penso che sarebbe bello trovare un modo, camuffato, i baffi finti, per stare tra il pubblico, osservarli da vicino: Gemma Galgani, che in una foto d'anni fa si accompagnava a Walter Chiari, insieme allo stadio o magari all'ippodromo, già, più uno scatto da ippodromo. Mi immagino a osservare ogni dettaglio, deferente mentre chiedo l’autografo a Tina, infine provare a domandare che sorte abbia avuto Elga Profili, che ricordo procace, avvocatessa e marchigiana. Mi immagino perso nel Mercante in Fiera, il mazzo dell’attesa dell’amore, non Stambecco o Giapponesina o Lattante o Mietitrice, semmai vistosi orecchini, gilet, barbe ritagliate, i pantaloni troppo corti che mostrano le caviglie, e poi l’ambito Rocco. Dove risiede il fascino del cinquantenne Rocco? E che pensieri avranno Sossio, Raffaele, Davide, Gian Battista, Luciano, Sebastiano e Roberto (non quello dell’anello, ma uno nuovo, un altro ancora) e Gerardo, e poi sul lato opposto Cosima, Andreina e tutte le altre? Guardi ancora e ti domandi se, amore a parte, penseranno qualcosa anche di Salvini e del suo “decreto sicurezza”, e dello sgombero di Baobab. Adesso che è il momento di ballare spicca però soltanto la giacca scacchi da amministratore di condominio di Paolo, e su tutto le cosce e le sopracciglia di Roberta, sarà poi vero che lei stia cercando un nuovo compagno o le basti piuttosto la soddisfazione d’essere indicata in strada: «…la vedi, quella? È Roberta di Uomini e donne, che fregna!» Guardi ancora e ti domandi se, amore a parte, penseranno qualcosa anche di Salvini e del suo “decreto sicurezza”, e dello sgombero di Baobab e del reddito di cittadinanza o di inclusione e Renzi e Paola Taverna, e chissà se alcuni di loro sono mai andato a Predappio, alla tomba di Mussolini, o piuttosto se quell’altro era al funerale di Berlinguer? Che ne sarà di Gianluca, Roberta, Ursula e Luisa, che assomiglia alla Vanoni, e che strazio quando la regia fa arrivare il brano sentimentale di Biagio Antonacci per ancora abbracciarsi, e solo in due, lui e lei ancora, restano seduti, come alle feste da ragazzi, quando nessuno veniva a invitarti a ballare.

I conoscenti si incontrano.  I compagni ed i parenti si impongono e si subiscono. I coniugi si tollerano. I figli si accettano. Gli amici si scelgono. Io non ho amici per il sol fatto che da loro voglio la perfezione. E, in questo mondo, nessuno è perfetto. (Compreso me).

A molti individui, istituzioni ed intellettuali compresi, si dà una certa importanza, spesso e volentieri mal riposta. Questi, se li si conosce bene, ti portano a ravvisare la loro infimità.

Per questo eliminerò dalla lista tutti coloro che usano FB come strumento di lotta politica, senza costrutto. Si semina odio e non ci si prodiga alla proposta. Terrò tutti coloro che segnalano fatti che arricchiscano il sapere ed allargano gli orizzonti. In politica, per vincere basta essere migliori, forti delle proprie ragioni, e non succubi dei mediocri, senza necessità di eliminare il nemico.

"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.

Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.

I Governi sono in balia degli umori del popolo.

I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.

I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.

Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!

I pericoli dell'anarco-marxismo dietro la democrazia diretta. Il potere anche se espropriato finisce ai dirigenti politici, non certo al popolo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". La democrazia moderna è nata dalla concezione di Hobbes e Locke. Essa distingue fra governanti e governati. I governati rinunciano al loro potere a favore dei governanti (classe politica, Parlamento) perché garantisce loro la pace, la proprietà e il rispetto dei diritti fondamentali e inalienabili. Se i governanti governano male verranno sostituiti. A questa concezione, in epoca moderna si sono opposte in modo radicale due concezioni: quella marxista e quella anarchica. Il marxismo nega la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore, chiamato capitalista, deruba il lavoratore di parte del suo lavoro (plusvalore) e con questo acquista i mezzi di produzione con cui ruberà altro pluslavoro ad altri lavoratori. Bisogna perciò espropriarlo di questo furto e restituire il maltolto ai lavoratori. E chi inventerà, chi dirigerà la produzione? I lavoratori stessi. In realtà i lavoratori da soli non organizzano e non dirigono niente. Dopo la rivoluzione sovietica a farlo sarà lo Stato, in realtà la classe politica formata dai dirigenti del Partito comunista. Gli anarchici invece negano la funzione dei governanti: il popolo sa fare tutto da solo. In questo caso bisogna espropriare i politici del loro potere e restituirlo al popolo. Questa idea, che si è realizzata nel passato nelle piccole comunità come decisione di tutti i cittadini riuniti in assemblea, è stata riportata alla ribalta in Italia dai Cinque Stelle come democrazia diretta attraverso il web in cui il popolo fa tutte le leggi, prende tutte le decisioni senza bisogno di una classe politica e dirigente. Dove viene applicato questo sistema il potere lo prendono i dirigenti del partito. Di solito promettendo anche ciò che non potranno dare, e lo conservano con la repressione. In Italia per molto tempo è stato diffuso il marxismo, oggi si è fatto strada l'anarchismo e il mito della democrazia diretta. È strano che queste concezioni e il tipo di conseguenze che hanno sul sistema politico ed economico non siano oggetto di analisi e di approfondimenti sulla stampa e la tv perché si tratta di una svolta radicale che stiamo vivendo ed è la causa del disagio di questa nostra epoca ed è un pericolo per la democrazia.

La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….

Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.

I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.

Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).

Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”

Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.

Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.

Matteo 7:

1 Non giudicate, per non essere giudicati; 

2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. 

3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? 

5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.

7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; 

8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 

9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? 

10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe? 

11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!

12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; 

14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. 

16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 

17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 

18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 

19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 

20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 

22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 

23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 

25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 

26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 

27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: 

29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.

Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Governare e legiferare secondo l’ideologia fascio/comunista? No!

Governare e legiferare secondo i dettati propri di una cattiva fede? No!

Essere liberali vuol dire, in poche parole, che basta agire correttamente ed in buona fede e comportarsi come un buon padre di famiglia.

Agire e comportarsi come un buon padre di famiglia: cosa significa?

In cosa consiste la diligenza del buon padre di famiglia nell’ambito delle obbligazioni del diritto civile: l’obbligo di adempiere alla prestazione in buona fede e in modo corretto.

Adempimento delle obbligazioni: correttezza e buona fede. Il codice civile stabilisce che sia il debitore sia il creditore devono comportarsi correttamente nell’adempimento delle relative obbligazioni, sempre secondo buona fede. La seconda regola imposta dal codice civile in materia di esecuzione del contratto riguarda la diligenza del buon padre di famiglia. Cosa significa e cosa si intende con tale termine? Sicuramente anche in questa ipotesi la legge ha preferito usare un termine generale e astratto. Ma il suo significato è facilmente individuabile. Il “buon padre di famiglia” è colui che “ci tiene” e che è premuroso, colui cioè che fa di tutto pur di realizzare l’interesse dei figli. Il che significa che egli assume l’impegno a conseguire, quanto più possibile, il risultato promesso.

Il codice civile richiama il concetto di buon padre di famiglia in una serie di norme. Eccole qui di seguito elencate:

Art. 382 Codice civile – Responsabilità del tutore e del protutore: «Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri».

Art. 1001 Codice civile – Obbligo di restituzione. Misura della diligenza: «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto, salvo quanto è disposto dall’art. 995».

Art. 1176 Codice civile – Diligenza nell’adempimento: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1227 Codice civile – Concorso del fatto colposo del creditore: «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».

Art. 1587 Codice civile – Obbligazioni principali del conduttore: «Il conduttore deve prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze (…)».

Art. 1710 Codice civile – Diligenza del mandatario: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».

Art. 1768 Codice civile – Diligenza nella custodia: «Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1804 Codice civile – Obbligazioni del comodatario: «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa».

Art. 1838 Codice civile – Deposito di titoli in amministrazione: «La banca che assume il deposito di titoli in amministrazione deve custodire i titoli, esigerne gli interessi o i dividendi, verificare i sorteggi per l’attribuzione di premi o per il rimborso di capitale, curare le riscossioni per conto del depositante, e in generale provvedere alla tutela dei diritti inerenti ai titoli. Le somme riscosse devono essere accreditate al depositante (…). E’ nullo il patto col quale si esonera la banca dall’osservare, nell’amministrazione dei titoli, l’ordinaria diligenza».

Art. 1957 Codice civile – Scadenza dell’obbligazione principale: «Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale purchè il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate».

Art. 2104 Codice civile – Diligenza del prestatore di lavoro: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».

Art. 2148 Codice civile – Obblighi di residenza e di custodia: «Il mezzadro ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel podere con la famiglia colonica».

Art. 2158 Codice civile – Morte di una delle parti [in tema di mezzadria]: « (….) In tutti i casi, se il podere non è coltivato con la dovuta diligenza il concedente può fare eseguire a sue spese i lavori necessari, salvo rivalsa mediante prelevamento sui prodotti e sugli utili».

Art. 2167 Codice civile – Obblighi del colono: «Il colono deve prestare il lavoro proprio secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione. Egli deve custodire il fondo e mantenerlo in normale stato di produttività; deve altresì custodire e conservare le altre cose affidategli dal concedente con la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 2174 Codice civile – Obblighi del soccidario: «Il soccidario deve prestare, secondo le direttive del soccidante, il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, per la lavorazione dei prodotti e per il trasporto sino ai luoghi di ordinario deposito. Il soccidario deve usare la diligenza del buon allevatore».

Nessuno tocchi il “buon padre di famiglia”. E nessuno tocchi i termini “padre” e “madre”, scrive Silvano Moffa venerdì 24 gennaio 2014 su "Il Secolo D’Italia". Dopo il demenziale scardinamento del valore dei termini padre e madre, sostituibili da quelli di genitore 1 e genitore 2, l’idea francese di cancellare il “buon padre di famiglia” fa drizzare i capelli.  L’emendamento approvato dal Parlamento parigino a un progetto di legge sulla pari opportunità tra generi, che elimina dal codice una formula del linguaggio giuridico corrente, non ha senso. Tutto, ovviamente, avviene nel nome di un sessismo e di una presunta modernità nei rapporti relazionali tra le persone, che travalica finanche il senso antico che la locuzione aveva assunto, sopravvivendo al tempo e ai cambiamenti sociali. La questione non è di poco conto, e non va sottovaluta. Non fosse altro che per il fatto che la “diligenza del buon padre di famiglia”, come assioma concettuale e formula di rito nel campo del diritto, è stata abbandonata in Germania in favore di altra considerata più moderna, mentre è sopravvissuta in Italia e, finora, in Francia. La formula compare nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico. Furono i giuristi dell’epoca a forgiarne il senso, individuando nel bonus, prudens et diligens pater familias il soggetto capace di amministrare accuratamente i propri affari, più o meno come avveniva per il capo dell’azienda agraria domestica, sui cui si basava la civiltà romana dell’epoca. In seguito, con l’introduzione dei codici giustinianei, la nozione si è allargata, fino ad assumere la portata di un criterio generale per individuare i canoni corretti della prestazione, e il comportamento che deve tenere il debitore diligente. Con l’evoluzione dei tempi e della società, la “diligenza del buon padre di famiglia” è arrivata fino ai giorni nostri, scandendo un comportamento medio come sinonimo di saggezza, di legalità, di etica comportamentale. Un criterio applicato in maniera più vasta e diffusa nel corpo legislativo e negli stessi esiti giurisdizionali. Ora, non c’è dubbio che per comprendere la portata di una tale locuzione bisogna risalire alle origini. Come è chiaro che, per il fatto stesso che il concetto sia diventato più diffuso nella sfera del linguaggio giuridico, comporta che le ragioni che ne spiegano l’uso ricorrente e la portata siano fra loro molto differenti.  Ma da qui a decretarne l’abolizione per uno scopo di pari opportunità di genere ne corre.  Pietro de Francisci, uno dei maggiori storici del diritto romano, spiega nei suoi studi come la struttura della società romana primitiva (comunità di patres) fosse l’architrave su cui poggiava tutto il sistema dell’epoca: lo ius Quiritium. Fino alla fine del V secolo, il pater familias viene visto come un dominus, un soggetto dotato di un potere (potestas) che ha natura originaria, pre-politica e pre-statuale. È un sovrano del gruppo, del quale è reggitore e sacerdote, custode dei sacra e degli auspicia, giudice dei filii familias, con diritto di punire, fino a giungere alla possibilità di infliggere la pena di morte. E’ evidente la forza implicita in una tale figura nell’epoca antica, ai primordi del diritto romano. Ed è del pari evidente, come appare persino ovvio, quanto sia superata, anacronistica, lontana al giorno d’oggi una simile idea di famiglia. Il problema però è un altro. Intanto, la formula, come abbiamo visto, ha assunto un significato del tutto diverso nel tempo, anche all’interno dello stesso diritto romano. In secondo luogo, la diligenza del buon padre di famiglia è un criterio difficilmente sostituibile con una locuzione che possa avere lo stesso effetto e la stessa forza immaginifica. Prendiamo ad esempio una prestazione, nella sua configurazione ordinaria.  Attenti giuristi hanno spiegato come nelle moderne codificazioni che regolano i rapporti dei traffici giuridici e commerciali, sia ormai superato il dualismo tra colpa in astratto e colpa in concreto, cui si ricorreva nel determinare la responsabilità della mancata prestazione. Il modello preferito è ormai quello strettamente oggettivo. Insomma, dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire sottolineare che egli è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio cui ci si ispira è improntato al buon senso, ad un canone di normalità, ad un comportamento usuale e corretto nello stabilire il livello dei rapporti, e nel parametrare il modo in cui non si può non operare nella generalità dei casi. Nel bonus pater familias residuano, insomma, un nucleo di saggezza, oltre che una storia e una cultura giuridica di cui dovremmo menar vanto. Che c’entra con tutto questo il tema delle pari opportunità tra i sessi, è davvero difficile da comprendere. Altro che modernità. Siamo al cospetto di una colossale stupidità.

L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)

Si stava meglio quando si stava peggio.

I miei nonni paterni Giuseppa Caprino e Leonardo Giangrande, democristiani, contadini beneficiari delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista e genitori di 8 figli, dicevano che con i democristiani nessuno rimaneva indietro e tutti avevano la possibilità di migliorare il loro stato, se ne avevano la voglia (lavorare e non sprecare). Nonostante gli sprechi a vantaggio di alcuni figli a danno di altri e nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, loro hanno migliorato il loro stato ed hanno avuto la pensione.

Mio nonno materno Gaetano Santo, comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 8 figli cresciuti con l’illusione della loro utilità al suo benessere ed alla sua vecchiaia, tra un bicchiere di vino e l’altro affermava che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Luigi Malorgio, il nonno materno di mia moglie, prigioniero di guerra e comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 4 figli, tra uno spreco e l’altro affermava, con il solito mantra comunista, che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Altro mantra dei comunisti era ed è: gli altri vincono perché, essendo ladri, comprano i voti.

E come dire a detta degli interisti e dei napoletani: la Juventus vince perché ruba e quindi ridistribuiamo i suoi scudetti. L’Inter ed il Napoli son morti, comunque, perdenti.

Dopo tanti anni ho constatato che oggi rispetto al tempo dei nonni, nonostante il progresso tecnologico e culturale, non è più possibile migliorarsi ed arricchirsi. Inoltre oggi se si diventa ricchi per frutto della propria capacità e lavoro, non si è più tacciati di ladrocinio, ma di mafiosità. E se prima non c’era, oggi c’è l’espropriazione proletaria antimafiosa, ma non a favore dei poveri, ma solo a vantaggio dell’antimafia di sinistra, sia essa apparato burocratico di Stato, sia essa apparato associativo comunista, sia esso regime culturale rosso.

Dopo tanti anni ho constatato che, nonostante la magistratura politicizzata che collude ed i media partigiani che tacciono, i moralizzatori solidali erano e sono ladri come tutti gli altri, erano e sono mafiosi come, è più degli altri.

Ergo: ad oggi noi moriremo tutti poveri…e probabilmente senza pensione, accontentandoci di un misero reddito di cittadinanza che prima (indennità di disoccupazione) era privilegio solo dei lavoratori sindacalizzati disoccupati.

Di fatto, nel nome di un ridicolo ambientalismo, ci impediscono di farci una casa, ma ci spingono a comprarci un’auto. 

Questo non è progressismo politico, ma una retrograda deriva culturale che ti porta a dire che:

è meglio non fare niente, perché si fotte tutto lo Stato con il Fisco;

è meglio non avere niente, perché si fotte tutto lo Stato con l’Antimafia.

Quindi, si stava meglio quando si stava peggio.

Ma lasciate che sia il solo a dirlo, così sanno con chi prendersela ed è facile per loro vincere tutti contro uno. Senza una lapide di rimembranza.

Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.

Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.

Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.

È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.

Il Belpaese è diventato brutto. Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale, scrive Ernesto Galli della Loggia il 8 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere. Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora. Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata. Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.

I bei tempi andati? Non esistono. Erano violenti, sessisti e sporchi. Un libro di Michel Serres smonta i luoghi comuni degli anti-moderni, scrive Massimiliano Parente, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Ogni giorno in Italia qualcuno dice: «Si stava meglio quando si stava peggio». Ma davvero si stava meglio? E quando? C'è chi elogia il passato, in genere i vecchi che rimpiangono la propria giovinezza, o gli anni Sessanta, o gli anni Cinquanta, e chi addirittura i tempi in cui non era nato: «Mi sarebbe piaciuto vivere negli anni Trenta!». In realtà sono sempre errori della nostra percezione, della nostalgia senile, e spesso anche della nostra scarsa conoscenza del passato. Anni fa uscì un bellissimo saggio dello storico Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici (Mondadori), che passava al setaccio tutte le ideologie antimoderne e le visioni idealizzate del passato. Lo scienziato Steven Pinker nel frattempo ha pubblicato un lungo studio, Il declino della violenza (Mondadori), per dimostrare come, al contrario di quanto credano molte persone, la violenza sia diminuita progressivamente nella Storia (ma basta leggere anche il diario di Giacomo Leopardi, che in visita a Roma notava come non fosse possibile uscire di notte senza rischiare di essere uccisi). In questi giorni esce per Bollati Boringhieri un pamphlet intitolato Contro i bei tempi andati dell'epistemologo Michel Serres. L'autore ha ottant'anni, ma non rimpiange niente del suo passato, né del passato in generale. Anzi, in ogni pagina, tra autobiografia e dati storici, ci tiene a mostrare che più andiamo indietro, più il passato fa schifo. A cominciare dalle due guerre mondiali, che hanno insanguinato l'Europa (e erano nate, fra l'altro, da movimenti antimoderni e anticapitalisti come fascismo e comunismo). Viceversa stiamo vivendo da settant'anni il più lungo periodo di pace mai visto nel mondo, «cosa mai accaduta, almeno nell'Europa occidentale, dai tempi dell'Iliade o della Pax Romana». Abbiamo sconfitto epidemie mortali, considerando che «le statistiche dicono che, in tempi più antichi, il numero dei morti per malattie infettive superava di gran lunga quello delle vittime di guerra». Serres elogia le conquiste delle vaccinazioni (malgrado oggi in Italia si torni indietro, abolendo l'obbligo di vaccinarsi). Oggi si parla di razzismo al minimo episodio di cronaca, dimenticando che una volta, poco più di un secolo fa, si pretendeva di dimostrare scientificamente come i negri fossero delle scimmie non evolute, e ai tempi di Mussolini e di Hitler si pubblicavano tranquillamente riviste razziste e antisemite. E l'inquinamento? L'aria dell'Ottocento era molto più inquinata di quella di oggi, e ai tempi di Serres «senza alcuna restrizione le fabbriche spargevano le loro immondizie nell'atmosfera o nel mare, nella Senna, nel Reno, nel Rodano, e le petroliere ripulivano le cisterne in mare aperto». Quanto alla medicina, non esistevano gli antibiotici, si moriva di sifilide e tubercolosi, «come capitò a tutti i grandi uomini illustri del XIX secolo, Schubert, Maupassant o Nietzsche», e non esisteva la sanità pubblica, i poveri soffrivano e morivano senza cure, e i ricchi non se la passavano meglio. Serres, nato nel 1930, ricorda di nuovo come l'assenza di vaccinazioni «lasciò molti dei miei amici segnati dalla poliomelite», e di come l'OMS sia riuscita a eradicare il vaiolo a livello mondiale. Sentiamo molte persone dire che la vita moderna fa male, che i cibi moderni sono cancerogeni, che la vita di una volta era più sana, e spopola l'ideologia del bio e del ritorno all'alimentazione «genuina» di un tempo. Talmente genuina che ci si lasciava la pelle. Serres ricorda come il latte non pastorizzato, munto direttamente dal contadino, spesso portasse malattie e febbri terribili (di cui si ammalò anche lui), mentre oggi i cibi industriali sono molto più controllati (non per altro i casi di botulismo avvengono sempre con il «fatto in casa»). E di come la durata della vita media alla nascita nel corso di un secolo sia quadruplicata. «Da quando sono nato a oggi, in Francia la speranza di vita ha più di ottant'anni, mentre poco prima quanti figli bisognava mettere al mondo per conservarne due o tre?».

Non parliamo dell'igiene, non ci si lavava mai. Neppure le ostetriche si lavavano le mani e le madri morivano di febbre puerperale. Le lenzuola si cambiavano due volte all'anno, le camicie si portavano finché non diventavano nere, e «lo sciacquone del gabinetto venne inventato a Londra, alla fine del XIX secolo e si diffuse cinquant'anni dopo; una volta si pisciava dove si poteva, si cacava dappertutto, un po' come oggi in India si pratica la open defacation». Quanto alle donne, credono di essere discriminate oggi, e accusano di molestie sessuali perfino chi le guarda, mentre prima non solo le donne non avevano diritto di voto, ma se una donna veniva stuprata era colpa sua, altro che #metoo. «Le cifre riguardanti gli abusi sessuali sulle adolescenti all'interno della famiglia sono state rese pubbliche solo di recente, e da poco abbiamo scoperto che ogni due giorni una donna moriva a causa delle sevizie del marito, e che due bambini ogni settimana spiravano per mano dei genitori». Speriamo che chi invoca ogni giorno la famiglia tradizionale non si riferisca a questa, perché questa è stata la famiglia umana dall'antichità a meno di un secolo fa. E dunque, si stava meglio quando si stava peggio? No, quando si stava peggio si stava peggio e basta. E pensare che al governo c'è un movimento fondato sulla filosofia della «decrescita felice» e sulla Piattaforma Rousseau. Sì, Jean-Jacques Rousseau, quello del mito del Buon Selvaggio. Io vorrei come minimo una Piattaforma Steve Jobs.

Ultimi della classe (dirigente). Non ci sono in Italia istituzioni politiche, scientifiche o formative unificanti, scrive Francesco Alberoni, Domenica 08/07/2018, su "Il Giornale". Una classe dirigente, ci insegna il grande sociologo Vilfredo Pareto, è formata da tutti coloro che eccellono nella loro attività. Quindi i politici più abili, i giudici più saggi, i giornalisti più ascoltati, i presentatori più seguiti, ma anche gli imprenditori, gli economisti, gli artisti, i registi, gli scrittori, i filosofi, gli scienziati, i professionisti più eminenti. E ha le sue radici nel passato. Il Paese che più di ogni altro ci ha fornito il modello di una grande classe dirigente è stata l'Inghilterra dove c'è stato sempre l'irrompere del nuovo ma anche la sopravvivenza dei poteri tradizionali e il permanere delle grandi istituzioni unificanti. L'Inghilterra è il Paese che innalzava colonne all'eroe Orazio Nelson mentre lasciava morire di fame Lady Hamilton, che glorificava Winston Churchill mentre lo mandava a casa nelle elezioni. Ma anche un Paese che da secoli ha istituzioni scientifico-culturali come la Royal Society, le università di Oxford e di Cambridge e il collegio di Eton dove si è formata la classe dirigente inglese. Non esiste nulla di simile in Italia dove storicamente si sono succeduti gruppi politico ideologici diversi: prima i liberali, poi i fascisti a cui seguono nel dopoguerra i comunisti e i cattolici. Poi la crisi di Mani pulite che ha fatto emergere il potere della magistratura. In seguito, si formano o movimenti o raggruppamenti attorno a un capo come Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo e ora Salvini. Sono gruppi ristretti, formati da amici, conoscenti, simpatizzanti e «clienti» che egemonizzano il potere e creano istituzioni per loro stessi da cui escludono gli altri. Non ci sono in Italia istituzioni politiche o scientifiche o formative unificanti, non c'è una vera, unica classe dirigente. E sembra che a livello popolare non se ne senta neppure l'esigenza. Il politico non viene eletto per ciò che ha dimostrato di sapere fare e non gli si chiede di avere una formazione culturale adeguata. Grillo arriva a sostenere che i parlamentari dovrebbero essere estratti a sorte tra i cittadini. Questa divisione delle élite lascia il potere in mano alla burocrazia che non ha valori, non ha mete, ostacola la creazione e tende solo a crescere su se stessa.

I bulli che umiliano la cultura. Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione così elevata, sia inutile studiare, scrive Francesco Alberoni Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione giovanile così elevata, sia inutile studiare, inutile imparare, inutile prendere bei voti perché tanto, si dice, nella vita si affermano i forti, i corrotti, i violenti, quelli che sanno dominare gli altri, imporre il loro volere. È questo il pensiero che sta dietro il diffondersi del bullismo in tutte le sue forme. Dal piccolo gruppo di studenti che domina sugli altri, deride e si beffa dei più deboli, li mette a tacere, fino ai gruppi più aggressivi che offendono ed insultano anche i professori in modo che perdano agli occhi dei loro allievi l'ultima autorità loro rimasta. E così denigrano la cultura, il sapere, l'unica forza che nel mondo moderno fa avanzare tanto gli individui che i popoli. Gli individui, perché emergono solo coloro che fanno le scuole e le università migliori e i popoli perché solo alcuni hanno i centri di ricerca più avanzati, gli studiosi più apprezzati e una ferrea organizzazione del lavoro. E questo modo di pensare disastroso si afferma anche in politica col principio anarchico che «uno vale uno» quindi chiunque, anche il più fannullone e ignorante, può dirigere un Paese moderno e affrontare le bufere geopolitiche di oggi. Bisogna riporre in primo piano l'idea che lo strumento fondamentale con cui gli esseri umani lottano, si affermano, si rendono utili agli altri, è il sapere, la cultura. In tutte le forme: scientifica, artistica musicale, linguistica, come capacità di scrivere e di parlare, di calcolare e di prevedere. Ma voi provate a domandare alla gente che cosa desidera. Vi risponderà che desidera viaggiare, fare crociere, una nuova macchina, una barca, un nuovo televisore. Nessuno vi risponde che desidera imparare la matematica, il diritto, le lingue, l'economia, la biologia o l'informatica. Le spese per svago e per divertimenti superano paurosamente le spese culturali. Ci sono ancora persone che leggono libri? Solo una minoranza, quella che studia con fermezza e costituirà la futura élite internazionale. E gli altri? Gli altri saranno tutti dei disoccupati e dei sottoproletari. Basta, cambiate direzione, datevi da fare. Siete ancora in tempo, per poco.

Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.

“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.

“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.

“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.

Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:

“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.

“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.

“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.

Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.

Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Saviano è il vero intoccabile. Vietato fare satira su di lui. Chi ha provato a scherzare sullo scrittore, da Zalone ai comici Luca e Paolo, è stato subito messo a tacere, scrive Nino Materi, Lunedì 25/06/2018, su "Il Giornale". Scherza con i santi, ma lascia stare Saviano. Giù le mani da Roberto. E poco importa se la mano è quella - innocua - che potresti mettere davanti alla bocca, magari solo per soffocare un inizio di risata. Perché in Italia si può fare ironia su tutti (compresi Papa e presidente della Repubblica), eccetto che sullo scrittore di Gomorra. Chi si è cimentato con la sua parodia, ha subito avvertito la stessa piacevole sensazione di mettere le dita in una presa di corrente. Insomma, Saviano come i fili dell'alta tensione. E una bella scossa, nel corso degli anni, se la sono presa i pochi coraggiosi che hanno tentato di imitarlo comicamente. Niente di pesante, per carità: appena una bonaria presa in giro del suo eloquio da santone in perenne trance sciamanica; del suo incedere messianico sulle acque procellose dell'antimafia; delle sue pause meditative da salvatore della patria in servizio h24; del suo grattarsi la pelata come se pensieri e preoccupazioni fossero solo una sua esclusiva; del suo sapiente gesticolare ostentando più anelli di J-Ax e Fedez messi insieme. Un minimo sindacale satirico che, tuttavia, si è rivelato più che sufficiente per far scendere il «guitto» di turno a più miti consigli. Lo sa bene il grande Checco Zalone che, in uno show televisivo, vestì i panni di uno sfigatissimo Saviano cui tutte le ragazze davano il due di picche «perché la camorra ha il monopolio della f...». Saviano (personaggio che notoriamente non brilla per autoironia), invece di riderci su, si risentì. E con lui si attapirarono tutti i suoi fan secondo i quali «ironizzare su Saviano equivale a fare un favore ai camorristi». Risultato: Checco Zalone, da quella volta, non si «permise» mai più di imitare lo scrittore più scortato del mondo. Stessa parabola censoria anche per il duo comico Luca e Paolo che, addirittura dal palco del Festival di Sanremo, si azzardarono a punzecchiare Roberto, ricordandogli come alcune delle sue denunce equivalessero un po' alla scoperta dell'acqua calda. Apriti cielo. I due artisti furono immediatamente redarguiti dal rigoroso «funzionario Rai» che suggerì loro di «occuparsi d'altro». Meno clamorosa, ma altrettanto deciso il consiglio a «non insistere sull'argomento» indirizzato al cabarettista Sergio Friscia, «reo» di animare un Saviano un po' troppo bozzettistico. La stessa «colpa» attribuita pure ad altri due colleghi di Friscia: Cristian Calabrese, autore di uno sketch dal titolo dissacratorio, Zero Zero Zero ed Enzo Costanza protagonisti di una serie di video esilaranti, ma ritenuti non propriamente savianolly correct. In questi casi non risulta un intervento diretto del giornalista finalizzato a zittire i suoi epigoni parodistici, ma alcune sue dichiarazioni esprimono bene il concetto che Saviano ha rispetto alla creatività umoristica: «La creatività fa, non commenta. E i The Jackal ne sono un esempio». Ma perché mai ai comici dovrebbe essere precluso il diritto al «commento»? e, poi, chi sono «The Jackal»? Al primo quesito Saviano non ha mai risposto; facile invece la risposta al secondo: si tratta di un gruppo di brillanti filmaker che devono il successo a video-parodie cliccatissime su youtube, la più celebre delle quali è: Gli effetti di Gomorra sulla gente. In questo caso, per non correre rischi, Saviano ha voluto prendere parte direttamente ad alcuni ciak. Motivo? I maligni dicono: «Per accertarsi di non essere preso in giro». Intanto lui, un giorno sì e l'altro pure, dà del «buffone», «razzista» e «codardo» al ministro dell'Interno. A offese invertite, Salvini sarebbe già stato costretto alle dimissioni.

LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.

Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?

Tutto inizia e finisce con una E-mail.

Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.

Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.

Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube.  Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.

Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.

Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.

Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.

YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.

Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.

Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.

Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.

YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.

Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.

California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.

Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.

YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.

La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.

“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.

Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.

L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.

Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?

Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.

Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

Dr Antonio Giangrande

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.

L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.

Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 

Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.

Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.

Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.

Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);

Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);

Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);

Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);

Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);

Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).

Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.

Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.

Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.

Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".

Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.

Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?

Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.

Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.

«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?

Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.

Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;

Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;

Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;

Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;

Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;

Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;

Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;

Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;

Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».

Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.

Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.

In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.

Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.

A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.

Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby. 

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.

La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno

Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,

Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia

E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,

per accorgermi che stato e mafia sono intimi,

Dogo Gang, lo sanno già tutti,

Southfam, lo sanno già tutti,

il peggio è che lo sanno già tutti.

Vengo al mondo con il piombo nel '79

con il cielo rosso sangue sopra la nazione

l'anno prima della bomba dentro la stazione

il Paese inginocchiato ai piedi del terrore

l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80

quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna

basta una botta di pala per insabbiare la trama

e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia

poi la nuova alleanza tra politica e mala

la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata

i pilastri di cemento con i cristiani dentro

l'acido e le vasche, e il primo pentimento

sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla

lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,

e se volevi lavorare dovevi pagare

l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.

I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda

i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna

la politica assassina che soffoca i cittadini

e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti

i loro vizi esauditi col sangue degli operai

e i soldi delle pensioni che non bastano mai

12 teste al mese per ogni parlamentare

e 8000 euro all'anno per la fascia popolare

l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale

bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare

tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame

una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare

ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso

che davanti al nome è presidente o ministro

e non conta il reato, il verdetto è fisso,

non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.

Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia

L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia

in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette

come in Quirinale, il criminale che non si dimette

ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore

devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie

l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato

(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato

la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,

come al cesso mano nella mano le due amiche sceme

ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota

nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota

questa è la Bella Italia, tira una bella raglia

faccia da galera del magnaccia sul Carrera

scorda i problemi, sogna il montepremi

il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.

In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Pistole in macchine in Italia

Machiavelli e Foscolo in Italia

I campioni del mondo sono in Italia

Benvenuto in Italia

Fatti una vacanza al mare in Italia

Meglio non farsi operare in Italia

Non andare all'ospedale in Italia

La bella vita in Italia

Le grandi serate e i gala in Italia

Fai affari con la mala in Italia

Il vicino che ti spara in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

I veri mafiosi sono in Italia

I più pericolosi sono in Italia

Le ragazze nella strada in Italia

Mangi pasta fatta in casa in Italia

Poi ti entrano i ladri in casa in Italia

Non trovi un lavoro fisso in Italia

Ma baci il crocifisso in Italia

I monumenti in Italia

Le chiese con i dipinti in Italia

Gente con dei sentimenti in Italia

La campagna e i rapimenti in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Le ragazze corteggiate in Italia

Le donne fotografate in Italia

Le modelle ricattate in Italia

Impara l'arte in Italia

Gente che legge le carte in Italia

Assassini mai scoperti in Italia

Volti persi e voti certi in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi…

Dove fuggi...

La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese

Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;

tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;

il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:

Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.

Commando sì commando no, commando omicida.

Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita

il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;

infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì primario dai, primario fantasma,

io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò

"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.

Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.

Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.

Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.

Italia perfetta, perepepè' nanananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo:

in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.

Italia sì Italia no, Italia sì

uè, Italia no, uè uè uè uè uè.

Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No

L'italiano medio degli Articolo 31

Io mi ricordo collette di Natale

Campi di grano ai lati della provinciale

Il tragico Fantozzi, la satira sociale

Oggi cerco Luttazzi e

Non lo trovo sul canale

Comunque sono un bravo cittadino

Ho aggiornato suonerie del telefonino

E un bicchiere di vino con un panino

Provo felicità se Costanzo fa il trenino

Ho un santino in salotto

Lo prego così vinco all'enalotto

Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto

Che mi fa diventare milionario come Silvio

Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio

Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane

Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!

Però ricordo collette di Natale

Campi di grano ora il grano è da buttare

M'importa poco oggi io vado al centro commerciale

E il mio problema è solo dove parcheggiare

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Io sono un bravo cittadino onesto

Bevo al mattino un bel caffè corretto

Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila

La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000

Che bella la vita di una stella

marina o Martina o quella della velina

La mora o la bionda è buona e rotonda

Finchè la barca va finchè la barca affonda

E intanto sto perdendo sulla patente il punto

E un auto blu mi sfreccia accanto

Che incanto

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

Ma spero che un sogno così non ritorni mai più

Mi voglio svegliare, mai più

Ti voglio fare vedere

Che sono proprio un bravo cittadino

Ho il portafoglio di Valentino

E l'importante è quello che ci metto dentro

Vado con il vento a sinistra a destra

Sabato in centro fino a consumare le suole

Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo

A seguire le parole e penso a fare l'amore

Alla villa di Briatore alla nonna senza

Ascensore alla donna del calciatore

A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza

Monsignore ancora baciamo la mano

Che del miracolo italiano

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

C'era una volta

E non solo una

Un re che amava così tanto i vestiti nuovi

che spendeva in essi tutto quello che aveva

Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata

Niente importava per lui

Eccetto i suoi vestiti

Eppure non trovava soddisfazione

Il sarto era sull'orlo della disperazione

Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto

Che cambiava colore e forma ad ogni momento

Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi

A loro il tessuto sarebbe stato invisibile

E pensate, e pensate

Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC

Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi

A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo

Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile

La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere

E non far partecipare nessun altro

Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro

Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili

Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili

Sono tanti, arroganti coi più deboli,

zerbini coi potenti, sono replicanti,

Sono tutti identici, guardali,

stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.

Come lucertole s'arrampicano,

e se poi perdon la coda la ricomprano.

Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno

spendono, spandono e sono quel che hanno

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

e come le supposte abitano in blisters full-optional,

Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,

Vivono col timore di poter sembrare poveri

Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,

In costante escalation col vicino costruiscono

Parton dal pratino e vanno fino in cielo,

han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..

Sono quelli che di sabato lavano automobili

che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,

Medi come I ceti cui appartengono,

terra-terra come I missili cui assomigliano.

Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano

e poi s'impastano su un albero

Nasi bianchi come Fruit of the Loom

che diventano più rossi d'un livello di Doom

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica

mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano

Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano

Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,

Mani lisce come olio di ricino,

Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,

che si alzano alle spalle dei Fratelli.

Quelli che la notte non si può girare più,

quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,

Che fanno I boss, che compra Class,

che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica

Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara

Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,

Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sabbie Mobili di Marracash

Non agitarti

Resta immobile

Non agitarti

Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda Nelle sabbie mobili

Si perde Nelle sabbie mobili

Penso spesso che potrei farlo

Andare via di punto in bianco

Così altra città. Altro Stato

Potrei se avessi il coraggio

Ho un orizzonte limitato

E' follia stare qua nel miraggio

Che basti essere capaci

Quanti ne ho visti scavalcarmi

Rampolli Rapaci. Raccomandati

Quanti ne ho visti fare viaggi

E dopo non tornare

Restare. Spaccare. Affermarsi

Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo

Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto

Se sei un ragazzo ambizioso

In un sistema corrotto

Non puoi fare il botto

E non uscirne più sporco

Nessuno lascia le poltrone

Niente si muove

Nessuno osa e nessuno dà un occasione

Impantanati in queste sabbie mobili

Si muore comodi

Lo Stato spreca i migliori uomini

Non agitarti. Resta immobile.

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che Affonda

Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Parto dal principio

Io della scuola ricordo un ficus

Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio

Vale più un mio testo letto in diretta da Linus

Il paese ha un virus

Una paralisi da ictus

Come prima più di prima

Madonna potrebbe essere mia nonna

A 50 anni è ancora a pecorina

E' il nulla

Come la storia infinita

Come la mummia

Che si sveglia e torna in vita

Puzza di muffa

The beautiful people

The beautiful people

La bella gente pratica il cannibalismo

Sa di già visto

Come un film di cui capisci la fine

Già dall'inizio

I vecchi stanno al potere

Non vanno all'ospizio

E se MTV sta per music television

Vorremmo più video e meno reality e fiction

Sono pesante apposta come chi fa sumo

Tu fai musica che piace a tanti

E non fa impazzire nessuno

Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Niente di nuovo. Niente di che

Quel rapper che ti piace

Non dice niente di sé

Solo cliché

Attacca il premier

Come se quando cadrà il premier

Vincerà il bene

Se non ci fosse di che parlerebbe

Chi comanda è lì da sempre

E non si elegge con il voto

E prende decisioni senza cuore e senza quorum

E se tornassi indietro io lo rifarei

Il mio incubo era fare la vita dei miei

Sì quella vita strizzata in otto ore

Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa

Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione

Ma non ci crede

Come chi brinda

Ma poi non beve

Non prendere la bufala

Che tanto non è bufala

E' una bufala

Hai una chance di andartene frà. Usala

Se riesci sei un genio

Se fallisci sei uno zero

Se fai quello che fanno gli altri

Rischi di meno

Quindi. Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare il paese che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber

Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Non è per colpa mia

Ma questa nostra Patria

Non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

Che sia una bella idea

Ma temo che diventi

Una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

Non sento un gran bisogno

Dell'inno nazionale

Di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

Non voglio giudicare

I nostri non lo sanno

O hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Se arrivo all'impudenza

Di dire che non sento

Alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

E altri eroi gloriosi

Non vedo alcun motivo

Per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

Ma ho in mente il fanatismo

Delle camicie nere

Al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

Questa democrazia

Che a farle i complimenti

Ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Pieno di poesia

Ha tante pretese

Ma nel nostro mondo occidentale

È la periferia.

Mi scusi Presidente

Ma questo nostro Stato

Che voi rappresentate

Mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

Agli occhi della gente

Che tutto è calcolato

E non funziona niente.

Sarà che gli italiani

Per lunga tradizione

Son troppo appassionati

Di ogni discussione.

Persino in parlamento

C'è un'aria incandescente

Si scannano su tutto

E poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Dovete convenire

Che i limiti che abbiamo

Ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

Noi siamo quel che siamo

E abbiamo anche un passato

Che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

Ma forse noi italiani

Per gli altri siamo solo

Spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

Son fiero e me ne vanto

Gli sbatto sulla faccia

Cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Forse è poco saggio

Ha le idee confuse

Ma se fossi nato in altri luoghi

Poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

Ormai ne ho dette tante

C'è un'altra osservazione

Che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

Noi ci crediamo meno

Ma forse abbiam capito

Che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

Lo so che non gioite

Se il grido "Italia, Italia"

C'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

O forse un po' per celia

Abbiam fatto l'Europa

Facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo

Per fortuna o purtroppo

Per fortuna. Per fortuna lo sono.

Mamma L'Italiani di Après La Classe

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Rivoluzione di Renato Zero

Protesterai

ogni tregua è finita oramai

dalla sabbia la testa alzerai

dritto al cuore colpirai.

Libererai

quello che soffocavi in te

la tua voce è più forte se vuoi

del silenzio e l'omertà

C'è una guerra giusta e devi farla tu

è la tua risposta a chi non chiede più

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

su la testa adesso tocca te

Ti accorgerai

che il nemico è nascosto tra noi

che il futuro non viene da sé

e ogni brivido ha un suo perché

E sentirai

che resistere è pura follia

ci sarà poi chi ride di te

ma è soltanto paura la sua

Perché niente al mondo viene come vuoi

Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi

Rivoluzione è la promessa che mi fai

di calci e sputi non avere mai paura

Non posso andare sempre avanti io

ho già dato e adesso tocca te

Politica assente famiglia vacante

quaggiù si congeda anche Dio

Se la corda si spezza s'incendia la piazza

E ritorno a lottare con te!

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione! Rivoluzione.

Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc

In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:

ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che

qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si

esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che

caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente

“affanno” – non sanno a quale conclusione non

Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam

Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!

Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro

Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i

Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han

Cappucci e cornetti sulle fronti.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci

intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette

nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del

vicino: ragazzi che casino! Senza via di

scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è

venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo

campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello

shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti

quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli

mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci

resta che il bavaglio.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni

sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi

ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma

i peggio restan quelli genealogici… Visto che la

base del sistema è la clientela e siamo separati

da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una

ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea

collaterale come un'unica famiglia in un immenso

psicodramma: sta bravo che altrimenti piange

mamma. Cambio di programma: annulliamo la

rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere

coinvolta…

Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in

Televisione… chi c'è andato che delusione! Era

chiuso anche il portone.

"Chi comanda il mondo?" di Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso. Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma, scrive Oscar di Montigny il 5 giugno 2018 su "Panorama".

"Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire". George Orwell

Al giorno d'oggi siamo impegnati a comunicare senza sosta ma di rado capita di domandarci: sto dicendo veramente quello che voglio dire? Non siamo di certo i primi: da sempre nella storia anche i più grandi e rivoluzionari pensatori hanno dovuto fare i conti con il contesto storico, le pressioni sociali, le censure. Non a caso lo scrittore e giornalista George Orwell ha scritto la frase premessa a queste righe. Oggi, però, comunichiamo di continuo eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su Twitter, corriamo a esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull'altare di questa gara?

L'era della post-verità. Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità ma soprattutto di connessione col reale. Siamo d'altronde in quella che è stata definita era della post-verità. Gli "alternative facts" di cui si è parlato ultimamente negli Stati Uniti di Donald Trump sono un bell'esempio di come anche il linguaggio possa essere piegato a originare contraddizioni fino a poco tempo fa impensabili: i fatti erano fatti, senza alternative. I giornalisti incorruttibili, i profeti scomodi, i difensori del libero arbitrio sembrano martiri degni solo di vecchi film di Hollywood. Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano invece in un modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che hanno opinioni che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi. È questo il terreno in cui proliferano le fake news, piaga apicale del nostro tempo, difficili da smontare senza esporsi ad altre fonti di informazione. È così che evitiamo di andare a fondo nelle cose, a recuperare un senso della dimensione reale. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un'isteria legata a quel che va detto e cosa no, limitano la libertà di espressione in un'epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo.

Il coraggio di dire quello che si pensa. D'altronde è più comodo così: "Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa", diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principî non riguardano solo l'opportunità personale, sono invece veri e propri valori culturali. Al contrario stiamo perdendo l'attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l'inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle trappole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche "like" in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno. In una recente intervista lo scrittore Eric Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in "un'epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno". Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell'intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva.

L’aspetto formale e l’aspetto sostanziale. Perché il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sbagliato. E perché chi lo difende è ignorante o in mala fede. La lezione di chi, il dr Antonio Giangrande, non è titolato, se poi i titoli (accademici) si danno per cooptazione e conformità ed omologazione.

Le Disposizioni sulla Legge in generale, dette anche preleggi o disciplina preliminare al codice civile, sono un insieme di articoli (in origine erano 31, poi dopo l'abrogazione delle corporazioni sono diventati in tutto 16) emanati con Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262 con cui fu anche approvato il codice civile italiano nel 1942. Si tratta di legge ordinaria di livello paracostituzionale, quindi le disposizioni contenute in tali leggi si collocano subito al di sotto del livello costituzionale e poiché statuiscono disposizioni generali si pongono, come la Costituzione Italiana, al di sopra delle altre leggi, comprese le leggi speciali.

Il primo capo (art. 1-9) delinea le fonti del diritto. Il secondo riguarda l'applicazione della legge in generale.

La gerarchia delle fonti (art. 1) ha subìto nel tempo una modifica in senso testuale, a seguito della soppressione dell'ordinamento corporativo. Al contempo ha subito un'estensione interpretativa, in quanto, con l'entrata in vigore della Costituzione e a seguito dell'adesione dell'Italia all'Unione europea, vige il principio cosiddetto della preferenza comunitaria, per cui le leggi e i regolamenti come fonte del diritto devono essere applicati solo ove non contrastanti con le norme di diritto comunitario.

Art. 1 Indicazione delle fonti. Sono fonti del diritto:

1) le leggi;

2) i regolamenti;

3) (Le norme corporative, abrogato);

4) gli usi (consuetudini).

Art. 2 Leggi: La formazione delle leggi e l'emanazione degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale.

La riserva di legge, inserita nella Costituzione in varie norme: relativa (23, 97 comma2), assoluta (13 comma2), rinforzata (16), formale (72 comma4, 76, 77, 81), ecc., prevede che la disciplina di una determinata materia sia regolata soltanto dalla legge primaria e non da fonti di tipo secondario. La riserva di legge ha una funzione di garanzia in quanto vuole assicurare che in materie particolarmente delicate, come nel caso dei diritti fondamentali del cittadino, le decisioni vengano prese dall'organo più rappresentativo del potere sovrano ovvero dal parlamento come previsto dall'articolo 70.

Fonti costituzionali. Al primo livello della gerarchia delle fonti, si pongono la Costituzione, le leggi costituzionali e gli statuti regionali (delle regioni a statuto speciale), i trattati europei. La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida: "lunga" perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi", riguardando anche altre materie, "rigida" in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 Cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale.

All’interno Art. 139 si legge che “. La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.”

In questo caso, nella gerarchia delle fonti i Principi generali, quale è la democrazia, primeggiano sulle restanti disposizioni.

L’articolo 90 della Costituzione dice infatti che «Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». Spieghiamo perché è responsabile. Partiamo proprio dalla base della Costituzione italiana.

PRINCIPI FONDAMENTALI. "Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (non sulla libertà). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

Qui si enuncia il principio fondamentale che incarnano forma e sostanza. La sostanza ci dice che in Italia c’è la democrazia parlamentare (indiretta) come forma di governo e quindi ci dice che la maggioranza dei votanti (non dei cittadini che non votano più, sfiduciati dalla vecchia politica) elegge i suoi legislatori e, tramite loro, i suoi governanti (stranamente mancano i magistrati). L’esercizio del potere popolare prende forma, non sostanza, attraverso l’enunciazione di articoli costituzionali che mai possono violare il principio fondamentale. E non a caso proprio il primo articolo prende in considerazione l’aspetto democratico della vita dello Stato italiano.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA "Art. 83. Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato. L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta".

Qui si richiama forma e sostanza dell’art. 1. La sovranità popolare esprime, attraverso i suoi rappresentanti, la scelta del Presidente della Repubblica.

"Art. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse". "Il Consiglio dei Ministri. Art. 92. Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri".

L’art. 88 e 92 sono articoli formali. Norme che delegano al Presidente della Repubblica, con il ruolo di notaio, la verifica di una maggioranza parlamentare democraticamente eletta per esercitare la sovranità popolare di cui all’articolo 1: Se c'è una maggioranza si forma un Governo sostenuto da essa; se non c'è una maggioranza, non c'è Governo e quindi si va a votare per trovarne una nuova.

Si va contro l’articolo 1 (non a caso primo articolo dei principi generali) e quindi contro la Costituzione se alla volontà popolare che esprime un Governo che mira alla tutela degli interessi nazionali si impone la volontà di un singolo (il Presidente della Repubblica) che antepone qualsiasi altra ragione tra cui i principi dell’art. 10. "L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", e dell’art. art. 11. "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". O dell’Articolo 47. “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese".

In conclusione si chiude il parere, affermando che si è concordi con l’iniziativa della messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, anche se il procedimento è complicato e farraginoso, pensato proprio a non dare esiti positivi, in ossequio ad uno Stato di impuniti. Si è concordi perché l’Italia è una Repubblica Democratica Parlamentare; non è una Repubblica Presidenziale.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

LA MAFIA DELLE ASTE GIUDIZIARIE.

Come si truccano le aste giudiziarie, o i procedimenti dei sequestri/confische antimafia o i procedimenti concorsuali o esecutivi.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv o con i suoi canali youtube?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che i procedimenti giudiziari esecutivi sono truccati o truccabili, siano esse aste giudiziarie, o procedimenti di sequestro o confisca di beni presunti mafiosi, ovvero procedimenti concorsuali o esecutivi.

«Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa. Solo alcune di queste segnalazioni sono state prese in considerazione e citate nei miei saggi: solo quelle di cui si sono interessati organi istituzionali o di stampa. Articoli giornalistici od interrogazioni parlamentari inseriti nel mio saggio d’inchiesta: “Usuropoli. Usura e Fallimenti truccati”. 

Perché le segnalazioni sono state rivolte a lei e non agli organi giudiziari?

«Per sfiducia nella giustizia. La cronaca lo conferma. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l'hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: "Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi". Il Fatto contro i giudici fallimentari: "Sono corrotti". Il quotidiano di Travaglio alza il velo sui giudici fallimentari. A parlare è una di loro: "Ci davano 150 mila euro e viaggi pagati per pilotare le cause...", scrive “Libero Quotidiano”. Il Fatto contro le toghe. No, non è un ossimoro, ma l'approfondimento del quotidiano di Travaglio e Padellaro sui tribunali fallimentari. Raramente capita di leggere sul Fatto qualche articolo contro le toghe e la magistratura. Per l'ultimo dell'anno in casa travaglina si fa un'eccezione. Così il Fatto alza il velo sullo scandalo dei magistrati corrotti dei tribunali fallimentari. A parlare è l'ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno che al Fatto racconta: "A Roma era una prassi. Viaggi e soldi in contanti erano la norma per comprare le sentenze. Si divideva il compenso con il magistrato, tre su quattro sono corrotti". La Schettini è un fiume in piena e accusa i colleghi: "L'ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono solo spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente". Infine punta il dito anche contro i "pezzi grossi" della magistratura fallimentare: "Si sapeva tranquillamente che lì c'era chi per una nomina a commissario giudiziale andava via in Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno ma nessuno fa niente...". Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. Minerva e il prezzo della verità. Fallimenti, magistrati e giornalisti, scrive Francesco Monteleone su “Affari Italiani”. Giornalisti contro magistrati. Quanto costa essere veritieri? E' la domanda posta dai giornalisti riuniti, all'ombra della statua di Minerva, sulle scale del Palazzo di Giustizia di Bari. “Aste e fallimenti truccati…” Di fronte all’ingresso dello stesso palazzo, una scritta sul muro sintetizza impietosamente il comportamento vergognoso di alcuni magistrati responsabili della Sezione Fallimentare, che hanno subìto provvedimenti duri da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. E la verità bisogna raccontarla...tutta! Una scatola di pasta piena di soldi consegnata in un parcheggio di Trezzano. Altre due buste di denaro, una passata di mano in un ristorante di Pogliano Milanese e una in un pub in zona San Siro. Infine, una borsa di Versace, regalata in un negozio del centro di Milano, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Ruota per ora intorno a questi quattro episodi l'inchiesta della Procura su un sistema di corruzione nelle aste giudiziarie del Tribunale di Milano. Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. Massa e Pisa, aste truccate: “Dobbiamo rubare il più possibile”. Chiesta la sospensione del giudice Bufo. L'accusa è di aver sottratto soldi all'erario e aver dato gli incarichi alla figlia dell'amico. Sette provvedimenti. Ai domiciliari anche l’ex consigliere regionale Luvisotti (An), scrivono Laura Montanari e Massimo Mugnaini il 10 gennaio 2018 su "La Repubblica". «Qui bisogna cercare di rubare il più possibile» dice uno. E l’altro che è un giudice, Roberto Bufo, 56 anni, di Carrara ma in servizio al tribunale di Pisa, risponde: «Esatto». E il primo: «Il concetto di fondo è uno solo... anche perché tanto a essere onesti non succede niente». La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se a dirlo è Peter Gomez, il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente giustizialista e genuflesso all’autorità dei magistrati, è tutto dire. Ed ancora. RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Non solo a Trieste. E adesso l'inchiesta sulle aste pilotate a palazzo di giustizia potrebbe salire decisamente di tono: alla Procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati del distretto di Milano (dunque anche quelli lecchesi), sarebbero stati inviati mesi fa una serie di documenti di indagine, scrive Claudio Del Frate con Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ed ancora. Tangentopoli scuote ancora Pavia, scrive Sandro Repossi su “Il Corriere della Sera”. Mentre il sostituto procuratore Vincenzo Calia invia due avvisi di garanzia a personaggi "eccellenti" del Policlinico San Matteo come Giorgio Domenella, primario di traumatologia, e Giovanni Azzaretti, direttore sanitario, spunta un'altra ipotesi: un magistrato sarebbe coinvolto nell'inchiesta sulle aste giudiziarie. Caso San Matteo. Ed ancora. Il pm Paolo Toso ha presentato oggi le richieste di pena per i 15 imputati del processo sulle aste giudiziarie immobiliari di Torino e provincia: in totale 62 anni di condanna. Aste immobiliari, il business dal lato oscuro. L'incanto di case e immobili, in arrivo da fallimenti di privati e imprese è, complice la crisi, un settore in crescita esponenziale. Ma anche uno dei più grandi coni d'ombra del sistema giudiziario, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”. Se avete qualche soldo da riciclare, le aste immobiliari sembrano essere fatte apposta. E sono tante: circa 50mila all'anno, per un valore complessivo incalcolabile e, soprattutto, incalcolato. Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Tutto questo non basta ad avere sfiducia nella Magistratura? Ogni segnalazione conteneva una denuncia presentata, che si è conclusa con esito negativo. Sono stato sentito dagli organi inquirenti, territorialmente toccati dagli scandali, per rendere conto del mio dossier. Gli ho spiegato che sono uno scrittore e non un Pubblico Ministero con potere d’indagine, con l’inchiesta giudiziaria bell’e fatta, né sono una parte con le prove specifiche allegate alla singola denuncia rimasta lettera morta. Val bene che una denuncia può non essere sostenuta da prove, o che al massino vale un indizio. Ma decine di casi a supporto di un’accusa, valgono decine di indizi che formano una prova. Se si ha fede si crede a ciò che non si vede; se non si ha fede (voglia di procedere da parte di PM o suoi delegati), una montagna di prove non basta! Anche il giornalista di Telejato, Pino Maniaci, a Palermo non veniva creduto quando parlava di strane amministrazioni giudiziarie sui beni sequestrati e confiscati a presunti mafiosi, che poi le sentenze non li ritenevano mafiosi. Però, successivamente, l’insistenza e lo scandalo ha costretto gli inquirenti a procedere contro i loro colleghi magistrati, che poi sono i dominus dei procedimenti giudiziari, anche tramite i collaboratori che loro nominano. Comunque di scandali se ne parla e se ne è parlato. Quasi tutti i Tribunali sono stati toccati da scandali od inchieste giudiziarie. Quei pochi luoghi rimasti immuni sono forse Fori unti dal Signore...».

Spieghi, lei, allora, come si truccato le aste giudiziarie e i procedimenti connessi…

«LA NOMINA DEI COLLABORATORI DA PARTE DEL GIUDICE TITOLARE. I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. La nomina del curatore esecutivo o del commissario concorsuale o amministratore dei beni mafiosi sequestrati o confiscati si dice che avviene per rotazione. Vero! Bisogna però verificare la quantità degli incarichi e, ancor di più, la qualità. Un incarico del valore di 10 mila euro è diverso da quello di 10 milioni di euro. All’amico si affida l’incarico di valore maggiore con liquidazione consistente del compenso! Di quest’aspetto ne parla la “Stampa”. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Secondo quanto scrivono Il Messaggero e Il Fatto Quotidiano la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo.

L’AFFIDAMENTO E LA GESTIONE DEI BENI CONFISCATI/SEQUESTRATI AI PRESUNTI MAFIOSI. I beni dei presunti mafiosi confiscato o sequestrati preventivamente sono affidati e gestiti da associazione di regime (di sinistra) che spesso illegittimamente sono punto di riferimento delle prefetture, pur non essendo iscritte nell’apposito registro provinciale, e comunque sempre destinatari di fondi pubblici per la loro gestione, perchè vincitori di programmi o progetti allestiti dalla loro parte politica.

LA DURATA DEL MANDATO. Un mandato collusivo e senza controllo porta ad essere duraturo e senza soluzione di continuità. Quel mandato diventa oneroso per i beni e ne costituiscono la loro naturale svalutazione. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Anche “Il Giornale” ha trattato la questione. Parcelle gonfiate, indagato consulente del Pm. Avrebbe ritoccato note spese liquidate dalla Procura: è stato nominato in 144 procedimenti. Con le accuse di truffa ai danni dello Stato e frode fiscale, il pm Luigi Orsi ha messo sotto inchiesta il commercialista M.G., più volte nominato consulente tecnico del pubblico ministero e dell'ufficio del giudice civile e anche amministratore giudiziario di beni sequestrati. E poi c’è l’inchiesta de “Il Messaggero”. Tribunale fallimentare, incarichi d'oro. Inchiesta sui compensi da capogiro. In tribunale, avvocati e cancellieri ne parlano con circospezione. E lo raccontano come se fosse un bubbone che prima o poi doveva scoppiare, perché gli interessi economici in ballo sono davvero altissimi e gli esclusi dalla grande torta cominciavano a dare segni di insofferenza da tempo.

LA VALUTAZIONE DEI BENI. La valutazione dei beni da vendere all’asta pubblica è fatta in ribasso, anche in forza di attestazioni false dello stato dei luoghi. Per esempio: si prende una visura catastale in cui il terreno risulta incolto/pascolo, ma in effetti è coltivato ad uliveto o vigneto. Oppure si valuta come catapecchia una casa ben manutenuta e rinnovata. Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

LE FUGHE DI NOTIZIE. Le fughe di notizie sulla situazione dei beni, le notizie sulla pericolosità o meno dei loro proprietari, o gli avvisi sulle offerte sono cose risapute.

LA MANCATA VENDITA. Spesso ci sono dei personaggi, con i fascicoli dei procedimenti in mano, che in cambio di tangenti promettono la sospensione della vendita. Altre volte i proprietari mettono in essere comportamenti intimidatori nei confronti dei possibili acquirenti, tanto da inibirne l’acquisto.

LA VENDITA VIZIATA. La vendita del bene all’asta può essere viziata, impedendo ai possibili acquirenti di parteciparvi. Per esempio si indica una data di vendita sbagliata (anche da parte degli avvocati nei confronti dei propri clienti esecutati), o il luogo di vendita sbagliato (un paese per un altro).

L’AQUISTO DI FAVORE. L’acquisto dei beni è spesso effettuato tramite prestanomi al posto di chi non è legittimato all’acquisto (come per esempio il proprietario esecutato), e spesso effettuato per riciclaggio o auto riciclaggio.

 IL PREZZO VILE (VALORE TROPPO BASSO RISPETTO AL MERCATO). Il filo conduttore che lega tutte le aste truccate è la riconducibilità al prezzo vile: ossia il quasi regalare il bene da vendere all’asta, frutto di sacrifici da parte degli esecutati, rispetto al valore di mercato, affinchè si liquidi il compenso dei collaboratori del giudice, e, se ne rimane, il resto al creditore».

Cosa si può fare contro il prezzo vile?

«Contro il prezzo vile, se si vuole si può intervenire.  Casa all'asta: addio aggiudicazione se il prezzo è troppo basso. Importante ordinanza del Tribunale di Tempio sulla revoca dell'aggiudicazione di un immobile all'asta, scrive la dott.ssa Floriana Baldino il 10 febbraio 2018 su “Studio Castaldi” - Dal tribunale di Tempio, con la firma del giudice Alessandro Di Giacomo, arriva un'importante decisione. Il giudice, a seguito del deposito di un ricorso urgente, ha revocato l'aggiudicazione dell'immobile all'asta, considerando la circostanza che l'immobile era stato venduto ad un prezzo troppo basso rispetto al valore che lo stesso aveva sul mercato. Il giudice, infatti, deve sempre valutare l'adeguatezza del prezzo di vendita rispetto a quello di mercato onde evitare "l'eccesso di ribasso", che sicuramente non va a vantaggio né del creditore né del debitore. L'unico a trarne vantaggio sarebbe soltanto colui che all'asta acquista l'immobile ad un prezzo irrisorio. Il giudice Di Giacomo, accogliendo dunque la tesi dell'avvocato difensore, ha revocato l'aggiudicazione dell'asta in base ai principi stabiliti dalla legge n. 203 del 1991. Tale legge parla impropriamente di "sospensione" ma, in verità, attribuisce al G.E. – fino all'emissione del decreto di trasferimento – un vero e proprio potere di revocare l'aggiudicazione dell'immobile a prezzo iniquo. Il potere di revocare l'aggiudicazione, prima spettava solo al giudice delegato ex art. 108 della legge fallimentare, ma la riforma ha attribuito questo potere al giudice dell'esecuzione, allo scopo di "restituire il processo esecutivo alla fase dell'incanto che andrà rifissato con diverse modalità, affinchè la gara tra gli offerenti si svolga per l'aggiudicazione del bene al prezzo giusto".

La sospensione della vendita. Già prima dell'approvazione del decreto del 2016, molti giudici, di diversi tribunali, avvalendosi della possibilità riconosciuta loro ex art. 586 c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 203/91 di conversione del D.lg. n. 152/91, sospendevano la vendita quando il prezzo era notevolmente inferiore a quello "giusto". Quel decreto, urgente, era stato pensato per la lotta alla criminalità organizzata delle vendite pilotate, ovvero negli anni in cui si assisteva ad una serie di incanti deserti al fine di conseguire, attraverso successivi ribassi, un prezzo di aggiudicazione irrisorio. Questa legge, pensata e studiata per la lotta alla criminalità organizzata, è stata poi applicata in diversi tribunali e per tutte le procedure che non avevano più alcuna utilità. Ogniqualvolta i giudici ritenevano che gli interessi economici del debitore e del creditore venissero frustrati dal prezzo troppo basso di aggiudicazione dell'immobile, potevano, a discrezione, "sospendere la vendita". Così, ad es., il tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, con ordinanza del 9 Maggio 2013 che ha sospeso per un anno l'esecuzione immobiliare dopo cinque tentativi di asta. Nella fattispecie, il prezzo del bene si era talmente ridotto rispetto alla stima del perito che il giudice ha ritenuto che la sospensione di un anno della procedura, potesse essere un congruo termine per tentare la vendita dell'immobile ad un prezzo diverso, e magari più adeguato. Al Tribunale di Napoli invece un giudice è andato oltre restituendo il bene al debitore (ord. del 23.01.2014.), facendo riferimento a due principi importanti. Il primo, della ragionevole durata del processo, ed il secondo, principio cardine a cui il giudice napoletano ha fatto riferimento, quello secondo cui, procedere con l'esecuzione, non era più fruttuoso né per il debitore né per il creditore, sempre per il c.d. "giusto prezzo". Successivamente anche il Tribunale di Belluno si è espresso in tal senso con ordinanza del 3.06.2013.

La necessaria utilità del processo esecutivo. Il processo esecutivo deve avere una sua utilità. Soddisfare il creditore e liberare il debitore dai suoi debiti. Il periodo storico in cui ci troviamo non è sicuramente dei migliori ed il mercato immobiliare è sicuramente molto penalizzato. Si assiste sempre a situazioni in cui alle aste non vi è alcuna proposta di acquisto, almeno fino a quando il prezzo dell'immobile rimane alto. Poi il bene viene venduto ad un prezzo veramente irrisorio ed il creditore non viene soddisfatto dal prezzo ricavato dalla vendita, mentre il debitore si ritrova senza immobile (in molti casi proprio la prima abitazione) e con ancora i debiti da saldare. Molte norme sono intervenute in aiuto degli imprenditori in crisi ed ora tutto sta nelle mani dei giudici dei tribunali, che possono applicare le norme in una maniera più elastica e meno rigida.

La giurisprudenza. Importante, in materia di esecuzione, è la sentenza n. 692/2012 della Cassazione. Occupandosi di esecuzione in materia fiscale, la S.C. ha ribadito che: "Nell'esecuzione esattoriale il potere del giudice di valutare l'adeguatezza del prezzo di trasferimento non solo non subisce alcuna eccezione rispetto l'esecuzione ordinaria ma deve essere esercitato con particolare oculatezza, sì da valutare se, nel singolo caso, sia più dannoso per lo Stato creditore il protrarsi dei tempi di riscossione o la perdita della possibilità di realizzare gran parte del proprio credito, a causa della sottovalutazione del bene pignorato". Una massima enunciata prima della approvazione del "decreto del fare", ovvero quando ancora Equitalia poteva pignorare e vendere all'asta gli immobili dei contribuenti. La massima enunciata dalla Cassazione in materia tributaria, si adegua, ed uniforma, a quello da sempre sottolineato nel procedimento civile.

Il processo esecutivo deve mantenere la sua utilità. La Cassazione specifica inoltre che il concetto di prezzo giusto, non richiede necessariamente una valutazione corrispondente al valore di mercato, ma occorre aver riguardo alle modalità con cui si è pervenuti all'aggiudicazione, al fine di accertare se tali modalità (pubblicità ed altro), siano stati tali da sollecitare l'interesse dell'acquisto. Insomma, sempre più numerose le sentenze a favore del consumatore indebitato che vede svendere i propri beni senza ottenere, per di più, dalla vendita la soddisfazione dei creditori».

Come bloccare un'Asta?

«Se la tua casa è all’asta esistono diversi metodi per sospendere o bloccare definitivamente il pignoramento a seconda delle situazioni. L’importante è che le aste vadano deserte, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Molto spesso – specie quando si ha a che fare con la legge – si prende cognizione dei problemi quando il danno è spesso irrimediabile. Succede a chi ha la casa pignorata che, dopo aver ignorato gli svariati avvisi del creditore e aver sottovalutato le carte ricevute dal tribunale, si chiede come bloccare un’asta. In verità, anche per chi è soggetto a un’esecuzione forzata immobiliare, esistono alcune scappatoie, pienamente legali, ma da prendere con le dovute cautele. Infatti, se è vero che esse consentono di sbarazzarsi del pignoramento dall’oggi al domani, dall’altro lato non vengono accordate dal giudice con facilità e automatismo. Del resto, come tutte le norme, anche quelle che consentono di bloccare un’asta immobiliare sono soggette a interpretazione e, peraltro, come vedremo, lasciano un campo di azione abbastanza ampio alla valutazione del giudice. Ma procediamo con ordine. Il problema della casa all’asta resta il cruccio principale per molti debitori che subiscono il pignoramento. Impropriamente si crede peraltro che la «prima casa» non sia pignorabile, cosa non vera per due ordini di motivi: innanzitutto il limite vale solo nei confronti dell’agente della riscossione (Equitalia o, dal 1° luglio 2017, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione); in secondo luogo perché a non essere pignorabile non è la «prima casa» ma solo l’unico immobile di proprietà del debitore (per cui, se questi ha due case, ad essere pignorabili sono entrambe e non solo la seconda). A dirla tutta, quando si tratta di creditori privati (la banca, un fornitore o la controparte che ha vinto una causa) il pignoramento immobiliare può essere avviato anche per debiti di scarso valore (invece, per i debiti con il fisco il pignoramento è possibile solo superati 120mila euro). Prima di capire come bloccare la casa all’asta sono necessarie due importanti precisazioni. La prima cosa da sapere è che, di norma, prima di procedere al pignoramento (e, quindi, all’asta), il creditore iscrive un’ipoteca sull’immobile. Per quanto ciò non sia vincolante (lo è solo nel caso in cui ad agire sia l’Agente della riscossione), avviene quasi sempre perché attribuisce un diritto di prelazione sul ricavato: in altre parole, il creditore con l’ipoteca si primo grado si soddisfa prima degli altri. La seconda indispensabile precisazione è che, per bloccare la casa all’asta si può contestare le ragioni del creditore solo se questi agisce in forza di un assegno o di un contratto di mutuo. Viceversa, se il creditore agisce in forza di una sentenza di condanna, il debitore non può più metterla in discussione (avendo avuto il termine per fare appello o ricorso per cassazione). Quindi, se il giudice ha fissato il nuovo esperimento d’asta e il creditore agisce perché ha ottenuto un decreto ingiuntivo (ad esempio, la banca per interessi non corrisposti) non è più possibile sollevare eccezioni sul merito del credito (ad esempio sull’anatocismo)».

Ma allora quando si può bloccare la casa all’asta? 

«Le ragioni sono essenzialmente legate all’utilità della procedura. Ci spieghiamo meglio, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Lo scopo del pignoramento – e quindi delle aste – è quello di liquidare i beni del debitore e, con il ricavato, soddisfare il creditore procedente. Una procedura che realizza l’interesse di entrambe le parti: quello del creditore – perché così ottiene i soldi che gli spettano – e quello del proprietario della casa – perché in tal modo si libera del debito. Quando però queste due finalità non possono essere realizzate, allora non c’è ragione di tenere in vita la procedura. Si pensi al caso di un’asta battuta a un prezzo ormai così basso da non consentire al creditore di recuperare neanche la metà delle somme per le quali agisce, al netto delle spese legali già sostenute. Nello stesso tempo, l’eventuale vendita – eseguita magari a favore di chi, furbescamente, ha atteso diverse aste prima di proporre un’offerta, in modo da far calare il prezzo – non consente al debitore di liberarsi della morosità, peraltro espropriandolo di un bene per lui vitale. Risultato: insoddisfatto il creditore, insoddisfatto il debitore. Consapevole di ciò il legislatore ha, di recente, emanato due norme che, sebbene possano apparire indipendenti tra loro, se applicate l’una con l’altra possono favorire la rapida conclusione del pignoramento.

COME BLOCCARE L’ASTA. Qualora non si presenti alcun offerente alle aste promosse dal tribunale, il giudice può disporre un ribasso del prezzo di vendita del 25% (ossia di un quarto). Molto spesso, però, nonostante i ribassi e il calo drastico del prezzo rispetto alla stima fatta all’inizio del pignoramento dal consulente del tribunale (il cosiddetto «Ctu», ossia il consulente tecnico d’ufficio), non si presenta alcun offerente. Con la conseguenza che il prezzo d’asta scende sempre di più fino al punto da non soddisfare le pretese dei creditori. Così il codice di procedura stabilisce che «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori – anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». In pratica, tutte le volte che la casa, sottoposta a pignoramento immobiliare, non trova potenziali acquirenti e la base d’asta, a furia di ribassi, arriva a un prezzo che non è in grado di garantire un ragionevole soddisfacimento dei creditori il giudice decreta la fine anticipata del processo esecutivo. Si tratta di una estinzione anticipata del pignoramento che non consente allo stesso di risorgere in un secondo momento. Questo significa che il debitore torna nella piena disponibilità della propria casa prima pignorata e non dovrà subire alcuna asta. Ma quando è possibile raggiungere questo risultato? Quante aste bisogna aspettare? In teoria molte. E proprio per questo è intervenuta la seconda parte della riforma di cui abbiamo accennato in partenza. La seconda norma in evidenza è contenuta nel cosiddetto «decreto banche» dell’inizio 2016. In base all’ultima riforma del processo esecutivo, quando il terzo esperimento d’asta va deserto e il bene pignorato non viene aggiudicato, il giudice dispone un quarto tentativo di asta e, per rendere più allettante la partecipazione degli offerenti, può decurtare fino a metà il prezzo di vendita. Con l’ovvia conseguenza che, andata deserta anche la quarta asta, il prezzo di vendita sarà sceso così tanto da consentire il verificarsi di quella condizione – prima descritta – che consente l’estinzione anticipata del pignoramento: ossia l’impossibilità di conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ecco così che già dopo la quarta o la quinta asta, al più dopo la sesta, è possibile bloccare le aste successive e chiudere una buona volta il pignoramento. Del resto scopo del pignoramento è quello di soddisfare il creditore e non infliggere al debitore una sanzione esemplare. Tanto è vero che una recente ordinanza del Tribunale di Tempio ha stabilito che: «Neppure le esigenze di celerità cui tale particolare procedura è improntata (si riferisce all’ esecuzione esattoriale), in forza delle quali l’espropriazione anche per prezzo vile trova la sua ragion d’essere nel preminente interesse dello Stato procedente, possono giustificare che il trasferimento degli immobili pignorati prescinda da un qualsiasi collegamento con il valore dei beni e che tale valore possa essere anche irrisorio, atteso che l’espropriazione ha la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente». Secondo il giudice quindi è anche possibile sospendere la vendita se il prezzo è troppo basso. Il che è previsto dal codice di procedura civile che prevede la possibilità di sospendere il pignoramento anche una volta intervenuta la vendita: «Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

LA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE FORZATA SULLA CASA. C’è poi la possibilità di chiedere la sospensione del pignoramento quando il giudice ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto e di mercato. La misura è nell’interesse sia del debitore (che ha interesse a che la casa si venda al prezzo reale, per poter chiudere la partita col creditore), sia del creditore stesso (che intende recuperare quanto più possibile delle somme che gli spettano). Si tratta di un potere riservato al vaglio discrezionale del tribunale (ma che, ovviamente può essere sollecitato dagli avvocati delle parti) che comporta il differimento dell’asta pubblica “a data da destinarsi” (ossia a quando il mercato sarà più “maturo”). Sempre che, nelle more, non intervengano altri eventi modificativi del processo come, per esempio, il disinteresse del creditore, una trattativa tra le parti che porti a una transazione con sostanziale decurtazione del debito, ecc.

NEL CASO DI FALLIMENTO. Anche se la vendita avviene per via di un fallimento, le cose non cambiano. Difatti, la legge fallimentare prevede, nel caso in cui oggetto della vendita forzata sia un bene appartenente a un imprenditore fallito, che «il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti». In passato il tribunale di Lanciano, nell’ambito di pignoramento immobiliare conseguente a un fallimento ha preso atto del notevole squilibrio tra il prezzo di base d’asta dell’immobile e quello di mercato (per come attestato dalla perizia del Consulente tecnico d’ufficio) e, sulla scorta di ciò, ha sospeso la vendita della casa pignorata».

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

PERCHE’ NON SON DIVENTATO AVVOCATO.

DOSSIER ESAME AVVOCATO

QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE.

COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!!

E' UN ESAME DI STATO, INVECE DI FATTO E' UN CONCORSO PUBBLICO.

IN UN CONCORSO PUBBLICO DOVE LE COMMISSIONI DI ESAME SONO INATTENDIBILI ED ARBITRARI, ADOTTANDO NESSUN PRINCIPIO DI GIUDIZIO, NE' PROPRIO, NE' MINISTERIALE. FATTO RILEVATO ECCEZIONALMENTE DA UN TAR, ANNULLANDO TUTTE LE VALUTAZIONI.

IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DA ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E' CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU' PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL 2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE CENTRALE.

Queste sono le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko Giangrande per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato. Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che per 13 anni nessun avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel 2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.

CONCLUSIONI

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.

Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso che ha inficiato per anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi illegittimi.

RICORSO CONTRO IL GIUDIZIO NEGATIVO ALL'ESAME DI AVVOCATO

COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti!

Questi sono i giudizi resi dal Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sezione staccata di Salerno (Sezione Prima) nei confronti delle sottocommissione esami avvocato-sessione 2012 - istituita presso la Corte d'appello di Lecce, nella parte in cui sono state valutate negativamente tre prove scritte dei ricorrenti, così determinando la non ammissione alle prove orali. Giudizi atti a dimostrare l'andazzo taciuto ed impunito sulle correzioni degli elaborati. Giudizio del Tar Campania disatteso dal Tar di Lecce nei confronti del Dr Antonio Giangrande.

 

N. 00647/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01579/2013 REG.RIC. 

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1579 del 2013, proposto da: 

Annalisa Maiolino, rappresentata e difesa dall'avv. Marcello Fortunato, con domicilio eletto in Salerno, alla via SS. Martiri Salernitani, 31;

 

N. 00648/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01584/2013 REG.RIC.  

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1584 del 2013, proposto da:

Monica Ferraioli, rappresentata e difesa dall'avv. Salvatore Paolino, con domicilio eletto in Salerno, p.za Sant'Agostino,29;

 

N. 00656/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01585/2013 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1585 del 2013, proposto da:

Massimiliano De Vita, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe De Vita, con domicilio eletto in Salerno, presso la Segreteria del T.A.R.;

 

N. 00658/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01596/2013 REG.RIC.   

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1596 del 2013, proposto da:

Michele Fiscina, rappresentato e difeso dall'avv. Demetrio Fenucciu, con domicilio eletto in Salerno, via Memoli n.12;

 

N. 00659/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01597/2013 REG.RIC.  

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1597 del 2013, proposto da: 

Valerio Cupolo, rappresentato e difeso dall'avv. Lorenzo Lentini, con domicilio eletto in Salerno, c.so Garibaldi n. 103;

 

N. 00660/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01598/2013 REG.RIC.     

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1598 del 2013, proposto da:

 Giovanni Maria Cuofano, rappresentato e difeso dall'avv. Lorenzo Lentini, con domicilio eletto in Salerno, c.so Garibaldi n. 103;

 

N. 00671/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01608/2013 REG.RIC.     

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1608 del 2013, proposto da: 

Antonio Rossi, rappresentato e difeso dall'avv. Angela Ferrara, presso il cui studio elegge domicilio, in Salerno, via A. Nifo, n. 2;

 

N. 00663/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01609/2013 REG.RIC.           

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1609 del 2013, proposto da: 

Alfonso Talamo, rappresentato e difeso dall'avv. Angela Ferrara, con domicilio eletto in Salerno, via Agostino Nifo N. 2;

  

N. 00664/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01610/2013 REG.RIC.       

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1610 del 2013, proposto da: 

Giuseppina Avallone, rappresentata e difesa dall'avv. Angela Ferrara, con domicilio eletto in Salerno, via Agostino Nifo N. 2;

 

N. 00665/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01611/2013 REG.RIC.      

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1611 del 2013, proposto da: 

Alessio De Felice, rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Paolino, con domicilio eletto, in Salerno, p.za Sant’Agostino, 29;

  

N. 00672/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01618/2013 REG.RIC.     

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1618 del 2013, proposto da: 

Francesco Moscariello, rappresentato e difeso dall'avv. Pompeo Onesti, presso lo studio del quale elegge domicilio, in Salerno, via Porta Elina, n. 23;

 

N. 00666/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01625/2013 REG.RIC.        

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1625 del 2013, proposto da: 

Giulia Casaburi, rappresentato e difeso dall'avv. Maria Annunziata e dall’avv. Stefania Vecchio, con domicilio eletto, in Salerno, p.zza S. Agostino, 29, c/o Annunziata;

 

N. 00649/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01626/2013 REG.RIC.      

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1626 del 2013, proposto da: 

Isabella Florio, rappresentata e difesa dall'avv. Maria Annunziata e dall'avv. Stefania Vecchio, con domicilio eletto in Salerno, alla piazza Sant'Agostino, 29;

 

N. 00661/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01627/2013 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1627 del 2013, proposto da: 

Chiara D'Angelo, rappresentata e difesa dagli avv. Maria Annunziata e Stefania Vecchio, con domicilio eletto in Salerno, piazza Sant'Agostino n. 29;

 

N. 00673/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01629/2013 REG.RIC.          

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1629 del 2013, proposto da:

 

Maddalena Contaldi, rappresentato e difeso dall'avv. Rosario Caliulo e dall'avv. Antonio De Bartolomeis, con domicilio eletto in via Incagliati, n. 2 presso lo studio dell’avv. Caliulo; 

 

N. 00674/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01632/2013 REG.RIC.    

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1632 del 2013, proposto da: 

Nicola Marciano, rappresentato e difeso dall'avv. Feliciana Ferrentino, presso lo studio del quale elegge domicilio, in Salerno, corso Garibaldi, n.103;

  

N. 00675/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01633/2013 REG.RIC.       

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1633 del 2013, proposto da: 

Maria Ruoppolo, rappresentato e difeso dall'avv. Vincenzina Maio, presso il cui studio elegge domicilio, in Salerno, via Nizza, Trav. del Mastro, n. 1;

 

N. 00676/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01634/2013 REG.RIC.           

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1634 del 2013, proposto da: 

Maurizio Spera, rappresentato e difeso dall'avv. Stefania Vecchio, presso il cui studio elegge domicilio, in Salerno, via vicolo Municipio Vecchio, n.6;

 

N. 00677/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01635/2013 REG.RIC.          

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1635 del 2013, proposto da: 

Isabella Musto, rappresentato e difeso dall'avv. Stefania Vecchio, con domicilio eletto presso Stefania Vecchio in Salerno, via vicolo Municipio Vecchio,6;

 

N. 00639/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01636/2013 REG.RIC.   

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1636 del 2013, proposto da: 

Claudia Acciarito, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Zarrella, con domicilio eletto presso Antonio Zarrella Avv. in Salerno, l.go Plebiscito,6 c/o Vuolo;

 

N. 00640/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01637/2013 REG.RIC.          

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1637 del 2013, proposto da: 

Flavia Melillo, rappresentato e difeso dall'avv. Roberta Spinelli, con domicilio eletto presso Roberta Spinelli Avv. in Salerno, via Armando Diaz, N. 31;

 

N. 00638/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01641/2013 REG.RIC.      

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1641 del 2013, proposto da:

 

Rossella Casola, rappresentato e difeso dall'avv. Andrea Di Lieto, con domicilio eletto presso Andrea Di Lieto Avv. * . * in Salerno, c.so Vitt.Emanuele N.143;

 

N. 00650/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01645/2013 REG.RIC.     

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1645 del 2013, proposto da: 

Angelo Agresta, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Bruno, con domicilio eletto in Salerno, alla via Nizza,73;

  

N. 00651/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01646/2013 REG.RIC.        

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1646 del 2013, proposto da: 

Valentina D'Elia, rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Bruno, con domicilio eletto in Salerno, via Nizza,73;

 

N. 00642/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01662/2013 REG.RIC.    

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1662 del 2013, proposto da: 

Nadia Finno, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi A.M. Ferrone, con domicilio eletto presso Luigi A.M. Ferrone in Salerno, via degli Orti,28;

 

N. 00643/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01663/2013 REG.RIC.       

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1663 del 2013, proposto da: 

Salvatore Rotundo, rappresentato e difeso dall'avv. Matteo D'Angelo, con domicilio eletto presso Matteo D'Angelo in Salerno, via G.V. Quaranta,N.8;

 

N. 00644/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01664/2013 REG.RIC.    

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1664 del 2013, proposto da: 

Antonio Coscia, rappresentato e difeso dall'avv. Matteo D'Angelo, con domicilio eletto presso Matteo D'Angelo in Salerno, via G.V. Quaranta, N.8;

 

N. 00667/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01669/2013 REG.RIC.       

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1669 del 2013, proposto da: 

Rossella Sgambati, rappresentata e difesa dall'avv. Beniamino Mariano, con domicilio eletto, in Salerno, piazza Flavio Gioia, 3;

  

N. 00668/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01670/2013 REG.RIC.     

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1670 del 2013, proposto da: 

Marcella Toriello, rappresentata e difesa dall'avv. Beniamino Mariano, con domicilio eletto, in Salerno, piazza Flavio Gioia, 3; 

 

N. 00653/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01678/2013 REG.RIC.           

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1678 del 2013, proposto da: 

Francesca Marmo, rappresentata e difesa dall'avv. Salvatore Paolino, con domicilio eletto in Salerno, p.za Sant'Agostino,29;

 

N. 00669/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01691/2013 REG.RIC.       

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1691 del 2013, proposto da:

 Ferdinando De Martino, rappresentato e difeso dagli avv. Maria Luisa Nobile, Vincenzo De Martino, con domicilio eletto, in Salerno, via C. Capone, 4;

 

N. 00646/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01713/2013 REG.RIC.     

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1713 del 2013, proposto da: 

Rosmary Caputo, rappresentato e difeso dall'avv. Stefania Nobili, con domicilio eletto presso Stefania Nobili Avv. in Salerno, c/o Segreteria T.A.R.; 

 

N. 00678/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01719/2013 REG.RIC.       

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1719 del 2013, proposto da:

 Fabiana Pagano, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Rizzo, presso lo studio del quale elegge domicilio, in Salerno, Corso Vittorio Emanuele, n. 127; 

 

N. 00670/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01720/2013 REG.RIC.    

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1720 del 2013, proposto da: 

Antonella Tosto, rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Rizzo, con domicilio eletto, in Salerno, Corso Vittorio Emanuele N. 127;

 

N. 00662/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01721/2013 REG.RIC.        

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1721 del 2013, proposto da: 

Danilo Cozza, rappresentato e difeso dall'avv. Michele Galiano, con domicilio eletto in Salerno, c.so Vittorio Emanuele n. 14, presso l’avv. Torre;

 

N. 00654/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01722/2013 REG.RIC.      

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1722 del 2013, proposto da:

Alberto Carrella, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Bove, con domicilio eletto in Salerno, c.so V. Emanuele, 213;

N. 00657/2013 REG.PROV.CAU.

N. 01594/2013 REG.RIC.  

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1594 del 2013, proposto da: 

Francesco Massimo Amoroso, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Bove, con domicilio eletto in Salerno, c.so Vittorio Emanuele n. 213;

contro

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Salerno, al corso Vittorio Emanuele, n. 58;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

del verbale n.59 del 07.03.2013 della II sottocommissione esami avvocato-sessione 2012-istituita presso la Corte d'appello di Lecce, nella parte in cui sono state valutate negativamente tre prove scritte della ricorrente, così determinando la non ammissione alle prove orali. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2013 il dott. Giovanni Grasso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 

PREMESSO di condividere l’orientamento giurisprudenziale che ritiene, ai fini della legittimità dell’atto, la sufficienza del voto numerico, senza ulteriori specificazioni, nel caso in cui siano stati previamente determinati adeguati criteri di valutazione, che consentano di ricostruire ab externo la motivazione del giudizio espresso dall’organo valutativo;

 RITENUTO, peraltro, che la possibilità di ricostruzione dell’iter logico-giuridico seguito nella concreta attribuzione del punteggio richiede che tali criteri siano puntuali, specifici e non generici, nonché espressamente modulati con riferimento al peso che la loro osservanza ed applicazione assume ai fini dell’attribuzione del punteggio numerico e della misura dello stesso, in modo tale da poter desumere agevolmente, dalla comparata lettura degli elaborati e dei criteri così predefiniti e specificati, le ragioni concrete del punteggio assegnato mediante un intellegibile collegamento tra quest’ultimo ed i criteri di valutazione, solo in tal modo potendosi garantire una effettiva possibilità di verifica sullo svolgimento dell’azione amministrativa; 

RITENUTO, pertanto, che nell’ipotesi in cui, nella predeterminazione dei criteri, non siano stati definiti i concreti elementi di collegamento tra gli stessi ed il punteggio numerico attribuibile, quest’ultimo non appare da solo sufficiente alla esternazione motivazionale, dovendo esso essere integrato dalla specificazione, in termini letterali, delle concrete modalità di attribuzione del punteggio in relazione ai criteri predeterminati ed alla loro osservanza ( v. pure TAR Lazio, sez. I, n. 7289 del 18 luglio 2013);

 EVIDENZIATO, d’altra parte, che la stessa nota allegata al verbale n. 1 della Commissione presso il Ministero della Giustizia del 6 dicembre 2012, dopo aver indicato i “criteri da adottare per la valutazione degli elaborati scritti”, precisa che le Sottocommissioni dovranno, nelle operazioni di correzione, curare in particolare “le modalità di attribuzione del punteggio successive alla lettura di tutti e tre gli elaborati […]”; 

EVIDENZIATO, ad colorandum ed a supporto delle argomentazioni rese dal Collegio, che la necessità di un quid pluris in termini motivazionali è stata avvertita dallo stesso legislatore, il quale, nel recente articolo 46 della legge n. 247 del 31 dicembre 2012, avente ad oggetto l’esame di stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, ha specificato, al comma 5, che “la commissione annota le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti”; 

RILEVATO che nella vicenda in esame i suddetti principi non risultano rispettati, atteso che le indicazioni così come sopra esposte, necessarie alla legittima espressione del solo voto numerico, non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale, onde deve ritenersi l’illegittimità della votazione che nella specie è stata espressa con il solo voto numerico senza ulteriori specificazioni motivazionali; 

RITENUTO per quanto sopra che la domanda cautelare proposta deve essere accolta sussistendo fumus boni iuris in ordine alla illegittimità lamentata dal ricorrente; 

RITENUTO, tenendosi conto dell’attuale stato del procedimento degli esami di abilitazione, che al danno lamentato può ovviarsi disponendo una nuova correzione, nel termine di giorni trenta dalla comunicazione o notificazione della presente, delle prove scritte svolte dal ricorrente da parte di una Sottocommissione diversa nella sua composizione rispetto a quella che ha espresso il giudizio impugnato, con le opportune garanzie di anonimato previa eliminazione di ogni sottolineatura, numero o grafosegno della precedente correzione, anche attraverso la contestuale ricorrezione, ai soli fini di cui trattasi, degli elaborati, sempre in forma anonima, di altri dieci candidati alla stessa sessione di esami presso la stessa sede di Corte di Appello (tali elaborati saranno sorteggiati, in pari numero, tra quelli di candidati che hanno superato gli scritti e candidati ritenuti non idonei a cura del Presidente della Commissione attuale depositaria degli elaborati e trasmessi, nella forma anonima come sopra specificata, in uno a quelli oggetto del presente ricorso alla Commissione di Lecce che dovrà procedere alla rivalutazione); nella rinnovata correzione la valutazione verrà espressa con il voto numerico integrato da motivazione letterale, in modo da rendere intellegibili le ragioni della sua attribuzione, conformemente ai i principi sopra espressi; 

RITENUTO, infine, di dover specificare che, in ipotesi di superamento della prova scritta all’esito della ricorrezione come sopra disposta, il candidato potrà sostenere la prova orale;

RITENUTO che le spese della presente fase del giudizio possono essere compensate tra le parti costituite;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

accoglie la domanda cautelare proposta, disponendo così come in motivazione precisato.

Fissa per la trattazione del merito l’udienza pubblica del 22 maggio 2014.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Amedeo Urbano, Presidente

Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore

Gianmario Palliggiano, Consigliere  

L'ESTENSORE 

IL PRESIDENTE 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/10/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. Quanto riferito in questa pagina riguarda solo l'inchiesta svolta sull'operato della giustizia amministrativa a Lecce e le sue ricadute sull'esame di abilitazione all'avvocatura, con conseguente danno a scapito degli utenti, in violazione del principio di legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione. I riferimenti ad atti pubblici ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà su come si svolge l'abilitazione forense sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

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Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

QUESTO E' L'ESEMPIO DI COME IL TAR PUO' ADOTTARE GIUDIZI ANTITETICI

ISTANZA DI PRELIEVO (art. 71, D.Lgs. 104/2010)

ILL.MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA

SEDE DI LECCE

Sezione Prima

Nella causa R.G. n. 1240/2011

promossa da

Antonio Giangrande,

ricorrente con l’avv. Mirko Giangrande, nato a Manduria (TA) il 26/01/1985 e residente in Avetrana (TA) alla via Manzoni 51 c.f GNGMRK85A26E882V,  nel ricorso proposto

contro

Ministro della Giustizia,

Commissione Esami avvocato presso il Ministero della Giustizia,

Commissione Esami avvocato presso la Corte d’Appello di Lecce,

Commissione Esami avvocato presso la Corte d’Appello di Palermo,

resistenti con l’Avvocatura della Stato.

Premesso:

- che il ricorso, depositato il 25.07.2011 è stato iscritto al n. di r.g 1240/2011 ed ha ad oggetto l’annullamento della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato 2010 e dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati;

- che, il ricorrente ha estrema urgenza che il ricorso sia deciso in quanto anche per le prove della sessione d’esame 2011 l’esito è stato segnato da identiche discrasie, così per tutti gli anni precedenti, e una nuova sessione si avvicina. L’urgenza si basa sullo stato di disoccupazione e conseguente indigenza in attesa di un’abilitazione, che ai fatti risulta impedita da giudizi che non rispecchiano il merito delle prove presentate;

- che è trascorso un anno dal deposito del ricorso e della istanza di fissazione.

Il sottoscritto avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, nella sua qualità di procuratore del ricorrente così come identificato nella procura alle liti in calce al ricorso promosso per l’annullamento della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato 2010 e dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati, fa istanza di prelievo allo scopo di annullare il giudizio reso dalla Commissione di Esame di Palermo in sede di correzione degli elaborati dello stesso ricorrente. Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi. Quanto affermato lo dimostra la mancanza di correzioni, note, glosse, ecc..apposte sugli elaborati. Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso che ha inficiato per 15 anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi illegittimi. La richiesta di annullamento del giudizio contenuta nel ricorso è sostenuta da contestazione attinenti molteplici punti, avallati da pronunce giurisprudenziali indicati in atti.

Tanto premesso l’istante, fa

ISTANZA DI PRELIEVO

del fascicolo suddetto, affinché possa essere fissata il prima possibile l’udienza per il merito.

Tale richiesta è motivata dal fatto che oggetto della presente causa è di acclarare le doglianze di legittimità e di merito su indicate che viziano ed invalidano gli atti adottati dalla Iª Sottocommissione di esame di Palermo. Se da una parte, alcune contestazioni di legittimità riguardante la succinta motivazione numerica e la composizione della sottocommissione e l’incompatibilità del presidente della commissione centrale sono state superate con motivata ordinanza che respingeva l’istanza di sospensiva, (il solo voto numerico come legittima tecnica di valutazione, forte della recente sentenza della Corte cost. 8 giugno 2011 n. 175), dall’altra parte proprio in virtù dei tanti dubbi sollevati e confermati dall’antitetico giudizio reso, che contrasta con la forma e la sostanza dell’elaborato, si è chiesto il sindacato del TAR di Lecce.

Considerato:

- che le prove d’esame del ricorrente evidenziano un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico; anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico;

-che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzia un corretto approccio a problematiche complesse;

-che, quindi, la motivazione apposta alla valutazione negativa (peraltro caratterizzata dal carattere chiaramente stereotipato e ripetitivo e frutto di attenzione temporale limitata e non approfondita dovuta all’insufficiente tempo prestato) e la complessiva valutazione degli elaborati d’esame da parte della Commissione appaiono essere caratterizzate da evidente irrazionalità e illogicità, rilevabili anche in sede giurisdizionale. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. La Cassazione ammette che ci possano essere commissioni che sbagliano. Il sindacato nel merito è già adottato dal presente TAR Lecce con pronunce su ricorsi analoghi, anche della medesima sessione d’esame, con analisi del merito degli elaborati in presenza di chiare discrasie tra contenuto dell’elaborato e giudizio reso. Interventi nel merito adottati persino in fase cautelare e non in fase di giudizio. Come ad esempio:

sul ricorso numero di registro generale 1601 del 2010, proposto da: Mariangela Gigante, rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Ciaurro;

sul ricorso numero di registro generale 1312 del 2011, proposto da: Marco Castelluzzo, rappresentato e difeso dall'avv. Gianluigi Pellegrino;

sul ricorso numero di registro generale 1489 del 2011, proposto da: Francesca Cotrino, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio P. Nichil

Con ossequio.

Lecce,  09.07.2012

Avv. Mirko Giangrande

 

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA

SEZIONE DISTACCATA DI LECCE

RICORSO PER L’ANNULLAMENTO

della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato 2010

E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE

dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati

del dr. Antonio Giangrande,                                                                                    RICORRENTE

INDICE DEL FASCICOLO

A. Ricorso con contestuale istanza di sospensione.

Allegati:

1.     Verbale di correzione della Iª sottocommissione di esame di Palermo per la sessione 2010;

2.     Elaborati consegnati dal sottoscritto in tema: a) penale; b) civile; c) atto giudiziario;

3.     La graduatoria per la lettera G con data di affissione pubblicata dalla Corte d'Appello di Lecce;

4.     Verbali e compiti delle sessioni di avvocato: a) 2009, b) 2008, c) 2007.

B. Istanza di fissazione dell’Udienza.

 Ai sensi dell’art. 136 del codice amministrativo (D.lgs. 104/2010) si attesta che la copia informatica in formato DVD qui in allegato è conforme al fascicolo cartaceo depositato.

Avv. Mirko Giangrande

Da notificarsi con urgenza 

 

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA

SEZIONE DISTACCATA DI LECCE

RICORSO PER L’ANNULLAMENTO

della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato

E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE

dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati

L. 6 dicembre 1971 n. 1034

del dr. Antonio Giangrande,                                                                                    RICORRENTE,

nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via A. Manzoni, 51, C. F. GNGNTN63H02A514Q, rappresentato e difeso dall'Avv. Mirko Giangrande, presso lo Studio Legale del medesimo difensore in Avetrana, via A. Manzoni, 51, C. F. GNGMRK85A26E882V, tel/fax  099/9708396 elettivamente domiciliati, come da mandato speciale in calce del presente atto,

contro

Ministero della Giustizia,                                                                                           RESISTENTE, in persona del Ministro pro tempore On. avv. Angelino Alfano;

Commissione centrale Esami di Avvocato c/o Ministero della Giustizia,             RESISTENTE, in persona del presidente pro tempore avv. Antonio De Giorgi;

Iª Sottocommissione Esami Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo,             RESISTENTE, in persona del presidente pro tempore avv. Giuseppe Cavasino;

Iª Sottocommissione Esami Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo,             RESISTENTE, in persona del presidente supplente pro tempore avv. Mario Grillo;

Iª Sottocommissione Esame di Avvocato c/o Corte di Appello di Lecce,             RESISTENTE, in persona del presidente pro tempore avv. Maurizio Villani;

tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce e domiciliati per legge presso gli uffici della stessa Avvocatura in Lecce, via F. Rubichi 23,

per l'annullamento della valutazione negativa data alle prove scritte dell’esame di avvocato,

previa sospensione urgente e necessaria dell'efficacia e degli effetti degli atti propedeutici

impugnati per periculum in mora e per  fumus boni iuris,

    del verbale n. 20 redatto nella seduta del 19.04.2011 dalla Iª Sottocommissione esame di avvocato presso la Corte di Appello di Palermo, nella parte in cui attribuisce alle tre prove scritte riferite alla busta n. 198 del ricorrente un punteggio insufficiente, rispettivamente 25 per il penale, 25 per il civile e 25 per l’atto giudiziario, pari complessivamente a 75 punti;

    del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al quesito della traccia n. 2 del compito scritto di diritto civile del 14 dicembre 2010, indicato con il n.198/1;

    del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al quesito della traccia n. 1 del compito scritto di diritto penale del 15 dicembre 2010, indicato con il n. 198/2;

    del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al quesito della traccia n. 1 del compito scritto di atto giudiziario redatto in materia di diritto privato del 16 dicembre 2010, indicato con il n. 198/3;

Provvedimenti con i quali la Iª sottocommissione esaminatrice per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Palermo – sessione 2010 – non ha ammesso il ricorrente alle successive prove orali;

    del consequenziale elenco degli ammessi alle prove orali, sessione 2010, degli esami di abilitazione alla professione di avvocato, relativamente alla Corte di Appello di Lecce, pubblicato il 28 giugno 2011, nella parte in cui esclude il ricorrente, in base all’ordine alfabetico, contenuto in pagina 3 e 4 rispetto alla lettera G;

   di ogni altro atto o provvedimento preordinato, collegato o consequenziale ed in particolare, dei criteri fissati dalla predetta Sottocommissione con verbale n. 20 del 19.04.2011 per la valutazione degli elaborati.

Con conseguente disposizione,

con ordinanza cautelare di ammissione diretta del ricorrente all’esame orale per la ravvisata esistenza di un pericolo di danni gravi ed irreparabili per il ricorrente derivanti dall'esecuzione dell'atto impugnato, sulla base della rilevazione di gravi vizi di legittimità della costituzione e composizione della Iª sottocommissione di Palermo e della correzione, tenuto conto della rilevanza e palesità dei vizi e dall’obiettiva natura degli elaborati d’esame, che permette di concludere favorevolmente un giudizio prognostico in ordine alla sufficienza complessiva della prova scritta;

nel merito con rito ordinario, dichiarare i gravi vizi di legittimità riscontrati attinenti la costituzione, la composizione e l’attività sindacale della Iª sottocommissione di Palermo, annullando i provvedimenti adottati e procedendo per la nuova correzione degli elaborati del ricorrente, che dovrà eseguirsi d’ufficio, ovvero rivolgersi ad altra sottocommissione d’esame di Palermo, al cui interno non vi facciano parte i Commissari che hanno partecipato al giudizio della prova impugnata.

*******

FATTO

Il ricorrente partecipava alla sessione 2010 degli esami di abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato, presso la Corte di Appello di Lecce, effettuando le relative prove scritte.

1.     Nella sessione 2010 del concorso di avvocato, a cui l’istante ha partecipato come candidato, poi escluso, la Iª sottocommissione di esame presso la Corte di Appello di Palermo, competente a correggere i compiti itineranti svolti presso le sottocommissioni di esame della Corte di Appello di Lecce, con atteggiamento proprio delle sottocommissioni del nord Italia, ha promosso un candidato su tre, differenziandosi quanto fatto l’anno prima, sempre sui compiti di Lecce, dalle benevoli sottocommissioni di Salerno, che hanno promosso un candidato su due. Per esempio, sottocommissioni di esame benevole sono state, altresì, nella sessione del 2010 quelle presso la Corte di Appello di Napoli, che hanno corretto i compiti svolti presso le sottocommissioni di esame della Corte di Appello di Bari, promuovendo un candidato su due. Sempre a Bari l’anno prima le sottocommissioni di esame della Corte di Appello di Torino, invece, meno benevoli, promossero un candidato su tre. Questo sistema, poggiato su principi non previsti dalle norme concorsuali, ingiustificati, altalenanti, parziali e discriminatori, è notorio ed è comune in tutta Italia e per tutti gli anni. In questo modo i candidati, in base alle percentuali di ammissione adottate negli anni precedenti dalle sottocommissioni sorteggiate, conoscono percentualmente il loro destino in anticipo, ben prima di sapere i voti resi ai loro pareri scritti.

2.     In data 28.6.2011, per pubblicazione effettuata da parte della Corte di Appello di Lecce, l’istante aveva conoscenza della mancata ammissione alle prove orali, per effetto dell’attribuzione agli elaborati d’esame, da parte della Iª Sottocommissione presso la Corte di Appello di Palermo, del giudizio complessivo di 75 (25 per la prova di diritto civile, 25 per la prova di diritto penale e 25 per l’atto giudiziario in diritto civile);

3.     a seguito dell’esercizio del diritto di accesso, constatava che la valutazione degli elaborati d’esame fosse stata effettuata in termini puramente numerici e in tempi insufficienti; che il giudizio negativo non era confutato da corrispettivi raffronti di errori indicati negli elaborati con glosse, correzioni, sottolineature con note o spiegazioni a margine, ecc. I compiti immacolati, perfetti dal punto di vista ortografico, con maggior aggravio di tempo, sono stati redatti addirittura in stampatello e non in corsivo per agevolarne la comprensione. Come perfetti sono dal punto di vista sintattico e grammaticale, stante l’assenza di correzioni, glosse, note a margine. Come altresì perfetti sono dal punto di vista tecnico conformandosi il parere reso all’orientamento totalitario.

4.      Nel visionare i giudizi degli elaborati si notava la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove, così come la commissione si richiama nell’atto di verbale.

5.     Dalla visione degli elaborati e del verbale di correzione redatto dalla Iª sottocommissione di Palermo in data 19 aprile 2011 si rileva che in sottocommissione non vi era il Presidente di commissione centrale; non vi era il Presidente titolare della Iª sottocommissione di Palermo; non vi era il voto di ciascun commissario sulle prove, né vi era il voto riferito a ciascun criterio di correzione. Criteri fissati dalla Commissione Centrale e fatti propri dalla Iª sottocommissione esaminatrice. Nella sottocommissione, altresì, mancava la componente professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico, persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative. Invece la Iª Sottocommissione di Palermo è composta solo da pratici del diritto e da un’unica figura di professore universitario, Laura Lorello, che ha, però, la qualifica di docente di diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo.

6.     I voti resi agli elaborati nella sessione 2010 sono identici ai voti resi nelle rispettive sessioni 2009, 2008, 2007, e con le stesse modalità di correzione (compiti immacolati), come se fosse un modus operandi.

7.     A presiedere la Commissione centrale d’esame è l’Avvocato Antonio De Giorgi, componente del Consiglio Nazionale Forense indicato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Egli ha già presieduto le sottocommissioni di esame di avvocato presso la Corte di Appello di Lecce come presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce nel periodo ante riforma del 2003. Riforma che di fatto ha criticato l’operato di tutte le sottocommissioni d’Italia, estromettendone, per mala gestio degli esami, proprio tutti i consiglieri dell’ordine degli avvocati.

I provvedimenti meglio specificati in epigrafe sono impugnati dal ricorrente per: violazione art. 3 L. 241 del 1990, difetto assoluto di motivazione; violazione delle norme in materia di valutazione degli elaborati nelle prove concorsuali; violazione dei criteri generali stabiliti dall'articolo 1-bis, comma 9, della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del 09.12.2010 dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia, di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010; eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Tutto ciò lede il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Il ricorrente da 13 anni subisce le conseguenze negative di questo sistema illegittimo di correzione degli elaborati. All’uopo si portano in visione gli atti concorsuali degli ultimi 3 anni, da cui si evincono, oltre le invalidità meglio di seguito specificate, anche le “stranezze” nel rendere il giudizio: per tutti i compiti resi nei vari anni si appalesa quel 24/25 uguale per tutti gli elaborati; i giudizi illogici, tenuto conto che i compiti sono immacolati e i giudizi numerici identici tra loro, senza soluzione di continuità; i compiti immacolati e giudizi mancanti di ogni indicazione logica che possa far inquadrare al ricorrente le manchevolezze, a cui porre rimedio nelle sessioni successive.

Il ricorrente ha diritto di conoscere le lacune che, in tutti questi anni, sono stati causa di inidoneità e se tali lacune siano fondate. I giudizi resi, non sopportati da elementi concreti (correzioni, glosse, note e spiegazioni, ecc.), fanno sì che la commissione correttrice, venendo meno ai suoi doveri di trasparenza, correttezza ed equità, impedisce, di fatto, la conoscenza dell’errore, non indicato palesemente, il quale può essere senza colpa reiterato dal ricorrente.

DIRITTO

I provvedimenti de quo impugnati devono considerarsi illegittimi per i seguenti motivi di diritto, indicati per economia processuale in modo sintetico e con riferimento alla giurisprudenza domestica più recente.

In premessa alle contestazioni soggettive rilevate e sollevate, si presenta all’attenzione della S.V. una questione che, di per sé in modo oggettivo, invaliderebbe tutte le prove scritte svolte presso ogni Corte di Appello, sede d’esame di concorso di avvocato. Ma che, per forza di cose, ne si chiede applicazione unicamente all’interesse dell’istante, qui rappresentato.

Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte di Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità (spesso fino al doppio), per tempo e luogo di esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia.

I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione.

La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

E’ illegittimo, agli occhi dell’art. 3 e dell’art. 97 della Costituzione, il fatto che ogni candidato di debba affidare ogni anno alla benevolenza della commissione di esame estratta per la correzione dei compiti itineranti. In particolare i candidati di Lecce si sottopongono al giudizio di commissioni che adottano percentuali di idoneità che vanno dal 30% di Palermo e Torino, al 60% di Salerno e Reggio Calabria. L’idoneità non può essere riconducibile a fattori estemporanei temporali o territoriali, come anno e luogo di nascita. Tra i requisiti richiesti per il superamento dell’esame non vi è, né vi potrebbe mai essere indicata “la Fortuna”. Tali percentuali, adottati al di là di ogni ragionevole logica, inficiano in modo grave il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione pubblica, oltre che a ledere il diritto di uguaglianza dei candidati partecipanti ai medesimi esami, ma giudicati da commissioni diverse. Non solo. Adottando improvvidi atteggiamenti la Commissione giudicatrice, impedendo l’accesso all’abilitazione ai candidati “sfortunati”, lede l’art. 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

Tutto questo sotto l’aspetto oggettivo, rilevabile d’ufficio, in quanto il giudizio reso agli elaborati della odierna sessione 2010 del ricorrente è stato viziato dalla “Sfortuna” di trovare una sottocommissione, quella di Palermo, poco incline alla benevolenza, la quale ha reso idonei pochi candidati di Lecce, rispetto a quella di Salerno dell’anno precedente, che ne ha resi idonei il doppio.

Uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sugli Ordini professionali, pubblicato sul Corriere della Sera del 4 luglio 2011 parla di risultati riconducibili in prevalenza al familismo, ovvero all’impedimento della libera concorrenza da parte di chi, avvocati in commissioni d’esame, ha tutto l’interesse a limitare l’accesso a nuovi professionisti.

Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

La commissione di esame di avvocato presso il Ministero della Giustizia, sessione 2010, ha definito i seguenti criteri per la valutazione degli elaborati, stabiliti dall'articolo 1-bis, comma 9, della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del 09.12.2010 dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia, di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010:

1.     Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi;

2.     Capacità di soluzione di specifici problemi;

3.     Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari;

4.     Padronanza delle tecniche di persuasione.

L’esame scritto di avvocato presenta insidie particolari. Infatti è ben diverso dagli esami universitari ed allo stesso tempo è molto lontano da ciò cui abitua la pratica: si trova in un limbo in cui si chiede al candidato di riesumare le nozioni istituzionali dei manuali universitari ed allo stesso tempo di superare l’astrattezza della teoria con applicazione a tracce d’esame che, pur se tratte dalla giurisprudenza, non possono che essere stilizzate. Di conseguenza generalmente manca nel candidato una preparazione specifica ad un simile genere di prova.

Così come tale preparazione specifica manca al singolo commissario d’esame.

Sul punto si può osservare che il parere non è un atto, in cui si perorano le ragioni dell’assistito, prendendo in considerazione le argomentazioni della controparte solo per contestarle. Tale differenza emerge chiaramente dalla lettura della lettera e) del prima riportato art. 1 comma 9, allegato della legge 180/2003, per cui le tecniche di persuasione sono elementi rilevanti solo ai fini della valutazione dell’ultima prova d’esame.

Il parere però non è nemmeno una mera rassegna degli orientamenti giurisprudenziali esistenti, di cui riportare acriticamente la massima. Infatti il semplice collage dei dicta pretori non dimostra capacità alcuna, soprattutto se si tiene conto che il candidato si avvale di un codice commentato.

Il candidato, quindi, ha diritto ad essere giudicato, da una commissione che garantisca l’effettiva competenza a poter svolgere il suo compito. Questa certezza la può dare solo una commissione in cui vi facciano parte esperti di discipline che possano verificare e giudicare l’elaborato del candidato, al di là di ogni ragionevole contestazione. Tenuto conto altresì che si chiede al singolo candidato di avere una sorta di competenza tale da soddisfare le verifiche di più commissari esperti nelle varie materie.

Ma proprio questo è il punto: i commissari d’esame non hanno la preparazione professionale per poter svolgere il ruolo di cui sono incaricati. Anche perché c’è una lacuna di fondo.

Si insiste nel dire sulla necessità di "formare i formatori". Alcuni Consigli dell’Ordine degli Avvocati hanno previsto espressamente nello Statuto delle erigende scuole la presenza obbligatoria di un "modulo" di metodologia giuridica accanto alle materie istituzionali. Modulo il cui insegnamento è stato affidato a studiosi e docenti di filosofia del diritto. La metodologia, infatti, comprende (secondo la prospettiva classica) lo studio delle discipline finalizzate a produrre "chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione […] capacita di soluzione di specifici problemi […] padronanza delle tecniche di persuasione" (si cita dall’art. 1 bis, 9° comma, della L.180/2003 sui criteri di valutazione della prova scritta all’esame di Stato per la professione d’avvocato). In questo senso, dunque, l’inserimento a Statuto di un modulo didattico di metodologia risponde ai precisi requisiti del legislatore circa le abilità richieste al principiante avvocato.

Molto più di questo, però, vale l’osservazione per cui la metodologia giuridica non può limitarsi a rappresentare una fra le materie impartite nella scuola, poiché, se quest’ultima vuole davvero ispirarsi al modello non occasionale del "ginnasio forense", dovrà assumere la metodologia come struttura e non soltanto come contenuto inserito in un contesto ancora ‘tradizionale’ (sostanzialmente mutuato dalle Facoltà giuridiche). Il che significa che il “frame” delle diverse unità didattiche (di civile, di penale, di amministrativo ecc.) dovrà avere natura metodologica (questione della "formazione dei formatori" e della meta-didattica).

Per quanto riguarda la corretta applicazione di sintassi e grammatica, oltretutto, si abbisogna di un docente delle discipline umanistiche, nel campo delle lettere, competente specificatamente su vari ambiti: analisi logica; conoscenza e comprensione delle varie funzioni logiche; comprensione e riconoscimento delle diverse funzioni logiche nella frase semplice e nel discorso; ortografia e punteggiatura; conoscenza morfologica delle regole ortografiche e di punteggiatura, padronanza dell’ortografia e della punteggiatura nella scrittura; viaggio tra forma e significato delle parole; conoscenza delle forme di derivazione e alterazione delle parole; conoscenza e comprensione del vocabolario; conoscenza delle varie relazioni di significato tra le parole; abilità di base della scrittura di un testo e tecniche narrative essenziali; abilità di preparazione, organizzazione coerente di idee su un determinato tema, abilità di espressione chiara e pertinente, abilità tecniche narrative essenziali, abilità essenziali di generi narrativi diversi, abilità essenziali di descrizione e riflessione.

La commissione di esame, così come è composta, fatta esclusivamente da soggetti pratici, più che teorici, oltretutto elementi formatisi con discipline giuridiche, non garantisce la totale efficienza ed attendibilità nella verifica degli elaborati.

I Commissari che hanno corretto i compiti dell’istante sono 2 magistrati e 2 avvocati ed un professore di diritto costituzionale.

I Commissari nominati soddisfano solo le aspettative dei principi indicati al punto 3, (attinenza agli istituti giuridici), restando sguarniti i restanti punti, propri dei professori di lettere, filosofia e in discipline della comunicazione.

Nel caso di specie i commissari nominati, alla mancanza di tali soggetti professionali, figure indispensabili, hanno ovviato, intervenendo con giudizi impropri e spesso errati.

Con la metodologia adottata ogni errore evidenziato deve essere motivato, per poter essere verificato da personale esperto. Qui non vi è alcun errore né vi è alcuna motivazione per poter vagliare il grado di incisività e fondatezza dell’emendamento.

Il recente intervento della Corte Costituzionale, che abilita il solo voto numerico in virtù del “Diritto Vivente”, non intacca un approccio diverso al problema. Il giudizio sintetico, abilitato dalla Corte, impedisce l’indagine nel merito della decisione definitiva presa, che diventa sunto delle risultanze rese per i vari criteri di valutazione, ma non può mancare la motivazione agli emendamenti ed i rilievi che toccano la stessa prova scritta. Si deve valutare la competente Commissione, nei casi di valutazione negativa, ove non sussista l’obbligo della motivazione finale, la quale è costretta ad un più attento esame degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Costituzione.

Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

Per la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 201,“buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte osserva come non sia sostenibile – come spesso affermato – che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione: “esso, in realtà, si traduce in un giudizio complessivo dell’elaborato, alla luce dei parametri dettati dall’art. 22, nono comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa”. Il che vale a dire che “il sindacato giurisdizionale sul provvedimento di non ammissione, in presenza dell’ampio potere tecnico-discrezionale spettante agli organi preposti alla valutazione, può avvenire soltanto in caso di espressione di giudizi discordanti tra i commissari o di contraddizione tra specifici elementi di fatto, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente attribuzione del voto”.“…il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione ….ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento”.

La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire.

Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto.

Elementi di fatto che qui mancano o sono insussistenti.

Ai fini della ricorrezione degli elaborati, il provvedimento di mancato superamento delle prove scritte privo di motivazione e di segni grafici sugli elaborati, va sospeso. E’ questo il principio con cui il TAR Genova con ordinanza n. 380/2010 ha accolto l’istanza di sospensiva connessa al ricorso principale finalizzato all’annullamento del provvedimento di non ammissione alle prove orali per l’abilitazione forense privo di alcuna motivazione. In particolare, per il Tar Ligure va ordinata la ricorrezione degli elaborati “Rilevato che la mancanza di correzioni o glosse e, soprattutto, l’assoluta identità del voto - finanche nelle valutazioni espresse su ogni singolo elaborato da ciascun commissario - conseguito in tre distinte e differenti prove, costituiscono spie dell’eccesso di potere, sotto il profilo della carenza di istruttoria”.

Conforme è T.A.R. Puglia, Bari, Sezione II, Sentenza 28 ottobre 2008, n. 2401: Rileva il Collegio che, dall'esame dell'art. 23 comma 3 R.D. 37/1934 e successive modificazioni, emerge con chiarezza che la Commissione esaminatrice è tenuta nella valutazione degli elementi a svolgere un doppio procedimento: a) di lettura e correzione; b) di giudizio, entrambi a tradursi nei relativi verbali. Deve evidenziarsi che le fasi anzidette, imposte per legge, sono autonome, distinte e non sovrapponibili, investendo la prima un'operazione di stretta rilevazione di errori, difetti, inesattezze, quale risultante della correzione (v. dizionario della lingua italiana); riguardando, invece, la seconda fase, un'operazione di vera e propria attribuzione del punteggio, quale risultante del giudizio. Più in particolare, mentre l'operazione di correzione rappresenta uno strumento tipico ed essenziale di emersione dei profili di criticità/carenza/positività delle tesi esposte, l'operazione di giudizio costituisce più propriamente l'attribuzione del punteggio. Osserva il Collegio che, dall'esame degli atti depositati in giudizio, si evince, invece, che il verbale di correzione riporta semplicemente i punteggi attribuiti al candidato nelle tre prove scritte, punteggi che compaiono, poi, in ripetizione nel verbale di giudizio, sicchè l'operazione di correzione risulta pretermessa e/o comunque assorbita in quella di giudizio. Operando in tal modo la Commissione esaminatrice ha posto in essere un'attività difforme dal paradigma legale, omettendo di svolgere l'operazione preliminare di correzione degli elaborati che, costituisce la fase più importante dell'attività valutativa a motivo della trasparenza ad essa connaturata essendo volta a rendere intelligibile la misura della professionalità espressa. Occorre, per ragioni di estrema chiarezza, quindi rilevare che, nella specie, si fa questione di profili di violazione di legge (art. 23 comma 3 R.D. 37/1934 e successive modificazioni) che investono, come s'è detto, la fase della correzione degli elaborati, e non, invece, la fase del giudizio che, ancorché sintetico (per attribuzione di punteggio numerico), si attesta come eloquente e, quindi, idoneo ad esprimere la professionalità di ogni singolo candidato (in tal senso questa Sezione è allineata alla giurisprudenza costante e ferma del Consiglio di Stato). Rileva, altresì, il collegio che ricorre nella specie il dedotto vizio di eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità. Ed invero, occorre premettere che la Commissione per l'esame di avvocato ha approvato all'unanimità i criteri direttivi per la correzione degli elaborati scritti ai sensi della legge 180/2003. La stessa Commissione, tra l'altro, "… invita ad indicare sull'elaborato il punto o il punto che eventualmente si ritengano non conformi alla direttive sopraindicate" …"sollecita le sottocommissioni ad attenersi ai predetti criteri"; prevedendo espressamente che ciascuna Sottocommissione trasmetta alla Commissione centrale "… “copia del verbale della riunione nella quale saranno esaminati e recepiti i criteri valutativi sopra riportati ed assunti come riferimento per l'assegnazione del punteggio”.  Gli atti di cui sopra, espressione dei poteri autorganizzativi della Commissione e della sua autonomia nell'espletamento del compito demandatole, integrano evidente autolimitazione e vincolano la Commissione medesima, nonché le sottocommissioni, che ne costituiscono articolazioni interne, all'osservanza dei criteri medesimi. Rileva pertanto il Collegio che ricorre nelle specie non già vizio di motivazione, bensì eccesso di potere per contraddittorietà rispetto a precedenti atti e provvedimenti della stessa Commissione, di carattere vincolante, atteso che gli elaborati scritti in atti evidenziano la pressoché totale assenza di segni e indicazioni grafiche.

L'esecuzione della sentenza comporterà l'obbligo della Commissione di procedere senza indugio alla correzione degli elaborati , con conseguente formulazione di un nuovo giudizio in coerenza con il dettato di legge in uno con i criteri fissati dalla Commissione medesima, con l'effetto che, in sede di rinnovazione delle operazioni di correzione (e quindi di giudizio), la Commissione debba riesaminare gli elaborati secondo una tecnica di rilevazione degli errori e delle inesattezze giuridiche di cui resti traccia evidente nel verbale di correzione.

Il precedente del TAR Puglia Lecce sez. I 23 aprile 2009, n. 746 - (3519) definitivamente pronunciando sul ricorso, attinente i motivi de quo, lo accoglie, come da motivazione e, per l'effetto, dispone l’annullamento degli atti impugnati.

“Ormai da lungo tempo (ed in particolare, da T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 14 giugno 1996, n. 510), la giurisprudenza della Sezione segue un percorso argomentativo che ritiene la valutazione degli elaborati d’esame o di concorso in forma meramente numerica assolutamente insufficiente ad integrare l’obbligo di motivazione previsto dall’art. 3 della l. 7 agosto 1990 n. 241, nelle ipotesi in cui i criteri generali di valutazione degli elaborati siano stati predeterminati in maniera tale da attribuire alla Commissione un rilevante spazio di apprezzamento (spazio di apprezzamento che manca, ovviamente, nelle ipotesi di criteri di valutazione formulati con riferimento a questionari a risposta predeterminata o ad altri sistemi “vincolati” di valutazione) che deve poter essere “controllato” dai partecipanti alla procedura selettiva ed in definitiva, dall’intera collettività.

Dopo l’intervento di una importante decisione della Corte costituzionale (Corte cost. ord. 14 novembre 2005 n. 419), l’orientamento è stato riaffermato da sentenze più recenti della Sezione (T.A.R. Puglia Lecce sez. I 20 novembre 2008 n. 3375; 21 dicembre 2006 n. 6055 e 6056), sulla base di una struttura argomentativa estremamente aggiornata che può essere richiamata anche in questa sede, in funzione motivazionale della presente decisione: all’udienza del 21 gennaio 2004 il T.A.R. sospendeva il giudizio e rimetteva gli atti alla Corte costituzionale, così motivando:

1. – L’illegittimità dell’impugnato giudizio negativo viene denunciata nel ricorso sotto molteplici profili; ritiene il Collegio che tra questi debba essere prioritariamente definito quello concernente il difetto di motivazione. Ciò in quanto il fine perseguito dalla ricorrente è, insieme alla caducazione degli atti impugnati, la rinnovazione del giudizio sulle sue prove scritte; rispetto a tale obiettivo, la decisione sulla censura relativa al profilo motivazionale risulta centrale, non solo ai fini dell’invocato annullamento del giudizio negativo già formulato (stante il carattere tipicamente assorbente, rispetto alle altre censure, del vizio di carenza di motivazione), ma anche e soprattutto ai fini conformativi dell’attività che la Pubblica Amministrazione sarebbe chiamata a svolgere nell’eventualità di un accoglimento del gravame, essendo evidente che, in tale ipotesi, la Commissione dovrebbe, in diversa composizione, procedere ad un nuovo esame delle prove scritte della ricorrente, fornendo congrua motivazione del nuovo giudizio, esplicitata da significative formule verbali; e ciò a prescindere da eventuali lacune degli elaborati, poiché l’enunciazione, ancorché sintetica, delle ragioni di un giudizio non positivo corrisponde al generalissimo precetto di clare loqui, (costituente di per sé un preminente valore fornito di garanzia costituzionale ex artt. 97 e 2 della Carta Fondamentale), consentendo al candidato un adeguato riscontro tra il contenuto della prova svolta e la sua negativa valutazione: il che può alternativamente condurre ad una consapevole reazione in sede giurisdizionale ovvero all’accettazione dell’esito negativo, visto anche in funzione di aiuto e di indirizzo per le scelte future.

2. – Sostiene, in proposito, il ricorrente che il detto giudizio negativo, espresso esclusivamente in forma numerica, attraverso voti, contrasta con il principio generale enunciato dall’art. 3, comma 1, della Legge 7 agosto 1990, n. 241, a tenore del quale: “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. La questione dell’integrale applicabilità della norma citata agli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense è stata oggetto di ripetuto esame da parte del Consiglio di Stato il quale ha elaborato in proposito un orientamento secondo cui, anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, l’onere di motivazione dei giudizi concernenti prove scritte ed orali di un concorso pubblico o di un esame di abilitazione è sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un punteggio alfanumerico, configurandosi quest’ultimo come formula sintetica, ma eloquente, che esterna adeguatamente la valutazione tecnica della commissione e contiene in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. Si è inoltre precisato che l’art. 3, comma 1, della l. n. 241 del 1990 si riferisce all’attività amministrativa provvedimentale e non all’attività di giudizio conseguente a valutazione, quale è, appunto, quella relativa all’attribuzione di un punteggio alla preparazione culturale o tecnica del candidato. Detti principi possono dirsi assolutamente pacifici nella giurisprudenza del Giudice di Appello, essendo stati ribaditi, da ultimo, tra le tante, dalle seguenti decisioni: C.d.S., IV Sez., 1 febbraio 2001, n. 367; id. 12 marzo 2001, n. 1366; id. 29 ottobre 2001, n. 5635; id. 27 maggio 2002, n. 2926; id. 1 marzo 2003, n. 1162; id. 8 luglio 2003, n. 4084; id. 17 dicembre 2003, n. 8320; id. 4 maggio 2004, n. 2748; id. 4 maggio 2004, n. 2745; id. 7 maggio 2004, n. 2881; id. 7 maggio 2004, n. 2863; id. 7 maggio 2004, n. 2846; id. 19 luglio 2004, n. 5175. A scalfire tale consolidato orientamento non vale la diversa tesi sostenuta dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, secondo cui le commissioni esaminatrici, in mancanza di criteri generali di valutazione sufficientemente puntuali ed analitici, sono tenute a rendere percepibile l’iter logico seguito nell’attribuzione del punteggio, se non attraverso diffuse esternazioni relative al contenuto delle prove, quanto meno mediante taluni elementi che concorrano ad integrare e chiarire la valenza del punteggio, esternando le ragioni dell’apprezzamento sinteticamente espresso con l’indicazione numerica (cfr. Sez. IV, 30 aprile 2003, n. 2331; id. 13 febbraio 2004, n. 558; id. 22 giugno 2004, n. 4409; si veda anche, Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2004, n. 4782). Ed invero, a parte il rilievo che nessuna delle pronunce da ultimo citate riguarda l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, osserva il Collegio che trattasi di precedenti isolati e comunque non univoci, essendo stati smentiti da coeve decisioni della medesima Sezione Sesta (cfr., Sez. VI, 17 febbraio 2004, n. 659); onde, allo stato, non è possibile sostenere un “revirement” in materia del Consiglio di Stato, come dimostrato anche dalla circostanza che la questione circa la sufficienza del punteggio numerico per gli elaborati relativi alle prove scritte dell’esame di avvocato non è stata deferita all’Adunanza Plenaria ex art. 45, comma 2, R.D. 26 giugno 1924, n. 1054; di talché deve escludersi che sul punto che qui interessa siano sorti apprezzabili contrasti giurisprudenziali, tali da incrinare il pacifico orientamento di cui si è detto. Si deve, dunque, riconoscere che, in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, si è affermato il principio per cui l’art. 3, comma 1, della l. n. 241 del 1990 (alla luce del quale vanno interpretate le disposizioni sull’esame di avvocato contenute nel R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 e, in particolare, quelle di cui agli artt. 17 bis e 23 che utilizzano il termine “punteggio”) esclude dall’obbligo di puntuale motivazione i giudizi espressi in sede di valutazione delle prove dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense; e che tale principio giurisprudenziale si è così stabilmente consolidato da acquisire i connotati del “diritto vivente”, nel senso che le norme suddette vigono nel nostro ordinamento nella versione e con il contenuto precettivo ad esse assegnato dalla su riferita giurisprudenza del Consiglio di Stato, al punto che non ne è ipotizzabile una modifica senza l’intervento del Legislatore o della Corte Costituzionale. A tale proposito, osserva il Collegio che in data 3 luglio 2001 è stata presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge (contraddistinta dal n. 1160, ed oggi assorbita dall’approvazione del più organico disegno di modifica ed integrazione della L. n. 241 del 1990 di cui al progetto di legge n. 3890 – B) che intendeva modificare il testo del comma 1 dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 (secondo l’interpretazione offertane dal Consiglio di Stato) in modo da estendere anche alle commissioni di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense “l’obbligo di motivare per iscritto le valutazioni degli elaborati”; ciò che, evidentemente, conferma la natura di “diritto vivente” acquisita dal su riferito orientamento del Giudice di Appello.

3. - L’interpretazione del citato art. 3 seguita dal Consiglio di Stato appare sospettabile di illegittimità costituzionale, per cui non resta al Collegio che prospettare ex officio tali dubbi alla Corte Costituzionale, conformemente a quel consolidato indirizzo della giurisprudenza del Giudice delle Leggi, secondo cui, in presenza di un diritto vivente non condiviso dal Giudice a quo perché ritenuto costituzionalmente illegittimo, questi ha la facoltà di optare tra l’adozione, sempre consentita, di una diversa interpretazione, oppure –adeguandosi al diritto vivente- la proposizione della questione davanti alla Corte Costituzionale (cfr., ex plurimis, Corte Cost., sentt. n. 350/1997; 307/1996; 345/1995). Nel caso in esame il Collegio dubita della conformità a determinate norme costituzionali dell’indirizzo interpretativo dell’art. 3 della legge n. 241/1990 uniformemente seguito dal Consiglio di Stato in rapporto alla formulazione ed alla motivazione dei giudizi relativi ad esami di abilitazione professionale (con specifico riguardo agli esami per accedere alla professione di avvocato). In particolare tali dubbi si prospettano:

3.1 – in relazione all’art. 3 della Costituzione perché non appare ragionevole, nel contesto della legge generale sul procedimento amministrativo, una disposizione normativa che, mentre consacra il generale principio dell’obbligo di motivazione, tra l’altro facendo specifico riferimento a “lo svolgimento dei pubblici concorsi”, ne esclude, al contempo, l’applicazione a categorie di atti (nella specie i giudizi nell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense) rispetto ai quali l’esigenza dei destinatari di conoscere, attraverso un’idonea motivazione, le concrete ragioni poste a fondamento della loro adozione non è diversa, né minore di quella dei soggetti interessati agli altri atti e provvedimenti amministrativi; se del caso egualmente esprimenti valutazioni di natura tecnica, sicuramente vincolati all’osservanza della norma, atteso che il diritto alla trasparenza dell’agire amministrativo e la garanzia di effettività del sindacato giurisdizionale non variano certo in funzione della tipologia di atto adottato dalla pubblica amministrazione;

3.2 – in relazione agli art. 24 e 113 della Costituzione; ed invero le valutazioni affidate dalla legge alle commissioni esaminatrici in subiecta materia, si risolvono in una attività che, pur comportando scelte discrezionali su base tecnica, si atteggia non diversamente da qualunque attività valutativa che debba fondarsi su parametri prestabiliti (nel caso di specie di natura giuridica) ed è suscettibile, quindi, di essere sindacata, in sede di legittimità, da parte del Giudice Amministrativo, sia per vizi logici sia per errore di fatto, sia per travisamento dei presupposti, sia per difetto di istruttoria sia, infine, per cattiva applicazione delle regole tecniche di riferimento.

Orbene il controllo della ragionevolezza, della coerenza e della logicità delle valutazioni della commissione d’esame risulta precluso (o quanto meno reso sommamente difficoltoso) di fronte al mero dato numerico del voto ed in assenza, quindi, di una sia pur sintetica esternazione delle ragioni che hanno indotto la Commissione alla formulazione di un giudizio di segno negativo, tenuto anche conto dell’estrema genericità che, di prassi, connota i criteri di valutazione che vengono stabiliti dalle commissioni esaminatrici; ne consegue che la tutela così consentita dall’ordinamento all’aspirante avvocato si riduce al solo riscontro di profili estrinseci e formali, quali quelli inerenti al rispetto delle garanzie connesse alla collegialità dell’organo giudicante ed alla sua composizione, con una cospicua riduzione del tasso di effettività della tutela giurisdizionale in sede di giudizio di legittimità davanti al Giudice Amministrativo;

3.3 – in relazione all’art. 97 della Costituzione poiché la sottrazione di una categoria di atti all’obbligo di motivazione appare confliggente sia con il principio di imparzialità (evidentemente meno garantito da un giudizio espresso in forma soltanto numerica), sia con il principio di buon andamento dell’amministrazione, che in un ordinamento modernamente democratico postula anche la piena trasparenza dell’azione amministrativa; né le esigenze di snellezza e di speditezza del procedimento di correzione degli elaborati, pur riconducibili al principio di buon andamento ex art. 97 della Costituzione, possono essere ritenute prevalenti rispetto all’inderogabile necessità di assicurare il più corretto rapporto tra il cittadino e l’amministrazione pubblica, essendo esse diversamente tutelabili attraverso un’applicazione del principio dell’obbligo di motivazione ragionevole e proporzionata alla tipologia delle prove di esame per l’accesso alla professione forense: ed invero, la mera sottolineatura dei brani censurati o l’indicazione succinta delle parti della prova contenenti lacune, inesattezze o errori non paiono rappresentare, anche nell’esame d’avvocato, solitamente caratterizzato da un elevatissimo numero di candidati, un comportamento inesigibile da parte dei componenti delle (sotto) commissioni giudicatrici.

4. – In subordine, ove si ritenga conforme al dato normativo l’interpretazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990, quale risulta dal “diritto vivente” formatosi attraverso le decisioni del Consiglio di Stato rese sulla questione che riguarda il presente giudizio, il Collegio prospetta l’illegittimità del medesimo art. 3, in rapporto ai parametri costituzionali più sopra richiamati e per le ragioni già illustrate.

5. – Le questioni che precedono appaiono al Collegio non manifestamente infondate e sicuramente rilevanti nel presente giudizio, perché dalla loro risoluzione dipende l’accoglimento o meno del ricorso sotto il  denunziato profilo del difetto di motivazione (ord. n. 1051/04.

4.- La Corte, tuttavia, con ordinanza n. 419/05, dichiarava la manifesta inammissibilità della questione di legittimità dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sollevata in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, con la seguente motivazione: “Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, alla luce dell’interpretazione di detta disposizione fornita dalla giurisprudenza amministrativa in pronunce, che il rimettente reputa “diritto vivente”, che hanno escluso l’obbligo di esplicita motivazione per i giudizi espressi in sede di valutazione degli esami di abilitazione professionale;

che il Tribunale amministrativo regionale chiede sostanzialmente una pronuncia sulla conformità a Costituzione di tale indirizzo interpretativo, con riguardo ai principi costituzionali di cui alle disposizioni sopra indicate;

che i giudizi, aventi ad oggetto identica norma, vanno riuniti e decisi con unica pronuncia;

che identica questione è già stata ritenuta manifestamente inammissibile da questa Corte, con l’ordinanza n. 466 del 2000, “perché essa non è in realtà diretta a risolvere un dubbio di legittimità costituzionale, ma si traduce piuttosto in un improprio tentativo di ottenere l’avallo di questa Corte a favore di una determinata interpretazione della norma, attività, questa, rimessa al giudice di merito”;

che, successivamente, questa Corte, con ordinanza n. 233 del 2001, ha nuovamente dichiarato manifestamente inammissibile la stessa questione, in considerazione del fatto che il rimettente avrebbe voluto “estendere l’obbligo di motivazione ai giudizi espressi in sede di valutazione delle prove d’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati”, ma non avrebbe tratto “le conseguenze applicative dell’interpretazione che egli considera conforme ai parametri costituzionali, deducendo l’esistenza della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che segue l’interpretazione da lui non condivisa”, osservando come “nulla impedisce al rimettente di adottare l’interpretazione da lui ritenuta corretta alla luce dei parametri costituzionali”;

che non sussistono ragioni per discostarsi dal richiamato orientamento, tenuto conto che nel frattempo la giurisprudenza amministrativa ha mostrato di fornire un panorama ulteriormente articolato di possibili soluzioni interpretative, spaziando dalla tesi che esclude l’applicabilità del censurato art. 3 alle operazioni di mero giudizio conseguenti a valutazioni tecniche, in quanto attività in tesi non provvedimentali, a quella che invece ritiene applicabile l’obbligo di motivazione previsto dalla disposizione censurata anche ai giudizi valutativi;

che all’interno di tale ultimo indirizzo possono poi individuarsi tre diverse posizioni, a seconda che si ritenga l’attribuzione di un punteggio numerico una valida ed idonea espressione motivatoria del giudizio valutativo, ovvero che si escluda tale idoneità, o ancora che si rifiuti una prospettiva aprioristica, per risolvere la questione in relazione alle peculiarità della singola fattispecie, e segnatamente alla relazione intercorrente fra l’estensione dei criteri valutativi prestabiliti dalla commissione esaminatrice ed il carattere più o meno analitico del giudizio sulle prove di esame.

A sostegno della tesi dell’obbligatorietà della motivazione del giudizio numerico si prospetta un esplicativo resoconto da parte della sentenza del 14/10/2010 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) N. 04204/2010 REG.SEN. ,N. 02177/2010 REG.RIC.

“Visti l’art. 23, comma 7, l’art. 24, comma 1, e l’art. 17 bis, comma 2, del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, come novellati dal D.L. 21 maggio 2003 n. 112, nel testo integrato dalla legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180, in base ai quali, nel valutare le prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato, la Commissione giudicatrice assegna dei voti numerici ai singoli elaborati;

Visto l’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni, in base al quale “Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti ... lo svolgimento dei pubblici concorsi ... deve essere motivato ... La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Viste le ordinanze 14 novembre 2005, n. 419 e 27 gennaio 2006 n. 28, con le quali la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale rispettivamente dell’art. 3 della L. n. 241/1990 e degli artt. 23, comma 5, 24, comma 1 e 17 bis, comma 2, del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 e successive modificazioni (in quanto volte ad ottenere l’avallo della Corte ad una certa interpretazione delle disposizioni impugnate, piuttosto che a sottoporre alla stessa un dubbio di legittimità costituzionale), ha tuttavia esplicitamente escluso che “la tesi dell’inesistenza di un obbligo di motivazione per gli esami di abilitazione e in generale per i concorsi costituisca <<diritto vivente>>, suggerendo di fatto ai giudici remittenti di optare per una soluzione ermeneutica conforme ai principi costituzionali di cui artt. 3, 24, 97, 98 e 113 Cost., dei quali era stata denunciata la lesione.

Visto l’art. 11, comma 5, del Decreto Leg.vo 24 aprile 2006 n. 166 che, nel disciplinare le modalità di correzione delle prove scritte del concorso notarile, prescrive testualmente: “Il giudizio di non idoneità è motivato. Nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione”.

Visto altresì l’art. 12, comma 5, dello stesso Decreto Leg.vo che, nel disciplinare le modalità di svolgimento delle prove orali del concorso notarile, così dispone: “La mancata approvazione è motivata. Nel caso di valutazione positiva il punteggio vale motivazione”.

Rilevato che le due norme da ultimo riportate, ancorché riferite al concorso di notaio, debbono essere considerate come espressione del principio di trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione, sancito, a livello normativo, dall’art. 3 della Legge n. 241/1990 e, ancora prima, dall’art. 97, comma 1, Costituzione, la cui valenza dev’essere estesa a qualsiasi procedimento concorsuale.

Ritenuto, alla luce di tale recentissimo intervento del Legislatore e delle puntualizzazioni della Corte Costituzionale prima richiamate, di poter superare l’orientamento della giurisprudenza prevalente (Cfr. ex multis, Cons. Stato, IV, 1 febbraio 2001 n. 367; Cons. Stato, VI, 29 marzo 2002 n. 1786; Cons. Stato, VI, 10 gennaio 2003 n. 67; Cons. Stato, V, 21 novembre 2003 n. 7564; Cons. Stato, IV, 5 agosto 2005 n. 4165; Cons. Stato, V, 15 dicembre 2005 n. 7136) la quale, mossa dalla preoccupazione di garantire la speditezza e l’economicità dell’azione amministrativa, ha sempre affermato che, anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 241/1990, nelle procedure concorsuali l’attribuzione del punteggio numerico soddisfa l’obbligo della motivazione.

Rilevato che la giurisprudenza citata, alla quale questa Sezione nel passato ha aderito (Cfr. Tar Catania, Sezione IV, 15 settembre 2005 n.1379), ha tuttavia omesso di considerare che la valutazione di una prova ha natura composita, in quanto essa:

- costituisce l’espressione di un giudizio tecnico – discrezionale, che si esaurisce nell’ambito del procedimento concorsuale, allorché tale giudizio è positivo, di modo che essa può essere resa con un semplice voto numerico;

- rappresenta al tempo stesso, oltre che un giudizio, un provvedimento amministrativo che conclude il procedimento concorsuale, tutte le volte in cui alle prove di un candidato venga attribuito un punteggio insufficiente, donde la necessità, in tale ipotesi, che all’assegnazione del voto faccia seguito l’espressione di un giudizio di non idoneità, con il quale vengano esplicitate le ragioni della valutazione negativa, conformemente al disposto di cui all’art. 3 della L. n. 241/1990, ove questo venga interpretato – conformemente all’orientamento prevalente - nel senso che la motivazione è necessaria solo per gli atti aventi contenuto provvedimentale.

Rilevato che la soluzione prospettata è coerente con le ripetute affermazioni giurisprudenziali secondo cui (Cfr. Tar Toscana, Sezione II, 4 novembre 2005 n. 5557), “in tema di prove scritte concorsuali, al candidato deve essere assicurato il diritto di conoscere gli errori, le inesattezze o le lacune in cui ritiene che la commissione sia incorsa, sì da potere valutare la possibilità di un ricorso giurisdizionale e che, conseguentemente, il rispetto dei principi anzidetti impone che alla valutazione sintetica di semplice <<non inidoneità>> si accompagnino quanto meno ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo la motivazione del giudizio valutativo; tra questi, in specie, in uno alla formulazione dettagliata e puntuale dei criteri di valutazione fissati preliminarmente dalla commissione, elementi e dati che consentano di individuare gli aspetti della prova non valutati positivamente dalla commissione (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2004 n. 974)”.

Rilevato altresì che, nei casi di valutazione negativa, ove sussista l’obbligo della motivazione, la competente Commissione è costretta ad un più attento esame degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Costituzione.”

Detto ciò, pertanto, va confermato il richiamato orientamento di questa Corte, tanto più in presenza delle riportate evoluzioni del panorama giurisprudenziale, che consentono al giudice di adottare una delle (plurime) interpretazioni che ritenga conforme agli invocati parametri costituzionali.

Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

Dal combinato disposto degli articoli 17 bis e 30, r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, si desume che l'obbligo di verbalizzazione di tutte le operazioni concorsuali deve essere ritenuto comprensivo anche dell'attribuzione del voto (e, quindi, dei voti attribuiti a ciascun commissario), a differenza della previsione dell'articolo 24, r.d. n. 37 cit., che si riferisce al solo "voto - risultato". Nessun argomento in contrario può, infatti, essere tratto dalla natura collegiale dell'organo deputato alle valutazioni non essendo possibile, nel sistema  di  cui  alla L. 7  agosto 1990 n. 241, postulare zone di segreto amministrativo, peraltro non espressamente riferibili alle ipotesi previste dal menzionato articolo 24 (Tar Puglia, sez. I Lecce, 27 marzo 1996, n. 120; Parti in causa Messuti c. Min. giust.; Riviste Foro Amm., 1996, 3464, n. Colzi; Rif. Legislativi RD 22 gennaio 1934 n. 37, art. 17, RD 22 gennaio 1934 n. 37, art. 24; RD 22 gennaio 1934 n. 37, art. 30; L 7 agosto 1990 n. 241).

Poiché funzione del verbale è documentare le operazioni fondamentali del procedimento, esso deve raccogliere - trattandosi di una componente essenziale, ai fini della formazione del giudizio complessivo – anche la dichiarazione di voto del singolo commissario; al riguardo, non osta alcuna particolare esigenza di riservatezza rinvenendosi, anzi, nell'ordinamento, l'opposta esigenza di pubblicità e trasparenza (Tar. Molise, 26 novembre 1998, n. 386; Parti in causa: Mozzetti c. Commissione esami avv. anno 1997 A. Campobasso e altro; Riviste: Foro Amm., 1999, 1325).

Il  giudizio finale di una prova concorsuale (nella specie, esame di avvocato), non perde la sua riferibilità all'organo collegiale se le espressioni di voto dei singoli membri sono rese pubbliche; appartengono,  infatti, al novero degli atti collegiali tanto i provvedimenti per i quali il diritto positivo prevede la segretezza delle singole espressioni di voto, quanto le deliberazioni per cui vige  la regola opposta della pubblica esternazione del voto dei singoli componenti (Tar Molise, 26 novembre 1998, n. 386; Parti in causa Mozzetti c. Commissione esami avv. anno 1997 A. Campobasso e altro; Riviste Foro Amm., 1999, 1325).

Con una recente pronuncia del 2008 il Tar della regione Lombardia, ponendosi nel solco del Tar Sicilia - Catania, Sez IV, 14 settembre 2006, n 1446 e discostandosi dalla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cds , sez IV, 7 aprile 2008, n 1455 e Cds, Sez IV, 10 aprile 2008 n 1553) ha affermato, con riferimento al voto numerico assegnato per la prova scritta dell'esame di abilitazione forense, l'insufficienza dello stesso ad assolvere all'obbligo di motivazione di cui all'art. 3 della L. n. 241 del 1990 ritenuta norma applicabile attesa la natura provvedimentale della valutazione degli elaborati comportanti l'esito negativo dell'esame. A parere del Tar, posto l'obbligo di stabilire una griglia di criteri per la valutazione delle prove d'esame nella prima riunione utile della Commissione ai sensi dell'art. 1 del d.p.r. n 487 del 1994, sarebbe necessario che le valutazioni non si estrinsecassero in un voto sintetico ma in una pluralità di voti con riferimento a ciascun criterio individuato. Ciò nel solco dei principi generali esposti dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al voto numerico, ritenuto motivazione sufficiente della valutazione di prove concorsuali soltanto in presenza di una precisa griglia di criteri cui riferire il voto assegnato. In presenza di una molteplicità di criteri, il voto sintetico non dovrà essere altro che una media ponderata dei voti assegnati con riferimento a ciascun parametro essendo altrimenti preclusa ogni valutazione sulla rispondenza del voto ai criteri prestabiliti.

T.A.R. Milano Lombardia sez. IV del 29 maggio 2008 n. 1893

Il giudizio di non idoneità del candidato partecipante all'esame per l'abilitazione alla professione di avvocato deve esprimersi attraverso una griglia di punteggi dove i singoli parametri, predeterminati dalla commissione esaminatrice come criteri di valutazione in sede di prima riunione ai sensi dell'art. 12 d.P.R. n. 487 del 1994, abbiano avuto il loro peso specifico nella correzione dell'elaborato. Tale ulteriore onere motivazionale non costituirà un gravoso aggravio dei lavori delle commissione con il rischio di un abnorme allungamento dei tempi di correzione, poiché sarà sufficiente esprimere una pluralità di voti che altro non sono che la scomposizione del voto complessivo finora sinteticamente espresso e la cui media stabilirà il voto finale attribuito dalla commissione stessa. Solo osservando tale accorgimento il candidato avrà modo di conoscere su quale particolare profilo valutativo l'elaborato è stato ritenuto non sufficiente.

Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

La Iª sottocommissione di Palermo non era presieduta dal legittimo Presidente con nomina ministeriale: non vi era presente l’avv. Antonio De Giorgi, Presidente di commissione centrale, né vi era l’avv. Giuseppe Cavasino, Presidente titolare della Iª sottocommissione di Palermo. Tale sottocommissione nella seduta del 19 aprile 2011, sessione in cui si sono corrette le prove del ricorrente, è stata presieduta dl supplente vice presidente avv. Mario Grillo.

L'assenza ingiustificata del Presidente della commissione di esame centrale inficia i lavori della sottocommissione da lui non presieduti (T.A.R. Calabria, Catanzaro, 22 maggio 1997, n. 312; Parti in causa Tartaro c. Min. giust.; Riviste Foro Amm., 1998, 55).

In base al comma 6 art. 22, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (aggiunto dall'art.  2  l.  20  aprile 1989 n. 142) le sottocommissioni per gli esami  di procuratore legale sono costituite - e possono disporre con efficacia  provvedimentale - soltanto con la presenza del presidente della commissione  centrale,  il  quale  riveste la  qualifica di presidente  effettivo  di  tutte  le sottocommissioni; l'unicità del presidente è funzionalmente  preordinata non già ad una mera titolarità  formale dei lavori delle diverse sottocommissioni, ma ad imprimere a  tutte ed a ciascuna  di esse la medesima regolazione procedurale  che  disciplina  i  lavori della commissione originaria (T.A.R. Calabria, Catanzaro, 22 maggio 1997, n. 312; Parti in causa Tartaro c. Min. giust.; Riviste Foro Amm., 1998, 559; Rif. legislativi RDL 27 novembre 1933 n. 1578, art. 22; L 20 aprile 1989 n. 142, art. 2).

Possono essere esaminate congiuntamente le questioni attinenti alle effettive modalità di funzionamento delle sottocommissioni, con particolare riguardo alla sostituzione dei componenti effettivi con quelli supplenti, alla qualificazione dei membri delle sottocommissioni e all’unicità della funzione del presidente della commissione stessa.

Occorre al riguardo osservare che ai sensi del terzo comma dell’art. 22 del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 le commissioni sono nominate dal Ministro di grazia e giustizia e sono composte da cinque membri, di cui due titolati e due supplenti sono avvocati (iscritti da almeno otto anni ad un ordine del distretto di corte d’appello sede dell’esame); due titolari e due supplenti sono magistrati dello stesso distretto (con qualifica non inferiore a consigliere di corte d’appello) e un titolare ed un supplente sono professori ordinari o associati di materie giuridiche presso un’università della Repubblica ovvero presso un Istituto superiore.

Il successivo quinto comma stabilisce che i supplenti intervengono nella commissione in sostituzione di qualsiasi membro effettivo.

Il successivo comma 5, con lo stabilire che i supplenti intervengono nella commissione in sostituzione di qualsiasi membro, ha codificato il principio della fungibilità di ogni membro effettivo della commissione con qualsiasi membro supplente (Cons. giust. Amm. Sicilia, 11 ottobre 1999 n. 473) ma, appare chiaro che, peraltro, è in contrasto col precedente comma 3.

Inoltre il comma 6 enuncia che “Qualora il numero dei candidati che abbiano presentato la domanda di ammissione superi le duecentocinquanta unità, le commissioni esaminatrici possono essere integrate, con decreto del Ministro di grazia e giustizia, da emanarsi prima dell'espletamento delle prove scritte, da un numero di membri supplenti aventi i medesimi requisiti stabiliti per i membri effettivi tale da permettere, unico restando il presidente, la suddivisione in sottocommissioni, costituite ciascuna di un numero di componenti pari a quello delle commissioni originarie e di un segretario aggiunto. A ciascuno delle sottocommissioni non può essere assegnato un numero di candidati superiore a duecentocinquanta”.

L’unicità della figura del presidente della Commissione “si sostanza nella più rilevante funzione di coordinamento dei lavori delle varie sottocommissioni” (sentenza 6160 della IV sezione del CdS) al fine di “salvaguardare la par condicio degli esaminandi attraverso la permanenza di un soggetto particolarmente qualificato nel contesto di tutte le sottocommissioni” (sentenza 1855/2000 della IV sezione del CdS). Un filo lega le due sentenze nel senso che, comunque, il presidente, anche se non presente alle adunanze delle sottocommissioni, svolge un ruolo che punta a garantire la par condicio tra i candidati.

Considerato che, ai sensi dell'art. 22 comma 5, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, da ultimo modificato con l'art. 1, l. 27 giugno 1988 n. 242, la commissione esaminatrice negli esami da avvocato non ha natura di collegio perfetto, e che, tuttavia, la partecipazione ai lavori della commissione costituisce preciso obbligo d'ufficio, ai sensi dell'art. 84, r.d. 31 agosto 1933 n. 1592, e dell'art. 1, l. 18 marzo 1958 n. 311, l'esaminando ha una mera chance di essere valutato da un collegio composto secondo i criteri ordinariamente contemplati dalla norma; la fungibilità dei membri dimissionari deve però avere carattere occasionale e contingente, e non strutturale: pertanto, la circostanza che nessuno dei professori universitari nominati membri della commissione, ovvero nessuno dei magistrati, ovvero nessuno degli avvocati, ha partecipato alla preventiva formulazione dei criteri di valutazione di massima e, solo in minima parte, alle operazioni di correzione degli elaborati, rende illegittimo il singolo provvedimento di non ammissione agli orali e gli atti presupposti, nei limiti in cui questi ultimi hanno compromesso detta chance di ciascun interessato, di talché l'annullamento non coinvolge posizioni antitetiche di terzi (Tar Veneto, sez. I, 17 ottobre 1998, n. 1695; Parti in causa Rosato e altro c. Comm. esami avv. App. Venezia e altro; Riviste Foro Amm., 1999, 1555; Rif. Legislativi RD 31 agosto 1933 n. 1592, art. 84; RDL 27 novembre 1933 n. 1578, art. 22; L 18 marzo 1958 n. 311, art. 1; L 27 giugno 1988 n. 242, art. 1).

La commissione d’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, che ha natura di collegio perfetto con funzione decisoria e, quindi, con un proprio quorum essenziale ai fini del funzionamento, è illegittimamente composta non solo nel caso in cui alle sedute non vi sia il plenum dei componenti, ma anche se, pur essendo presenti tutti e cinque i suoi membri, manchi in blocco, a tutte o quasi tutte le sedute, il rappresentante di una delle tre categorie individuate (avvocati, magistrati, docenti universitari, ndr) dall’articolo 22 del Rd 1578/1933. È pertanto illegittimo l’operato della commissione ove risulti che essa si sia riunita senza che fosse mai presente la componente rappresentata dai professori universitari (Tar Basilicata, sentenza 83/2000, in giust.it-rivista internet di diritto pubblico).

Sentenza 1855/2000 della IV sezione del Consiglio di Stato: il presidente della Commissione principale è presidente effettivo “di tutte le sottocommissioni in ossequio al principio della par condicio degli esaminandi”. Si riporta un passaggio centrale di questa sentenza:

Con ricorso notificato il 9 settembre 1997 la dott.ssa Daniela Daniele ha chiesto al Tar Calabria (sede di Catanzaro) l’annullamento del provvedimento di mancata ammissione alle prove orali dell’esame di procuratore legale per l’anno 1996, deducendo tra i motivi anche la violazione dell’articolo 22 (comma 6) del Rdl n. 1578/1933 nella parte in cui afferma la unicità del presidente sia rispetto alla commissione principale sia rispetto alle sottocommissioni. Il Tar Calabria (con la sentenza n. 178/1998) ha accolto il ricorso, che è stato impugnato dal Ministero della Giustizia (il quale ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dello stesso articolo 22). Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (IV sezione) ha respinto il ricorso del Ministero della Giustizia.

Si legge nella sentenza del Consiglio di Stato:

<…L’appello è infondato. Il thema decidendum riguarda l’interpretazione dell’articolo 22 (comma 6), Rdl 27 novembre 1933 n. 1578, come modificato dalla legge 20 aprile 1989 n. 142, concernente gli esami di abilitazione all’esercizio della professione di procuratore legale, che così dispone: "Qualora il numero dei  candidati che abbiano presentato la domanda di ammissione superi le duecentocinquanta unità, le commissioni esaminatrici possono essere integrate, con decreto del Ministro di grazia e giustizia, da emanarsi prima dell'espletamento delle prove scritte, da un numero di membri supplenti aventi i medesimi requisiti stabiliti per i membri effettivi tale da permettere, unico restando il presidente, la suddivisione in sottocommissioni, costituite ciascuna da un numero di componenti pari a quello delle commissioni originarie e di un segretario aggiunto. A ciascuna delle sottocommissioni non può essere assegnato un numero di candidati superiore a duecentocinquanta".

Il Tribunale amministrativo calabrese ha ritenuto che la disposizione non consenta, se non per giustificato motivo, di cui sia data congrua e puntuale motivazione nei verbali, la sostituzione del presidente della commissione esaminatrice dell'esame di stato per l'abilitazione alla professione di procuratore legale, fondando le proprie conclusioni su un duplice ordine di rilievi: a) la lettera della legge sopra trascritta, che specifica  “unico restando il presidente", anche quando siano costituite sottocommissioni; b) l'esigenza di salvaguardare la par condicio degli esaminandi attraverso la permanenza di un soggetto particolarmente qualificato nel contesto di tutte le sottocommissioni.

Nel caso di specie è, per contro, avvenuto che il presidente ha delegato in modo ampio e permanente ai vicepresidenti delle varie sottocommissioni la partecipazione alle relative sedute, di fatto alterando l'unico elemento di sicura conformità dei giudizi, senza che fosse evidenziata una specifica esigenza di sostituzione.

L'appello dell'Amministrazione tende a una esegesi finalistica della norma in esame, sostenendo che la ratio sottostante la disposizione preordina l'articolazione in sottocommissioni per consentire una maggiore rapidità delle operazioni d'esame, che risulterebbero necessariamente appesantite se a presiedere i lavori fosse unico soggetto.

Osserva la Sezione che, pur rispondendo la norma suindicata a un'istanza di accelerazione delle operazioni d'esame, la stessa non può comunque essere interpretata al di fuori del chiaro significato letterale e logico delle espressioni in essa contenute. Ora è non dubbio che la norma si è preoccupata di mantenere l'unicità della figura del presidente, pur in presenza di sottocommissioni. La formulazione letterale della norma è sostanzialmente univoca e non lascia spazio a interpretazioni finalizzate a superarne il dato formale.

Infatti, se è pur vero che la finalità di accelerare le operazioni d'esame risponde a un'esigenza di speditezza e economicità dell'azione amministrativa, è altresì incontestabile che, in presenza di una attività di giudizio di particolare rilievo e, per definizione, soggetta al principio della par condicio, le modalità di svolgimento di dette operazioni vanno comunque articolate in relazione al precetto normativo così da impedire che la predetta finalità, per quanto genericamente preordinata all'interesse pubblico di celerità dell'attività amministrativa, finisca per fare premio sull’interesse pubblico primario e specifico così come presidiato dal precetto stesso. In sintesi, l'interpretazione finalistica proposta dall'Amministrazione non trova adeguato riscontro nella fonte normativa invocata”. In ossequio al principio della par condicio dei concorrenti, allorquando la commissione esaminatrice per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato è articolata, in ragione del numero dei candidati, in sottocommissioni, solo al presidente della commissione medesima, spetta l’effettiva presidenza di tutte le sottocommissioni (Cons. Stato, sentenza n. 1855/2000; riviste: Guida al Diritto n.  17/2000).

Le   sottocommissioni   nelle   quali   si  suddivide  la  originaria commissione  giudicatrice  designata per l'esame di abilitazione alla professione  di  avvocato  devono  necessariamente  essere presiedute dall'unico  presidente (nella  specie,  il  collegio  ha  ritenuto illegittima  la  delega  generalizzata  conferita  dal  presidente ai vicepresidenti delle varie sottocommissioni) in ossequio al principio della par condicio degli esaminandi (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2000, n. 1855; Parti in causa Min. giust. c. Daniele; Riviste Foro It., 2000, III, 243).

Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

Una volta verificati, sulla base delle attestazioni contenute nei verbali dei lavori della commissione giudicatrice di un pubblico  concorso, i tempi medi utilizzati per la correzione  e valutazione dei singoli elaborati, qualora il tempo impiegato risulti talmente esiguo da far dubitare che sia stato materialmente impossibile l’adeguato assolvimento dei prescritti adempimenti e dell’espressione  ponderata dei giudizi sulla valenza delle prove, l’operato dell’organo di esame va ritenuto illegittimo (Cons. Stato, sez. IV, decisione 7 marzo – 22 maggio 2000, n. 2915, in Guida dir., 1 luglio 2000 n. 24, con nota dì G. Manzi. E' superato così un precedente orientamento contrario, ancora affermato da Cons. Stato, sez. IV, 09.12.1997, n. 1348).

A sostegno di tale affermazione interviene il Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza del 22 maggio 2000 n. 2915 sulle modalità di correzione degli elaborati relativi al concorso per uditore giudiziario. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione IV), respinge l'appello proposto dal Ministero di Grazia e Giustizia avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sez. 1", n. 2112 del 4 novembre 1996, confermandola, salvi gli ulteriori provvedimenti dell'amministrazione.

La correzione delle prove scritte di un concorso pubblico si fonda su di un apprezzamento squisitamente tecnico-discrezionale. L'apprezzamento del contenuto dell'elaborato implica la sua attenta lettura da condursi sulla base di due parametri l'uno oggettivo, dato dalla traccia della prova da svolgere, l'altro soggettivo, dato dalle conoscenze tecniche e professionali che si presume debba possedere il candidato. Sulla base di tali presupposti ogni singolo commissario in ragione della sua peculiare professionalità deve valutare criticamente la prova esprimendo il giudizio. Evidentemente, quanto più approfondite sono le conoscenze tecnico-professionali che si presume debba possedere il candidato e quanto più specifiche e complesse sono le tracce predisposte per lo svolgimento delle prove scritte, tanto più attenta approfondita e rigorosa deve essere la lettura dell'elaborato alfine della correzione, trattandosi – com’è facilmente intuibile - non di una mera operazione meccanicistica di lettura di un testo ma di una operazione complessa di `comprensione' e di valutazione del testo elaborato dal candidato. La delicatezza di una simile operazione, raggiunge il suo culmine proprio quando si tratta della correzione delle prove scritte di particolari concorsi pubblici quali quelli per l'accesso alle magistrature, alla professione forense, al notariato, in cui si devono valutare elaborati di candidati che si presume già in possesso di approfondite conoscenze, tecniche e professionali, in rapporto a tracce di lavoro specifiche ed altamente selettive, implicanti soluzioni di problematiche giuridiche non necessariamente certe ed univoche. Sulla base di tali considerazioni, se effettivamente non può essere sindacato il merito della valutazione di idoneità o non idoneità espressa dalla commissione, altrettanto evidentemente l'esiguità del tempo medio impiegato per la correzione degli elaborati, in mancanza di altri elementi di valutazione, appare ragionevole sintomo di una lettura non particolarmente approfondita degli elaborati di esame (Cons. Stato, sez. IV, decisione 7 marzo – 22 maggio 2000, n. 2915, in Guida dir., 1 luglio 2000 n. 24, con nota dì G. Manzi. E' superato così un precedente orientamento contrario, ancora affermato da Cons. Stato, sez. IV, 09.12.1997, n. 1348).

Dagli atti in esame si desume infatti (v. l'allegato verbale delle relative operazioni concorsuali) che la sottocommissione ha atteso alla correzione di ciascun elaborato in poco più di 5 minuti. (15.30 – 19.25 = 235 minuti: 14 candidati: 3 compiti). Al computo temporale non sono contemplate le pause, in quanto non indicate. Ritiene il Collegio che tale tempistica, avuto riguardo alle singole operazioni propedeutiche ed assolutamente necessarie ai fini della valutazione degli elaborati (apertura delle buste, lettura collegiale ed interpretazione calligrafica delle tracce, correzioni, espressione del giudizio critico da parte di ciascun commissario etc.), sia da ritenere assolutamente incongrua ed incompatibile con la formulazione di un giudizio corretto particolarmente complesso, quale è quello cui deve attendere la Commissione d'esame nel valutare le capacità teorico-pratiche del candidato. In tal senso d'altronde è il recente orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV sent. 7 marzo-22 maggio 2000, n. 2915) che in una fattispecie consimile ha ritenuto illegittimo l'operato dell'organo d'esame che ha proceduto alla correzione degli elaborati in un tempo medio di pochi minuti per ciascuno. Per vero, la dedotta inconciliabilità di ordine temporale relativa alle operazioni di correzione si traduce in un indice esterno di irragionevolezza, sindacabile ab extra e di per sé viziante il giudizio conclusivo espresso dalla Commissione sugli elaborati del ricorrente (Tar Catanzaro, sezione I, 14 luglio 2000).

La “verificazione” dei tempi di correzione degli elaborati. La terza sezione del Tar Lombardia, con la sentenza 617/2000, ha annullato il giudizio di non ammissione alle prove orali (dell’esame di avvocato 1998-1999) di una candidata milanese i cui tre elaborati erano stati corretti ciascuno in pochi minuti. Sulla commissione esaminatrice “discende l’obbligo di ripetere le operazioni di valutazione, rinnovando ora per allora il già espresso giudizio”. La decisione del tribunale è sorretta da una "verificazione" dei tempi di correzione ordinata dal presidente del Tar. Sono stati acquisiti, per la perizia, 60 compiti, che hanno richiesto, per la correzione, sei ore e 39 minuti, contro due ore e 25 minuti impiegati dalla commissione. Ponendo a raffronto i suddetti dati temporali emerge che la sola lettura di essi ha richiesto, invece, mediamente 6 minuti e 33 secondi per ciascun elaborato. La perizia è stata eseguita dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Paolo Giuggioli, che si è avvalso della collaborazione di altri professionisti (Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2000).

Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi.

Inopportuna è anche la nomina del Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine…”. Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Antonio De Giorgi non è più Presidente di sottocommissione, ma addirittura presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame? E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o di sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza. Come è inopportuno nominare chi sia stato estromesso dalla riforma, per gli incarichi già svolti da presidente di sottocommissione locale.

Per quanto detto il dr. Antonio Giangrande, ricorrente, così come rappresentato e difeso, adotta le seguenti

Conclusioni

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.

Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso che ha inficiato per 13 anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi illegittimi.

******

P.Q.M

Si chiede e conclude: voglia Codesto Ecc.mo Tribunale Amministrativo Regionale, contrariis reiectis, previo accoglimento dell’istanza di sospensione con ordine alla Sottocommissione di Lecce di far svolgere nella sessione corrente gli orali al ricorrente, annullare i provvedimenti impugnati, come in epigrafe indicati, con vittoria di spese competenze ed onorari di lite.

Si chiede di acclarare le doglianze di legittimità e di merito su indicate che viziano ed invalidano gli atti adottati dalla Iª Sottocommissione di esame di Palermo.

Si chiede di ordinare alla Sottocommissione di esame di Palermo di procedere, se non si ritenga di procedere d’ufficio, al riesame delle prove scritte in tempi congrui, corredando il giudizio con congrua motivazione, con l’osservanza di ogni modalità utile a garantire l’anonimato degli elaborati, e, in ogni caso, con una composizione diversa rispetto a quella della Sottocommissione che ha effettuato la prima valutazione e con il rispetto delle regole di composizione della stessa commissione.

Circa l’istanza di sospensione cautelare: per quanto attiene il “periculum in mora” è per la ravvisata esistenza di un pericolo di danni gravi ed irreparabili per il ricorrente derivanti dall'esecuzione dell'atto impugnato data l’evidente ed immediato procrastinarsi della nuova sessione d’esame, che in quanto tale fa perdere un altro anno da aggiungersi ai 13 precedenti. Per quanto attiene il “fumus boni iuris”, i provvedimenti impugnati, come in epigrafe indicati, appaiono illegittimi sotto differenti profili, ampiamente illustrati nei punti precedenti.

******

Si depositano i seguenti atti e documenti:

5.     Verbale di correzione della Iª sottocommissione di esame di Palermo per la sessione 2010;

6.     Elaborati consegnati dal sottoscritto in tema: a) penale; b) civile; c) atto giudiziario;

7.     La graduatoria per la lettera G con data di affissione pubblicata dalla Corte d'Appello di Lecce;

8.     Verbali e compiti delle sessioni di avvocato: a) 2009, b) 2008, c) 2007;

Con espressa riserva di proporre motivi aggiunti.

DICHIARAZIONE DEL VALORE DEL PROCESSO AI FINI DEL CONTRIBUTO UNIFICATO

Al fine del versamento del contributo unificato per le spese di giustizia si dichiara che il valore del contributo unificato è di 600 euro per i ricorsi proposti presso il Tribunale amministrativo regionale.

Lecce, lì 20 luglio 2011

Avv..............................                                                                            Sig.........................................

Per autentica    Avv. .......................................

MANDATO DI DIFESA E PROCURA GENERALE E SPECIALE ALLE LITI

Io sottoscritto Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02/06/1963 e residente ad Avetrana, via Manzoni, 51 , c.f. GNGNTN63H02A514Q nomino, quale mio difensore e procuratore generale, l’avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, con Studio Legale in Avetrana, alla via Manzoni, 51, c. f. GNGMRK85A26E882V, per rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio e nelle fasi connesse ed espressamente: opposizione ed esecuzione ed eventuale appello ed altri giudizi di impugnazione, con sua facoltà di nominare altri avvocati e procuratori, ovvero di transigere o rinunciare agli atti del giudizio e con tutti i poteri per il migliore svolgimento delle stesse.

Con la presente firma ratifico il suo operato discrezionale ed eleggo domicilio nel suo Studio Legale.

Avetrana, lì 20 luglio 2011

Firma cliente                                                                           firma dell’avvocato per autenticazione

Dichiaro di essere stato informato dettagliatamente sui miei diritti secondo le norme sulla Privacy ed aver autorizzato il trattamento dei miei dati.

Dichiaro, altresì, di essere stato informato su facoltà e/o obbligo di accesso alla mediazione per la conciliazione.

Firma cliente                                                                           firma dell’avvocato per autenticazione

 

RELAZIONE DI NOTIFICA

Ad istanza dell'Avv. Mirko Giangrande, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto alla Corte di Appello di Lecce, ho notificato simile copia del presente atto a:

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore On. avv. Angelino Alfano, domiciliato per legge presso gli uffici dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce, via F. Rubichi 23, ed ivi consegnandone copia come per legge.

RELAZIONE DI NOTIFICA

Ad istanza dell'Avv. Mirko Giangrande, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto alla Corte di Appello di Lecce, ho notificato simile copia del presente atto a:

Commissione centrale di esame di Avvocato c/o Ministero della Giustizia, in persona del presidente pro tempore avv. Antonio De Giorgi, domiciliato per legge presso gli uffici dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce, via F. Rubichi 23, ed ivi consegnandone copia come per legge.

RELAZIONE DI NOTIFICA

Ad istanza dell'Avv. Mirko Giangrande, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto alla Corte di Appello di Lecce, ho notificato simile copia del presente atto a:

Iª Sottocommissione di esame di Avvocato c/o Corte d’appello di Palermo, in persona del presidente pro tempore avv. Giuseppe Cavasino, domiciliato per legge presso gli uffici dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce, via F. Rubichi 23, ed ivi consegnandone copia come per legge.

RELAZIONE DI NOTIFICA

Ad istanza dell'Avv. Mirko Giangrande, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto alla Corte di Appello di Lecce, ho notificato simile copia del presente atto a:

Iª Sottocommissione di esame di Avvocato c/o Corte d’appello di Palermo, in persona del presidente supplente pro tempore avv. Mario Grillo, domiciliato per legge presso gli uffici dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce, via F. Rubichi 23, ed ivi consegnandone copia come per legge.

RELAZIONE DI NOTIFICA

Ad istanza dell'Avv. Mirko Giangrande, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto alla Corte di Appello di Lecce, ho notificato simile copia del presente atto a:

Iª Sottocommissione d’esame di Avvocato c/o Corte d’appello di Lecce, in persona del presidente pro tempore avv. Maurizio Villani, domiciliato per legge presso gli uffici dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce, via F. Rubichi 23, ed ivi consegnandone copia come per legge.

 

N. 00679/2011 REG.PROV.CAU.

N. 01240/2011 REG.RIC. 

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1240 del 2011, proposto da:

Antonio Giangrande, rappresentato e difeso dall'avv. Mirko Giangrande, con domicilio eletto presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Lecce, Commissione Esami Avvocato Presso Corte D'Appello di Palermo, rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Lecce, via F.Rubichi 23; 

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

del verbale n. 20 redatto nella seduta del 19 aprile 2011 dalla I^ Sottocommissione esame di avvocato presso la Corte di Appello di Palermo - sessione 2010-, nella parte in cui attribuisce alle tre prove scritte riferite alla busta n. 198 del ricorrente un punteggio insufficiente, rispettivamente 25 per il penale, 25 per il civile e 25 per l'atto giudiziario, pari complessivamente a 75 punti; del consequenziale elenco degli ammessi alle prove orali, sessione 2010, degli esami di abilitazione alla professione di avvocato, relativamente alla Corte di Appello di Lecce, pubblicato il 28 giugno 2011, nella parte in cui esclude il ricorrente; di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed in particolare, dei criteri fissati dalla predetta Sottocommissione con verbale n. 20 del 19 aprile 2011 per la valutazione degli elaborati.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato Presso La Corte D'Appello di Lecce e di Commissione Esami Avvocato Presso Corte D'Appello di Palermo;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2011 il dott. Luigi Viola e uditi per le parti i difensori De Nuzzo Pietrantonio, in sostituzione di Giangrande Mirko e Tarentini Antonio;

Considerato:

-che la valutazione negativa degli elaborati d’esame del ricorrente appare sinteticamente motivata, mediante utilizzazione del sistema del voto numerico che costituisce una legittima tecnica di motivazione delle valutazioni amministrative (Corte cost. 8 giugno 2011 n. 175, che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità degli artt. 17 bis, commi 1, 23, comma 5 e 24, comma 1, r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 che hanno sostanzialmente previsto la valutazione in forma numerica delle prove d’esame di avvocato);

-che la composizione della Sottocommissione d’esame che ha proceduto alla correzione degli elaborati del ricorrente, appare legittima, alla luce delle previsioni normative (che non prevedono la presenza di soggetti in possesso di competenze in materia letteraria o umanistica, ma solo di giuristi di diversa estrazione) e della più recente giurisprudenza (Cons. Stato sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3114) che ha rilevato come le Sottomissioni d’esame non debbano essere necessariamente presiedute dal Presidente della Commissione, essendo, al proposito, sufficiente la presenza del VicePresidente con funzioni di Presidente di ogni singola Sottocommissione;

-che la censura di incompatibilità sollevata dal ricorrente con riferimento alla nomina del Presidente della Commissione centrale non sussiste perché il detto Presidente non risulta più ricoprire la qualità di Presidente del Consiglio dell’Ordine di Lecce;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima Respinge la suindicata istanza cautelare.

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2011 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Luigi Viola, Consigliere, Estensore

Massimo Santini, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 30/09/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 00288/2013 REG.PROV.COLL.

N. 01240/2011 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1240 del 2011, proposto da: 

Antonio Giangrande, rappresentato e difeso dall'avv. Mirko Giangrande, con domicilio eletto presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23; 

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato Presso la Corte D'Appello di Lecce, Commissione Esami Avvocato Presso Corte D'Appello di Palermo, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliati presso la sede di quest’ultima in Lecce, via F.Rubichi 23;

Commissione Centrale Esami Avvocato c/o Ministero della Giustizia; 

per l'annullamento

del verbale n. 20 redatto nella seduta del 19 aprile 2011 dalla I^ Sottocommissione esame di avvocato presso la Corte di Appello di Palermo - sessione 2010-, nella parte in cui attribuisce alle tre prove scritte riferite alla busta n. 198 del ricorrente un punteggio insufficiente, rispettivamente 25 per il penale, 25 per il civile e 25 per l'atto giudiziario, pari complessivamente a 75 punti; del consequenziale elenco degli ammessi alle prove orali, sessione 2010, degli esami di abilitazione alla professione di avvocato, relativamente alla Corte di Appello di Lecce, pubblicato il 28 giugno 2011, nella parte in cui esclude il ricorrente;

di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed in particolare, dei criteri fissati dalla predetta Sottocommissione con verbale n. 20 del 19 aprile 2011 per la valutazione degli elaborati. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato presso la Corte D'Appello di Lecce e della Commissione Esami Avvocato Presso Corte d'Appello di Palermo;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2012 la dott.ssa Patrizia Moro e uditi per le parti gli avv.ti Mirko Giangrande e Giovanni Pedone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con il ricorso all’esame il ricorrente ha impugnato innanzi a questo Tribunale gli atti, in epigrafe indicati, con i quali la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di appello di Palermo, sessione 2010, ha valutato insufficienti i tre elaborati (venticinque/ cinquantesimi per la prova di diritto penale, e venticinque/cinquantesimi per la prova di diritto civile e 25/cinquantesimi per l’atto giudiziario) determinando la sua inidoneità a sostenere gli esami e, per l'effetto, l'ha escluso dalle prove orali.

Il ricorrente deduce la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale, contestando altresì la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità, la mancanza di motivazione alle correzioni, la contraddittorietà e illogicità del giudizio reso e la fondatezza dei rilievi assunti, la mancanza di voto di ciascun commissario ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove, l’assenza ingiustificata del Presidente della Commissione e contestualmente l’assenza del Presidente della I sottocommissione di Palermo.

Con atto depositato in data 1 agosto 2011 si è costituita in giudizio l’Avvocatura Distrettuale dello Stato.

Con ordinanza depositata in data 29 settembre 2011 la sezione ha respinto l’istanza cautelare richiesta dal ricorrente.

Nella pubblica udienza del 7 novembre 2012 la causa è stata introitata per la decisione.

2. Il ricorso è infondato.

2.1. Secondo consolidata giurisprudenza anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, i provvedimenti della commissione esaminatrice che rilevano l'inidoneità delle prove scritte e non ammettono alla prova orale il candidato agli esami per l'abilitazione alla professione di avvocato devono ritenersi adeguatamente motivati quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. Siffatti voti esprimono un metodo di valutazione rispondente al criterio di cui all'articolo 97 Cost. e rappresentano la compiuta esternazione dell’ attività di verifica dell'idoneità del candidato svolta a seguito della lettura dei suoi elaborati, demandata alla commissione esaminatrice.

La Corte costituzionale, con le sentenze 30 gennaio 2009 n. 20 e 8 giugno 2011, n. 175, ha già dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, nono comma, del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, poi sostituito dall'art. 1 bis, del D.L. 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, nonché degli articoli 17 bis, 22, 23 e 24, primo comma del R.D. 22.1.1934 n. 37 (Norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), sollevata in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono l'obbligo di giustificare o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d'esame per l'abilitazione alla professione forense.

2.2. Inoltre, quanto ai rilievi in ordine alla composizione della sottocommissione d’esame, come già rilevato in sede cautelare, la stessa è legittima alla luce delle previsioni normative (che non prevedono la presenza di particolari soggetti in possesso di competenze in materia letteraria o umanistica ma solo di giuristi di diversa estrazione) e della più recente giurisprudenza (Cons. di Stato sez.IV 12 giugno 2007 n.3114) che ha rilevato come le sottocommissioni d’esame non debbano essere necessariamente presiedute dal presidente della Commissione, essendo al proposito, sufficiente la presenza del Vice Presidente con funzioni di Presidente di ogni singola Sottocommissione.

Con riferimento alla censura riguardante l’assenza del Presidente della I sottocommissione di Palermo, nella seduta del 19 aprile 2011 ( nella quale sono state corrette le prove del ricorrente), va rilevato che la stessa risultava presieduta dal Vice Presidente avv. Mario Grillo sicchè tale presenza esclude la illegittimità rilevata.

Infatti, l’istituzione ad opera dell'art. 1 bis D.L. 21 maggio 2003 n. 112 della figura del Presidente e del vice Presidente per ciascuna delle Sottocommissioni operanti nel distretto di Corte di appello ha comportato il superamento dell’orientamento giurisprudenziale che escludeva, sulla base di un interpretazione meramente letterale dell'art. 22 R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, come modificato dalla L. 20 aprile 1989 n. 142, la possibilità per il Presidente di essere sostituito nell'esercizio delle sue funzioni da un commissario con le funzioni di vice Presidente.

A seguito della riforma del 2003 e della istituzione della figura del vice Presidente, la giurisprudenza è ormai ferma nell'affermare che quest' ultimo può legittimamente presiedere i lavori dell'organo collegiale senza necessità che il verbale della seduta rechi la specifica indicazione delle ragioni che avevano reso necessaria la sostituzione del titolare (Cons. Stato, IV Sez., ord. 9 aprile 2002 n. 1353 e 28 ottobre 2003 n. 4674; dec. 17 settembre 2004 n. 6155, 5 agosto 2005 n. 4165, 6 settembre 2006 n. 5155, 3 dicembre 2006 n. 6511 e 5 dicembre 2006 n. 7126).

Per quanto attiene al ruolo e alle funzioni proprie dei membri supplenti l'art. 22, co. 5, R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, nel testo sostituito dall'art. 1 bis D.L. 21 maggio 2003 n. 112, afferma che essi intervengono alle sedute della Sottocommissione "in sostituzione di qualsiasi membro effettivo"; da ciò deriva che i componenti dei singoli collegi possono, in caso di assenza o impedimento, essere legittimamente sostituiti dai membri supplenti attesa l'assoluta parità esistente, sul piano funzionale, fra le due categorie (C.d.S. 23 dicembre 1999 n. 692) e il principio di fungibilità fra membri effettivi e membri supplenti (C.d.S.. 9 giugno 2003 n. 223).

2.3. Non coglie nel segno neppure la censura con la quale si deduce l’incompatibilità del Presidente della Commissione Centrale in quanto componente del Consiglio Nazionale Forense non risultando in proposito prevista alcuna incompatibilità da parte del legislatore (art.21 R.D.L. 27-11-1933 n. 1578).

2.4. In ordine al merito dell’attività di valutazione, va evidenziato che, in una procedura per l'accesso a una professione, non rileva solamente l’esattezza delle soluzioni giuridiche propugnate e prescelte, ma anche la modalità espositiva, l’organizzazione complessiva del discorso, le capacità di sintesi e di compiuta argomentazione.

Ove così non fosse, dovrebbe ammettersi che tutti i candidati estensori di elaborati recanti soluzioni corrette debbano necessariamente superare la prova, il che non può sicuramente avvenire, posto che il superamento dell’esame di abilitazione permette l’accesso alla professione forense, sicchè vengono in rilievo – oltre alla esattezza delle conclusioni - la modalità espositiva, l’organizzazione complessiva del discorso, le capacità di sintesi e di compiuta argomentazione, cioè tutte le componenti che garantiscono l’adeguatezza della difesa tecnica.

Nella specie basti rilevare che il ricorrente non ha in effetti dimostrato una personale e adeguata capacità di argomentazione e riflessione limitandosi ad esporre principi di carattere generale e richiamando asetticamente il contenuto di pronunce giurisprudenziali senza alcun approfondimento, tanto più necessario, in considerazione delle modalità di svolgimento dell’esame (che consentiva l’uso di codici commentati con la giurisprudenza) e dell’assenza di particolari difficoltà interpretative e argomentative nella tematiche trattate.

In sintesi i compiti, in considerazione delle modalità di svolgimento dell’esame (che consentiva l’uso di codici commentati con la giurisprudenza) e dell’assenza di particolari difficoltà interpretative e argomentative nella tematica trattata, appaiono privi di approfondimenti degni di nota.

Tali considerazioni consentono quindi al Collegio di condividere il giudizio espresso dalla Commissione.

2.5. Infine quanto alla dedotta impossibilità di conoscere il voto dei singoli commissari “legittimamente la sottocommissione esaminatrice, in assenza di una norma o di un principio che disponga l'obbligo della esplicitazione dei vari momenti di formazione della volontà collegiale, si limita a verbalizzare, in sede di valutazione delle prove scritte, il solo voto complessivo risultante dalla somma dei singoli voti assegnati e non anche i voti attribuiti da ogni singolo commissario. Le disposizioni di cui all'art. 17-bis, R.D. n. 37 del 1934 danno, infatti, rilevanza, ai fini della valutazione di idoneità del candidato, al solo "punteggio complessivo" conseguito, non occorrendo riportare nel verbale il voto assegnato da ciascun membro della commissione d'esame” (C.d.S. Sez. IV, sent. n. 7116 del 05-12-2006).

Peraltro, non vengono in luce circostanze concrete dalle quali possa desumersi che il voto complessivo non costituisca la somma dei voti individuali o che tra un voto e un altro possa esserci un discostamento tale da far ravvisare un’intrinseca contraddittorietà nella valutazione complessivamente effettuata.

2.6. Infine è anche infondata la censura attinente all'insufficienza del tempo speso dalla Commissione nella lettura e valutazione degli elaborati, considerato che non è possibile escludere che gli scritti del ricorrente siano stati oggetto di puntuale e attenta disamina alla luce dei criteri di valutazione confezionati dalla stessa Commissione. Il tempo di correzione di un elaborato, infatti, non assurge a dignità di elemento sintomatico di valutazione superficiale da parte della Commissione esaminatrice poichè è ben possibile che uno scritto sia di piana e facile lettura, sicchè non rende necessario il protrarsi dell’attività valutativa.

3. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Sussistono nondimeno giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere, Estensore

Roberto Michele Palmieri, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/02/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

 Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti!  

QUESTO E' L'ESEMPIO DI COME IL TAR PUO' ADOTTARE GIUDIZI ANTITETICI

Accoglimento immediato per tutti, meno che per Antonio Giangrande. Ricorso presentato dall'avv. Mirko Giangrande, ma, di fatto, predisposto dal dr. Antonio Giangrande.

 

ACCOLTI

 

N. 00990/2010 REG.ORD.SOSP.

N. 01601/2010 REG.RIC. 

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1601 del 2010, proposto da:

Mariangela Gigante, rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Ciaurro, con domicilio eletto presso Francesco Flascassovitti in Lecce, via 95 Rgt.Fanteria 1;

contro

Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distr.le Lecce, domiciliata per legge in Lecce, via Rubichi;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

dei provvedimenti di non ammissione alla prova orale degli esami di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato per la sessione 2009, rilevabili dalla non inclusione nell'elenco degli ammessi depositato nella Segreteria della Sottocommissione degli esami detti presso la Corte di Appello di Lecce in data 16 giugno 2010 e successivamente pubblicato mediante affissione nella sede del Tribunale di Taranto; di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali ed, in particolare, del verbale della Sottocommissione degli esami detti presso la Corte di Appello di Salerno, riportante le operazioni di correzione degli elaborati della ricorrente e l'attribuzione del relativo punteggio; delle valutazioni, analitiche e numeriche, espresse in termini di insufficienza in calce a ciascuno dei tre elaborati di esame corrispondenti al numero d'ordine progressivo 593.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2010 il dott. Luigi Viola e uditi per le parti, l’Avv. Nicola Flascassovitti, in sostituzione di Ciaurro e l’Avv. dello Stato Invitto;

Considerato:

-che l’esame delle prove d’esame della ricorrente evidenzia un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico; anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico;

-che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzia un corretto approccio a problematiche complesse, come l’equilibrio delle prestazioni contrattuali (prima prova d’esame), la responsabilità ex art. 586 c.p. (seconda prova) o l’impossibilità sopravvenuta dell’obbligazione contrattuale (prova pratica);

-che, quindi, la motivazione apposta alla valutazione negativa (peraltro caratterizzata dal carattere chiaramente stereotipato e ripetitivo) e la complessiva valutazione degli elaborati d’esame da parte della Commissione appaiono essere caratterizzate da evidente irrazionalità e illogicità, rilevabili anche in sede giurisdizionale.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima Accoglie e per l'effetto:

a) sospende gli atti impugnati, come da motivazione;

b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 23 marzo 2011.

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2010 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Luigi Viola, Consigliere, Estensore

Carlo Dibello, Primo Referendario 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 16/12/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 01837/2011   REG. PROV. COLL.

N.  01312/2011       REG. RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1312 del 2011, proposto da: 

Marco Castelluzzo, rappresentato e difeso dall'avv. Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso Gianluigi Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;  

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato Lecce, Commissione Esami Avvocato Palermo, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Lecce, via Rubichi;  

per l'annullamento nei limiti dell'interesse del ricorrente, dei provvedimenti di giudizio analitici e sintetici con cui la Sottocommissione distrettuale per gli esami di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Palermo per la sessione 2010, ha annullato gli elaborati del ricorrente, determinando, di conseguenza, la sua inidoneità a sostenere le prove orali; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale, ed in particolare del verbale 24 marzo 2011 della Sottocommissione presso la Corte di Appello di Palermo, nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati del ricorrente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato Lecce e di Commissione Esami Avvocato Palermo;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2011 il dott. Luigi Viola e udite altresì l’Avv. Valeria Pellegrino in sostituzione di Gianluigi Pellegrino per il ricorrente e l’Avv. dello stato Libertini per le amministrazioni resistenti;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

Il ricorrente partecipava alla sessione 2010 degli esami di abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato, sostenendo le prove scritte prescritte dalla legge.

A seguito della mancata inclusione del proprio nominativo nell’elenco dei candidati ammessi a sostenere le prove orali, apprendeva di non essere stato ammesso alle prove orali, per effetto dell’annullamento del terzo elaborato d’esame (relativo all’atto giudiziario in materia penale), da parte della II Sottocommissione presso la Corte d’Appello di Palermo; in particolare, l’annullamento dell’atto giudiziario in materia penale (ritenuto sufficiente come, del resto, gli altri due elaborati) era motivato sulla base della rilevazione di <<reiterati e significativi elementi di identità con l’elaborato del candidato n. 404, successivamente esaminato>>.

I provvedimenti meglio specificati in epigrafe erano impugnati dal ricorrente per violazione art. 13, 4° comma d.p.r. 487 del 1994, violazione art. 23 r.d. n. 37/1934 per come modificato dal d.l. 112/2003, conv. in l. 180/2003, violazione art. 3 l. 241 del 1990, eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione e per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., nonché per manifesta irrazionalità ed illogicità.

Si costituivano in giudizio le Amministrazioni intimate e la Sezione disponeva l’acquisizione <<degli elaborati d’esame contrassegnati dal numero 404, che hanno portato all’annullamento della terza prova d’esame>> (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, ord. 30 settembre 2011 n. 1696).

La prima parte del ricorso è infondata e deve pertanto essere rigettata.

Contrariamente ad altre vicende già decise dalla Sezione (in particolare, quella decisa con la sentenza 21 ottobre 2010 n. 2147), deve, infatti, rilevarsi come l’elaborato relativo alla terza prova d’esame del ricorrente rechi alcuni segni grafici (forse non adeguatamente evidenziati, ma pur sempre presenti) che evidenziano efficacemente le parti dell’elaborato che dimostrano qualche concordanza con la terza prova d’esame del candidato contrassegnato con il numero n. 404; nella vicenda che ci occupa, deve pertanto ritenersi che sia stata adeguatamente rispettata la previsione dell’art. 23, ult. comma del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 che impone, secondo costante giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 17 febbraio 2004, n. 616 che si pone nel solco di una giurisprudenza assolutamente consolidata), l’individuazione, da parte delle Commissioni, delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio.

A ben guardare però le parti dell’elaborato che hanno portato all’annullamento della prova d’esame, più che alla fattispecie del plagio, sembrano riportabili all’esposizione di principi giurisprudenziali consolidati o dello stesso contenuto di previsioni normative fondamentali, come l’art. 56 c.p.

Deve pertanto trovare applicazione l’altro principio già affermato dalla Sezione (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 21 ottobre 2010 n. 2147) e relativo all’impossibilità di considerare come espressione di univoca corrispondenza con altri elaborati l’utilizzazione di formulazioni presenti in giurisprudenza (sempre possibile, in considerazione dell’utilizzazione di codici commentati) o la mera “copiatura” della formulazione delle norme; è, infatti, possibile presumere, come spesso avviene in procedure d’esame o concorsuali, che i passi “incriminati” possano trovare giustificazione nel ricorso a fonti (leggi, giurisprudenza) comuni o nelle <<ordinarie capacità mnemoniche>> (Consiglio Stato, sez. VI, 28 aprile 2010 n. 2440) dei candidati, che indubbiamente utilizzano testi di studio diffusi e comuni.

Del resto, in un’ottica sostanziale, l’elaborato del ricorrente e quello contrassegnato con il numero n. 404, al di là del necessario e inevitabile riferimento all’istituto del tentativo, sono caratterizzati dall’utilizzo di tentativi ricostruttivi talmente divergenti (nel caso del ricorrente, il riferimento alla possibile mancanza dell’elemento soggettivo e, nel caso dell’elaborato contrassegnato con il numero 404, all’accordo non punibile ex art. 115 c.p.) da portare a ritenere non credibile l’ipotesi del plagio che, si esaurirebbe, in buona sostanza, nella semplice parafrasi della formulazione e dell’elaborazione giurisprudenziale dell’art, 56 c.p.

Il ricorso deve pertanto essere accolto e deve essere disposto l’annullamento degli atti impugnati; sussistono ragioni per procedere alla compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, come da motivazione e, per l'effetto, dispone l’annullamento degli atti impugnati.

Compensa le spese di giudizio tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2011 con l'intervento dei magistrati:

 Antonio Cavallari, Presidente

Luigi Viola, Consigliere, Estensore

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/10/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 00753/2011 REG.PROV.CAU.

N.  01489/2011  REG.RIC.        

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REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1489 del 2011, proposto da: Francesca Cotrino, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio P. Nichil, con domicilio eletto presso Antonio P. Nichil in Lecce, viale Leopardi, 151;

contro

Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Lecce, Ministero della Giustizia, Commissione Esame Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliata per legge in Lecce, via F.Rubichi 23; 

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

dei provvedimenti con cui la Sottocommissione per gli Esami di Avvocato presso la Corte di Appello di Palermo per la sessione 2010 ha valutato insufficienti due dei tre elaborati della ricorrente e, in particolare, del provvedimento di non ammissione della ricorrente alle prove orali, provvedimenti pubblicati in data 28 giugno 2011; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso o comunque consequenziale, e in particolare del verbale della medesima sottocommissione del 23/3/2011 n. 14 nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati in questione.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Lecce e di Ministero della Giustizia e di Commissione Esame Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo;

Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2011 il dott. Carlo Dibello e uditi per le parti i difensori Nichil Antonio, Pedone Giovanni.;

Considerato che gli elaborati redatti dalla ricorrente sembrano soddisfare i parametri predeterminati dalla Commissione centrale in quanto garantiscono una trattazione essenziale ma sufficientemente esaustiva degli istituti dei quali i candidati sono stati chiamati a fare applicazione;

considerato che la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali costituiscono, se accompagnate – come nella specie- all’esaustività della trattazione un obiettivo da perseguire , come è stato sottolineato di recente dall’articolo 3, comma secondo, C.P.A

rilevato che gli stessi elaborati appaiono meritevoli di diversa valutazione;

ritenuto opportuno concedere la tutela cautelare attraverso l’ammissione della ricorrente con riserva alle prove orali dell’esame di abilitazione in argomento;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

Accoglie la suindicata domanda cautelare e per l'effetto:

a) ammette la ricorrente con riserva al sostenimento delle prove orali dell’esame di abilitazione ;

b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica dell’8 febbraio 2012 .

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2011 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Carlo Dibello, Primo Referendario, Estensore

Massimo Santini, Referendario 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 04/11/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N.  01915/2012 REG.PROV.COLL.

N.  01455/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1455 del 2012, proposto da: 

Sperti Antonio, rappresentato e difeso dall'avv. Tommaso Millefiori, con domicilio eletto presso lo studio in Lecce, via Mannarino n. 11/A; 

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi n. 23;

Commissione Esami di Avvocato – Sessione 2011 presso Ministero della Giustizia, n.c.;

per l'annullamento

nei limiti dell'interesse del ricorrente, dei giudizi analitici e sintetici sui suoi elaborati indicati nel verbale di adunanza del 20/04/2012 della II^ Sottocommissione per gli esami di Avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, sessione 2011, individuata per la correzione delle prove scritte degli elaborati provenienti dalla Corte di Appello di Lecce, nonché del consequenziale provvedimento di non ammissione del ricorrente alle prove orali degli esami di Avvocato, sessione 2011, e di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e/o consequenziale.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia, Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 il dott. Giuseppe Esposito e uditi per le parti l'avv. Tommaso Millefiori e l'avvocato dello Stato Giovanni Pedone;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

1.- Il dott. Sperti ha partecipato alla sessione di esami per l’iscrizione nell’Albo degli Avvocati presso la Corte di Appello di Lecce, sostenendo le prove scritte.

Pubblicati in data 18-20 giugno 2012 gli esiti della correzione degli elaborati, effettuata dalla II Sottocommissione istituita presso la Corte di Appello di Salerno, ed a seguito di accesso agli atti, il ricorrente ha appreso di aver riportato il giudizio complessivo di 84 nelle tre prove scritte, inferiore al minino richiesto di 90 e, quindi, senza essere ammesso alla prova orale.

In particolare, sono stati giudicati insufficienti due dei tre compiti svolti, essendo stato assegnato il punteggio di 26/50 al parere in diritto civile (con la motivazione: “Soluzione poco convincente e non adeguatamente motivata. Non pertinente il richiamo a Cass., 13 ottobre 2011, n. 21907”), ed il punteggio di 28/50 all’atto giudiziario in materia di diritto penale (con la motivazione: “Atto generico e del tutto insufficiente. Carente la motivazione”).

Avverso i giudizi riportati è stato proposto il presente ricorso, denunciando con un unico motivo la violazione degli artt. 3 e 12 della legge n. 241/90 e dell’art. 12 del D.P.R. n. 487/94, nonché l’eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e di diritto, difetto di istruttoria, travisamento del fatto, manifesta illogicità, contraddittorietà ed irrazionalità delle valutazioni rispetto ai criteri (generali ed astratti) predeterminati.

Si afferma che la motivazione dei giudizi è resa con formulazione stereotipata (che impedisce di comprendere i rilievi critici operati), senza apporvi correzioni o segni grafici, ed è sostanzialmente errata, considerando che gli elaborati redatti si mostrano corretti quanto alla forma espressiva e al lessico giuridico, con contenuti corrispondenti al compiti da svolgere; si contesta poi che i compiti siano stati esaminati, assieme a numerosi altri scritti, nella seduta in cui è stato impiegato un insufficiente tempo medio per ciascuno di essi (4,37 minuti).

L’Amministrazione si è costituita in giudizio ed ha chiesto che il ricorso sia dichiarato irricevibile, inammissibile e, gradatamente, rigettato, depositando documentazione in data 18/10/2012.

Il ricorrente ha prodotto note d’udienza alla Camera di Consiglio del 24 ottobre 2012, nella quale il ricorso è stato trattenuto per la decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 cpa.

2.- Il Tribunale intende premettere che l’operato delle commissioni di abilitazione o di concorso ha natura mista, contenendo un aspetto “provvedimentale”, con riguardo all’ammissione alla fase successiva, ed uno prettamente di “giudizio”, circa la preparazione del candidato (cfr., da ultimo, Cons. Stato – Sez. IV, 6 giugno 2011 n. 3402).

Essendo i due aspetti strettamente congiunti, il generale sindacato del Giudice Amministrativo sull’attività provvedimentale della P.A. (al fine di assicurare pienezza ed effettività della tutela, secondo il fondamentale canone ora codificato dall’art. 1 cpa) non può essere limitato e, quindi, coinvolge l’attività valutativa della Commissione, verificando la coerenza e logicità del risultato finale raggiunto, rispetto agli elementi che emergono dalla prova oggetto di valutazione e che il Giudice ben può apprezzare, pur con una certa prudenza nell’evitare che la propria valutazione si sovrapponga a quella operata dall’Amministrazione.

A tal fine, soccorre l’esame dei criteri che vengono predeterminati ed a cui deve attenersi la Commissione, i quali costituiscono la base per la verifica del Giudice sulla correttezza del suo operato.

Passando al caso di specie, si è detto innanzi che le valutazioni negative hanno riguardato l’elaborato consistente nel parere di diritto civile (che ha conseguito la votazione di 26/50, con la motivazione: “Soluzione poco convincente e non adeguatamente motivata. Non pertinente il richiamo a Cass., 13 ottobre 2011, n. 21907”), ed il compito riguardante un atto giudiziario in materia di diritto penale (che ha riportato il voto di 28/50, con la motivazione: “Atto generico e del tutto insufficiente. Carente la motivazione”).

Con riguardo al primo, il Collegio evidenzia che lo svolgimento del compito denota una buona conoscenza del tema ed una apprezzabile articolazione degli argomenti trattati, poiché:

- il tema è introdotto con efficace sintesi espressiva (“La questione proposta riguarda la vexata quaestio delle obbligazioni solidali e in particolare il principio di solidarietà passiva con riferimento alle obbligazioni condominiali”);

- fanno seguito, in buon ordine, l’esposizione del risalente orientamento di dottrina e giurisprudenza, l’intervento di Cass., SS.UU., 8 aprile 2008 n. 9148 (riassunto sinteticamente e senza errori), il riferimento alla opposta giurisprudenza di merito e alla ratio sottesa di tutela del creditore, l’indicazione degli articoli del codice civile e la spiegazione degli istituti dell’obbligazione solidale e indivisibile e del requisito della indivisibilità della prestazione;

- chiudono il tema il riferimento al caso concreto (prestazione chiesta dal fornitore del combustibile al Condominio) e la soluzione proposta al supposto cliente.

A questo punto, è necessario precisare che gli indirizzi forniti dalla Commissione Centrale richiedevano ai candidati “chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica (vedi la lett. b) dei criteri del 5/12/2011), oltre alla dimostrazione “della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza” e “di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza” (lettere c) e d) degli stessi criteri).

In relazione ad essi ed alla stregua di quanto osservato, deve reputarsi illegittimo il giudizio negativo assegnato, poiché il candidato palesa una sufficiente padronanza del tema e la buona articolazione degli argomenti (in forma priva di errori grammaticali e con lessico giuridico corretto).

Non assume, infatti, carattere decisivo che il richiamo alla sentenza della Cassazione del 13 ottobre 2011 n. 21907 non sia pertinente, atteso che tale richiamo è contenuto a pag. 2, tra parentesi e in un contesto in cui è citata anche la giurisprudenza di merito, per cui trattasi di errore lieve (incidente sul voto da assegnare), ma certamente non significativo nell’economia del discorso.

Anche l’ulteriore connotato negativo rinvenuto dalla Commissione, secondo cui la soluzione è poco convincente, non osta ad un giudizio favorevole, stante l’espressa previsione della possibilità, per il candidato, di trarre conclusioni difformi dall’indirizzo giurisprudenziale o dottrinario, purché motivate (v. il punto g) degli indirizzi diramati dal Ministero della Giustizia in data 5/12/2011).

Nella specie, il dott. Sperti ha consigliato all’ipotetico cliente di “mettersi al riparo da un’eventuale azione esecutiva” provvedendo al pagamento dell’intera fornitura e agendo in regresso verso gli altri condomini, prospettando una soluzione che può dirsi frutto di eccessivo timore ma che non è solo per ciò censurabile (e che appare, peraltro, plausibile con riguardo alle oscillazioni registrate in giurisprudenza).

Quanto all’atto giudiziario in materia penale (dichiarazione di appello avverso sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 314 c.p.), il candidato rappresenta bene e sinteticamente le proprie tesi, in forma corretta e con adeguato ordine espositivo, esordendo con l’illustrazione del convincimento del Giudice di prime cure, per poi passare a descrivere il delitto di peculato e gli orientamenti formatisi in dottrina e giurisprudenza, richiamando il carattere dell’offensività della condotta, per escludere infine la ricorrenza del reato nella specie (collegamento a siti non istituzionali, da parte di dipendente pubblico, avendo l’Ente un contratto di utenza onnicomprensivo di spese).

Appare dunque il sufficiente possesso delle nozioni giuridiche, unitamente (come richiesto dalla lettera h) degli indirizzi ministeriali citati) alla capacità di compiere una scelta difensiva e alla padronanza delle tecniche di persuasione.

In tal senso, le conclusioni rassegnate sono infatti chiare e coerenti: “Posta in questi termini la questione, è del tutto evidente che la condotta del pubblico dipendente Caio, non avendo arrecato alcun danno patrimoniale alla Pubblica Amministrazione, è priva dell’elemento offensivo e quindi, scevra di disvalore penale (in tal senso Cass. Penale Sezione VI 19 ottobre 2010, n. 41709)”.

Ne discende che il compito, sebbene sintetico, non può dirsi generico né, soprattutto, “del tutto insufficiente” (avendo peraltro conseguito il voto di sufficienza di tre commissari), e neppure carente quanto alla motivazione, che invece risulta rassegnata dal candidato.

Per le suesposte ragioni, sono illegittimi e vanno conseguentemente annullati i censurati giudizi degli elaborati del ricorrente, unitamente al provvedimento di non ammissione alle prove orali.

Sussistono tuttavia giusti motivi, considerata la natura della controversia, per compensare tra le parti le spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla i giudizi ed il provvedimento impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario, Estensore

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 02021/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01406/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1406 del 2012, proposto da: 

Cavaliere Fabrizio, rappresentato e difeso dall'avv. Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso lo studio in Lecce, via 95° Rgt. Fanteria 9;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi n. 23;

per l'annullamento

del provvedimento di non ammissione alla prova orale degli esami di abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato, sessione 2011, rilevabile dalla non inclusione dello stesso nell'elenco degli ammessi pubblicato in data 20/06/2012 sul sito della Corte di Appello di Lecce;

dei provvedimenti valutativi sintetico (78) ed analitico (in particolare 25 all'elaborato di diritto civile e 23 per la predisposizione dell'atto giudiziario), con i quali è stata ritenuta complessivamente insufficiente la prova d'esame scritto sostenuta dal ricorrente, con conseguente inidoneità a sostenere le prove orali;

di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed, in particolare, ove occorra, del verbale con il quale sono stati determinati i criteri generali di valutazione.

 Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia, della Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e della Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2012 il dott. Giuseppe Esposito e uditi per le parti l'avv. Ernesto Sticchi Damiani e l'avvocato dello Stato Simona Libertini;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: 

FATTO e DIRITTO

1.- Il dott. Cavaliere ha partecipato alla sessione di esami 2011 per l’iscrizione nell’Albo degli Avvocati presso la Corte di Appello di Lecce, sostenendo le prove scritte.

Pubblicati gli esiti della correzione degli elaborati, effettuata dalla IV Sottocommissione istituita presso la Corte di Appello di Salerno, ed a seguito di accesso agli atti, il ricorrente ha appreso di aver riportato il giudizio complessivo di 78 nelle tre prove scritte, inferiore al minino richiesto di 90 e, quindi, senza essere ammesso alla prova orale.

In particolare, sono stati giudicati insufficienti due dei tre compiti svolti, assegnando il punteggio di 25/50 al parere in diritto civile (con la motivazione: “Compito incoerente con la traccia assegnata e non sufficientemente motivate risultano, altresì, le conclusioni proprie”), ed il punteggio di 23/50 all’atto giudiziario in materia di diritto civile (con la motivazione: “Scarsa conoscenza degli istituti giuridici trattati e degli orientamenti della giurisprudenza. Insufficiente padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione”).

Avverso i giudizi riportati è stato proposto il presente ricorso, deducendo:

I- violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90 ed eccesso di potere per difetto di motivazione;

II- eccesso di potere per perplessità, incongruenza, grave contraddittorietà, illogicità ed ingiustizia manifesta.

Si afferma che i provvedimenti impugnati sono insufficientemente motivati, poiché da essi non si evince alcun elemento da cui possa desumersi l’iter logico-valutativo seguito dalla Commissione, che non vi ha apposto correzioni o glosse a margine ed ha fatto ricorso a generiche clausole di stile, senza riferirsi dettagliatamente ai criteri di massima adottati a livello ministeriale.

In relazione ad essi, le censurate valutazioni si mostrano illogiche, atteso che la Commissione ha riconosciuto al candidato, nella seconda prova, il possesso delle capacità richieste, che non subiscono oscillazioni per l’uno o l’altro elaborato e che sono state manifestate dal ricorrente anche nella redazione degli altri compiti, che denotano chiarezza espositiva, buon lessico giuridico e rigore metodologico, tanto da essere meritevoli di un giudizio di sufficienza, come riscontrato nell’allegato parere pro veritate.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio ed ha chiesto che il ricorso sia dichiarato irricevibile, inammissibile e, gradatamente, rigettato, depositando documentazione in data 19/10/2012.

Alla Camera di Consiglio del 21 novembre 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 cpa.

2.- Il Tribunale intende premettere che l’operato delle commissioni di abilitazione o di concorso ha natura mista, contenendo un aspetto “provvedimentale”, con riguardo all’ammissione alla fase successiva, ed uno prettamente di “giudizio”, circa la preparazione del candidato (cfr., da ultimo, Cons. Stato – Sez. IV, 6 giugno 2011 n. 3402).

Essendo i due aspetti strettamente congiunti, il generale sindacato del Giudice Amministrativo sull’attività provvedimentale della P.A. (al fine di assicurare pienezza ed effettività della tutela, secondo il fondamentale canone ora codificato dall’art. 1 cpa) non può essere limitato e, quindi, coinvolge l’attività valutativa della Commissione, verificando la coerenza e logicità del risultato finale raggiunto, rispetto agli elementi che emergono dalla prova oggetto di valutazione e che il Giudice ben può apprezzare, pur con una certa prudenza nell’evitare che la propria valutazione si sovrapponga a quella operata dall’Amministrazione.

A tal fine, soccorre l’esame dei criteri che vengono predeterminati ed a cui deve attenersi la Commissione, i quali costituiscono la base per la verifica del Giudice sulla correttezza del suo operato.

Nella specie, la Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia ha predisposto in data 5/12/2011 i criteri per la valutazione degli elaborati scritti (che, come espressamente stabilito, sono stati recepiti dalle Commissioni istituite nei Distretti di Corte d’Appello), i quali tra l’altro richiedevano che i compiti rispondessero ai seguenti parametri:

“b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica”;

“c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza”;

“d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza …”;

“f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento”;

“g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario”;

“h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l’atto giudiziario”.

3.- Come detto innanzi, le valutazioni negative dei compiti del ricorrente hanno riguardato il parere di diritto civile, al quale è stato assegnato il punteggio di 25/50 (con la motivazione: “Compito incoerente con la traccia assegnata e non sufficientemente motivate risultano, altresì, le conclusioni proprie”), ed il compito consistente nella redazione di un atto giudiziario, che ha riportato il punteggio di 23/50 (con la motivazione: “Scarsa conoscenza degli istituti giuridici trattati e degli orientamenti della giurisprudenza. Insufficiente padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione”).

3.1- Con riguardo al primo, la Commissione ha evidentemente riscontrato il deficit dell’elaborato, con riguardo ai punti f) e g), sopra riportati (“coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata”; “capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte”).

Il compito riguardava la formulazione del parere, quale legale del condomino Caio, in ordine alla pretesa della Ditta Gamma di rivalersi interamente su di esso per la fornitura del combustibile utilizzato nell’impianto di riscaldamento centralizzato.

Ad avviso del Collegio, sotto entrambi gli aspetti rilevati deve reputarsi illegittimo il giudizio negativo poiché, per un verso, il candidato si è attenuto alla traccia assegnata e, per altro verso, ha rassegnato le proprie conclusioni in maniera sufficientemente argomentata.

Per il primo aspetto (coerenza con la traccia), il compito è connotato da una successione corretta degli argomenti esposti, senza discostarsi dall’esigenza di dare risposta al quesito sottoposto.

Difatti, l’elaborato esordisce con l’illustrazione del precetto dell’art. 1123 c.c., concernente la ripartizione delle spese condominiali, richiamando poi i termini della questione e ponendosi il “problema di accertare se l’obbligazione vantata dalla ditta Gamma nei confronti del condominio sia solidale o parziaria”; dopo di ciò, sono stati indicati gli orientamenti contrastanti della giurisprudenza ed è stato affrontato il tema dell’obbligazione divisibile ed indivisibile, connettendolo alla norma dell’art. 1294 c.c. sulla solidarietà tra condebitori.

Ciascuno degli elementi individuati dal candidato è organico allo sviluppo della traccia e, pertanto, il tema nel suo complesso non può dirsi incoerente con essa.

Per l’altro aspetto (argomentazione delle conclusioni), il candidato ha sostenuto il principio della parziarietà, in base alla pronuncia delle Sezioni Unite dell’8 aprile 2008 n. 9148 secondo cui, in tema di condominio degli edifici, è retta dal criterio della parziarietà l’obbligazione che ha per oggetto una somma di denaro dovuta a terzi, essendo essa divisibile e mancando un’espressa previsione di legge nel senso della solidarietà.

Anche se il compito si chiude con la riproposizione pedissequa della tesi esposta dalla Cassazione, ciò non di meno il candidato dimostra di aver argomentato in proprio sulla validità della conclusione resa, poiché è innestato, tra la citazione della sentenza e le conclusioni, un passo da cui, con efficace sintesi, è ripercorso il ragionamento svolto per pervenire al parere da rendere (fondato, in successione, sui seguenti passaggi: l’obbligazione di una somma di denaro è divisibile; manca una disciplina normativa che stabilisca la solidarietà passiva tra condomini; per aversi quest’ultima non basta la pluralità di debitori, ma occorrono l’identità della causa dell’obbligazione e l’indivisibilità della prestazione comune; se quest’ultimo requisito difetta, prevale la parziarietà della prestazione).

Anche sotto questo aspetto è pertanto erronea la valutazione della Commissione.

3.2- Passando al giudizio negativo sul compito consistente nella redazione dell’atto giudiziario, si deve evidenziare in tal caso che la Commissione ha ritenuto insufficiente l’elaborato, basandosi sui suesposti criteri di cui alle lettere c) (“dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza”) e h) (“dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione”).

Al compito, infatti, è stato assegnato il punteggio di 23/50, con la motivazione: “Scarsa conoscenza degli istituti giuridici trattati e degli orientamenti della giurisprudenza. Insufficiente padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione”.

Il Collegio ritiene che nel compito non sono riscontrabili le deficienze ravvisate.

Con esso è stata richiesta la redazione di un opportuno atto giudiziario nell’interesse della Ditta edile Gamma, convenuta in giudizio da Tizia e Sempronio i quali, dopo aver versato € 140.000 per l’acquisto di un immobile, hanno richiesto la ripetizione della differenza eccedente l’importo di € 95.000 indicato nell’atto.

Nella traccia vien fatto considerare che la Ditta adduce la simulazione dei contratti successivi, rispetto ad un precedente preliminare di compravendita che recava il prezzo effettivo, adducendo di poter fornire prova testimoniale di tale simulazione.

Ciò posto, al candidato era quindi richiesto di illustrare gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie.

Il ricorrente ha proceduto redigendo una comparsa di costituzione e risposta con la quale, già nell’incipit, la tesi difensiva è rappresentata con chiarezza, mediante l’enunciazione dei tre passaggi su cui essa si fonda, esposti nel paragrafo “In punto di fatto”: a) il preliminare a cui gli attori fanno riferimento è preceduto da un altro contratto, recante il prezzo riscosso; b) nella situazione di causa rileva che i successivi contratti erano simulati; c) di ciò è possibile dare dimostrazione con l’escussione di testimoni “in grado di far emergere la divergenza della volontà delle odierne parti in causa”.

Così impostata la strategia difensiva, era logico attendersi che il candidato – come infatti avvenuto – si ponesse sopra ogni altra cosa il problema dell’ammissibilità della prova testimoniale, riguardo alla quale egli esordisce convincentemente con il riferimento all’art. 2724 c.c. (per il quale, tra l’altro, la prova testimoniale è ammessa quando il principio di prova è costituito da uno scritto proveniente dalla persona contro cui la domanda è diretta, che faccia apparire verosimile il fatto), correlandolo col contrapposto limite dell’art. 2722 c.c. (che non ammette la prova per testimoni su patti aggiunti o contrari al documento e stipulati prima o in contemporanea).

A tal riguardo, giova porre in rilievo che la dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, di cui al punto c) dei criteri, può ritenersi comunque assolta allorquando dallo sviluppo dell’elaborato sia evincibile la padronanza della tematica trattata, ancorché il candidato non abbia proceduto secondo l’usuale schema, descrivendo l’istituto e commentandolo.

In effetti, il dott. Cavaliere ha avuto di mira l’obiettivo di far respingere la domanda, per cui la sua trattazione si incentra sull’esigenza di provare il fatto addotto (com’è, del resto, connaturato ad un atto giudiziario), ma al tempo stesso non può dirsi che egli ignori i connotati degli istituti che vengono in rilievo e, principalmente, della simulazione del contratto, come può evincersi dai riferimenti di volta in volta elaborati (ad esempio, indicando che la pattuizione che cela una parte della somma, in quanto priva di autonomia, può essere assimilata alla simulazione negoziale: cfr. pag. 3 dell’elaborato).

Ne discende che non può essere condivisa la valutazione della Commissione, secondo cui il compito svolto denota scarsa conoscenza degli istituti giuridici trattati, la quale traspare invece tenendo conto dell’impostazione adottata, incentrata sulla prova della simulazione; nello stesso senso, gli orientamenti della giurisprudenza sono adeguatamente posti in rilievo, con i riferimenti alla “soluzione restrittiva” della Cassazione del 2007 (a cui è dedicato un appropriato commento) ed alla successiva sentenza delle Sezioni Unite del 2011 (benché, al proposito, appaia poco accurato, ma comunque di non decisivo rilievo, l’appellativo – “gli ermellini” – riservato al Giudice di legittimità).

In ordine alla padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione, il candidato mostra di possedere in buon grado la capacità di convincimento, laddove induce l’organo giudicante a sussumere la fattispecie nell’ambito dell’art. 2724, n. 1), c.c. (che ammette la prova testimoniale in base al principio di prova, come sopra detto), escludendo di converso la limitazione allo stesso mezzo processuale, di cui all’art. 2722 c.c.

Conseguentemente, anche la valutazione negativa dell’elaborato consistente nella redazione dell’atto giudiziario deve ritenersi erronea.

Per le suesposte ragioni, sono dunque illegittimi e vanno conseguentemente annullati i censurati giudizi degli elaborati del ricorrente, unitamente al provvedimento di non ammissione alle prove orali.

Sussistono tuttavia giusti motivi, considerata la natura della controversia involgente un’attività valutativa, per compensare tra le parti le spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla i giudizi ed il provvedimento impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario, Estensore

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14/12/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 02020/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01645/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1645 del 2012, proposto da: 

Ratti Patrizia, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Pomarico, con domicilio presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi n. 23;

per l'annullamento

del provvedimento analitico e sintetico, di cui al Verbale della Adunanza del 25 maggio 2012, con cui la II Sotto-Commissione per gli esami di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Salerno per la sessione 2011, competente per l'esame degli elaborati degli iscritti presso la Corte di Appello di Lecce, valutando insufficiente l'elaborato di diritto penale redatto dalla ricorrente, ha determinato di conseguenza la sua non idoneità a sostenere le prove orali, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia, della Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Lecce e della Commissione Esami di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte d’Appello di Salerno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2012 il dott. Giuseppe Esposito e uditi per le parti l'avv. Luca Pedone, in sostituzione dell'avv. Giovanni Pomarico, e l'avvocato dello Stato Simona Libertini;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: 

FATTO e DIRITTO

1.- La dott.ssa Ratti ha partecipato alla sessione di esami 2011 per l’abilitazione all’esercizio della professione forense presso la Corte di Appello di Lecce, sostenendo le prove scritte (la cui correzione è stata effettuata dalla II Sottocommissione istituita presso la Corte di Appello di Salerno).

Non essendo il suo nominativo incluso tra gli ammessi a sostenere la prova orale, ed seguito di accesso agli atti, la ricorrente ha appreso di aver riportato il giudizio complessivo di 85 nelle tre prove scritte, inferiore al minino richiesto di 90.

In particolare, è stato giudicato insufficiente il compito consistente nella redazione di un parere in materia penale, al quale è stato assegnato il punteggio di 25/50 (con la motivazione: “Forma non scorrevole; assenza di motivazione; errori grammaticali”), mentre ha conseguito la sufficienza (30/50) nelle altre due prove (parere in materia di diritto civile e redazione di un atto giudiziario).

Avverso il giudizio riportato è stato proposto il presente ricorso, deducendo:

- violazione degli artt. 21 e 22 R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 e degli artt. 17-bis e 34 R.D. 22 gennaio 1934, n. 37; contraddittorietà: dagli elaborati non è possibile evincere la valutazione espressa da ogni componente (ad eccezione del compito giudicato insufficiente), non consentendo al candidato di rendersi conto della qualità del proprio scritto;

- violazione del giusto procedimento, in particolare degli artt. 7 e 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 12 del D.P.R. n. 487/94; violazione dell’art. 97 Cost.; eccesso di potere per illogicità manifesta: su due degli elaborati è riportato esclusivamente il voto numerico, non sono apposti segni grafici o note a margine da cui si evincano gli aspetti della prova valutati negativamente, né vi è collegamento ai criteri di giudizio predeterminati;

- violazione del giusto procedimento ed eccesso di potere per illogicità manifesta: il voto espresso non è corroborato da motivazione e non è attinente alla realtà degli elaborati, avendo la ricorrente utilizzato un pregevole ordine sistematico nell’esporre le tematiche, individuato le disposizioni normative applicabili, mostrato maturità nel rappresentare le strade percorribili ed adottato una soluzione corretta.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio con atto del 7/11/2012 ed ha chiesto che il ricorso sia dichiarato irricevibile, inammissibile e, gradatamente, rigettato, depositando documentazione in data 16/11/2012.

Alla Camera di Consiglio del 22 novembre 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 cpa.

2.- Occorre evidenziare che, dal tenore dell’impugnativa, appare che la ricorrente intende sottoporre al sindacato giurisdizionale la valutazione di tutte le prove sostenute, anche di quelle che hanno riportato un giudizio di sufficienza.

Sennonché, in relazione a queste ultime difetta il suo interesse alla decisione, non avendo la stessa minimamente dimostrato quale utilità conseguirebbe da una diversa e migliore valutazione, mentre è evidente che la dott.ssa Ratti vanta la pretesa ad essere ammessa a sostenere la prova orale.

Essendo tale pretesa preclusa dal solo voto negativo riportato nello scritto di diritto penale, l’esame devoluto al Tribunale va ad esso circoscritto.

Tanto evidenziato, il Tribunale intende premettere che l’operato delle commissioni di abilitazione o di concorso ha natura mista, contenendo un aspetto “provvedimentale”, con riguardo all’ammissione alla fase successiva, ed uno prettamente di “giudizio”, circa la preparazione del candidato (cfr., da ultimo, Cons. Stato – Sez. IV, 6 giugno 2011 n. 3402).

Essendo i due aspetti strettamente congiunti, il generale sindacato del Giudice Amministrativo sull’attività provvedimentale della P.A. (al fine di assicurare pienezza ed effettività della tutela, secondo il fondamentale canone ora codificato dall’art. 1 cpa) non può essere limitato e, quindi, coinvolge l’attività valutativa della Commissione, verificando la coerenza e logicità del risultato finale raggiunto, rispetto agli elementi che emergono dalla prova oggetto di valutazione e che il Giudice ben può apprezzare, pur con una certa prudenza nell’evitare che la propria valutazione si sovrapponga a quella operata dall’Amministrazione.

A tal fine, soccorre l’esame dei criteri che vengono predeterminati ed a cui deve attenersi la Commissione, i quali costituiscono la base per la verifica del Giudice sulla correttezza del suo operato.

Nella specie, la Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia ha predisposto in data 5/12/2011 i criteri per la valutazione degli elaborati scritti (che, come espressamente stabilito, sono stati recepiti dalle Commissioni istituite nei Distretti di Corte d’Appello), i quali tra l’altro – per quanto direttamente interessa in questa sede – richiedevano che i compiti rispondessero ai seguenti parametri:

“a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico”;

“b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica”;

“g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario”.

Come detto innanzi, la valutazione negativa dei compiti della ricorrente ha riguardato il parere di diritto penale, al quale è stato assegnato il punteggio di 25/50, con la motivazione: “Forma non scorrevole; assenza di motivazione; errori grammaticali”.

Al Collegio è noto che la traccia assegnata richiedeva di esprimere parere in veste di legale di Caio, che – dopo aver consegnato a Tizio della merce in conto vendita (per esporla nel negozio di questi e venderla al prezzo determinato entro 4 mesi, oppure restituirla) – non riceveva notizia del fatto che la merce era rimasta invenduta, ma apprendeva detta circostanza a distanza di tempo dalla segretaria di Tizio, risolvendosi allora a tutelare le proprie ragioni in sede penale; in particolare, era richiesto al candidato di analizzare “la fattispecie configurabile nel caso di specie, soffermandosi in particolare sulle problematiche correlate alla procedibilità dell’azione penale”.

Ciò posto, da quanto riportato risulta che la Commissione ha ravvisato nell’elaborato deficienze di carattere esteriore (relative alla forma e alla presenza di errori) e contenutistiche (mancando un’appropriata spiegazione al tema trattato).

Nessuno di questi aspetti negativi è rinvenibile nell’elaborato.

Per ciò che concerne la forma (ritenuta “non scorrevole” dalla Commissione) la stessa si dimostra sostanzialmente corretta ed è tutto sommato agevole la lettura del compito, in quanto:

- la ricorrente ha sviluppato l’argomento esponendo in buon ordine la successione dei passaggi (riferimento alla normativa applicabile; citazione e commento delle norme, descrizione dell’elemento materiale del reato e dell’elemento soggettivo; procedibilità dell’azione penale; conclusione);

- nei paragrafi più lunghi la punteggiatura separa i periodi, che ove necessario sono introdotti dall’avverbio “inoltre”.

Quanto agli errori grammaticali, gli stessi non appaiono commessi: a tal proposito, è opportuno chiarire che manca qualsivoglia tratto di penna che li metta in evidenza, come sarebbe stato necessario in quanto, seppure l’annotazione di segni grafici non è necessaria per la valutazione del compito (potendo le singole parti essere esaminate in connessione tra loro e con riguardo all’intero sviluppo del tema), lo stesso non può dirsi allorché si riscontrino errori grammaticali che, come d’abitudine, sono segnalati almeno con la sottolineatura.

In ordine all’assenza di motivazione, non può dirsi che la ricorrente non abbia argomentato il proprio parere, come si evince dalla (seppur sintetica) esposizione conclusiva, avendo in essa qualificato il rapporto tra le parti come di prestazione d’opera, considerato che, se v’è l’elemento fiduciario, ricorre l’aggravante ex art. 61, n. 11, c.p. (abuso di relazione di prestazione d’opera) ed, infine, espresso l’avviso che il reato è perseguibile d’ufficio (mentre deve ascriversi a scrupolo difensivo, nell’interesse del cliente, la precisazione della possibilità di procedere a querela di parte, “non essendo trascorsi più di tre mesi dalla conoscenza del fatto costitutivo di reato”).

Per le suesposte ragioni, è dunque illegittimo e va conseguentemente annullato il giudizio negativo (25/50) assegnato all’elaborato della ricorrente, unitamente al provvedimento di non ammissione alle prove orali che ne è conseguito.

Sussistono tuttavia giusti motivi, considerata la natura della controversia involgente un’attività valutativa, per compensare tra le parti le spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il giudizio ed il provvedimento impugnati, come chiarito in motivazione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario, Estensore

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14/12/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.) 

 

Per la Verità ci sono anche dei ricorsi rigettati, ma lo sono solo perchè non si poteva fare altrimenti.

 

RIGETTATI

 

N. 00179/2013 REG.PROV.COLL.

N. 01561/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1561 del 2012, proposto da: 

Eva Astore, rappresentata e difesa dall'avv. Alfredo Matranga, con domicilio eletto presso Vincenzo Matranga in Lecce, via Monti, 40;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato Corte Appello Lecce, Commissione Esami Avvocato Corte Appello Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, Via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

dei provvedimenti di giudizio con cui la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, per la sessione 2011, ha valutato insufficienti due dei tre elaborati della ricorrente, determinando, di conseguenza, la sua inidoneità a sostenere le prove orali; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale, ed in particolare del verbale 16/5/2012 della II Sottocommissione presso la Corte di Appello di Salerno, nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati della ricorrente. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato Corte Appello Lecce e di Commissione Esami Avvocato Corte Appello Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2012 il dott. Roberto Michele Palmieri e uditi per le parti i difensori Marinosci Maria Grazia, in sostituzione di Matranga Alfredo, Pedone Giovanni;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 

FATTO e DIRITTO

1. È impugnato il provvedimento in epigrafe, con il quale la 2° Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno ha disposto la non ammissione della ricorrente alla prova orale dell’esame per il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, sessione 2011, per avere riportato il complessivo punteggio di 83 (e segnatamente: 30 nel parere di diritto civile; 25 nel parere di diritto penale; 28 nell’atto giudiziario in materia penale), inferiore alla soglia minima, pari a 90, richiesta per superare la prova scritta.

All’udienza del 7.11.2012, fissata per la decisione sulla domanda cautelare, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, ha definito il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.

2. Con il primo motivo di ricorso, variamente articolato, deduce la ricorrente il difetto di motivazione dell’amministrazione, per avere quest’ultima espresso, in relazione alla seconda e terza prova (rispettivamente: parere di diritto penale; atto giudiziario in materia penale), giudizi di inidoneità del tutto sganciati dalla obiettiva realtà degli elaborati.

Il motivo è infondato.

2.1. E’ ben noto, da un punto di vista generale, il risalente e pacifico orientamento del Consiglio di Stato, secondo il quale: “negli esami di abilitazione alla professione di avvocato il punteggio assegnato alla prove sostenute è pacificamente sufficiente ad esprimere in forma sintetica il giudizio tecnico discrezionale demandato alla Commissione esaminatrice, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti” (C.d.S, IV, 24.4.2012, n. 1609. In termini confermativi, cfr. altresì, ex plurimis, C.d.S, IV, 18 febbraio 2010 n. 953; Id, 17 febbraio 2009 n. 855; Id, 10 gennaio 2012 n. 63; Id, 5 marzo 2008 n. 924; Id, 3 marzo 2009 n. 1223; Id, 4 maggio 2010 n. 2543).

Ed è appena il caso di osservare che tale orientamento è passato indenne dalle varie censure di incostituzionalità sollevate al riguardo. Invero, la Corte costituzionale, con sentenza 8 giugno 2011, n. 175, ha definitivamente chiarito, in parte motiva, che il punteggio numerico (peraltro diffusamente adottato nelle procedure concorsuali ed abilitative) rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza della prova espletata e, nell'ambito di tale giudizio, rende palese l'apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito all'elaborato oggetto di esame.

Pertanto, non è sostenibile che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione. Esso, in realtà, si traduce in un giudizio complessivo dell'elaborato, alla luce dei parametri dettati dall'art. 22, nono comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa. Il tutto senza trascurare che il criterio in questione risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97, primo comma, Cost.), che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, avuto riguardo sia ai tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia al numero dei partecipanti alle prove.

2.2. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, rileva il Collegio che la II Sottocommissione non si è limitata – come pure avrebbe potuto – ad esprimere una valutazione in termini esclusivamente alfanumerici, ma l’ha corredata di giudizi espressi in forma sintetica. Precisamente, il giudizio espresso in relazione alla prova di diritto penale è il seguente: “Contenuto involuto con interpretazioni giuridiche errate”, mentre quello apposto in calce alla prova “pratica” (la redazione dell’atto giudiziario) è: “Tema eccessivamente sintetico e povero di contenuti”.

Orbene, avendo la Commissione ritenuto di aggiungere al voto di esame (già di per sé idoneo a ritenere assolto l’onere motivazionale) un giudizio – sia pur sintetico – in ordine alla prova svolta dal candidato, occorre che detto giudizio da un lato sia coerente con l’indicato voto numerico, e sotto altro profilo possa dirsi scevro da errori e/o travisamento dei fatti.

E nel caso di specie, non si rinviene nei due suddetti giudizi di inidoneità alcuno di quei profili di illogicità, contraddittorietà, travisamento dei fatti, che consentono di ritenere viziate le valutazioni finali espresse dalla II Sottocommissione. Invero, con riferimento alla seconda prova (parere di diritto penale), emergono ictu oculi dall’elaborato sia una certa sconnessione ed elementarità dei vari concetti giuridici espressi dalla ricorrente, e sia, per quel che attiene al merito, alcuni non trascurabili errori giuridici.

2.2.1. In particolare, per quel che attiene al primo aspetto (esposizione dei concetti giuridici), è evidente anzitutto, nel periodo iniziale, una certa sconnessione sintattica, espressa dal participio “inteso” (terzo rigo, seguito da “… in termini di rappresentazione dell’evento”) che non concorda in alcun modo con la prima parte della proposizione.

Inoltre, sempre nella prima pagina, e segnatamente nella seconda e terza alinea dell’elaborato, la ricorrente esprime concetti giuridici relativi, rispettivamente, al tentativo (art. 56 c.p.), nonché all’abuso di ufficio (art. 323 c.p.), in termini assolutamente elementari, tali da escludere che la stessa abbia maturato una sicura comprensione degli stessi.

Per tali ragioni, del tutto coerente con le obiettive risultanze fattuali è la valutazione in termini di “contenuto involuto”, espressa dalla II Sottocommissione. Ne discende che l’operato di quest’ultima si sottrae, sotto questo aspetto, alle censure lamentate dalla ricorrente.

2.2.2. Venendo ora alla seconda parte del giudizio, espresso dalla II Sottocommissione con la formula: “interpretazioni giuridiche errate”, rileva il Collegio che la ricorrente commette un errore a pag. 3 dell’elaborato, attribuendo al concetto di “univocità”, rilevante ai fini della configurabilità del tentativo (art. 56 c.p.), il significato che è invece proprio dell’” idoneità”, e viceversa. Ciò denota evidentemente la non esatta comprensione di concetti fondamentali dell’istituto del tentativo, sicché per tali ragioni il giudizio di erroneità di interpretazione giuridica formulato dalla II Sottocommissione deve ritenersi corretto.

2.2.4. Pertanto, in relazione alla 2° prova (parere di diritto penale), vanno senz’altro disattese le censure formulate da parte della ricorrente.

2.2.5. Alla stessa stregua, in relazione alla 3° prova (atto giudiziario in materia penale), sebbene non vi siano errori giuridici, è evidente dalla mera lettura dell’elaborato una certa povertà di contenuti dello stesso. Invero, la ricorrente descrive la fattispecie di peculato (art. 314 c.p.) - che costituisce la ratio essendi della prova di esame – in termini del tutto elementari, denotando in tal modo insufficiente conoscenza dell’istituto. A ben vedere, ella si limita a tratteggiare l’istituto alla luce dei dati provenienti dalla traccia, evitando di aggiungervi un qualche apporto personale degno di rilievo.

Per tali ragioni, del tutto coerente con tali premesse, e con il relativo voto alfanumerico, deve ritenersi il giudizio sintetico finale espresso dalla II Sottocommissione. La quale, è appena il caso di aggiungere, non aveva l’onere di indicare con glosse, segni grafici, etc, i passi dei due elaborati da cui evincersi gli elementi presi in rilievo ai fini del giudizio sintetico, trattandosi di elementi così palesi, ed emergenti in maniera così puntuale e precisa dai relativi elaborati, da non richiedere ulteriori e più approfondite specificazioni.

2.2.6. Alla luce di tali considerazioni, il primo motivo di ricorso è infondato, e va pertanto rigettato.

3. Va infine rigettato il secondo motivo di gravame, con cui la ricorrente si duole della sottoscrizione del verbale ad opera dei soli Presidente e Segretario, nonché della mancata indicazione dell’orario di inizio e termine delle operazioni di correzione.

3.1. Invero, quanto alla prima censura, è sufficiente osservare che, ai sensi dell'art. 24, comma 1, R.D. n. 37 del 1934, "il voto deliberato deve essere annotato immediatamente dal segretario, in tutte lettere, in calce al lavoro. L'annotazione è sottoscritta dal presidente e dal segretario".

All’evidenza, a garantire la collegialità e contestualità di valutazione dei candidati è sufficiente la sottoscrizione del verbale ad opera del Presidente e del Segretario, e non anche di tutti gli altri membri della commissione. Sicché è evidente, sotto questo aspetto, l’inconferenza dei rilievi di parte ricorrente, pretendendo ella, inammissibilmente, un tipo di verbalizzazione delle operazioni di correzione dei suoi elaborati, diversa da quella prevista dalla legge.

3.2. Similmente, nessuna conseguenza giuridica è collegata alla mancata indicazione, da parte della commissione d’esame, degli orari di inizio e termine delle operazioni di correzione, trattandosi di adempimenti non imposti dalla normativa vigente in tema di esami da avvocato.

4. Conclusivamente, il ricorso è infondato.

Ne consegue il suo rigetto.

5. Ricorrono giusti motivi, rappresentati dalla natura del giudizio e dalla qualità delle parti, per la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima,

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere

Roberto Michele Palmieri, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 25/01/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 02037/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01647/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1647 del 2012, proposto da: 

Feliciano Braccio, rappresentato e difeso dall'avv. Carlo Panzuti, con domicilio eletto presso Antonio P. Nichil in Lecce, viale Leopardi, 151;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Lecce, Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Salerno, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

del provvedimento, di data e numero ignoti, di non ammissione del ricorrente alla prova orale degli esami di abilitazione alla professione di avvocato presso la Corte di Appello di Lecce - sessione 2011, rilevabile dalla non inclusione nell'elenco degli ammessi pubblicato presso la Corte di Appello di Lecce;

del provvedimento, di data e numero ignoti, di approvazione dell'elenco degli ammessi pubblicato presso la Corte di Appello di Lecce;

dei provvedimenti di giudizio (valutazioni) sintetico (85) ed analitico (in particolare, 30 al parere di diritto civile, 25 al parere di diritto penale e 30 all'atto giudiziario in materia di diritto civile) espressi nel verbale senza numero del 29/5/2012 dalla II Sottocommissione d'esame istituita presso la Corte di Appello di Salerno, con cui è stata ritenuta complessivamente insufficiente la prova d'esame scritta sostenuta dal ricorrente, con conseguente inidoneità a sostenere le prove orali e dello stesso verbale del 29/5/2012;

di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale ed, ove occorra, del verbale n. 2 del 5/12/2011 della Commissione per l'esame di avvocato - sessione 2011 presso il Ministero della Giustizia con il quale sono stati approvati i criteri di valutazione; del verbale senza numero del 13/1/2012 della Commissione per l'esame di avvocato - sessione 2011 presso la Corte di Appello di Salerno. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Lecce e di Commissione Esami Avvocato c/o Corte Appello di Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2012 il dott. Claudia Lattanzi e uditi l’avv. Carlo Panzuti, per il ricorrente, e l’avv. Simona Libertini, per l’Avvocatura dello Stato;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

Il ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento di giudizio con cui la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, per la sessione 2011, ha valutato insufficiente uno dei tre elaborati, con la conseguente determinazione di inidoneità a sostenere le prove orali.

Il ricorso è infondato.

È da ricordare anzitutto che la Corte costituzionale, con la sentenza 8 giugno 2011, n. 175, ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 17 bis, comma 2, 23, comma 5, 24, comma 1 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, come novellato dal d.l. n. 112 del 2003, nella parte in cui essi, secondo il diritto vivente, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense possano essere motivati con l'attribuzione di un mero punteggio numerico. La Corte ha precisato che “la graduazione del punteggio numerico, infatti, da un lato, consente alla commissione esaminatrice di esprimere, sia pure in modo sintetico, un giudizio complessivo dell'elaborato; dall'altro, risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa, che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità”.

La giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito la non necessità, per la legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, della apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsiasi tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi; la sufficienza, ai fini della motivazione ed esternazione delle valutazioni compiute dalla sottocommissione esaminatrice degli esami di avvocato sulle prove d'esame, del voto numerico, attribuito in base ai criteri da essa (o comunque dalla competente Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia) predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti; la inammissibilità della pretesa di ricavare dalla diversa e migliore opinione, espressa sulla "qualità" dei singoli elaborati redatti dall'originario ricorrente ad opera di autorevoli esperti di diritto, l'erroneità del giudizio sugli stessi formulato dalla Commissione, trattandosi di tesi che, lungi dall'evidenziare macroscopiche incongruenze di questo giudizio (tali cioè dal far presumere un esercizio non corretto del potere con esso esercitato), mira a sostituire la valutazione dell'originario ricorrente (pur corroborata da quella di "esperti") a quella effettuata dall'Amministrazione: laddove, invece, com'è noto, i giudizi espressi dalle Commissioni esaminatrici hanno carattere tecnico-discrezionale e devono ritenersi insindacabili in sede di legittimità, salvi i limiti propri della manifesta contraddittorietà, illogicità o irrazionalità. (Cons. St., sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2166; Cons. St. sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 61; Cons. St., 6 dicembre 2011, n. 6402; Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2009, n. 5832; Cons. St., sez. IV, 18 giugno 2009, n. 3991 ).

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi precisato l’ambito del sindacato del giudice amministrativo: “Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione) è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione” (Sez. Un., 28 maggio 2012, n. 8412).

La verifica, dunque, concernente la eventuale sussistenza (o meno) del vizio di eccesso di potere, si inserisce all’interno dell’iter logico seguito (ed esposto) dall’autorità emanante l’atto impugnato, ma non deve e non può sostanziarsi in una giustapposizione (o sostituzione) della valutazione del giudice rispetto a quella dell’amministrazione, unica titolare del potere amministrativo.

Nella specie è da rilevare anzitutto che il giudizio impugnato è accompagnato dalla motivazione con cui la Commissione ha esternato le ragioni della valutazione negativa, ravvisando che il parere di diritto penale è incompleto nei contenuti in fatto e in diritto e che le motivazioni sono insufficienti.. 

Tale operato della Commissione si dimostra corrispondente ai criteri fissati dal Ministero in data 5/12/2011, essendo chiaramente evincibile da quanto riportato il contrasto con gli elementi ivi individuati, tra cui la “dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici” e la “coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata” (lett. a), c) ed f) dei citati criteri).

Quanto all’apposizione di segni di correzione o glosse, la condivisibile giurisprudenza ha da tempo affermato che, in tema di esami per l’abilitazione alla professione forense, tale attività non è richiesta alla Commissione, non essendo prevista dalla legge e potendosi dedurre, dal voto assegnato, le ragioni della valutazione (cfr., da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 16 aprile 2012 n. 2166).

Per di più, come detto, nella specie il giudizio negativo è accompagnato dall’indicazione degli elementi valutati negativamente.

Passando al vaglio della prova sostenuta dal ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati.

Infatti, il parere di diritto penale risulta estremamente sintetico, sostanziandosi in una pagina e mezza, limitandosi a riportare gli articoli di legge, relativi ad un solo reato ipotizzabile nella fattispecie in esame, e la relativa giurisprudenza.

Questo risulta altresì confermato anche dal parere che il ricorrente allega al proprio ricorso, nel quale è stato evidenziato sia che lo svolgimento dell’elaborato non è “del tutto esaustivo” (p. 18 ) sia che l’elaborato non ha affrontato “le problematiche relative alla configurabilità dei delitti di falso ideologico e accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico” (p. 17 ), sostanzialmente confermando così il giudizio della Commissione che, si ripete, ha valutato l’elaborato incompleto e con motivazione insufficiente.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario

Claudia Lattanzi, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14/12/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.) 

 

N. 01931/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01469/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1469 del 2012, proposto da: 

Giancarlo Sparascio, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Vantaggiato, con domicilio eletto presso Angelo Vantaggiato in Lecce, via Zanardelli 7;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Lecce, Commissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Salerno, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

del provvedimento analitico e sintetico, di cui al verbale della adunanza del 14 maggio 2012, con cui la quarta sottocommissione per gli esami di avvocato, presso la Corte di Appello di Salerno per la sessione 2011, competente per l'esame degli elaborati degli iscritti presso la Corte di Appello di Lecce, valutando insufficiente l'elaborato di diritto civile dello stesso, ha, per l'effetto, determinato la sua non idoneità a sostenere le prove orali, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Commissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Lecce e di Commissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 il dott. Claudia Lattanzi e uditi l'avv. A. Vantaggiato, per il ricorrente, e l’avv. G. Pedone, per l’Avvocatura dello Stato;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

Il ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento di giudizio con cui la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, per la sessione 2011, ha valutato insufficiente uno dei tre elaborati, con la conseguente determinazione di inidoneità a sostenere le prove orali.

Il ricorso è infondato.

È da ricordare anzitutto che la Corte costituzionale, con la sentenza 8 giugno 2011, n. 175, ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 17 bis, comma 2, 23, comma 5, 24, comma 1 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, come novellato dal d.l. n. 112 del 2003, nella parte in cui essi, secondo il diritto vivente, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense possano essere motivati con l'attribuzione di un mero punteggio numerico. La Corte ha precisato che “la graduazione del punteggio numerico, infatti, da un lato, consente alla commissione esaminatrice di esprimere, sia pure in modo sintetico, un giudizio complessivo dell'elaborato; dall'altro, risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa, che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità”.

La giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito la non necessità, per la legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, della apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsiasi tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi; la sufficienza, ai fini della motivazione ed esternazione delle valutazioni compiute dalla sottocommissione esaminatrice degli esami di avvocato sulle prove d'esame, del voto numerico, attribuito in base ai criteri da essa (o comunque dalla competente Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia) predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti; la inammissibilità della pretesa di ricavare dalla diversa e migliore opinione, espressa sulla "qualità" dei singoli elaborati redatti dall'originario ricorrente ad opera di autorevoli esperti di diritto, l'erroneità del giudizio sugli stessi formulato dalla Commissione, trattandosi di tesi che, lungi dall'evidenziare macroscopiche incongruenze di questo giudizio (tali cioè dal far presumere un esercizio non corretto del potere con esso esercitato), mira a sostituire la valutazione dell'originario ricorrente (pur corroborata da quella di "esperti") a quella effettuata dall'Amministrazione: laddove, invece, com'è noto, i giudizi espressi dalle Commissioni esaminatrici hanno carattere tecnico-discrezionale e devono ritenersi insindacabili in sede di legittimità, salvi i limiti propri della manifesta contraddittorietà, illogicità o irrazionalità. (Cons. St., sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2166; Cons. St. sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 61; Cons. St., 6 dicembre 2011, n. 6402; Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2009, n. 5832; Cons. St., sez. IV, 18 giugno 2009, n. 3991 ).

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi precisato l’ambito del sindacato del giudice amministrativo: “Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione” (Sez. Un., 28 maggio 2012, n. 8412).

La verifica, dunque, concernente la eventuale sussistenza (o meno) del vizio di eccesso di potere, si inserisce all’interno dell’iter logico seguito (ed esposto) dall’autorità emanante l’atto impugnato, ma non deve e non può sostanziarsi in una giustapposizione (o sostituzione) della valutazione del giudice rispetto a quella dell’amministrazione, unica titolare del potere amministrativo.

È da rilevare anzitutto che il giudizio impugnato è accompagnato dalla motivazione con cui la Commissione ha esternato le ragioni della valutazione negativa, ravvisando, tra l’altro, che il parere di diritto civile non argomenta sufficientemente le conclusioni prospettate e non ha una sufficiente completezza espositiva.

Tale operato della Commissione si dimostra corrispondente ai criteri fissati dal Ministero in data 5/12/2011, essendo chiaramente evincibile da quanto riportato il contrasto con gli elementi ivi individuati, tra cui la “dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici” e la “coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata” (lett. a), c) ed f) dei citati criteri).

Quanto all’apposizione di segni di correzione o glosse, la condivisibile giurisprudenza ha da tempo affermato che, in tema di esami per l’abilitazione alla professione forense, tale attività non è richiesta alla Commissione, non essendo prevista dalla legge e potendosi dedurre, dal voto assegnato, le ragioni della valutazione (cfr., da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 16 aprile 2012 n. 2166).

Per di più, come detto, nella specie il giudizio negativo è accompagnato dall’indicazione degli elementi valutati negativamente.

Passando al vaglio della prova sostenuta dal ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati in quanto il parere di diritto civile risulta estremamente sintetico tanto che lo stesso ricorrente dichiara di non aver “avuto modo di completare definitivamente l’elaborato” (p. 7 del ricorso); elaborato che si sostanzia in una facciata e mezza e si limita a riportare gli articoli con la relativa giurisprudenza .

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario

Claudia Lattanzi, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 02016/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01388/2012 REG.RIC.

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1388 del 2012, proposto da: 

Alessandro Antonaci, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Mormandi, domiciliato ex art. 25 cpa presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esame Avvocato Presso Corte D'Appello di Lecce, Commissione Esame Avvocato Presso Corte D'Appello di Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliati presso la sede di quest’ultima in Lecce, via F.Rubichi 23;

per l'annullamento

dei provvedimenti di giudizio con cui la Prima Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno per la sessione 2011 ha valutato insufficienti due dei tre elaborati del ricorrente, determinando, di conseguenza, la sua inidoneità a sostenere le prove orali;

del conseguente elenco degli ammessi alle prove orali, sessione 2011, degli esami di abilitazione alla professione di avvocato, relativamente alla Corte d'Appello di Lecce;

di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso, ivi compresi i criteri per la valutazione degli elaborati scritti definiti, ai sensi dell'art. 1 bis, comma 9, della l. n. 180/03, dalla commissione per l'esame di avvocato, sessione 2011, nominata presso il Ministero della Giustizia e il verbale della riunione del 13 gennaio 2012 delle sottocommissioni c/o la Corte di Appello di Salerno. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e della Commissione Esame Avvocato presso Corte d'Appello di Lecce e della Commissione Esame Avvocato presso la Corte d'Appello di Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2012 la dott.ssa Patrizia Moro e uditi per le parti gli avv.ti G. Calabro in sostituzione dell’avv. G. Mormandi, A. Tarentini;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

1. Con il ricorso all’esame il ricorrente ha impugnato innanzi a questo Tribunale gli atti, in epigrafe indicati, con i quali la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di appello di Salerno, sessione 2011, ha valutato insufficienti due dei tre elaborati (venticinque/ cinquantesimi per la prova di diritto civile, e venticinque/cinquantesimi per l’atto giudiziario in materia penale) determinando la sua inidoneità a sostenere gli esami (con l’attribuzione del seguente punteggio: 25 per l’elaborato in diritto civile, 30 per quello in diritto penale e 25 per l’elaborato relativo all’atto giudiziario in materia di diritto penale) e, per l'effetto, l'ha escluso dalle prove orali.

Sono dedotte le seguenti censure:

Eccesso di potere per inadeguatezza della motivazione, erroneità dei presupposti – manifesta irragionevolezza e contraddittorietà con i criteri per la valutazione degli elaborati scritti definiti, ai sensi dell’art.1 bis, comma 9, della L. 180/2003, dalla Commissione per l’esame di avvocato sessione 2011.

Violazione dell’art. 23 R.D. n.37/1934.

2. Il ricorso è infondato e va respinto.

2.1. Secondo consolidata giurisprudenza anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, i provvedimenti della commissione esaminatrice che rilevano l'inidoneità delle prove scritte e non ammettono alla prova orale il candidato agli esami per l'abilitazione alla professione di avvocato devono ritenersi adeguatamente motivati quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. Siffatti voti esprimono un metodo di valutazione rispondente al criterio di cui all'articolo 97 Cost. e rappresentano la compiuta esternazione dell’ attività di verifica dell'idoneità del candidato svolta a seguito della lettura dei suoi elaborati, demandata alla commissione esaminatrice.

La Corte costituzionale, con le sentenze 30 gennaio 2009 n. 20 e 8 giugno 2011, n. 175, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, nono comma, del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, poi sostituito dall'art. 1 bis, del D.L. 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, nonché degli articoli 17 bis, 22, 23 e 24, primo comma del R.D. 22.1.1934 n. 37 (Norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), sollevata in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono l'obbligo di giustificare o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d'esame per l'abilitazione alla professione forense.

2.2. In ordine al merito dell’attività di valutazione,va evidenziato che, in una procedura per l'accesso a una professione , non rileva solamente l’esattezza delle soluzioni giuridiche propugnate e prescelte, ma anche la modalità espositiva, l’organizzazione complessiva del discorso, le capacità di sintesi e di compiuta argomentazione.

Ove così non fosse, dovrebbe ammettersi che tutti i candidati estensori di elaborati recanti soluzioni corrette debbano necessariamente superare la prova, il che non può sicuramente avvenire, posto che il superamento dell’esame di abilitazione permette l’accesso alla professione forense , sicchè vengono in rilievo – oltre alla esattezza delle conclusioni - la modalità espositiva, l’organizzazione complessiva del discorso, le capacità di sintesi e di compiuta argomentazione,cioè tutte le componenti che garantiscono l’adeguatezza della difesa tecnica.

2.3.Nella specie basti rilevare che, quanto alla prova inerente il parere di diritto civile, il candidato non ha effettivamente dimostrato una sufficiente padronanza del lessico italiano e un’ adeguata capacità costruttiva; inoltre non risulta: a) affrontata la tematica delle obbligazioni interne ed esterne al condominio,b) del tutto sviluppato l’esame della natura giuridica delle obbligazioni solidali e degli elementi costituivi dell’istituto (eadem res debita, eadem causa obbligandi, idem debitum), della differenza rispetto alle obbligazioni parziarie, c) approfondito il dibattito giurisprudenziale creatosi sul punto.

In sintesi il compito, in considerazione delle modalità di svolgimento dell’esame (che consentiva l’uso di codici commentati con la giurisprudenza) e dell’assenza di particolari difficoltà interpretative e argomentative nella tematica trattata, appare privo di approfondimenti degni di nota.

Tali considerazioni consentono quindi al Collegio di condividere il giudizio espresso dalla Commissione.

3. L’acclarata legittimità del giudizio espresso in ordine al parere di diritto civile è sufficiente al fine di ritenere l’infondatezza del ricorso il quale non può, pertanto, essere accolto.

Sussistono nondimeno giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere, Estensore

Roberto Michele Palmieri, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14/12/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 01930/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01405/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1405 del 2012, proposto da: 

Maria Rosaria Orlando, rappresentata e difesa dall'avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;

contro

Ministero della Giustizia, Sottocommissione Esame Avvocato presso Corte di Appello di Lecce, Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte Appello di Salerno, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

dei provvedimenti di giudizio con cui la sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno per la sessione 2011, ha valutato insufficienti due dei tre elaborati della ricorrente, determinando, di conseguenza, la sua inidoneità a sostenere le prove orali; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale, ed in particolare del verbale 28/4/12 della IV sottocommissione presso la Corte di Appello di Salerno , nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati della ricorrente. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di Sottocommissione Esame Avvocato presso Corte di Appello di Lecce e di Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte Appello di Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 il dott. Claudia Lattanzi e uditi l'avv. A. Cursi, in sostituzione dell'avv. V. Pellegrino, per la ricorrente, e l’avv. G. Pedone, per l’Avvocatura dello Stato;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

La ricorrente ha chiesto l’annullamento dei provvedimenti di giudizio con cui la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, per la sessione 2011, ha valutato insufficienti due dei tre elaborati, con la conseguente determinazione di inidoneità a sostenere le prove orali.

Il ricorso è infondato.

È da ricordare anzitutto che la Corte costituzionale, con la sentenza 8 giugno 2011, n. 175, ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 17 bis, comma 2, 23, comma 5, 24, comma 1 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, come novellato dal d.l. n. 112 del 2003, nella parte in cui essi, secondo il diritto vivente, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense possano essere motivati con l'attribuzione di un mero punteggio numerico. La Corte ha precisato che “la graduazione del punteggio numerico, infatti, da un lato, consente alla commissione esaminatrice di esprimere, sia pure in modo sintetico, un giudizio complessivo dell'elaborato; dall'altro, risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa, che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità”.

La giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito la non necessità, per la legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, della apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsiasi tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi; la sufficienza, ai fini della motivazione ed esternazione delle valutazioni compiute dalla sottocommissione esaminatrice degli esami di avvocato sulle prove d'esame, del voto numerico, attribuito in base ai criteri da essa (o comunque dalla competente Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia) predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti; la inammissibilità della pretesa di ricavare dalla diversa e migliore opinione, espressa sulla "qualità" dei singoli elaborati redatti dall'originario ricorrente ad opera di autorevoli esperti di diritto, l'erroneità del giudizio sugli stessi formulato dalla Commissione, trattandosi di tesi che, lungi dall'evidenziare macroscopiche incongruenze di questo giudizio (tali cioè dal far presumere un esercizio non corretto del potere con esso esercitato), mira a sostituire la valutazione dell'originario ricorrente (pur corroborata da quella di "esperti") a quella effettuata dall'Amministrazione: laddove, invece, com'è noto, i giudizi espressi dalle Commissioni esaminatrici hanno carattere tecnico-discrezionale e devono ritenersi insindacabili in sede di legittimità, salvi i limiti propri della manifesta contraddittorietà, illogicità o irrazionalità. (Cons. St., sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2166; Cons. St. sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 61; Cons. St., 6 dicembre 2011, n. 6402; Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2009, n. 5832; Cons. St., sez. IV, 18 giugno 2009, n. 3991).

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi precisato l’ambito del sindacato del giudice amministrativo: “Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione” (Sez. Un., 28 maggio 2012, n. 8412).

La verifica, dunque, concernente la eventuale sussistenza (o meno) del vizio di eccesso di potere, si inserisce all’interno dell’iter logico seguito (ed esposto) dall’autorità emanante l’atto impugnato, ma non deve e non può sostanziarsi in una giustapposizione (o sostituzione) della valutazione del giudice rispetto a quella dell’amministrazione, unica titolare del potere amministrativo.

È da rilevare anzitutto che il giudizio impugnato è accompagnato dalla motivazione con cui la Commissione ha esternato le ragioni della valutazione negativa, ravvisando, tra l’altro, che il parere di diritto penale non argomenta sufficientemente le conclusioni prospettate e non ha una sufficiente completezza espositiva.

Tale operato della Commissione si dimostra corrispondente ai criteri fissati dal Ministero in data 5/12/2011, essendo chiaramente evincibile da quanto riportato il contrasto con gli elementi ivi individuati, tra cui la “dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici” e la “coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata” (lett. a), c) ed f) dei citati criteri).

Quanto all’apposizione di segni di correzione o glosse, la condivisibile giurisprudenza ha da tempo affermato che, in tema di esami per l’abilitazione alla professione forense, tale attività non è richiesta alla Commissione, non essendo prevista dalla legge e potendosi dedurre, dal voto assegnato, le ragioni della valutazione (cfr., da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 16 aprile 2012 n. 2166).

Per di più, come detto, nella specie il giudizio negativo è accompagnato dall’indicazione degli elementi valutati negativamente.

Passando al vaglio delle prove sostenute dalla ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati in quanto sia nel parere di diritto penale che nell’atto giudiziario non risulta esservi un approfondimento delle conclusioni prospettate, così come indicato nel giudizio espresso dalla Commissione.

Il parere di diritto penale si dimostra poco rispondente, nella sua articolazione e con riguardo al suo contenuto, ai requisiti richiesti.

Il compito è svolto con uno schema semplicistico.

Le difficoltà riscontrate nello sviluppo della traccia sono evidenziate dal fatto che la ricorrente ha sorvolato su precipui aspetti della questione sottoposta, per cui si ricava effettivamente un’insufficiente capacità di discernere il fondamento teorico degli istituti (trattati in modo oltremodo discorsivo), l’assenza di un appropriato rigore metodologico (che consenta di passare dalle premesse alle conclusioni in maniera stringente) e l’incoerenza dell’elaborato rispetto alla traccia (mancando la specifica risposta alla richiesta di affrontare le problematiche della procedibilità dell’azione penale).

L’atto giudiziario, in relazione alle questioni proposte, non approfondisce gli istituti, limitandosi al richiamo della giurisprudenza della Corte di cassazione, e non individua in modo chiaro e preciso la tesi difensiva.

Alla stregua di quanto osservato, i giudizi negativi sono stati quindi correttamente formulati.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario

Claudia Lattanzi, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 01929/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01404/2012 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1404 del 2012, proposto da: 

A.brogina R.zzello, rappresentata e difesa dall'avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;

contro

Ministero della Giustizia, Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Salerno, Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Lecce, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

dei provvedimenti di giudizio con cui la sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno per la sessione 2011, ha valutato insufficienti uno dei tre elaborati della ricorrente, determinando, di conseguenza, la sua inidoneità a sostenere le prove orali; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale, ed in particolare del verbale 01/02/2012 della IV sottocommissione presso la Corte di Appello di Salerno, nel quale sono riportate le operazioni di correzione degli elaborati della ricorrente. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia, di Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Salerno, e di Sottocommissione Esami Avvocato presso Corte di Appello di Lecce;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 il dott. Claudia Lattanzi e uditi l'avv. A. Cursi, in sostituzione dell'avv. V. Pellegrino, per la ricorrente, e l’avv. G. Pedone, per l’Avvocatura dello Stato;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 

La ricorrente ha chiesto l’annullamento dei provvedimenti di giudizio con cui la Sottocommissione per gli esami di avvocato presso la Corte di Appello di Salerno, per la sessione 2011, ha valutato insufficiente uno dei tre elaborati, con la conseguente determinazione di inidoneità a sostenere le prove orali.

Il ricorso è infondato.

È da ricordare anzitutto che la Corte costituzionale, con la sentenza 8 giugno 2011, n. 175, ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 17 bis, comma 2, 23, comma 5, 24, comma 1 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, come novellato dal d.l. n. 112 del 2003, nella parte in cui essi, secondo il diritto vivente, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense possano essere motivati con l'attribuzione di un mero punteggio numerico. La Corte ha precisato che “la graduazione del punteggio numerico, infatti, da un lato, consente alla commissione esaminatrice di esprimere, sia pure in modo sintetico, un giudizio complessivo dell'elaborato; dall'altro, risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa, che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità”.

La giurisprudenza amministrativa ha altresì chiarito la non necessità, per la legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, della apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsiasi tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi; la sufficienza, ai fini della motivazione ed esternazione delle valutazioni compiute dalla sottocommissione esaminatrice degli esami di avvocato sulle prove d'esame, del voto numerico, attribuito in base ai criteri da essa (o comunque dalla competente Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia) predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti; la inammissibilità della pretesa di ricavare dalla diversa e migliore opinione, espressa sulla "qualità" dei singoli elaborati redatti dall'originario ricorrente ad opera di autorevoli esperti di diritto, l'erroneità del giudizio sugli stessi formulato dalla Commissione, trattandosi di tesi che, lungi dall'evidenziare macroscopiche incongruenze di questo giudizio (tali cioè dal far presumere un esercizio non corretto del potere con esso esercitato), mira a sostituire la valutazione dell'originario ricorrente (pur corroborata da quella di "esperti") a quella effettuata dall'Amministrazione: laddove, invece, com'è noto, i giudizi espressi dalle Commissioni esaminatrici hanno carattere tecnico-discrezionale e devono ritenersi insindacabili in sede di legittimità, salvi i limiti propri della manifesta contraddittorietà, illogicità o irrazionalità. (Cons. St., sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2166; Cons. St. sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 61; Cons. St., 6 dicembre 2011, n. 6402; Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2009, n. 5832; Cons. St., sez. IV, 18 giugno 2009, n. 3991 ).

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi precisato l’ambito del sindacato del giudice amministrativo: “Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione” (Sez. Un., 28 maggio 2012, n. 8412).

La verifica, dunque, concernente la eventuale sussistenza (o meno) del vizio di eccesso di potere, si inserisce all’interno dell’iter logico seguito (ed esposto) dall’autorità emanante l’atto impugnato, ma non deve e non può sostanziarsi in una giustapposizione (o sostituzione) della valutazione del giudice rispetto a quella dell’amministrazione, unica titolare del potere amministrativo.

È da rilevare anzitutto che il giudizio impugnato è accompagnato dalla motivazione con cui la Commissione ha esternato le ragioni della valutazione negativa, ravvisando, tra l’altro, che il parere di diritto penale non argomenta sufficientemente le conclusioni prospettate e non ha una sufficiente completezza espositiva.

Tale operato della Commissione si dimostra corrispondente ai criteri fissati dal Ministero in data 5/12/2011, essendo chiaramente evincibile da quanto riportato il contrasto con gli elementi ivi individuati, tra cui la “dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici” e la “coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata” (lett. a), c) ed f) dei citati criteri).

Quanto all’apposizione di segni di correzione o glosse, la condivisibile giurisprudenza ha da tempo affermato che, in tema di esami per l’abilitazione alla professione forense, tale attività non è richiesta alla Commissione, non essendo prevista dalla legge e potendosi dedurre, dal voto assegnato, le ragioni della valutazione (cfr., da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 16 aprile 2012 n. 2166).

Per di più, come detto, nella specie il giudizio negativo è accompagnato dall’indicazione degli elementi valutati negativamente.

Passando al vaglio della prova sostenuta dalla ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati, in quanto il parere di diritto penale si dimostra poco rispondente, nella sua articolazione e con riguardo al suo contenuto, ai requisiti richiesti.

Il compito è svolto con uno schema semplicistico.

Le difficoltà riscontrate nello sviluppo della traccia sono evidenziate dal fatto che la ricorrente ha sorvolato su precipui aspetti della questione sottoposta, per cui si ricava effettivamente un’insufficiente capacità di discernere il fondamento teorico degli istituti (trattati in modo oltremodo discorsivo), l’assenza di un appropriato rigore metodologico (che consenta di passare dalle premesse alle conclusioni in maniera stringente).

Alla stregua di quanto osservato, il giudizio negativo è stato quindi correttamente formulato.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario

Claudia Lattanzi, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

N. 01916/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01470/2012 REG.RIC.

http://www.controtuttelemafie.it/tar%20sa7.gif

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 1470 del 2012, proposto da: 

Durante Marcello, rappresentato e difeso dall'avv. Angelo Vantaggiato, con domicilio eletto presso lo studio in Lecce, via Zanardelli 7;

contro

Ministero della Giustizia, Commissione Esame di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte di Appello di Lecce e Commissione Esame di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte di Appello di Salerno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Lecce, via F. Rubichi 23;

per l'annullamento

del provvedimento analitico e sintetico, di cui al Verbale della Adunanza del 2 aprile 2012, con cui la IV Sotto-Commissione per gli esami di Avvocato, presso la Corte d'Appello di Salerno per la sessione 2011, competente per l'esame degli elaborati degli iscritti presso la Corte di Appello di Lecce, valutando insufficiente l'elaborato di diritto penale dello stesso, ha, per l'effetto, determinato la sua non idoneità a sostenere le prove orali, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale. 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia, Commissione Esame di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte di Appello di Lecce e Commissione Esame di Avvocato – sessione anno 2011 presso la Corte di Appello di Salerno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 il dott. Giuseppe Esposito e uditi per le parti l'avv. Angelo Vantaggiato e l'avvocato dello Stato Giovanni Pedone;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: 

FATTO e DIRITTO

1.- Il dott. Durante ha partecipato alla sessione di esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense per l’anno 2011 presso la Corte di Appello di Lecce.

Dopo aver sostenuto le prove scritte, non è stato incluso nell’elenco dei candidati ammessi a sostenere la prova orale.

Ha quindi formulato istanza di accesso agli atti, ottenendo copia dei propri elaborati ed il verbale in epigrafe, apprendendo così di aver conseguito il punteggio complessivo di 85 nelle tre prove scritte (30 per il parere di diritto civile; 25 per il parere di diritto penale; 30 per l’atto giudiziario), inferiore al minino richiesto di 90.

Avverso la valutazione negativa dall’elaborato di diritto penale ed il conseguente giudizio di non ammissione all’esame orale è stato proposto il presente ricorso, denunciando i seguenti vizi:

- difetto di motivazione e violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90: benché la votazione numerica sia accompagnata dalla motivazione, la stessa si concreta in una mera formula di stile, lacunosa sotto il profilo argomentativo, erronea nel merito ed irrazionale;

- irragionevolezza della motivazione e contraddittorietà: il giudizio espresso non è aderente ai criteri predeterminati dalla Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia in data 5/12/2011;

- irrazionalità manifesta e contraddittorietà sotto altro profilo: traspare dall’allegato parere motivato l’incoerenza fra le motivazioni addotte dalla Sottocommissione e i riferiti criteri fissati dalla Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia;

- erroneità e contraddittorietà dell’azione amministrativa ed eccesso di potere: sulla scorta dell’esame del testo dell’elaborato e della valutazione resa su di esso dal parere pro veritate prodotto, si censura la valutazione espressa dalla Sottocommissione, avendo il ricorrente illustrato il tema in maniera coerente rispetto alla traccia assegnata, individuando correttamente gli istituti e traendo conclusioni congrue.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio ed ha chiesto che il ricorso sia dichiarato irricevibile, inammissibile e, gradatamente, rigettato.

Nella Camera di Consiglio del 24 ottobre 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 cpa.

2.- Il Tribunale intende premettere che l’operato delle commissioni di abilitazione o di concorso ha natura mista, contenendo un aspetto “provvedimentale”, con riguardo all’ammissione alla fase successiva, ed uno prettamente di “giudizio”, circa la preparazione del candidato (cfr., da ultimo, Cons. Stato – Sez. IV, 6 giugno 2011 n. 3402).

Essendo i due aspetti strettamente congiunti, il generale sindacato del Giudice Amministrativo sull’attività provvedimentale della P.A. (al fine di assicurare pienezza ed effettività della tutela, secondo il fondamentale canone ora codificato dall’art. 1 cpa) non può essere limitato e, quindi, coinvolge l’attività valutativa della Commissione, verificando la coerenza e logicità del risultato finale raggiunto, rispetto agli elementi che emergono dalla prova oggetto di valutazione e che il Giudice ben può apprezzare, pur con una certa prudenza nell’evitare che la propria valutazione si sovrapponga a quella operata dall’Amministrazione.

A tal fine, soccorre l’esame dei criteri che vengono predeterminati ed a cui deve attenersi la Commissione, i quali costituiscono la base per la verifica del Giudice sulla correttezza del suo operato.

Passando al caso di specie, l’esclusione del ricorrente dall’esame orale per l’abilitazione all’esercizio della professione forense è stata determinata dal voto negativo (25/50) alla prova concernente la redazione di un parere motivato di diritto penale, assegnato con la seguente motivazione: “Scarsa conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati nonché elaborato poco coerente con la traccia assegnata. Insufficiente rigore metodologico”.

La traccia assegnata richiedeva di esprimere parere in veste di legale di Caio, che – dopo aver consegnato a Tizio della merce in conto vendita (per esporla nel negozio di questi e venderla al prezzo determinato entro 4 mesi, oppure restituirla) – non riceveva notizia del fatto che la merce era rimasta invenduta, ma apprendeva detta circostanza a distanza di tempo dalla segretaria di Tizio, risolvendosi allora a tutelare le proprie ragioni in sede penale.

Il compito assegnato esigeva che il candidato analizzasse “la fattispecie configurabile nel caso di specie, soffermandosi in particolare sulle problematiche correlate alla procedibilità dell’azione penale”.

A questo punto, è necessario precisare che gli indirizzi forniti dalla Commissione Centrale richiedevano ai candidati “chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica (vedi la lett. b) dei criteri del 5/12/2011), oltre alla dimostrazione “della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza” e “di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza” (lettere c) e d) degli stessi criteri).

Il Collegio osserva che l’elaborato del ricorrente si dimostra poco rispondente, nella sua articolazione e con riguardo al suo contenuto, ai requisiti richiesti.

Il compito è svolto con uno schema semplicistico, descrivendo il reato di appropriazione indebita con la mera trascrizione dei tre commi di cui si compone l’art. 646 c.p. e senza approfondire i concetti, passando in succinta rassegna i dati di fatto proposti e concludendo con il consiglio a Caio di diffidare Tizio a consegnare la merce, proponendo poi querela ma, nel contempo, “tenendo, quindi, ben presenti tutte le circostanze aggravanti che ammettono la procedibilità d’ufficio”.

A fronte delle difficoltà riscontrate nello sviluppo della traccia, il ricorrente ha sorvolato su precipui aspetti della questione sottoposta, per cui si ricava effettivamente un’insufficiente capacità di discernere il fondamento teorico degli istituti (trattati in modo oltremodo discorsivo), l’assenza di un appropriato rigore metodologico (che consenta di passare dalle premesse alle conclusioni in maniera stringente) e l’incoerenza dell’elaborato rispetto alla traccia (mancando la specifica risposta alla richiesta di affrontare le problematiche della procedibilità dell’azione penale).

Alla stregua di quanto osservato, il giudizio negativo è stato quindi correttamente formulato.

Il ricorso va dunque respinto.

Sussistono tuttavia giusti motivi, considerata la natura della controversia, per compensare tra le parti le spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Antonio Cavallari, Presidente

Giuseppe Esposito, Primo Referendario, Estensore

Claudia Lattanzi, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

 Contro questa che appare, anche agli occhi di un profano, una palese ingiustizia si presenta doverosa denuncia.

DENUNCIA/QUERELA PENALE - INFORMATIVA DI REATO

(artt. 330, 333,336 c.p.p.)

ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA

Al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello

Al Procuratore Capo presso il Tribunale

SEZIONE REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Si ripresenta per fini di giustizia l’ennesima istanza di accertamento della responsabilità penale in tema di concorsi pubblici truccati di interesse nazionale. Istanze presentate alla S.V, ma rimaste inspiegabilmente lettera morta, pur consistendo la fondatezza dell’accusa suffragata da prove, pur operando l’obbligatorietà dell’azione penale e pur travalicando l’aspetto soggettivo della questione. La Corte Europea dei Diritti Umani ha respinto il ricorso, trattandosi di fatti interni.

Nell’interesse di

ANTONIO GIANGRANDE, nato in Italia ad Avetrana provincia di Taranto, il 02.06.1963 (codice fiscale GNGNTN63H02A514Q), cittadino italiano (sesso maschile) di professione Presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero Interni, residente in Italia, Avetrana (TA), via Manzoni, 51 (telefono 0039+099 9708396; telefax 0039+099 9708396 cell. 328 9163996 e-mail…), e per gli stessi motivi della medesima denuncia già ricorrente presso la Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

Contro

Avv. Antonio De Giorgi del foro di Lecce,                                                                     denunciato,

presidente della commissione centrale del concorso forense sessione 2010-2011

1ª sottocommissione di esame forense di Palermo, sessione 2010-2011,                      denunciata,

GRILLO avv. Mario Nato a Palermo il 7.2.1954 Ordine di Palermo (Sostituto presidente);

LORELLO prof.ssa Laura Nato a Palermo il 27.5.1967 Professore ordinario Università degli Studi di Palermo Facoltà di Giurisprudenza;

CONTRAFATTO dott.ssa Vania Nata a Palermo il 2.3.1971 Magistrato ordinario che ha conseguito la II valutazione di professionalità Procura della Repubblica c/o Tribunale di Palermo;

STALLONE avv. Francesco Nato a Palermo il 2.3.1966 Ordine di Palermo (indicato in decreto di nomina erroneamente come Stallo Francesco);

PETRUCCI dott. Luigi Nato a Roma il 28.1.1972 Magistrato ordinario che ha conseguito la II valutazione di professionalità Tribunale di Palermo;

1ª sezione TAR di Lecce,                                                                                                  denunciata,

Antonio Cavallari, Presidente

Luigi Viola, Consigliere, Estensore

Massimo Santini, Referendario

Altri concorrenti nel reato di falso, abuso d’ufficio e associazione a delinquere. Per i precedenti concorsi tenuti presso la Corte d’Appello di Torino, Reggio Calabria e Salerno e per i successivi concorsi addivenire già predestinati.

PREMESSO CHE

Il sottoscritto denunciante dal 1998 a tutt’oggi partecipa all’esame di abilitazione forense presso il distretto di Corte d’Appello di Lecce.  Essendo vittima da subito ho presentato esposti e denunce contro il concorso che reputo truccato, tanto palesi erano e sono le anomalie e gli abusi nazionali sotto gli occhi di tutti. Attività di denuncia che ha portato alla riforma della legge 180/2003: consiglieri dell’Ordine degli Avvocati cacciati dalle commissioni e compiti locali corretti da commissioni di altri distretti di Corte d’Appello. Da qui la mia notorietà nell’ambiente locale e nazionale. Le mie denunce presentate per abuso d’ufficio, falso in atti pubblici ed associazione a delinquere presso gli uffici giudiziari con competenza diretta (in riferimento alle commissioni d’esame) o indiretta (in riferimento all’interesse nazionale) sono state tutte archiviate o insabbiate senza che sia conseguita calunnia.

Le indagini non sono state svolte per i seguenti motivi:

Nelle commissioni d’esame vi erano gli stessi inquirenti o loro colleghi;

Agli inquirenti non appariva verosimile l’ipotesi di un possibile complotto nei miei confronti o comunque per loro non era possibile che un concorso pubblico tal fatto potesse essere truccato;

Le indagini venivano delegate a Polizia giudiziaria locale che dovevano svolgere indagini contro i loro magistrati di riferimento. Questi non avevano la competenza culturale e professionale a svolgere siffatte indagini o comunque vi era collusione-commistione con gli inquisiti, che poi erano i loro magistrati referenti- deleganti locali. In questo modo la mia audizione avveniva nell’assoluta ostilità.

In rapporto alla mia propensione e capacità a tutelare i miei diritti ed in base alla fondatezza e gravità dei fatti in oggetto sono state presentate delle interrogazioni parlamentari da parte di deputati e senatori di tutti gli schieramenti. Inoltre sono stato costretto a presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, per il fatto che in Italia non ho trovato un ufficio giudiziario che svolgesse le doverose indagini, con disinteresse e senza preconcetti e pregiudizi.

Per gli effetti, dal 2004, dopo la riforma, i miei compiti itineranti sono stati valutati presso le commissioni di vari distretti italiani di Corte d’Appello: da Venezia a Torino, da Palermo a Salerno, Da Catanzaro a Reggio Calabria, ecc.. Da sempre e stranamente mi è stato dato un voto simile a tutti gli elaborati. A decine di prove scritte (3 per 14 anni = 42) riferenti al parere penale o civile o all’atto giudiziario l’identico voto dato è stato “25” senza alcuna motivazione. Con tali giudizi strani e immotivati mi si nega l’idoneità alla prova orale e l’impedimento all’abilitazione.

Potrei farmene una ragione per essere causa del mio male, se non fosse altro che vi sia una evidente regia dietro alle mie disgrazie:

di fatto i miei compiti non sono stati mai corretti. Affermazione desunta dalla mancanza di correzioni e dalla mancanza di tempo per farlo;

l’avv. Antonio De Giorgi, da me è stato denunciato quando prima della riforma ha ricoperto per 3 anni l’incarico di presidente di Commissione di esame di Lecce, a cui ho partecipato, e contestualmente di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Dopo la riforma del 2003, l’avv. De Giorgi, estromesso dagli incarichi concorsuali, è stato nominato membro del Consiglio Nazionale Forense su incarico istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. All’uopo il De Giorgi è stato nominato addirittura nella sessione di esame 2010 presidente di commissione centrale di esame. Nomina vietata per incompatibilità prevista dalla riforma: i consiglieri dell’ordine locale non possono far parte delle commissioni d’esame. E il De Giorgi non è altro che l’espressione a Roma (Longa Manu) del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce. Inoltre il De Giorgi quando non è presidente nazionale della sessione d’esame forense è nominato ispettore nazionale. In ogni caso l’avv. De Giorgi per gli incarichi istituzionali ricoperti ha rapporti con tutti i membri delle commissioni locali, nominati dal C.N.F. in sede di commissione del Ministero della Giustizia, di cui egli fa parte;

Cosa più grave è che il ricorso giudiziario amministrativo, da me presentato nel 2011 avverso il giudizio negativo della sessione 2010 dato dalla commissione d’esame di Palermo ai miei compiti, (metodo di correzione contestato in vari punti in fatto ed in diritto con sostegno giurisprudenziale), è stato rigettato dal Tar di Lecce. Strano, però che per molto meno lo stesso Tar di Lecce ha accolto ricorsi simili, entrando addirittura nel merito, valutando in modo positivo esso stesso l’elaborato. E’ palese la discriminazione attuata in riferimento ai ricorsi sottoposti allo stesso Tar per la stessa sessione e negli stessi giorni.

Da quanto detto si evince, oltre che essere palese la fondatezza delle accuse, si ravvisa anche la extraterritorialità della questione sollevata, in virtù delle tante commissioni coinvolte, compresa quella centrale.

E COMUNQUE SE CIO’ AVVIENE PER ME, NULLA IMPEDISCE CHE CIO’ POSSA SUCCEDERE AD ALTRI.

Ciò rende la presente denuncia non prettamente di competenza territoriale, ma di interesse nazionale.

PER QUANTO SU DETTO SI CHIEDE ALLA S.V.

La certa condanna per violazione degli articoli di legge che si riterrà di applicare, per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative.

DETTO QUESTO,

il denunciante con tale atto presenta denuncia e denuncia-querela penale ed esposto amministrativo contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con persone non conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili, scaturenti da una doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di costituzione di parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si chiede, come persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui ha diritto di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt. 406 comma 3 c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma 2 c.p.p. (richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459 c.p.p., alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.

AI FINI PROBATORI

Tenuto conto che per anni sono stato svenato al fine di produrre in copia migliaia di documenti, senza conseguire risultati, per la presente denuncia si indica esclusivamente come fonte di prova il dossier pubblicato alla pagina web ingiustizia.info/dossier%20malagiustizia.htm, che tra i suoi allegati raccoglie e contiene tutti i documenti pubblici estrapolati da fonti ufficiali o atti depositati presso uffici pubblici. Documenti non in possesso del denunciante, ma detenuti da enti pubblici e comprovanti nei fatti le mie affermazioni d’accusa. Si va dalla nomina del De Giorgi ai compiti non corretti, dal ricorso al TAR alle sue sentenze contraddittorie e persecutorie, dalle interrogazioni parlamentari al ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani. In questo modo il magistrato competente evita di delegare le indagini in loco, salvo che solo per identificare il presente denunciate, attingendo direttamente gli atti necessari. A causa dell’indigenza procurata dalla mancata abilitazione, si è oggettivamente impossibilitati alla trasferta per rendere dichiarazioni presso l’ufficio giudiziario procedente.  

Avetrana (Ta) lì 6 giugno 2012

Si allega documento di riconoscimento

 

Denuncia archiviata dalla Procura di Potenza con il n. PZ 2862/12 RGNR  

In riferimento al comportamento delle Commissioni di Esame di Avvocato e del Tar di Lecce si sono presentate delle interrogazioni parlamentari.  

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-07953 presentata da AUGUSTO DI STANISLAO mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349 

DI STANISLAO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:  

in relazione all'esame di avvocato, la legge n. 241 del 1990 e il Ministero della giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi;  

esse attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre alla sintassi, grammatica, ortografia e, cosa, fondamentale, ai princìpi di diritto del parere dato. Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza;  

le commissioni da sempre pervengono ad una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30 per cento al nord, 60 per cento al sud;  

le commissioni sono mancanti, spesso, di un componente necessario;  

risulta evidente come i tre compiti possano risultare non corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l'elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l'attinenza ai princìpi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione);  

di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata l'interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638, mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n. 072), oltre a quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n. 054. Grave è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, con il risultato di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l'accesso al beneficio del gratuito patrocinio -:  

quali iniziative intenda assumere per garantire il corretto svolgimento degli esami per l'abilitazione alla professione di avvocato. (4-07953)

 

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-01126 presentata da GIAMPAOLO FOGLIARDI mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054

FOGLIARDI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: 

il superamento dell'esame di Stato per l'esercizio dell'attività di Avvocato, sta diventando per migliaia di giovani cittadini italiani, un vero e proprio incubo, motivo di grandi e gravi preoccupazioni, a seguito delle difficoltà e problematiche, che lo stesso rappresenta;  

non è posto in discussione il contenuto della prova (tre temi scritti oltre una prova orale) quanto le modalità e gli aspetti conseguenti che ad essa si accompagnano; in particolare: 

 a) il periodo di tempo che separa lo svolgimento del tema scritto (dicembre) dalla conoscenza del relativo risultato, che avviene molto spesso dopo quasi un anno e il candidato nell'incertezza della risposta deve sottoporsi nuovamente ad una nuova prova;  

b) il meccanismo delle «commissioni itineranti» che comporta lo svolgimento dell'esame scritto in una città e la correzione in altra città, da parte di altra commissione, non ha certamente risolto il problema delle «raccomandazioni», anzi ha creato conflitti e contrapposizioni tra le diverse città;  

c) non è dato comprendere come mai molti temi, non ritenuti idonei, una volta richiesti per la conoscenza, sono stati trovati immuni da qualsiasi commento e/o correzione, tanto da presumerne la mancata correzione;  

d) è ritenuto ingiusto che la bocciatura all'orale comporti l'annullamento completo dell'esame e si debba ritornare a sostenere tre scritti di notevole e riconosciuta difficoltà;  

e) è pressoché impossibile per il candidato ricorrere nella competente sede legale contro la commissione qualora ritenga la sua prova idonea, perché di fatto come sopra specificato la risposta avviene spesso dopo la data di convocazione di una nuova sessione d'esame e dulcis in fundo qualora l'esaminante dovesse perdere il ricorso, oltre al danno la beffa, dovrebbe pagarne tutte le relative spese; 

 per molti di questi giovani, quasi la totalità, risulta difficile e moralmente inconcepibile, trasferire la propria residenza in sedi ritenute «abbordabili», e per molti di questi ragazzi come in premessa specificato non passerà molto tempo prima che inizino a citare in giudizio lo Stato per danno biologico, morale ed esistenziale conseguente allo stress che comporta l'esame di avvocato, inefficiente, iniquo ed ingiusto -:  

come intenda il Ministro interrogato affrontare detta situazione e quali proposte concrete presentare a fronte di una problematica forse molto più grave ed urgente di quelle affrontate in tema di giustizia dal Governo in questo inizio di Legislatura. (4-01126)

 

In riferimento alla estromissione al diritto di accedere al 5X1000 attuata nei confronti del Dr Antonio Giangrande, anche in qualità di Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS si sono presentate delle interrogazioni parlamentari.  

Antefatto. Il trucco del 5x1000: beneficio, ma non per tutti. Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 2010 si è previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale. Associazioni ed enti pronti a rimpinguare le loro misere casse con l'adesione di cittadini seguaci delle loro attività. L’Agenzia delle Entrate ha imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7 maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste dall’ufficio. Per farlo vi è l’obbligo dell’abilitazione ai servizi telematici. Dal 23 aprile al 7 maggio ci sono 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi. In questi 10 giorni, molti richiedenti, tra cui il dr Antonio Giangrande, hanno provato ad inoltrare la richiesta, ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell’anno precedente. I contatti telefonici con l’agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla lunga lista d’attesa, (fino a 70 contribuenti). La richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa nei termini, se non riceverla dopo 12 giorni dall’istanza. Le comunicazioni dell’Agenzia delle Entrate non hanno alcuna data, per cui inutile contestare il ritardo, non avendo prova, né te la fornisce il servizio postale, che interpellato sull’apposizione della data di ricezione, ti dice: “noi non mettiamo alcuna data, altrimenti i ritardi dell’Agenzia delle Entrate ricadono su di noi”. In questo modo gli enti pubblici fanno ricadere le colpe sui contribuenti, che non possono provare il disservizio. Comunque, se pur in palese ritardo, la richiesta del beneficio non si può inoltrare, in quanto avere il pincode e la password non basta. Dopo tutto il casino, nel momento in cui attivi i servizi telematici, ti comunicano sul portale web dell’Agenzia che bisogna rivolgersi ad un incaricato terzo abilitato (a pagamento). Cosa che a saperla, si sarebbe potuta fare dall’inizio, senza aver percorso tutta la trafila burocratica inutile. Risultato: in tempi ristretti e per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate non tutti hanno potuto accedere al beneficio. Ed è solo una semplice istanza. Il problema è che la prassi si ripete ogni anno e nessuno vi pone rimedio, mentre i contribuenti ignari pensano di aver donato una quota di tasse alla loro associazione, mentre i contributi, in realtà, vanno ad altri sodalizi. Nonostante un'interrogazione Parlamentare nessun ristoro vi è stato per il diritto leso, ma solo una risposta di circostanza ed autoassoluzione dell’interpellato.

 

ATTO CAMERA. INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/07726.

Dati di presentazione dell'atto. Legislatura: 16. Seduta di annuncio: 342 del 23/06/2010

Firmatari. Primo firmatario: FOGLIARDI GIAMPAOLO. Gruppo: PARTITO DEMOCRATICO. Data firma: 23/06/2010

Destinatari. Ministero destinatario: MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE

Attuale delegato a rispondere: MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE delegato in data 24/06/2010

Stato iter: CONCLUSO il 21/05/2012. Partecipanti allo svolgimento/discussione

RISPOSTA GOVERNO 21/05/2012 CERIANI VIERI, SOTTOSEGRETARIO DI STATO ECONOMIA E FINANZE

Fasi iter: SOLLECITO IL 14/10/2011. RISPOSTA PUBBLICATA IL 21/05/2012. CONCLUSO IL 21/05/2012

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-07726 presentata da GIAMPAOLO FOGLIARDI mercoledì 23 giugno 2010, seduta n.342

FOGLIARDI. - Al Ministro dell'economia e delle finanze. - Per sapere - premesso che: 

con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 aprile 2010 si è previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale; 

l'Agenzia delle entrate ha imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7 maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste dall'ufficio e, per farlo, vi è l'obbligo dell'abilitazione ai servizi telematici; 

dal 23 aprile al 7 maggio 2010 ci sono stati 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi e in questi 10 giorni molti richiedenti hanno provato ad inoltrare la richiesta, ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell'anno precedente e la richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa; 

i contatti telefonici con l'agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla lunga lista d'attesa, (fino a 70 contribuenti), provocando così, a causa dei tempi ristretti e dei disservizi dell'Agenzia delle entrate, l'impossibilità da parte di tutti di poter accedere al beneficio -: 

quali siano le ragioni di tempi tanto ristretti per la presentazione dell'istanza per l'iscrizione nella lista dei beneficiari del 5 per 1000 e di tanti oneri burocratici e tecnologici per una semplice domanda; 

per quale motivo non si istituisce un numero verde, funzionante, affinché il contribuente possa essere aiutato e tutelato contro i disservizi dell'Ente. (4-07726)

Atto Camera. Risposta scritta pubblicata lunedì 21 maggio 2012 nell'allegato B della seduta n. 635. All'Interrogazione 4-07726 presentata da GIAMPAOLO FOGLIARDI

Risposta. - L'Agenzia delle entrate in merito al beneficio del 5 per mille relativo all'anno 2010 ha fatto presente che, l'articolo 1 decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 aprile 2010 ha previsto, anche per l'esercizio finanziario 2010, la possibilità per i contribuenti di devolvere il cinque per mille della propria Irpef per il finanziamento in determinati settori. I settori individuati sono cinque e, come avvenuto per gli anni precedenti, l'Agenzia delle entrate ha curato la gestione dell'elenco del volontariato di cui alla lettera a) dell'articolo 1, comma 1, del citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché la gestione dell'elenco delle associazioni sportive dilettantistiche di cui alla lettera e) dell'articolo 1, comma 1, del medesimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. L'iscrizione nell'elenco del volontariato, come per i precedenti esercizi finanziari, è stata prevista esclusivamente in via telematica e il termine per la trasmissione era stato normativamente fissato al 7 maggio 2010. 

Di tale circostanza e delle altre disposizioni attuative del 5 per mille relativo al 2010 recate dal predetto decreto del Presidente del Consiglio dei ministri è stata data evidenza sul sito istituzionale della citata Agenzia agenziaentrate.gov.it, la quale ha altresì provveduto ad informare tempestivamente i potenziali beneficiari di questi e di altri adempimenti disposti dal predetto decreto del Presidente del Consiglio dei ministri attraverso il comunicato stampa del 23 aprile 2010 ripreso da numerosi organi di informazione. Il sistema di acquisizione delle domande telematiche - peraltro adottato sin dal 2006, anno di istituzione e tuttora immutato nella procedura - prevede il rilascio all'interessato, sempre con modalità telematiche, di una ricevuta attestante l'avvenuto invio. Ovviamente, nel caso di invio andato a buon fine, la ricevuta segnala tale circostanza, così come, in caso di invio oltre il termine previsto dalla norma, la ricevuta reca la comunicazione dello scarto della domanda, con la precisazione che la medesima è stata respinta «perché pervenuta al di fuori dei termini previsti». La procedura, infatti, è concepita in modo che «il canale» venga bloccato alla scadenza del termine disposto: nel caso del 5 per mille è stato inserito un blocco, conformemente alla normativa vigente, alla data del termine previsto per la presentazione delle istanze. Per quanto riguarda l'asserita onerosità di utilizzo riferita alla nuova tecnologia utilizzata dal programma scaricabile dal sito e dalla richiesta del nuovo codice pin e password per la trasmissione dell'istanza, si osserva che a partire dall'anno 2010 i prodotti di compilazione resi disponibili dall'Agenzia delle entrate, compreso quello relativo alla domanda del 5 per mille, hanno introdotto una semplificazione relativamente alle modalità di utilizzo da parte dell'utente. La vecchia procedura prevedeva, infatti, il download del pacchetto di installazione, l'installazione del prodotto e la verifica periodica sul sito della presenza di nuove versioni e, in tale caso, un nuovo download del pacchetto ed una nuova installazione del prodotto. La nuova tecnologia, invece, consente di attivare le applicazioni in maniera semplice e con un solo clic, avendo la certezza di utilizzare sempre la versione più aggiornata del prodotto, evitando complesse procedure di installazione o aggiornamento. Relativamente alla segnalata richiesta di un nuovo codice pin e alla relativa password, l'Agenzia delle entrate rappresenta che in alcuni casi potrebbe essere stata determinata dalla disciplina recata dal provvedimento del direttore dell'Agenzia stessa del 10 giugno 2009, emanato in attuazione delle prescrizioni adottate dal Garante per la protezione dei dati personali con provvedimento del 18 settembre 2008. Infatti, dal 2 novembre 2009, gli enti che non avevano nominato i gestori incaricati delle trasmissione telematica entro il 31 ottobre 2009, sono stati disabilitati d'ufficio. Il provvedimento del 10 giugno 2009 ha previsto la revisione delle modalità di abilitazione e di accesso ai servizi telematici al fine di assicurare i migliori standard in materia di rafforzamento della password policy relativa alle utenze, stabilendo, fra l'altro, la scadenza periodica delle stesse. Di tale circostanza ne è stata data ampia comunicazione sul sito telematici.agenziaentrate.gov.it con un avviso agli interessati sin dal 26 ottobre 2009. In particolare, qualora gli utenti non avessero a suo tempo nominato i gestori incaricati entro il termine fissato, sarebbero stati disabilitati d'ufficio a decorrere dal 2 novembre 2011. In seguito però, se si fossero trovati nella necessità di utilizzare il servizio, in ottemperanza alle prescrizioni del garante, avrebbero dovuto richiedere l'abilitazione e, quindi, nominare il gestore incaricato ad operare per conto dell'ente. Giova in proposito porre in risalto che nei comunicati stampa sopra citati e nella partizione relativa al 5 per mille del sito web dell'Agenzia delle entrate, proprio per prevenire qualsiasi tipo di problematica, si è data evidenza anche della modalità alternativa di trasmissione da parte dei rappresentanti degli enti di cui trattasi, in quanto per l'invio telematico della domanda era possibile ricorrere ad un intermediario abilitato. Detta modalità alternativa teneva conto anche della circostanza che non tutti i contribuenti sono abilitati ai servizi telematici per la trasmissione di atti. In ordine all'auspicata attivazione di un numero verde per l'assistenza telefonica, l'Agenzia fa presente che per il canale Entratel, è già esistente il servizio telefonico dedicato al n. 800.299.940, mentre gli utenti di Fisconline, possono ricevere assistenza componendo il n. 848.800.444. Il Sottosegretario di Stato per l'economia e per le finanze: Vieri Ceriani.

 

In riferimento alla censura attuata nei confronti del Dr Antonio Giangrande, anche in qualità di Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie  si sono presentate delle interrogazioni parlamentari.  

Legislatura 15 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-03178

Attiva riferimenti normativi Pubblicato il 6 dicembre 2007 Seduta n. 263

RUSSO SPENA - Al Ministro delle comunicazioni. - Premesso che:

il 20 giugno 2007 la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi accoglieva una domanda di accesso al palinsesto RAI da parte dell'associazione "Contro tutte le mafie", associazione tra l'altro riconosciuta dal Ministero dell'interno;

successivamente, il 17 ottobre 2007, la RAI revocava l'autorizzazione ad insaputa dell'associazione;

l'8 novembre la RAI inviava una squadra e un regista per le riprese del servizio sull'associazione, facendo pertanto presumere il superamento di ogni perplessità e l'accettazione della messa in onda del servizio;

considerato che:

il 15 novembre l'associazione chiedeva di conoscere la data di messa in onda e riceveva risposta certa indicante un servizio della durata di dieci minuti nella trasmissione di RAI1 del 23 novembre 2007 alle ore 10.40;

di fatto, il 23 novembre la trasmissione veniva cancellata ed il palinsesto di RAI1 stravolto;

immediatamente l'associazione si attivava per chiedere la motivazione dell'oscuramento del servizio telefonando alla redazione del programma di RAI1, che però negava risposta e annunciava una futura lettera di motivazione (in palese violazione della legge 241/1990 che prevede la risposta immediata in seguito a domanda d'accesso ad un servizio);

solo il 3 dicembre 2007 l'associazione riceveva uno scarno comunicato in cui si rilevava che l'autorizzazione era stata rilasciata il 20 giugno e poi revocata il 17 ottobre in seguito a proposta della RAI che non reputava degna l'associazione, adducendo addirittura perplessità circa la sua organizzazione,

si chiede di sapere:

per quale motivo si sia intervenuto a censurare una trasmissione programmata, nonostante vi sia stato parere favorevole della Commissione di vigilanza alla divulgazione;

perché la redazione abbia inviato una motivazione "postuma" ed evitato di rispondere alle domande poste nella stessa data di mancata messa in onda.

In riferimento alle ritorsioni attuate nei confronti del Dr Antonio Giangrande, anche in qualità di Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie  si sono presentate delle interrogazioni parlamentari.  Pubblicato il 10 aprile 2003 

Legislatura 14 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-04363Attiva riferimenti normativi Atto n. 4-04363

 Seduta n. 381

 CURTO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia. - Premesso:

che allo scrivente è pervenuta copia di un esposto inviato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia, al Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al Presidente del Consiglio Nazionale Forense, al Procuratore Generale della Repubblica c/o la Corte d’Appello di Taranto, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Potenza, al Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale di Taranto e al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto;

che tale esposto, penale ed amministrativo, sembra sia l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di denuncie ed esposti tendenti a smantellare illegalità di vario tipo che colpiscono i cittadini più deboli e più poveri ad opera di chi rappresenta la giustizia nel nostro Paese, in particolare giudici ed avvocati;

che, per la delicatezza della questione, e a causa della mancanza di un qualsiasi riscontro a questo esposto e ad altri precedenti atti congeneri, ritengo opportuno riportare di seguito il testo del citato esposto:

“Oggetto: omissioni d’atti d’ufficio ed abusi d’ufficio presso gli Uffici Giudiziari di Taranto.

In campo penale si viola il diritto di difesa della persona offesa dal reato;

Al Registro Generale non si ritrovano iscritte notizie di reato, di cui si è presentata regolare denuncia o querela o esposti firmati, ex art.335, c.p.p. ed ex art.110 bis att. c.p.p., né si forniscono notizie circa le notizie di reato iscritte.

Non si comunica, quando richiesto, ex artt.406, 408 c.p.p., la proroga delle indagini e la richiesta di archiviazione al GIP, impedendo l’opposizione alla stessa.

Non si svolgono indagini, ex art.50 c.p.p., nei confronti di persone influenti, e Pubblici Ufficiali che li coprono, per notizie di reato di abusivismo edilizio e violazione di norme ambientali, di sfruttamento del lavoro giovanile e nero ed emissione di buste paghe false, di concorsi truccati per diventare avvocato e di evasione fiscale e contributiva sui praticanti avvocati, di aggressioni ad avvocati per impedirgli la presenza in udienza, di abbandono di incapaci, di riciclaggio di assegni nominativi rubati, di emissione di deleghe false, di truffe Enel, ecc…

Si eseguono sequestri innominati, senza notifica di copia all’interessato. Al soggetto interessato, quando è ritenuto incapace, non si nomina un tutore, impedendo la nomina di un difensore di fiducia, né si nomina un difensore d’ufficio, affinchè il soggetto possa opporre richiesta di riesame, ex artt.257, 322 c.p.p., ed esercitare tutti gli altri diritti processuali, ovvero, se abbandonato fin anche dalle istituzioni, possa esercitare ogni facoltà a favore dello stesso, siano di cura, assistenza, mantenimento, ecc…

In campo penale si viola il diritto di difesa della persona sottoposta ad indagine;

Si chiedono sommarie informazioni alla persona nei cui confronti si svolgono indagini, senza che questa sappia di essere indagata e di conseguenza senza la presenza necessaria del difensore, ex artt.350, 369, 369 bis c.p.p.

Ex artt.358, 362 c.p.p. non si svolgono accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato, né si assumono informazioni utili alle indagini, omettendo l’interrogatorio dello stesso.

Non si procede nei confronti di soggetti rei dello stesso reato.

Si ritrova il fascicolo degli atti d’indagine compiuti dal P.M. e delle dichiarazioni rese dagli indagati, coperti dal segreto d’ufficio, ex art.329 c.p.p., alla pubblica conoscenza degli indagati e degli estranei in procedimento civile di interdizione. Procedimento civile d’interdizione che dura anni e senza la presenza dell’interdicenda. Quando questa è presente, la si sente alla presenza di decine di persone divertite.

Si obbliga la persona sottoposta ad indagine ad essere il difensore di fiducia e tutore convenzionale del soggetto offeso dallo stesso reato, in quanto non si nomina un difensore d’ufficio, né un tutore, affinchè la presunta incapace possa esercitare i suoi diritti processuali e l’indagato non possa reiterare le azioni ritenute lesive.

Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si comunica il limite di ammissione di € 5.815,30 (lire 11.260.000) quale reddito del nucleo familiare, anziché € 9.296,22 (lire 18 milioni), ex art.3, L.134/01, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace.

Volutamente si impedisce alla persona sottoposta ad indagine di chiedere il gratuito patrocinio e quindi nominare un difensore di fiducia capace, pagato dallo Stato, perché si ignora ogni istanza di concessione del gratuito patrocinio, presentata ex art.2 L. 217/90, obbligandolo ad avere un difensore d’ufficio, che non conosce, e che, forse, è meno capace.

In campo civile si violano i diritti di difesa delle parti private;

Le vendite dei pignoramenti di beni mobili non si eseguono per mancanza di organi preposti alla vendita, (Istituto Vendite Giudiziarie, Commissionari), ovvero, quando ci sono, si eseguono al di sotto del 10% del valore pignorato, obbligando l’abbandono del procedimento di esecuzione per antieconomicità, perdendo il conto capitale e le spese di giudizio.

Si omette di sollevare il problema dei tempi biblici dei procedimenti civili ordinari e speciali, con meri rinvii delle udienze effettuati per decenni con la complicità dei Giudici.

Con la presente si chiede alle autorità interpellate di intervenire, adottando i provvedimenti necessari, con preghiera di riscontro al sottoscritto, pronto a dare prova per quanto su esposto. In caso contrario si chiede di procedere obbligatoriamente nei confronti del sottoscritto, attivando procedimento penale di calunnia, se bugiardo, ovvero procedimento civile d’interdizione, se pazzo.”,

l’interrogante chiede di conoscere:

se si ritenga opportuno verificare quanto riportato dall’esposto in questione;

se si intenda, e in quale modo, procedere qualora gli argomenti, o alcuni di essi, rispondessero a verità.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Umberto Eco, filosofo, semiologo e saggista di fama internazionale ha espresso il suo pensiero l'11 giugno 2015 durante la consegna della laurea honoris causa in comunicazione e culture dei media all'università di Torino: "I social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel".

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Nell’antichità i sacerdoti detenevano il sapere delle leggi, giusto per non perdere i privilegi ed affinchè tali norme non potessero essere usate contro di loro.

Dopo migliaia di anni nulla è cambiato. La responsabilità dei propri atti, se è riconosciuta ai poveri mortali italiani, non vale per il Presidente della Repubblica e per i magistrati italioti.

Ciò nonostante una riforma farlocca della loro responsabilità civile, che nulla cambia rispetto all'assenza di regole precedenti sanzionatorie.

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

I magistrati sanno solo dire: “Lei non sa chi sono io?”

Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi?». «Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.

Intanto c'è chi marcisce in galera...

«Se sbaglio dovrò pagare i danni». E il giudice sospende la sentenza. Treviso, contestata la responsabilità civile dei magistrati: «Spinge ad assolvere tutti», scrive Andrea Priante su “Il Corriere della Sera”. La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati rischia di minare l’imparzialità di giudizio. Per questo motivo, un giudice del tribunale di Treviso ha deciso di non emettere la sentenza. È accaduto nelle scorse settimane e ora la questione è nelle mani della Corte Costituzionale che dovrà esprimersi sui dubbi sollevati da Cristian Vettoruzzo, una toga in servizio alla sezione penale. La vicenda inizia in aula, il 31 marzo, alla conclusione del dibattimento sulle responsabilità del locatario di un capannone all’interno del quale erano stati rinvenuti 47 quintali di sigarette di contrabbando. Per il pm non c’è dubbio: l’uomo va condannato a due anni di reclusione e ottomila euro di multa. La difesa, invece, ne chiede l’assoluzione. Il giudice si prende qualche settimana per decidere e l’8 maggio sospende il processo rimettendo gli atti alla Consulta perché, spiega, non c’è alcuna prova certa ma «sono emersi, invece, elementi indiziari (…) e la valutazione di elementi indiziari è, come noto, particolarmente difficile e “rischiosa” in ordine alla correttezza dell’esito del giudizio». Ed è proprio in questi casi - continua il giudice nell’ordinanza - che «si manifestano i riflessi negativi e costituzionalmente illegittimi della nuova disciplina delle responsabilità civile dei magistrati introdotta con la legge del 27 febbraio 2015». La norma, è la tesi che esce dal tribunale di Treviso, finisce «per incidere sul principio del libero convincimento del giudice che, per essere indipendente, deve essere libero di valutare le prove, senza temere conseguenze negative a seconda dell’esito del suo giudizio». Invece la nuova disciplina «prevedendo come possibile fonte di responsabilità civile anche la valutazione dei fatti e delle prove, mina il cuore dell’attività giurisdizionale». Vettoruzzo dice di non sentirsi «umanamente» sereno nel mettere nero su bianco la sentenza: «Per forze di cose – spiega nell’ordinanza – se sa che la sua attività di valutazione potrà comportargli una responsabilità civile per danni, il giudice sarà portato, quale essere umano, ad assumere la decisione meno rischiosa che, nel processo penale, è quasi sempre identificabile nell’assoluzione dell’imputato». Da qui i dubbi di legittimità per alcuni passaggi della nuova legge, che prevede «di fatto» la possibilità da parte dello Stato di rivalersi sul giudice che, «per dolo o per colpa grave», nel corso del suo operato abbia danneggiato un cittadino. In questo modo – sostiene il magistrato trevigiano - si finisce col ledere il principio per cui «il giudice è soggetto soltanto alla legge». E per dimostrarlo ricorda una sentenza emessa proprio della Consulta, secondo la quale «la disciplina dell’attività del giudice deve essere tale da rendere quest’ultima (…) libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza». Garantire l’assenza di responsabilità personale del singolo magistrato è fondamentale, secondo Vettoruzzo, che poi ribadisce a quale pericolo lo esponga questa legge: «Se il giudice sa che la sua attività può comportare una responsabilità per danni sarà portato, quale uomo, a preferire l’opzione meno rischiosa e ciò, in particolare, nei processi più insidiosi ove, per ipotesi, la prova è indiziaria o dove sono in gioco rilevanti interessi economici». Da qui la necessità di «reintrodurre la clausola di salvaguardia nell’azione di rivalsa esercitata dallo Stato nei confronti del magistrato». Inoltre il giudice di Treviso ipotizza l’illegittimità della legge che ha abrogato ogni filtro alle richieste di risarcimento: «Un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando a escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale». Infine, sarebbe incostituzionale anche il passo della legge che prevede, in caso di rivalsa da parte dello Stato, che al magistrato venga prelevato un terzo della paga mensile considerato che «per tutti gli altri dipendenti pubblici la trattenuta non può superare il quinto dello stipendio».

"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. Da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene,  a distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti “eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con “Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: “Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai (in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: “lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo), oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Processi veloci? Meglio processi giusti, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Il presidente della Repubblica Mattarella, nell’ambito della sua visita al Consiglio Superiore della Magistratura, ha fatto un intervento, affermando una cosa giusta e una sbagliata. Quella giusta e sacrosanta è che il Csm non può riformarsi da solo, perché invece occorre necessariamente che sia il legislatore ad intervenire soprattutto in tema di elezioni e di funzionamento della sezione disciplinare. Ed infatti, è proprio così. Se ci cono aspetti che davvero debbono essere riformati sono di sicuro il sistema elettorale attuale che alimenta a dismisura il sistema correntizio all’interno del Csm e quello della giustizia disciplinare che lascia troppo a desiderare, mostrando una cedevolezza eccessiva: le sentenze che affermano una responsabilità di un magistrato sono infatti assai rare e sempre assai miti, rispetto ai fatti accaduti e contestati. La cosa invece sbagliata che il capo dello Stato ha affermato è che la gente preme sempre di più e sempre di più si aspetta processi veloci. Ora, è ben vero che in Italia i processi hanno una durata biblica e che siamo per questo lo zimbello del mondo civile, ma lo siamo ancor di più perché il tasso di giustizia presente all’esito del processo si mostra pericolosamente ridotto e comunque precario. Insomma, fare i processi in modo più veloce è certo un bene, ma non è il bene principale: il bene principale è che dai processi scaturisca con una certa probabilità che sia ragionevole una decisione riconoscibile socialmente come giusta. Ciò purtroppo in Italia accade con una frequenza troppo bassa e per questo si avverte come un diffuso senso di disagio serpeggiare fra tutti coloro che per professione o per necessità son costretti a fare i conti con l’amministrazione della giustizia italiana. Non parliamo poi di cosa pensano all’estero di quanto accade nei nostri Tribunali, soprattutto in casi che hanno fatto molto rumore presso la stampa e l’opinione pubblica, come quelli di Adriano Sofri o di Raffaele Sollecito ed Amanda Knox. In casi del genere, i corrispondenti esteri sono stati costretti ad assistere allibiti alla celebrazione di sei, sette o più procedimenti penali che ogni volta ribaltavano la decisione già assunta: chi, per il Tribunale era innocente, per la Corte d’Appello era invece colpevole, per la Cassazione di nuovo innocente e poi da capo in una girandola di sentenze che si annullavano, si confermavano, si riformavano una dopo l’altra in un tragicomico gioco dell’oca. Alla fine, nessuno ci capisce più nulla e sarebbe molto più serio e rispettoso, anche della dignità delle persone coinvolte, lasciar perdere tutto e rinunciare ad ogni ulteriore prosecuzione. Ne viene che, per ogni evidenza, se i processi son troppo lunghi, spesso è perché son fatti male, in modo tale cioè da esigere gradi su gradi di giudizio, con tanti saluti alla giustizia della sentenza. Non mi stancherò di ripeterlo, seguendo Seneca: «cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito». Vale a dire: chi scrive in fretta scriverà male, chi scrive bene scriverà in fretta. Sarebbe allora il caso allora che i nostri governanti ci pensassero un poco come si deve, per adottare provvedimenti destinati non a far presto i processi ma a farli bene, meglio di quanto siano fatti oggi. Anche perché, come sappiamo, farli bene – cioè capaci di rendere giustizia – equivale a farli in fretta. Assai più di oggi.

In galera per 22 anni da innocente: Gulotta racconta la sua storia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Era il 7 novembre 2014, quando “Il Garantista” vi aveva raccontato insieme all’avvocato Baldassarre Lauria, il più grande caso di ingiustizia dal dopoguerra a oggi. Protagonista di quella storia era Giuseppe Gulotta, un galantuomo di Alcamo finito dietro le sbarre appena diciottenne nel 1976, che ha speso 36 anni della sua vita tra galera e tribunale pur essendo innocente. Accusato dell’omicidio di due carabinieri, di aver fatto un blitz nella casermetta di Alcamo, Gulotta si rivelò molti anni dopo al centro di una sporca macchinazione di Stato che lo vide torturato e incriminato per nascondere l’indifendibile: un omicidio di Stato, voluto da Gladio e servizi deviati, che trovò in Giuseppe il perfetto capro espiatorio grazie a una confessione, estorta con la tortura, che lo costrinse a dichiararsi colpevole. Dopo qualche anno di silenzio, dopo vani tentativi di ottenere giustizia per i ventidue anni di carcere scontati da innocente, Giuseppe Gulotta ha deciso di raccontare la sua incredibile storia in “Alkamar” (il nome della piccola caserma di Alcamo che gli cambiò per sempre la vita), libro verità che ha scritto per ChiareLettere, e che presenterà il 10 giugno alle 19 e 30 presso “La luna ribelle” di Reggio Calabria assieme al giornalista Nicola Biondo. All’evento, ideato e realizzato dalla Fondazione “Giuseppe Marino” e introdotto da Daniela Bonazinga, saranno presenti anche Antonio Marino, presidente Fondazione “Giuseppe Marino”, Giuseppe Falcomatà, Sindaco di Reggio Calabria, Giovanni Muraca, Assessore comunale alla Legalità, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, avvocati, e suoi difensori. La data scelta per l’uscita del libro non è casuale. Proprio il 10 giugno, al tribunale di Reggio Calabria, si terrà difatti l’udienza relativa alla causa civile per il deposito delle perizie che verificheranno gli eventuali danni esistenziali, morali, biologici e patrimoniali subiti da Giuseppe Gulotta. Per comprendere di che tenore sarà il racconto di questo uomo mite, che pure non riesce a esprimere nemmeno un’ombra di rancore verso i suoi carnefici, ma soltanto rammarico per il figlio che non è riuscito a crescere, basti riandare con la memoria al racconto del suo legale Lauria. Che bene raccontò al nostro giornale, sulla base della confessione dell’ex brigadiere Olino, uomo meritevole che lasciò la divisa dopo gli orrori vissuti, come andarono le cose. «Gulotta, Ferrantelli e Santangelo vennero arrestati nella notte del 12 febbraio – ricorda Lauria – e brutalmente torturati e picchiati. Smisero di fare loro del male soltanto quando si autoaccusarono della strage di Alcamo. Tutto accadde in assenza dei loro difensori. C’era anche un allora giovane magistrato della Procura di Trapani, che assistette a quell’orrore senza farne denuncia. Non ebbe il coraggio di firmare i verbali. Lo chiameremo a rispondere di quella condotta». «Giuseppe Gulotta – prosegue l’avvocato – fu arrestato e riempito di botte per una notte intera. Fu preso a calci, gonfiato di pugni, gli puntarono le pistole alla tempia, gli presero a calci i genitali. Bevve acqua salata. Smisero di farlo a pezzi soltanto quando ebbero ciò che volevano: la confessione di essere stato il responsabile dell’eccidio in caserma». Il perché di tutta questa barbarie, giova ancora una volta ricordarlo. Ed ha a che fare con “Alkamar”, la casermetta in cui prestavano servizio due carabinieri sbagliati. Pochi giorni prima avevano fermato un camioncino che dovevano fingere di ignorare. Era carico d’armi destinate alla mafia. Armi di cui lo Stato sapeva negli anni sporchi di gladio. Leonardo Messina riferì alla Dia nel 99 che ad Alcamo, proprio negli anni dell’eccidio, era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni. Era giunto un contrordine, ma ormai il pasticcio era fatto. Trucidare i due uomini di Stato impiccioni, per lo Stato deviante non fu per nulla complicato. Le uniche complicazioni le ebbe Gulotta. Oggi finalmente Giuseppe può raccontare la sua storia. Da uomo libero. Da uomo distrutto che però non ha perso fiducia nelle istituzioni. Ce lo ha raccontato l’avvocato Lauria: «Dice che ha un solo rammarico, Giuseppe. Dice che quando finì in carcere aveva un bimbo di un anno e mezzo. Gli sarebbe piaciuto accompagnarlo a scuola. Almeno un giorno. Un giorno solo della sua vita».

Gulotta è da considerare un impresentabile?

Il Codice Chiaromonte, scrive Finemondo di Marco Damilano su “L’Espresso”. «Non possiamo affidare all'arma dei carabinieri o alle questure il compito di preparare elenchi di uomini politici e di amministratori sui quali gravono sospetti non provati, o a volte soltanto dicerie di vario tipo». Così parlava il presidente della Commissione parlamentare Antimafia illustrando alla stampa la nuova iniziativa della commissione per arginare l'infiltrazioni delle cosche criminali nelle liste elettorali. Un codice di autoregolamentazione sottoscritto da tutti i partiti, in cui le forze politiche si impegnavano a escludere dalle candidature quei nomi per cui fosse stato emesso decreto che disponeva il giudizio, o che presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio...In questi giorni l'iniziativa della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi di stilare una lista di cosiddetti impresentabili alla vigilia del voto regionale è stata definita in vari modi. «Sul piano umano volgare, sul piano politico infame, sul piano costituzionale eversiva», ha tuonato a notte fonda di fronte alla direzione del Pd il neo-presidente della Campania Vincenzo De Luca, il più illustre degli impresentabili. Parole accolte con l'applauso dei dirigenti del Pd, in linea del resto con quanto dichiarato nei giorni scorsi dai principali esponenti del partito. Contro De Luca? No, contro la Bindi. Si è detto: lista di proscrizione (Orfini), lista che lede i diritti costituzionali (Serracchiani), lista personale (Guerini, Carbone). E anche, ma da altro pulpito, più prestigioso e autorevole, il presidente dell'Anti-corruzione Raffaele Cantone: «quella lista è un errore grave. Non spetta all'antimafia fare liste, ma studiare il fenomeno mafioso». Eppure la lista Bindi non è un caso senza precedenti. Perché già in passato la commissione Antimafia provò a prendere un'iniziativa identica per modalità, tempistica e reazioni dei politici coinvolti. Di diverso c'era l'epoca: il 1991-92, il tramonto della Prima Repubblica. E la figura del presidente dell'Antimafia: il comunista Gerardo Chiaromonte, amico di Giorgio Napolitano e di Emanuele Macaluso, lontano anni luce da pulsioni giustizialiste e anzi severo critico nelle fasi successive degli eccessi di Mani Pulite. Un comunista di destra, garantista e prudente, se vogliamo dire così l'opposto per carattere e origine di Rosy Bindi, passionale cattolica di sinistra. Eppure il garantista Chiaromonte segue lo stesso percorso della Bindi e sarà oggetto di attacchi simili sul piano personale da parte dei vertici del suo partito, il Pds appena nato sulle ceneri del Pci. Il codice fa il suo esordio in vista delle elezioni regionali in Sicilia del giugno 1991. C'è ancora la Dc del 40 per cento nell'isola, Salvo Lima è potente europarlamentare, il partito sul piano nazionale è fortissimo, Andreotti regna a Palazzo Chigi con il Caf (Craxi Andreotti Forlani). «Il codice è uno strumento di selezione del personale politico e amministrativo e inverte un processo di degenerazione che non si può regolare altrimenti, perché le esclusioni per legge sono contrarie allo stato di diritto», spiega Chiaromonte. Una libera scelta della politica, chiamata a vigilare con più forza su se stessa, non una violazione della presunzione di innocenza. Anche in quel caso inizialmente i partiti sono o fingono di essere entusiasti: «Un tassello di grande importanza nella lotta alle deviazioni. Si interviene sulla candidabilità non attraverso una legge, ma un patto politico che può semplificare, in qualche caso, anche il problema delle nomine», si spertica in lodi il presidente della regione Sicilia, il dc Rino Nicolosi. I guai arrivano, naturalmente, quando dalle parole si passa ai fatti, cioè ai nomi. Per le regionali siciliane (stravinte dalla Dc) la commissione decide di pubblicare le conclusioni sulle liste a elezioni svolte, tre mesi dopo, senza dare i nomi ma soltanto il numero dei candidati che partito per partito hanno violato il codice: cinque deputati dell'assemblea regionale siciliana (Dc, Pds, Psi, Psdi e Msi-dn) sono stati candidati fuori dalle regole. «Abbiamo inviato i nominativi segnalatici ai segretari dei partiti. Rinnoviamo loro l'invito ad assumere le iniziative più opportune per una riforma sostanziale del modo di far politica e amministrazione soprattutto, ma non solo, nel mezzogiorno». A rispondere, a sorpresa, è il segretario del partito di Chiaromonte, Achille Occhetto, inferocito per l'inserimento nella lista di alcuni candidati del Pds: «La Commissione fornisca elementi di fatto più documentati di quelli indicati». Passa qualche mese e arrivano le elezioni politiche del 1992. Elezioni decisive: le prime con la preferenza unica, segnate dall'arresto a Milano del socialista Mario Chiesa e dall'omicidio a Palermo del dc andreottiano Salvo Lima. L'Antimafia decide di fare un passo avanti. «Per lottare contro la mafia, non solo Cesare, ma anche la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto», dice il garantista Chiaromonte. «Il nostro invito a tutti i partiti e ai movimenti che presenteranno candidature nella imminente consultazione elettorale, è quello di applicare con puntualità e rigore le norme esistenti e di onorare l'adesione data al codice di autoregolamentazione suggerito dalla commissione Antimafia». La domenica elettorale è il 5 aprile 1992. Nella settimana del voto (esattamente com'è succeduto per la Commissione Bindi), il 31 marzo, l'Antimafia pubblica la lista dei nomi «che dimostrano come da parte della maggioranza dei partiti non sia stata data un'interpretazione rigorosa dell'impegno a non presentare candidati che pur non essendo stati rinviati a giudizio hanno pendenze giudiziarie in corso». I nomi sono 33: 8 per il Msi, 6 per il Psdi, 4 per Psi, Pli e Lega, uno per Dc, Rifondazione Comunista, Pri, Verdi, Verdi Federalisti, Lega delle Leghe e Lista Civica di Taranto (ovvero Giancarlo Cito). Il primo in elenco è il missino Massimo Abbateangelo, condannato in primo grado all'ergastolo per banda armata, l'ultimo è il liberale Gianluigi Zelli, condannato per ricettazione e per detenzione e spaccio di droga. Il giorno dopo infuriano le polemiche. «L'Antimafia ha svolto un lavoro fazioso utilizzato da 'giornali e telegiornali per gettare in abbondanza fango sul Msi-Dn, presenteremo querele per diffamazione», reagisce il portavoce del partito, Francesco Storace. Un paio di nomi vengono depennati perché non rientrano nei requisiti indicati. E l'Antimafia viene lasciata sola. «La decisione di procedere alla pubblicazione prima delle elezioni era stata assunta dalla commissione in una seduta a gennaio, era universalmente nota e noi eravamo tenuti a rispettarla. Per la pubblicazione dei nomi ci siamo attenuti a un criterio assai rigoroso, facendo riferimento soltanto a persone condannate o rinviate a giudizio. Non possiamo esercitare noi una qualsiasi valutazione sull'entità dei reati per i quali erano state emanate condanne o decisi rinvii a giudizio», si difende Chiaromonte usando quasi le stesse parole utilizzate oggi dalla Bindi. È il 2 aprile 1992. Chiaromonte morirà un anno dopo, il 7 aprile 1993. La legislatura che comincia nell'indifferenza dei partiti per l'inquinamento delle liste eleggerà il Parlamento di Tangentopoli e delle stragi di mafia, Falcone, Borsellino, le bombe del 1993, i parlamentari siciliani rinchiusi a Roma con la paura di essere uccisi. De Luca era un comunista campano, immaginiamo devoto di Chiaromonte. Oggi il Pd lo applaude e isola Rosy Bindi, nessuno ha sentito il bisogno di chiederle scusa. E forse stasera in commissione Antimafia ci sarà un inedito processo, con la presidente nelle vesti dell'imputata e un pezzo di Pd sui banchi dell'accusa. Eppure, a distanza di anni, è lecito chiedersi chi è in continuità con la storia politica della sinistra e con quella istituzionale dell'Antimafia che fu di Gerardo Chiaromonte: Rosy Bindi o Vincenzo De Luca?

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi, qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.

"Il popolo italiano odia lo Stato ma non può farne a meno, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Più passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella. Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare. Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti. Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano. La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori. Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia. È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo.

Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti. La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesie comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle. Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici. La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa. Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese. Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale. La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore. Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione. Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna. Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano. La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia. Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese. Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano. Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini. Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile.

Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.

Italia, un paese fondato sull’insulto. Dalle risse tra comuni in età medievale, alle lotte tra fazioni durante e dopo il Ventennio fascista, dall'odio dei settentrionali verso i meridionali fino ai recenti scontri che animano l'arena politica, la storia italiana è punteggiata da episodi di azioni compiute allo scopo di sminuire la dignità dell'avversario. Giancarlo Schizzerotto analizza lo scherno come arma politica in un'ottica di filologia integrale, individuando in questo fenomeno particolarmente vivo nell'Età di Mezzo un tratto caratteristico della nostra civiltà.

Italia, un paese fondato sull’insulto, scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. L’Italia, una civiltà fondata sullo scherno. Nell’attualità possono venire in mente gli sberleffi delle tifoserie del pallone, o quelli in Parlamento come la mortadella alla caduta del Governo Prodi un po’ di anni fa. O magari i “vaffaday” di Beppe Grillo, o le bordate di prese per il popò di origine social ai danni di star e starlette, uomini politici, cantanti e scrittori. Ma la tendenza, l’atteggiamento, il costume culturale è molto più antico di quanto cronaca riveli. Lo testimonia un librone di Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di campanile. Per una storia culturale dello scherno come elemeno di identità nazionale, dal Medioevo ai giorni nostri (Olshki, Firenze, pp. 642, 54 euro). Una rassegna enciclopedica, documentatissima, di modalità insultatorie, tutte italiane e diffuse da secoli. Schizzerotto (scomparso nel 2012), ex normalista, poi direttore di diverse biblioteche del Nord Italia ha scritto un “libro della vita”, costato un decennio di lavoro che è anche un fantastico promemoria di litigiosità, scherzi più o meno macabri, calpestamenti più o meno simbolici ma sempre al grado di crudeltà più alto possibile, della figura dell’avversario, del rivale, del dirimpettaio. Una storia e geografia ragionata dei motivi di dis-unione italiana. Prendiamo la Commedia di Dante. L’Inferno (ma anche il Purgatorio e perfino il Paradiso) tra l’altro è un’enorme collezione di vituperia. Ci sono insulti ad altre città (“Pisa vituperio de le genti”; “Godi Fiorenza…”), strigliate sanguinose a personaggi storici, Capaneo che squadra le fiche al Cielo. Non è solo la santa indignazione del poeta-profeta, è anche il riflesso di un modus polemico diffuso nell’Italia di allora. Nel 1334 i bolognesi, imbufaliti con il legato pontificio di passaggio lo coprirono di contumelie, gli fecero il gesto delle “fiche” (il pollice tra indice e medio), mentre un drappello di prostitute mostravano al legato la loro “natura”. Addirittura nel Duecento sulla rocca di Carmignano c’erano due braccia di marmo immortalate nel gesto delle “fiche” all’indirizzo di Firenze. E, nel 1335 il gonfaloniere di Perugia per oltraggiare Arezzo perdente, oltre a far razziare il Duomo, fece istituire un Palio in città, a cui partecipavano solo prostitute vestite di rosso, che cavalcavano alla maniera degli uomini col vestito sollevato fino alla cintola. Quella dei Palii organizzati per puro scherno nelle città vinte era solo una delle tradizioni insultatorie. C’era anche, per esempio, l’uso di coniare monete apposite con simboli di scherno, o quello di entrare nella città conquistata con i pantaloni abbassati mostrando il sedere agli sconfitti. O altri sistemi di irrisione: nel 1449 a Firenze, l’ingresso della casa dell’ambasciatore milanese Sforza fu sommerso da quintali di letame. E fin qui siamo più o meno alla goliardia. Ma il libro di Schizzerotto documenta la crudeltà verso persone e animali, fino all’horror. Per esempio durante gli assedi, così diffusi nel Medioevo e Rinascimento, c’era l’uso di lanciare con le catapulte asini e giumente nella roccaforte nemica. Spesso si trattava di carogne putrefatte. Con intenti, oltre all’insulto, di guerra batteriologica. E si lanciavano anche feci e contenitori di urina, pesce marcio, immondizia, oltre ai soliti corpi contundenti. E se l’uso di rimandare a casa i prigionieri dopo avergli fatto tagliare nasi, mani e orecchie come umiliazione per la città di appartenenza e deterrente psicologico si è conservato fino a oggi in certe forme di guerriglia tribale (vedi Africa e Medioriente), ci sono episodi in cui la crudeltà diventa arte dello scherno: nel 1530 mentre Fabrizio Maramaldo assediava Volterra trovò fuori dalle mura un gatto sospeso per la pelle della schiena, le cui urla straziate erano un terribile sfottò del suo cognome: Maramaus.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassibile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?

Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”. Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.

Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?

Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.

Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.

E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.

Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.

Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.

Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto.

"ZeroZeroZero" originalità. Saviano accusato di plagio. Il Daily Beast elenca passi da articoli mai citati e interviste inventate. Conclusione: "Un libro disonesto". La replica: "Sono solo coincidenze", scrive Matteo Sacchi Venerdì 25/09/2015 su  ”Il Giornale”. Non c'è pace per Roberto Saviano. A giugno i giudici italiani, corte di Cassazione, hanno messo nero su bianco che nel suo libro più famoso, Gomorra (Mondadori), 10 milioni di copie vendute solo in Italia, c'erano dei passi plagiati da articoli di giornali locali del gruppo editoriale Libra. Pochi ma c'erano. La corte ha in quel caso ridotto ai minimi termini la responsabilità economica di Saviano, e del suo editore, per il plagio ma lo ha determinato in maniera definitiva. Come spiega la sentenza, già nei precedenti gradi di giudizio c'era stato «un analitico ed approfondito esame dei brani riportati nel romanzo Gomorra arrivando alla conclusione che riguardo a tre dei sette brani riportati vi è stata una illecita appropriazione plagiaria degli stessi in quanto in questi casi il romanzo riportava quasi integralmente gli articoli in questione». Sui media italiani non è che ci sia stata grande eco per la notizia, anzi. Invece negli Usa, dove la recensione dei libri è spesso molto analitica e pignola, è un giornale on line, e non un tribunale, a «bacchettare» Saviano. Ieri il Daily Beast , uno dei siti web più visitati al Mondo, in un articolo a firma Michael Moynihan titolava così: «Il problema col plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano». L'articolo, dopo aver citato la sentenza italiana e l'indifferenza con cui Saviano se l'è lasciata alle spalle, è invece dedicato al secondo libro dell'autore, ZeroZeroZero (Feltrinelli), dedicato al narcotraffico sudamericano (negli Usa il volume è uscito a inizio estate). La recensione non è per niente buona. La stroncatura letteraria prende poche righe: « ZeroZeroZero è un pasticcio di libro, una serie di storie in cerca di una narrativa coerente, dove a eventi globalmente insignificanti è assegnato un grande significato storico, e tutti gli altri fatti sono sempre gonfiati e sovraccaricati nella scrittura». Più interessante che il libro venga considerato «incredibilmente disonesto». Nell'articolo viene elencata una serie piuttosto lunga di «copia e incolla» che non farebbero proprio onore a quella che dovrebbe essere letteratura d'inchiesta. A essere onesti qualche dubbio sul livello dell'«inchiesta» era venuto anche in Italia. Ne avevamo scritto in queste pagine parlando di echi da Wikipedia e il professor Federico Varese sulla Stampa (nell'inserto Tuttolibri ) aveva segnalato un passo che sembrava ripreso pari pari dall'enciclopedia on line. Questi riscontri, sommersi dal coro sperticato di elogi che di solito accompagna ogni atto di Saviano, sono passati in cavalleria. Ma il Daily Beast, sfruttando le fonti in loco, ha localizzato molte altre «anomalie». Passi relativi alla banda di narcotrafficanti Los Zetas attribuiti «alle fonti privilegiate di Saviano» verrebbero dritti dritti da Wikipedia. Poi ci sarebbero, e questo farebbe il paio con il precedente di Gomorra , le appropriazioni senza segnalazione di articoli scritti da giornalisti meno famosi, soprattutto di testate Usa. Ora che ZeroZeroZero è stato tradotto in inglese, le somiglianze balzano all'occhio. Giusto per fare un esempio, la storia tragica di Christian Poveda, un regista franco-spagnolo ucciso in Salvador, sarebbe ripresa in blocco ma senza citazione alcuna da un reportage del 2009 del Los Angeles Times della corrispondente Deborah Bonello. Il paragone lascia basiti. Decine di righe in cui al massimo cambia l'ordine delle parole o c'è qualche guizzo di colore a cercare di fare la differenza. Michael Moynihan ha provato a chiederne conto a Saviano che ha parlato di coincidenze e del fatto che lui e la Bonello hanno lavorato sulle stesse fonti. La Bonello ha spiegato che la fonte del suo articolo era un'intervista al regista morto (difficile avere accesso alla stessa fonte senza una seduta spiritica). Moynihan, insospettito, ha trovato decine di altre similitudini. Un passo che secondo lui verrebbe pari pari dal giornale salvadoregno Il Faro (senza citazione alcuna dell'autore). Altri passi da reportage di Robert I. Friedman (che non viene citato ma solo ringraziato per la sua «visione»). In tutti i casi Saviano ha negato le somiglianze, a quanto scrive Moynihan. O al massimo ha abbozzato spiegando di nuovo che le fonti erano le stesse. Seguono altri passi che hanno delle somiglianze con articoli del St. Petersburg Times . Poi ci sarebbe la «clonazione» più significativa. ZeroZeroZero finisce con il racconto dell'omicidio del giornalista messicano Bladimir Antuna García per mano di una gang legata al narcotrafficante El Chapo. Un racconto che pare cannibalizzato da un rapporto del 2009 del Committee to Protect Journalists (il giornale americano lo allega in pdf come prova). Citazioni della fonte? Zero. Per carità c'è differenza tra le somiglianze scovate da un giornalista e l'accertamento fatto da un tribunale. Ma i pezzi messi a confronto sono davvero tanti. E, per di più, a scatenare l'irritazione negli Usa è il fatto che Saviano è famoso per i suoi pistolotti, in cui spiega che il vero giornalista deve andare sul posto e non può fare le inchieste seduto al computer e usando Google... Quello che ha fatto saltare definitivamente la mosca al naso di Moynihan sono le interviste a personaggi che Saviano garantisce come «assolutamente reali». Come il paramilitare Ángel Miguel, membro dei cattivissimi Kaibiles del Guatemala, che Saviano avrebbe contattato in Italia. Moynihan confronta il racconto di Miguel con un reportage del 2005 pubblicato su Notimex dal giornalista messicano José Luis Castillejos. Altre strane somiglianze. Come mai si chiede? Ce lo chiediamo anche noi. Nelle risposte che Saviano gli manda via mail e Moynihan pubblica è difficile raccapezzarsi. Sembra di capire che Saviano si conceda un po' di “fiction” e che, secondo lui, sia ovvio che il lettore lo sappia. Ma lo sa davvero? E tutti i saccheggiati del loro pericoloso lavoro di inchiesta? Dovrebbero dire grazie di essere stati nobilitati, ma anonimamente, da un bel romanzo civile? Negli Usa è una cosa incomprensibile. Non sanno che qui in Italia si può essere riconosciuti maestri del copia e incolla come Umberto Galimberti e cavarsela con solo un richiamo formale della propria università. Oppure farsi pizzicare come Corrado Augias a copiare dal web e veder finire tutto in gloria. E c'è da scommettere che anche questa volta al di qua dell'Oceano, non se ne parlerà tanto. Anzi forse se ne parlerà zero, zero, zero. Perché in italia agli iscritti al club dei «ripubblica» si scusa tutto. PS. I riscontri diretti sul testo si possono fare solo tra gli articoli originali in inglese e la versione del libro in inglese. Per questi rimandiamo alla corposa documentazione reperibile sul sito del The Daily Beast .

Roberto Saviano: "Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction". Lo scrittore su "La Repubblica" replica alle accuse americane: "Il mezzo è la cronaca, il fine è la letteratura". Rimbalza dagli Stati Uniti una polemica che ruota intorno allo scrittore. Un articolo pubblicato dal sito di informazione The Daily Beast, firmato da Michael Moynihan, è una lunga dissertazione su ZeroZeroZero, il libro sul narcotraffico globale da poco uscito negli Usa. L'articolo attacca il metodo di lavoro dell'autore di Gomorra. Saviano è accusato di non citare le sue fonti e di prendere in prestito singole frasi o passaggi da opere altrui. Da qui il titolo: " Il problema plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano". Una presa di posizione, questa del Daily Beast, che ha subito suscitato un acceso dibattito sui social network. 

Accade sempre così, prima con " Gomorra" e ora accade con " ZeroZeroZero": quando un libro ha molto successo, quando supera il muro dell'indifferenza, quando le storie che veicola iniziano a creare dibattito, è quello il momento giusto per fermare il racconto. Per bloccarlo. E come sempre il miglior metodo è gettare discredito sul suo autore. Come se fosse possibile smontare davvero un libro di oltre 400 pagine con un articolo di qualche migliaio di battute. Ma forse questo è lo scopo di una recensione a ZeroZeroZero uscita sul Daily Beast , che non si è accontentata di essere una stroncatura (è normale, no?, che un libro ne riceva), ma che vorrebbe essere altro. Che cosa, esattamente, lo lascia intendere l'autore, che si sofferma forse un po' troppo sulla mia figura, sul fatto di essere ormai percepito come un personaggio politico e non solo come uno scrittore. Non è evidente, allora, che i miei libri, tutti, finiscano per scontare questa paternità troppo ingombrante? Così, quando non si può dire che ciò che racconto è falso, si dice che l'ho ripreso altrove. Ma il mio lavoro è esattamente questo: raccontare ciò che è accaduto, nel mio stile, nella mia interpretazione. Mi accusano di aver ripreso parole altrui: come se si potesse copiare la descrizione di un documentario. Se la protagonista è donna, è madre, ha 19 anni, si chiama " Little One" e ha un numero tatuato in faccia, non so quanti modi ci possano essere per raccontarlo. Di più. Per rendere i brani simili, il mio critico taglia il testo che avrei preso a riferimento, come fa per esempio nel caso di un passaggio del Los Angeles Times . Scrive il giornale americano, secondo il Daily Beast : "... there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there...". E questo sarebbe il brano che io avrei ripreso in ZeroZeroZero : "... about 15,000 members in El Salvador, 14,000 in Guatemala, 35,000 in Honduras, 5,000 in Mexico. The highest concentration is in the United States, with 70,000 members". E certo che i due passaggi si somigliano. E sapete perché? Perché per fare il suo gioco il Daily Beast ha omesso dall'articolo del Los Angeles Times un passaggio significativo. "Speaking at the Mexico City premiere of La Vida Loca last month, Poveda said officials estimate there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there, he said". La frase completa spiega insomma che quei numeri li ha dati Poveda stesso alla premiere messicana del film nel 2009. Ed è difficile dare questa informazione in maniera diversa, soprattutto se è Poveda stesso ad averne parlato. Io cerco sempre di essere il più rigoroso possibile sui dati, riportandoli come sono forniti. E il caso di Christian Poveda è esemplare dal momento che a lui e al suo omicidio ho dedicato un intero capitolo di ZeroZeroZero : quindi l'ho citato, eccome se l'ho fatto! Del resto è sempre un azzardo utilizzare i puntini sospensivi indicando omissioni: in questo caso, per esempio, si stravolge sia quanto riportato in ZeroZeroZero sia quanto scritto sul Los Angeles Times, cambiando la posizione di dati e parole. Costruendo artatamente una somiglianza che non c'era, o che poteva essere ricondotta al pressbook diffuso quando il documentario di Poveda uscì. Ma poi sarebbe davvero plagio riferire la trama di un documentario? Cioè, se io scrivo la descrizione del Padrino sto plagiando la quarta di copertina? Ridicolo. Conosco moltissimi giornalisti, tra cui i maggiori giornalisti sudamericani, che incontro periodicamente e con cui scambio ogni tipo di informazione: loro mi mandano i loro scritti e io mando a loro i miei perché condividere informazioni, e soprattutto analisi, è la cosa che tutti noi consideriamo più preziosa. Sì, analisi: perché le informazioni sono di dominio pubblico. Attenzione a questo passaggio: le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate, sempre. Ma naturalmente, anche stavolta, sul Daily Beast , tutto prende le mosse dalla causa per plagio avvenuta in Italia: causa anche interessante da raccontare, visto che oltre a me, a processo, è finito un genere letterario, un genere che non è giornalismo, non è saggio e non è invenzione, ma qualcosa di diverso. Secondo me qualcosa di più - e i numeri di Gomorra lo hanno dimostrato. Nella sentenza di primo grado della causa in cui due quotidiani locali campani mi accusavano di aver ripreso articoli, il giudice afferma che ciò che può essere oggetto di plagio sono opere che hanno carattere di " originalità e creatività", ergo la cronaca non ha né l'uno né l'altro requisito, essendo niente altro che " fatti". C'è solo un modo per dire come è avvenuto un arresto e come un imputato era vestito in tribunale per l'udienza di convalida dell'arresto. C'è solo un modo per descrivere un documentario. E spessissimo la fonte comune per notizie che riguardano arresti o indagini sono generalmente le conferenze stampa delle forze dell'ordine. Immaginiamo i vari quotidiani farsi causa per aver utilizzato parole uguali per descrivere uno stesso avvenimento? Proprio sulla base di questo, il giudice di primo grado ha rigettato tutte le accuse. E non è stato neppure difficile smontarle: ai miei legali è bastato produrre in tribunale le decine di articoli identici a quelli di chi mi faceva causa, che descrivevano gli stessi avvenimenti. Anzi. Durante la riproduzione degli articoli da portare in udienza, ci siamo accorti che i quotidiani che mi avevano citato per plagio avevano pubblicato a mia insaputa (non ero ancora noto al tempo) alcuni miei articoli per intero: senza citare né autore né fonte. Non fatti simili né qualche parola uguale: ma due interi articoli. Per questo sono stati condannati: l'unica parte in cui le sentenze dei tre gradi di processo coincidono. Sì, nella sentenza di secondo grado, per esempio, vengono accolte tre su dieci delle loro richieste: corrispondenti a meno di 2 pagine su 331, lo 0,6% del libro! Ma proprio su queste vale la pena soffermarsi ancora un attimo. Sono stato condannato per aver scritto "su un giornale locale" invece che "sul Corriere di Caserta ". E per aver riportato per intero un articolo virgolettato. Sapete quale? Quello che declamava le arti amatorie del boss Nunzio De Falco, mandante dell'assassinio di Don Peppe Diana. Il titolo dell'articolo era: "Nunzio De Falco, re degli sciupafemmine". Questo tecnicamente non sarebbe neppure plagio, e nemmeno appropriazione indebita, dal momento che non avevo nessuna voglia di attribuirmi la paternità di quell'articolo. L'autore, del resto, era sconosciuto. E sapete perché. Perché si trattava dell'esaltazione di un boss di camorra. Ed era proprio questo ciò che io volevo mostrare: quanto quei quotidiani peccassero di apologia verso i capi che avevano ucciso Don Peppe - quanto certa stampa locale fosse compiacente. Se li avessi propriamente citati, invece che dire "su un giornale locale", mi avrebbero fatto causa per diffamazione! E gli altri due articoli? Uno riguarda la struttura del clan, l'altro il percorso fatto dalle auto dei carabinieri dopo la cattura del boss Paolo Di Lauro: ed entrambi veicolavano informazioni diffuse direttamente dalle forze dell'ordine. Allora vivevo a Napoli, assistevo alle conferenze stampa di carabinieri e polizia, e avevo come fonti gli organi investigativi: come tutti. Del resto chiunque vivesse a Napoli in quegli anni, e facesse il mio lavoro, trascorreva più tempo a parlare con gli inquirenti che sulle scrivanie. Era tempo di guerra di camorra (c'era almeno un morto al giorno) e tutti volevamo capire che cosa stava succedendo, come il nostro si stava trasformando in un vero e proprio territorio in guerra. Per inciso: la sentenza di terzo grado ha sancito definitivamente il carattere autonomo e originale di Gomorra , come aveva stabilito la sentenza di primo grado, rimandando al Tribunale circa la quantificazione del danno. Ma andrebbe ricordato che questo processo ha un antefatto. Importante. La citazione in giudizio da parte della società che pubblica Cronache di Napoli e Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta ) non nasce in seguito alla pubblicazione di Gomorra (2006), ma solo due anni dopo: quando cioè ospite del Festivaletteratura di Mantova (settembre 2008) criticai duramente quelle testate locali che considero contigue alle organizzazioni criminali, che fungono da loro " uffici stampa" e che sono organo di propagazione dei messaggi tra clan. A Mantova mostro ritagli di giornale e la platea resta attonita. Il giorno successivo, di Cronache di Napoli e Corriere di Caserta ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. Continuo a lavorare su questo per lo Speciale Che Tempo Che Fa del 25 marzo 2009 (19% dello share della serata e 4 milioni e mezzo di telespettatori, è la trasmissione televisiva più vista quella sera). Mostro anche la prima pagina del Corriere di Caserta con il titolo a caratteri cubitali: "Don Peppe Diana era un camorrista". Ecco, dopo averne parlato in televisione sullo stesso argomento scrivo un libro per Einaudi. Tra la presenza televisiva e il libro arriva dunque la citazione in giudizio per plagio da parte delle testate locali. Anche qui, occhio: non per diffamazione ma per plagio. E non nel 2006, anno in cui Gomorra viene pubblicato, non nel 2007, ma dopo. Dopo che di loro parlo in televisione. Aggiungo due notizie sulla società che mi ha fatto causa. Maurizio Clemente, ex editore occulto delle due testate, è stato condannato a sette anni di carcere per estorsione a mezzo stampa: si faceva pagare per non diffondere informazioni su imprenditori e politici. E un processo con sentenza dello scorso febbraio ha dimostrato come un giornalista, Enzo Palmesano, che scriveva su un quotidiano del gruppo, sia stato licenziato su ordine del sanguinario boss di camorra Vincenzo Lubrano, che ha partecipato all'omicidio del fratello del giudice Imposimato. Ecco chi mi ha fatto causa. Ecco a chi i giudici di secondo grado hanno dato parzialmente ragione. Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario? Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l'unico modo davvero efficace per portare all'attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere. Perché in un libro che non è un saggio, ma appunto un romanzo non-fiction, non si devono riportare tutti coloro che ne hanno scritto: soprattutto quando le fonti sono aperte, come nel caso citato di un documento dell'Fbi, quindi fonti comuni, o come i documenti governativi sulle organizzazioni criminali in Guatemala, nel caso dei kaibiles - tutti esempi su cui si è esercitato il mio critico americano. Se, per ipotesi, descrivessi il crollo delle Torri gemelle, come faccio a citare tutti coloro che ne hanno fatto in quel giorno la cronaca? Allo stesso modo, siccome descriverò il crollo delle Torri gemelle, utilizzerò parole simili perché le fonti sono identiche e soprattutto perché la fonte comune è la realtà: l'attacco terroristico è avvenuto, è una notizia, e non ci sono molti modi per raccontare una notizia. Le interpretazioni, quelle sì, possono essere infinite, e a quelle va attribuita paternità: sempre. I fatti accaduti, con buona pace dei miei detrattori, non appartengono a nessuno. O meglio appartengono a chi li racconta e poi a chi li legge. Ma nell'articolo americano su ZeroZeroZero c'è di più. Non ci si limita a dire che avrei riportato agenzie giornalistiche non citandole, ma che ho inventato personaggi - nonostante io abbia detto direttamente al mio critico, interpellato via email, che nessun personaggio è inventato. Lui insiste: "Sono troppo perfetti per essere veri". Ma è esattamente quello che ripeto da anni: la realtà è molto più incredibile della finzione. E quando ho deciso che forma dare a ZeroZeroZero , con tutto il materiale che avevo raccolto, non avevo dubbi: non potevo inventare. Quello che avevo, doveva essere raccontato così com'era. L'ho fatto, con il mio libro, in Italia e nel mondo: dove ZeroZeroZero - che ora compare negli Usa - è uscito ormai da due anni. Insomma: prima mi si accusa di riportare notizie che esistono, ma prese da altri. Poi di aver inventato, perché ciò che scrivo è troppo perfetto. E a voi tutto questo non sembra l'ennesimo, furbo (ma poi nemmeno tanto) modo per delegittimarmi? Quando nell'articolo vengo definito "una specie di celebrità globale", "una rockstar letteraria", "il Rushdie di Roma", ho capito che ancora una volta ho fatto centro: il livore arriva quando c'è visibilità, quando il dibattito diventa centrale e catalizza l'attenzione. Ma mi dispiace per i miei critici, anche per quelli americani. Fiero dell'odio e della diffamazione, degli attacchi che ricevo quotidianamente, difenderò sempre il mio stile letterario: sia che lo usi per scrivere libri o articoli, sia che lo usi in teatro o per una serie tv. Così come l'omertà di alcuni sindaci non fermerà le riprese di Gomorra 2 , così il cachinno contro di me non fermerà la mia letteratura. Rassegnatevi: continuerò a indagare il reale, con il mio stile. Sarà di questo che avrà avuto paura anche la famiglia di Pasquale Locatelli, il broker di coca ora agli arresti. Anche di lui parlo in ZeroZeroZero e quando, nel 2013, il libro è uscito in Italia, anche lui ne ha chiesto il ritiro immediato. La richiesta è stata respinta.

Roberto Saviano su “L’Espresso del 2 ottobre 2015: Se quelli sono giornalisti. Il sindacato e l’Ordine hanno ignorato gli intrecci tra editoria e malavita. Ora invece si muovono per mettermi all’indice. E mi danno dell’«abusivo». Il giornale locale che aveva insinuato rapporti tra don Diana e il clan dei casalesi («Don Peppe Diana era un camorrista»), dedicò un articolo al fascino di Nunzio De Falco, boss mandante dell’omicidio don Diana. È il “Corriere di Caserta”, prima pagina del 17 gennaio 2005: «Boss playboy, De Falco re degli sciupafemmine». E poi: «Casal di Principe (Ce). Non sono belli ma piacciono perché sono boss; è così. Se si dovesse fare una classifica tra i boss playboy della provincia a detenere il primato sono due pluripregiudicati di Casal di Principe non certamente belli come poteva esserlo quello che invece è sempre stato il più affascinante di tutti cioè don Antonio Bardellino. Si tratta di Francesco Piacenti alias Nasone e Nunzio De Falco alias ’o Lupo. Secondo quello che si racconta ha avuto 5 mogli e il secondo 7. Naturalmente ci riferiamo non a rapporti matrimoniali veri e propri ma anche a rapporti duraturi da cui hanno avuto figli. Nunzio De Falco infatti, sembra che avrebbe oltre dodici figli avuti da diverse donne. Ma particolare interessante è un altro: le donne in questione non sono tutte italiane. Una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese. Ogni luogo dove si rifugiavano anche in periodo di latitanza mettevano su famiglia. Come marinai? Quasi [...] Non a caso nei loro processi sono state chieste le testimonianze anche di alcune loro donne tutte belle e molto eleganti». Per aver riprodotto questo articolo con l’indicazione “un giornale locale”, data e titolo, la Corte di Appello di Napoli mi ha condannato per plagio. L’articolo non era firmato; anche se lo fosse stato non avrei indicato il nome del giornalista perché non intendevo metterlo alla gogna, ma mostrare come lavora certa stampa locale che parla del mandante dell’omicidio don Diana come un “boss playboy” che ha avuto 7 donne, non tutte italiane ma «una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese» e «tutte belle e molto eleganti». La Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto fosse plagio, eppure non mi sarei mai sognato di fare mie parole che mi fanno ribrezzo. Il 25 settembre 2015 l’Ordine dei giornalisti della Campania, il Sindacato unitario dei giornalisti della Campania e i consiglieri nazionali campani della Fnsi hanno diramato questo comunicato stampa: «Roberto Saviano, scrittore non-giornalista (non iscritto all’Ordine), continua ad attaccare l’informazione in Campania pur avendo ripetutamente saccheggiato i giornali locali, come dimostrato da una sentenza che ha imposto al suo ex editore di citare “Cronache di Napoli”, fonte delle “notizie” utilizzate per il libro “Gomorra”. Saviano, in sostanza, attacca quella stessa informazione da cui prende a piene mani le notizie. A questo va aggiunto l’ultimo caso di presunto plagio relativo al libro “ZeroZeroZero” dello scrittore non-giornalista, denunciato dalla stampa statunitense. Lo scrittore non-giornalista ribatte descrivendo il suo lavoro come un metodo tra giornalismo e non fiction. “Il mezzo è la cronaca - dice - il fine è la letteratura”. Ma allora il suo è un esercizio abusivo della professione? Saviano eviti generalizzazioni e impari ad avere rispetto dei giornalisti che fanno il proprio dovere, soprattutto quelli della Campania, molti dei quali lavorano nei territori di frontiera a caccia di vere notizie per pochi euro rischiando anche la propria incolumità senza alcuna protezione». Li conosco, e verso di loro nutro profondo rispetto. Se i giudici avessero condannato uno scrittore meno noto di me, probabilmente chi ha diramato questo comunicato sarebbe insorto urlando alla censura. E probabilmente avrebbero stigmatizzato chi ha scritto quell’abominevole articolo e la testata che lo ha diffuso (“Corriere di Caserta” che insieme a “Cronache di Napoli” fa parte del Gruppo Libra. Il “Corriere di Caserta” ha licenziato il giornalista Enzo Palmesano su ordine del boss Vincenzo Lubrano. I giornalisti campani dov’erano quando questo accadeva? Palmesano in un’intervista dice: «L’ordine dei giornalisti non si è costituito parte civile con me e quando hanno letto la sentenza in tribunale ero da solo. Il sindacato ugualmente assente»). Ma poi che definizione triste «un esercizio abusivo della professione». Solo io ricordo chi è stato il grande abusivo del giornalismo campano e come è stato trattato da molti suoi colleghi quando la camorra lo ha ammazzato? Sono fiero di essere un “non-giornalista” se i giornalisti, cari signori, siete voi.

Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura. Con il riconoscimento alla Aleksievic cadono i pregiudizi sulla non fiction, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Il Nobel a Svetlana Aleksievic non è solo un riconoscimento a una intellettuale che ha subito la pressione del regime di Lukashenko e che combatte Putin. Il Nobel a Svetlana Aleksievic è una rivoluzione culturale: dopo decenni, viene premiata la narrativa non fiction. Nel mondo anglofono, o meglio, in quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante, questo Nobel è una specie di terremoto. Lo dimostra bene un articolo di Philip Gourevitch pubblicato sul New Yorker il 9 ottobre 2014 e riproposto in questi giorni dall'autore sul suo profilo Twitter. Sul New Yorker Gourevitch raccontava chi è e cosa scrive Svetlana Aleksievic, e spiegava quanto rivoluzionario sarebbe stato se il Nobel per la letteratura si fosse finalmente aperto a quella visione del mondo, a quel racconto della realtà che apparentemente sfugge a ogni catalogazione. Quasi una profezia. In molti non ci credevano e pensavano che il Nobel avrebbe continuato a seguire il canone classico premiando la letteratura che o è fiction, altrimenti non è. La questione è di tipo epistemologico e, per argomentare la sua tesi, Gourevitch cita Gay Talese che in un'intervista a The Paris Review disse: "Gli scrittori di non fiction sono cittadini di seconda classe, l'Ellis Island della letteratura. Semplicemente non riusciamo a entrare. E sì, questo mi fa incazzare". Ma le parole di Telese cristallizzano la direzione verso cui il mercato letterario tende. Spesso il problema per uno scrittore è costruire un libro che sul mercato possa indossare un'etichetta, che possa stare esattamente in quello scaffale: quanta miopia nella necessità di catalogare la scrittura. "Gli editori e i librai - scrive Gourevitch - sono complici, insieme ad altri custodi del canone, della privazione filistea alla grande scrittura documentaristica, riservando l'etichetta "letteratura", su copertine e su scaffali, solo alle opere di fiction". Librai ed editori partecipano tutti al grande fraintendimento chiamando "letteratura" solo ciò che è pura invenzione e attribuendo alla narrativa che racconta la realtà un ruolo secondario. Personalmente - e sono di parte - credo che valga il contrario e non intendo piegarmi ai dettami del mondo anglosassone che, nella sua quasi totalità, impone la legge dell'ottusa divisione tra fiction e non fiction. La letteratura e la lettura, così intese, vengono accompagnate da una serie di domande preventive che vivisezionano la scrittura. Cos'è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. Lo scrittore di narrativa non fiction si appresta a lavorare su una verità documentabile ma la affronta con la libertà della poesia. Non crea la cronaca, la usa. Aleksievic racconta prendendo brani ascoltati in stazione; dopo un'intervista esprime la nausea che le ha generato. Non ha paura che le lettere dal fronte che seleziona, che le sue interviste, siano percepite come talmente perfette da sembrare invenzione. Sa che la realtà supera di gran lunga l'immaginazione e accetta di farsene megafono, amplificatore. La sua grandezza sta proprio nel coraggio letterario, non farsi irreggimentare dalla prassi di lavoro che impongono i giornali. Scegliere la letteratura non fiction, del resto, è una scelta di stile, è la scelta di un percorso. Santa Evita di Tomá s Eloy Martí nez è il libro che racconta meglio di qualunque altro la storia di Evita Perón, ma non racconta ciò che è incontestabilmente considerato vero. Non è una biografia. Raccoglie fatti, molti, su cui esistono più versioni e sceglie quelle ritenute più veritiere o più funzionali alla narrazione. Potrebbe essere smentito Martínez, e avrebbe come unica possibilità di difesa la credibilità del suo lavoro, cioè della ricerca antropologica. C'è chi chiede all'arte di non essere più arte. Chi pretende che sia più vera della verità. Più realista della realtà. Come se fosse un gigantesco, e alla fine inutile, pantografo. Questo Nobel va nella direzione opposta, perché non premia solo il coraggio di una dissidente, ma anche e soprattutto il coraggio di una scrittrice che ha scelto un metodo, che con il suo stile letterario ha minacciato il potere. La verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può misurare. Ragionando per assurdo, che senso avrebbe avuto allegare a Ragazzi di zinco un dvd con tutte le interviste fatte, nomi e cognomi esatti, per dimostrare che quelle conversazioni erano avvenute proprio come le leggiamo? Ovviamente non avrebbe avuto nessun senso perché al lettore interessa un'altra verità: raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole. Farli diventare creazione, non cronaca. Gli scrittori di narrativa non fiction sono stati fino a oggi relegati in un limbo di non affidabilità. Svetlana Aleksievic (che era addirittura chiamata spia, perché creduta in Bielorussia una agente della Cia) era liquidata dai colleghi con le solite litanie "tutti ci siamo occupati di Afghanistan", "tutti abbiamo scritto su Cernobyl", "non scrive niente che non si sappia già". Certo, esistono decine, centinaia di reportage: ma Aleksievic non ha solo raccontato l'Afghanistan o Cernobyl, lei ha creato un Afghanistan e una Cernobyl a più dimensioni, agli antipodi rispetto a quelle che i telegiornali avevano tracciato o che i reportage ci hanno restituito. Ha raccontato quello che stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era visibile ma c'era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della letteratura. Aggiungere realtà al romanzo, sottrarre freddezza alla cronaca, sono l'unica strada che esiste per portare argomenti "sensibili" all'attenzione del lettore. Truman Capote scrisse: "Ho questa idea di fare un grande e imponente lavoro; dovrebbe essere esattamente come un romanzo, con un'unica differenza: ogni sua parola dovrebbe essere vera, dall'inizio alla fine". Per Capote oggi sarebbe stato ancora più difficile scrivere e difendere A sangue freddo. Lo hanno massacrato quando è uscito e oggi avrebbero fatto di peggio, perché il peccato capitale di manipolare (che non vuol dire falsificare) la realtà viene visto come un'invasione di campo da parte di chi fa cronaca. Tom Wolfe, teorico del New Journalism, affermava che non basta riportare le parole dei tuoi protagonisti (veri, non di invenzione), ma bisogna costruire il contesto in cui agiscono e parlano. E qui entra in campo la letteratura. Ma forse c'è una ragione politica per cui la letteratura non fiction è considerata una specie di paria, ed è questa: relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti o della misurabilità della notizia, significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo. Affrontare invece quello stesso racconto con il metodo narrativo, significa creare un affresco comprensibile, fermare il consumo di notizie e iniziare la digestione dei meccanismi; significa ricomporre il mosaico e parlare a chi quella notizia non la leggerebbe mai, non potrebbe comprenderla se non in un quadro più generale, non la sentirebbe propria. Provate a leggere le pagine di Aleksievic sul tramonto dell'ideologia comunista, sui suicidi di chi ci credeva, e capirete come quelle parole siano salite sulla locomotiva della letteratura e abbiano centrato il punto. Aleksievic si prende la responsabilità di intervenire sulla realtà e non si mette al riparo da essa. E allora non capisco come sia possibile che in Italia, quando si discute sui grandi scrittori viventi, non si parli innanzitutto di Corrado Stajano, di Un eroe borghese e Africo. Letteratura è Guerre politiche, la prova non fiction di Goffredo Parise superiore a moltissimi altri suoi libri di fiction. Letteratura è Banditi a Orgosolo di Franco Cagnetta, velocemente catalogato come studio antropologico. Letteratura è Un popolo di formiche di Tommaso Fiore che ogni ventenne (del Sud ma anche del Nord) dovrebbe leggere, letteratura è l'inchiesta sulla morte di Francesca Spada in Mistero napoletano di Ermanno Rea, è Il provinciale di Giorgio Bocca. Sto citando libri spesso mai nemmeno pronunciati quando si discute di letteratura italiana eppure ne sono l'aria migliore degli ultimi decenni. Letteratura è il recente Al di la del mare, il racconto con nessun altra prova che i suoi occhi, di Wolfgang Bauer tra i profughi siriani. Come si possono non considerare letteratura Dispacci di Michael Herr o i libri di Kapuscinsky, sistematicamente accusato, in vita e dopo la morte, di "aver inventato", lui che veniva considerato un reporter e quindi doveva dimostrare le sue verità. Letteratura è il più bel libro mai scritto sulla fame nel mondo, La fame di Caparros. Tutti gli scrittori che ho citato, prima di questo Nobel, hanno convissuto con lo spettro della perenne diffidenza e tutte le loro teorie sulla non fiction novel e sul New Journalism erano percepite come giustificazioni ex post o stravaganze artistiche. La cosa è accaduta persino con il padre di tutti gli scrittori non fiction Rodolfo Walsh che raccontò nel 1957 con strumento letterario nel suo Operazione Massacro un episodio sconosciuto e violentissimo della repressione militare argentina. La sua denuncia esplose nel mondo proprio per lo stile con cui decise di affrontare il tema. Anche con il cinema è andata così; i registi Vittorio De Seta e Francesco Rosi sono sempre stati silenziosamente accusati di "manipolare" la verità. Amati quando relegati nelle retrospettive culturali, ma temuti e fermati quando i loro lavori intervenivano nel dibattito politico. Il caso Mattei oggi sarebbe immobilizzato dalle querele e dall'accusa di infedeltà, eppure è forse il capolavoro che più di ogni altro racconta quello che l'Italia poteva essere nel dopoguerra, e non fu mai. Questa volta il Nobel è stato coraggioso nel premiare una persona che viene definita saggista, che viene definita giornalista, che viene definita reporter, pur essendo sempre stata una scrittrice. Spero si avveri la profezia di Gourevitch, che un anno fa sul New Yorker aveva scritto: "Non appena sarà abbattuta la barriera non fiction del Nobel, il fatto che sia esistita sembrerà assurdo. "Letteratura" è solo un termine di invenzione per indicare la scrittura".

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

 “La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

TUTTA L’ITALIA E’ PAESE…….. 

"L’Italia che è, che fu e che sarà.

L’Italia della Costituzione intoccabile scritta dai vincitori: illiberale, oligarchica, comunista e clericale.

L'Italia dove si impone la legalità nel basso e non si pretende dall'alto.

L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie.

L’Italia dove si è nominati e non eletti e non c’è vincolo di mandato.

L'Italia dove la giustizia è amministrata in nome del popolo e non in suo conto e nel suo interesse e dove i Magistrati non pagano per le loro colpe.

L’Italia dove di organizzato c’è solo il caos e la criminalità.

L’Italia delle Istituzioni che pretendono rispetto, ma non lo meritano.

L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati.

L’Italia che riconosce e garantisce i diritti inviolabili, solo dei poteri forti.

L’Italia della legge uguale per tutti, applicata per i deboli, interpretata per i forti.

L'Italia dove tutti son pronti a condannare, ma non a farsi giudicare.

L’Italia indivisibile, fatta di “Polentoni” e “Terroni”.

L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà.

L’Italia dove a delinquere sono sempre gli altri.

L’Italia dove la mafia ti uccide, ti condanna, ti affama.

L’Italia dove devi subire e devi tacere.

L’Italia indisponente, insofferente, indifferente, dove tutti parlano e nessuno ascolta.

"Art. 1 della Costituzione: L’ Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (non sulla libertà e la giustizia). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (I limiti stabiliti al potere popolare indicano una sudditanza al sistema di potere. Il potere popolare è delegato ai Parlamentari e agli organi da questi nominati: Presidente della Repubblica, Governo, organi di Garanzia e Controllo. La Magistratura è solo un Ordine Costituzionale: non ha un potere delegato, ma una funzione attribuita per pubblico concorso. In realtà si comporta come Dio in terra: giudica, ingiudicata).Un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.

l'Italia sia una repubblica democratica e federale fondata sulla Libertà e la Giustizia. I cittadini siano tutti uguali e solidali.

I rapporti tra cittadini e tra cittadini e Stato siano regolati da un numero ragionevole di leggi, chiare e coercitive.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Sia garantita a tutti ogni garanzia di accesso al credito per meritevoli finalità economiche o bisogni familiari necessari.

Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni.

Lo Stato assicuri ai cittadini ogni mezzo per una vita dignitosa.

Ai disabili sia garantita l'accessibilità, l'adattabilità e la visibilità dei luoghi di transito o stazionamento.

Il lavoro subordinato pubblico e privato sia remunerato secondo efficienza e competenza.

Lo Stato chieda ai cittadini il pagamento di un unico tributo, secondo il suo fabbisogno, sulla base della contabilità centralizzata desunta dai dati incrociati forniti telematicamente dai contribuenti, con deduzioni proporzionali e detrazioni totali. Agli evasori siano confiscati tutti i beni. Lo Stato assicuri a Regioni e Comuni il sostentamento e lo sviluppo.

Sia libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere informati, così come sia libero l'esercizio della stampa da vincoli di Albi, Ordini e collegi.

I senatori e i deputati, il capo del governo, i magistrati, i difensori civici siano eletti dai cittadini con vincolo di mandato. Essi rappresentino, amministrino, giudichino e difendano secondo imparzialità, legalità ed efficienza in nome, per conto e nell'interesse dei cittadini. Essi siano responsabili delle loro azioni e giudicati e condannati. Gli amministratori pubblici nominino i loro collaboratori, rispondendone del loro operato.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico.

Il Parlamento voti e promulghi le leggi propositive e abrogative proposte dal Governo, da uno o più parlamentari, da una Regione, da un comitato di cittadini".

di Antonio Giangrande

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati.

Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate?

Probabilmente no.

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