Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU
GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)
3289163996
0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK:
(personale)
ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV:
TELE WEB ITALIA
NEWS:
RASSEGNA STAMPA -
CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
INGIUSTIZIA
E
RIBELLIONE
SECONDA PARTE
ANTONIO GIANGRANDE
INGIUSTIZIA E RIBELLIONE
BIOGRAFIA DI UN ITALIANO VERO
LA MAFIA TI UCCIDE,
TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI
INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI
ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI
RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi
è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle,
interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con
sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia
elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo,
chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società,
che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio
Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si
incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che
bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci
si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di
noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il
Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente
domani."(Arthur Schopenhauer)
“L'Italia tenuta al
guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e
massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere
legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi,
invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il
rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini
e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge,
vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto”
degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed
istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la
responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
SOMMARIO
INDICE PRIMA PARTE
UNA
BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).
L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER
AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA
CHE SIAMO.
PREMESSA:
LA CREDIBILITA’.
PREMESSA:
IL PERCHE’ DI UNA MISSIONE.
PREMESSA:
GLI OSTACOLI.
PREMESSA:
LA CENSURA.
PREMESSA:
IL DIRITTO D’AUTORE ED IL DIRITTO DI CITAZIONE.
PREMESSA:
IL DIRITTO DI CRITICA.
PREMESSA: LE NUOVE
IDEOLOGIE.
PREMESSA: IL
PROGRAMMA POLITICO.
INTRODUZIONE.
COS’E’ LA POLITICA
OGGI?
PRESENTAZIONE
DELL’AUTORE.
PERCHE’ NON SON DIVENTATO AVVOCATO.
"PADRI DELLA
PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA
NOSTRA ROVINA.
E’ TUTTA QUESTIONE
DI COSCIENZA.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
I MEDIA ED I LORO
PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
LA CHIAMANO
GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI
TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI".
FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
TUTTA L’ITALIA E’ PAESE
PER UNA LETTURA
UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA
DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
INDICE SECONDA PARTE
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
VADEMECUM DEL
CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’
UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE
DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI?
CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA
MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE.
LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA.
SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA
ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE
ZOPPO.
QUANDO I BUONI
TRADISCONO.
DUE COSE SU
AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE
FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E
MARADONA.
ANCHE GESU' E'
STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO
ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED
UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI
INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI
BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE:
INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. ANTONIO GIANGRANDE E RITA ROMANO: DAVIDE E GOLIA.
LA DENUNCIA PER ABUSO DI UFFICIO E LA CONTRODENUNCIA PER CALUNNIA E
DIFFAMAZIONE. LE CARTE PUBBLICHE DEL PROCESSO PUBBLICO DEL TRIBUNALE DI POTENZA.
MAI DIRE MAFIA: IL
CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
IPOCRITI. IL GIORNO
DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI
DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA,
SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE
DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI
DI STATO.
PER LA TUTELA DEI
DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL
CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.
DIRITTO E
GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI
E MOSTRI A PRESCINDERE.
TARANTO. GUERRA DI TOGHE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
SARAH
SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI
MANETTARI.
VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA,
LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL
CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI
ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
“TARANTO: NON SOLO SCAZZI, SERRANO,
MISSERI. QUEL TRIBUNALE E’ IL FORO DELL’INGIUSTIZIA”.
TARANTO FORO
DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON
CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.
PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??
L’INTERVISTA MAI FATTA AD ANTONIO GIANGRANDE.
CAMPAGNA PER LA LEGALITA' E LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO.
LA IRRESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI.
ITALIA, GIURISPRUDENZA ILLOGICA E DANNOSA.
LA SITUAZIONE ITALIANA. L’ITALIA DEL TRUCCO: L’ITALIA CHE SIAMO.
FISCO E TASSE. ITALIA: RACKET DI STATO.
5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI.
DISGUSTO SANITA’. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE: FONTE DI TUTTE LE MAFIE.
FALLIMENTOPOLI IN ITALIA. FALLIMENTI DI AZIENDE SANE: FABBRICA DEL REDDITO PER
GLI OPERATORI GIUDIZIARI.
INQUINAMENTO. QUELLO CHE NON SI FA.
L'AGRICOLTURA. LA VOGLIONO SMANTELLARE.
LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
LA SICUREZZA NELLE SCUOLE. QUELLA CHE NON C’E’.
GIUSTIZIA E LEGALITA’: CHIMERE IRRAGGIUNGIBILI. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E
LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.
L'USURA. BANCARIA E DI STATO?
LE CARCERI. OMICIDI E TORTURA DI STATO. COLPEVOLE INDIFFERENZA. QUANDO GLI ALTRI
SIAMO NOI.
CENSURA ED INFORMAZIONE.
LE AFFISSIONI ELETTORALI ABUSIVE. VISIBILITA’ ABUSIVA E SELVAGGIA.
NOMINA TRUCCATA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.
I CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.
L'ACCESSO ALL'IMPIEGO PUBBLICO. LO SCANDALO DELLE STABILIZZAZIONI.
BARRIERE ARCHITETTONICHE.
PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE.
LAVORO E SINDACATI.
PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.
IL DIRITTO D'AUTORE. UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
LA BIGENITORIALITA' ED L’AFFIDO CONDIVISO.
“LA
COSTITUZIONE CHE VORREMMO”.
DOSSIER INGIUSTIZIA E RITORSIONI.
RICHIESTA DI REMISSIONE DEL PROCESSO PER MOTIVI DI LEGITTIMO SOSPETTO.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
RICORSO AL TAR. UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA.
PARLIAMO DI LAVORO.
L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.
UNA GENERAZIONE A
PERDERE.
LA MAFIA DELLE
RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.
LE DONNE IMMIGRATE
PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
I
VICINI DI CASA
UNA BALLATA PER L’ITALIA
(di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Tra i nostri avi abbiamo
condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo
una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei
contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti,
mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o
sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa
sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e
ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli
stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Codardia e collusione sono le
vere ragioni,
invece siamo lì a
differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni,
po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non
sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza
altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e
non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto
da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo,
omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Simulano la lotta a quella che
chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le
lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più
forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i
fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli
innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è
questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici
truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui
più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le
strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare
tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica
Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi
anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e
non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci
spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e
l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere
vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Siamo senza lavoro e senza
prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci
rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi,
nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente
è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è
tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre
pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche
l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa
che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Gli ordini professionali di
istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione
catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti
i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in
Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma
non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano
senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa
con tanta pazienza,
non è la figlia del
rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Questa è un’Italia figlia di
spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e
merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti
e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e
nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma se tanti fossero cazzuti
come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi
governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a
rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Rivoglio l’Italia
all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da
liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo:
sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per
arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta
l’11 agosto 2012)
Il Poema di
Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e
che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di
te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od
in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa
od in Albania.
Siamo italiani, della
provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della
penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente
sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è
vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai
denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi
come il serpente.
Le donne e gli uomini sono
belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei
paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il
Torrione,
come abbiamo la Giostra del
Rione,
per far capire che abbiamo
origini lontane,
non come i barbari delle terre
padane.
Abbiamo le grotte e sotto la
piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le
cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da
padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi
importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla
Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla,
chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e
porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri
e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le
foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e
da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma
con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i
marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e
medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te
ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini
ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea
che hai.
Su ogni argomento è sempre
negazione,
tu hai torto, perché l’ha
detto la televisione.
Solo noi abbiamo
l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani,
invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai
porci vorresti dare,
quelli li rifiutano
e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il
giardinetto,
dove si parla di politica
nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con
l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per
spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via
per mare,
dove i giornalisti ci stanno a
denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra
siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i
peccati.
Per una volta alla domenica
che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto
diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la
fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con
i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio
dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo
per la festa.
Non ci scordiamo poi della
processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo
dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove
portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché
abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il
campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo
giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi,
il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i
cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le
fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma
basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro
passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la
Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano
terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il
sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro
pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro
famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti
ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le
sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato
Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare
meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua
patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono
contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti
pure i nani,
che se non arrivano alla
ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli
altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche
li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia
della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non
mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti
faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non
hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e
la panza,
per loro la mente non ha
usanza.
Ti lascio questo poema come un
quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi
stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente
e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e
non ti dà aggio.
Se non lasci opere che
restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che
dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia
ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di
Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà
già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè,
ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in
Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri
puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti
la provincia tarantina,
simu sì pugliesi,
ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè
piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu
all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche
tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so
viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li
masculi so belli o carini,
ma ni spusamu
sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu
e puru lu Torrioni,
comu tinumu la
giostra ti li rioni,
pi fa capii ca
tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari
ti li padani.
Tinimu li grotti e
sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti
l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu
donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu
si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni
‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala
gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni
pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li
bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li
manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti
li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci
tu tai,
e no piccè puru ca
tu sai.
Tinumu la caserma
cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li
marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli
elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a
studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li
villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù
ti la lauria ca tieni.
Sobbra
all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu,
piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu
l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani,
inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli
puerci tai,
quiddi li scanzunu
e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza
cu lu giardinettu,
do si parla ti
pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza
cu l’orologio iertu,
do si parla ti
palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza
ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu
li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi
donca pari simu amati,
e
donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la
tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti
paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu,
cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu
Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e
Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti
loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè
ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma
scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do
si portunu li fili,
li facimu batà a
lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport
tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni
iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e
l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza,
li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu
cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu
picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia
a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e
la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani
ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu
loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè
amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu
li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero
donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati
e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu
lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa
alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta
in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua,
so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si
sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu
alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu
e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali
mancu li penzu,
puru ca loru olunu
mi calunu,
iu passu a nanzi e
li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra
la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi
incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè
campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani
mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu
divertimentu e la panza,
pi loro la menti no
teni usanza.
Ti lassu sta
cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu
sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu
nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi
sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi
ca restunu,
tutti ti te si ni
scordunu.
Pi l’autri paisi
puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa,
nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24
aprile 2011, dì di Pasqua.
ANTONIO GIANGRANDE
INGIUSTIZIA E RIBELLIONE
SECONDA PARTE
|
CURRICULUM VITAE
DI GIANGRANDE ANTONIO Antonio Giangrande, nato in una famiglia sbagliata, una delle tantissime nel meridione, egoista, retrograda ed ignorante, dove si fanno nascere i figli, collusi e codardi, per far ricchi i genitori ed assisterli nella vecchiaia. I figli nati per utilità e lo studio è di impedimento. I figli di quella generazione sono schiavi dei genitori ed al contempo, per non essere egoisti come loro, sono schiavi della progenie.
|
DATI PERSONALI |
Giangrande Antonio Di Oronzo Giangrande bracciante agricolo
22/04/1937 – 10/10/2022 e Antonia Santo bracciante agricola 21/02/41 Nato ad Avetrana (TA) il 02-06-1963 Residente ad Avetrana (TA) in via A. Manzoni n.
49 Tel/Fax
099.9708396
Cell.3289163996 |
DATI FAMILIARI |
Moglie da 01/03/1984: Cosima Petarra Erchie 08/05/1964 addetta impresa
pulizie Figli:
1.
Mirko
Giangrande Manduria 26/01/1985: Avvocato più giovane d’Italia a 25 anni
con doppia laurea primina e diploma secondario con soli 4 anni, con 10 a
tutte le materie, e non 5; Addetto Ufficio per il Processo UPP;
Professore di Diritto degli istituti superiori.
2.
Tamara
Giangrande Manduria 16/08/1986, coadiuvante familiare impresa
artigianale manufatti in cemento Nipoti, figli di Tamara:
1.
Antonio Minò
Francavilla Fontana 29/03/2015
2.
Nicolò Minò
Francavilla Fontana 07/09/2020 |
TITOLI DI STUDIO |
1.
Diploma di Licenza Media il 23 giugno
1977
2.
20/02/84. Iscritto nel Registro degli
Esercenti il Commercio al dettaglio di Taranto: Tab.:
I-II-III-IV-V-VI-VII-VIII-XIV (tabella speciale tabaccai).
3.
Diploma di Ragioniere e Perito
Commerciale presso l’Istituto Statale Tecnico Commerciale Luigi Einaudi
di Manduria (TA) 5 luglio 1992:
A.
Privatista per tutti i 5 anni;
B.
Voto: 36/60.
4.
Laurea in Giurisprudenza presso
l’Università Statale di Milano 11 luglio 1996.
A.
Vecchio Ordinamento Quadriennale;
B.
Studente Lavoratore e famiglia a carico (moglie
e 2 figli);
C.
26 annualità superate in 2 anni;
D.
Voto: 79/110
5.
Titolo regionale della Regione
Puglia: Operatore dei Servizi Giudiziari: Perito Fonico Trascrittore
Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Qualifica regionale di 600 ore: 350 ore di teoria, 250 ore di stage.
Inizio 25/02/2023 fine 01/08/2023. Corso svolto presso Dea Center di
Salice Salentino (Le). Oneri omnicomprensivi 3.000 euro.
6.
Certificato Internazionale di
Alfabetizzazione Digitale rilasciato da Salvemini il 10/06/2024, Ente
accreditato presso l'ente di accreditamento nazionale (MIM - Direttiva
170/2016) registrato con ID Sofia N.85971 conforme ai framework europei
(DigComp 2.2) |
CERTIFICATO PENALE |
Incensurato – nessun carico pendente Questo nonostante i reiterati tentativi di
incriminazione di alcuni Magistrati ed Avvocati di Taranto per reati di
opinione per aver denunciato la malagiustizia a Taranto e per aver
scritto inchieste in tutta Italia. L’intento era, oltre impedirmi l’abilitazione
forense, impedirmi di partecipare ai Concorsi Pubblici, per cause
inibenti di procedimenti penali conclusi con condanne o ancora in corso. Procedimenti estinti senza seguito: Mancini, De
Prezzo, Calora, Dimitri, Cavallo, Romano, Coccioli, Bravo, Lazzara, ecc.
|
CONOSCENZE DELLE LINGUE |
1.
Scolastica:
A.
Inglese;
B.
Francese;
C.
Tedesca. |
CONOSCENZE INFORMATICHE |
Sistema Operativo: Windows Applicativi:
Word, Excel,
Frontpage, Microsoft Expression |
PATENTI
AUTO |
A, B, C, D, E, (CAP non rinnovato) |
POSIZIONE
MILITARE
|
Servizio Militare assolto dal 27 maggio 1982 al 9
maggio 1983 presso il Battaglione Logistico Paracadutisti di Pisa |
ESPERIENZA LAVORATIVA |
1.
Coadiuvante
all’autolavaggio di famiglia a 14 anni: dal 2/06/1977 all’1/09/1979
2.
Emigrato in
Germania a 16 anni dal 1/09/1979 al 1/05/1980
3.
Da 1/05/1980
all’27/05/1982 coadiuvante al negozio al dettaglio di generi alimentari
di famiglia.
4.
Servizio
militare da 27/05/1982 al 9/05/1983
5.
Dal 9/05/1983
al 13/09/1990 Imprenditore Commerciale Autonomo:
A.
Commerciante
carni;
B.
Commerciante
frutta;
C.
Pizzaiolo e
Ristoratore stagionale.
6.
Dal 13/09/1990
al 17/06/1991: Guardia Giurata Particolare e Responsabile Unico della
sicurezza del cantiere presso Igeco spa di Lecce.
7.
Dal 17/06/1991
all’1/09/1992 Pizzaiolo e Ristoratore stagionale.
8.
Dall’1/09/1992
all’11 luglio 1996 studente universitario lavoratore a Milano con moglie
e figli a carico.
A.
Dall’1/09/1992
all’1 aprile 1993 Co.Co.Co
B.
Dall’1/04/1993
all’ 1/11/1993: Investigatore Privato e responsabile unico della
sicurezza del Centro Direzionale di Segrate (MI) presso la De Pittis
Investigazioni Milano
C.
Dall’1/11/1993
all’11/07/1996 Co.Co.Co.
9.
Dal 17/04/1998
al 17/04/2004: Praticante Avvocato con patrocinio legale presso Il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto e Titolare di Studio
Legale ad Avetrana. Non abilitato Avvocato dopo 17 anni di esame di
Stato a causa di ritorsione per aver denunciato l’esame nazionale
truccato di abilitazione forense, da cui è scaturita la riforma del
2003. Il D.L. 112/03
è convertito nella Legge 180/03.
10. Dal 17/04/2005 al 20/02/2007: Imprenditore Professionale (Agenzia d’Affari) nel campo assicurativo e dell’infortunistica stradale. Sub-agente plurimarche ed antesignano per l’offerta più conveniente, fino a che il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente. Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia. Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro. Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti. Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato. Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla compagnia. Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.
11.
Dal 20/02/2007
a tutt’oggi: Saggista e Sociologo Storico. Pubblicazione su Google e su
Lulu di oltre 445 saggi pluridisciplinari letti in tutto il mondo. Dal
24/07/2020 Amazon, da cui si traeva la quasi totalità del profitto di
vendita, ha chiuso l’account di pubblicazione, per aver rendicontato ed
approfondito il fenomeno del Covid. |
INCARICHI PUBBLICI |
1.
04/03/2018.
Presidente di Seggio elettorale
2.
03-04/10/2021.
Segretario di Seggio Elettorale. |
CONCORSI PUBBLICI |
La procedura concorsuale assevera
la legalità, ma non rispecchia la legalità.
Gli scritti:
Nei Concorsi Pubblici ci sono due
tipi di prove scritte:
Quella con risposte uniche e
motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da
commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono,
o correggono male non avendo il tempo necessario, o la preparazione
specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione.
Quella con domande multiple,
spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono
velocità di correzione e uniformità di giudizio.
Chi è abituato all’aiutino
disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in
anticipo.
Il metodo di correzione degli
elaborati negli esami di Stato (vedi Avvocati/magistrati) o nei concorsi
pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non
sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto, non si abbisogna
di microfoni o microspie nelle segrete stanze delle commissioni e dei
"Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e
controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione
alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di
nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal
buco: perché così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.
L’orale: I commissari d’esame
sono nominati dalle Amministrazioni procedenti. Ergo: fanno i loro
interessi.
Il loro interesse è avere come
dipendente un elemento affidabile e/o esperto, più che preparato.
In questo senso la Commissione in
sede di esame orale:
sceglie l’affidabilità del
candidato in base al nominativo ricevuto da terzi;
sceglie l’esperienza del
candidato in base agli incarichi pregressi coperti già in altre
Amministrazioni Pubbliche. In questo caso il giudizio dei commissari è
indirizzato, anche se vi è scena muta.
La Commissione è preparata in
base alle sole domande da loro poste e non su tutti gli argomenti
d’esame. Se l’argomentazione del candidato approfondisce il tema, la si
mette in difficoltà e scatta la ripicca.
La prova orale, madre si tutte le
arroganze e presunzioni. In sede di esame orale ti trovi di fronte una
schiera di Commissari di esame che fanno sfoggio della loro sapienza
rispetto a te e rispetto a loro stessi. L’oggetto dell’esame non verte
sulla tua perizia rispetto alle materie esaminandi, ma sulla capacità di
metterti in difficoltà rispetto alla loro presunzione di saperne più di
te e del loro collega commissario. Tu che hai superato a pieni voti lo
scritto ti trovi di fronte una barriera di contestazioni, di
approssimazioni, di fuorvianze, che ti inceppano i ricordi e che minano
il tuo stato psicologico. Se invece sei un amico o conoscente, o,
meglio, un raccomandato, tutto cambia. Le domande sono benevole, o i
voti sono in contrasto con la scena muta, o con risposte incomplete o
fuorvianti. I senior, pur senza limitazioni all’accesso, poi sono
penalizzati: non idonei a prescindere. Chi già opera in altri corpi,
magari assunto con un concorso truccato, e per capriccio e sazietà vuol
cambiare, è favorito, pur se incapace. Fortunati una volta, fortunati
per sempre. Meglio allora se non si fanno più le prove orali.
1.
02/06/1976. Domanda nell’Arma dei Carabinieri: lettera morta. Esito
scontato per un giovane che non è raccomandato.
2.
13/09/1991. Concorso della Polizia di Stato, scritto voto 8.16, tra i
primi 50 sul oltre 20.000 candidati. Il seguito: lettera morta. Esito
scontato per un giovane preparato che non è raccomandato.
3.
29/10/1991, prova di guida e 25/01/1992 prova psico-fisica-attitudinale
superate al concorso del Ministero della Giustizia per autisti degli
automezzi speciali: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato
che non è raccomandato.
4.
26/10/1992. Concorso all’ATM di Milano per ferrotranviere. Prova di
guida: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato che non è
raccomandato.
5.
16/01/1997. Concorso di Uditore Giudiziario: lettera morta. Esito
scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.
6.
04/05/1998. Domanda per nomina di Giudice di Pace. Lettera Morta. Esito
scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.
7.
18/11/1999. Concorso di Comandante del Corpo di Polizia Municipale di
Manduria. Candidati oltre 300. 5° allo scritto, all’orale preceduto da
chi aveva indetto e regolato il concorso. Esito scontato per un uomo
preparato che non è raccomandato.
8. Dalla
sessione di esame di Avvocato 1998 alla sessione di esame di Avvocato
2014, per 17 anni, alla prova scritta si è dato sempre – stranamente -
un voto uguale (25/30) a tutti e tre gli elaborati (civile, penale,
amministrativo), insufficiente al superamento dell’esame, a mo’ di
ritorsione per le battaglie intraprese. I ricorsi al Tar, rigettati, ma
accolti per tutti gli altri, per le medesime ragioni. Esito scontato per
un uomo preparato che non è raccomandato.
9. Dal
2000 al 2023 non ho potuto svolgere concorsi pubblici per procedimenti
penali pendenti con accuse risultate infondate, per calunnia in
riferimento alle accuse di malagiustizia e concorsi truccati in enti
pubblici e di abilitazione, specialmente in avvocatura, di cui si è
stati promotori per la riforma della legge (Legge 18 luglio 2003, n. 180
conversione Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, Legge Castelli della
migrazione degli elaborati).
10. 22/05/2023. Iscritto
nell’elenco Asmelab degli aspiranti Comandanti della Polizia Locale,
dopo aver superato l’esame scritto per presentare interpello all’orale
delle Pubbliche Amministrazioni richiedenti, o scritto se troppi
interpellanti. Esito scontato per un sessantenne preparato. Per ogni
risposta corretta verrà attribuito al candidato un punteggio di 0.166
periodico, con arrotondamento per eccesso (0,166), per ogni risposta
errata o non data verrà attribuito il punteggio 0 (zero). Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate.
11. 10/07/2023. Comune di
Venosa (PZ), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
229, partecipanti alla prova scritta 120, posizionato 5°. Per ogni
risposta corretta verrà attribuito al candidato un punteggio di 0.166
periodico, con arrotondamento per eccesso (0,166), per ogni risposta
errata o non data verrà attribuito il punteggio 0 (zero). Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate. Esame orale pubblico a Venosa il 14/07/2023. Preceduto. Esito
scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non
raccomandato.
12. 06/09/2023. Comune di
Gattinara (VC), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
76, posizionato 5° IDONEO, esame orale pubblico a Gattinara il
18/09/2023. Preceduto ingiustamente. Esito scontato per un sessantenne
preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.
13. 02/10/2023. Comune di
Anacapri (NA), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
249. Preceduto. A tutti sono poste due domande secche: una obbligatoria
sugli appalti pubblici. Nessuno ha saputo rispondere in modo esauriente,
meno che uno... Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
14. 10/10/2023. Comune di
Vigliano Biellese (BI), aspiranti Comandanti della Polizia Locale,
interpellanti 53. Preceduto. Commissione: non idonea. Esito scontato per
un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.
15. 20/11/2023 e 23/11/2023
Concorso Agenzia delle Entrate. Su 129.751 candidati arrivato tra i
primi 13.000. Esito scontato per un sessantenne preparato. Selezione
pubblica per l’assunzione a tempo indeterminato di complessive 3970
unità per l’area funzionari, per attività tributaria - Agenzia delle
Entrate
- 0,08 per ogni domanda errata;
+ 0,43 per ogni domanda corretta;
0 punti per ogni domanda omessa.
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Esito Prova: Non Superata
Punteggio Totale: 20,92 punti
52 corrette 18 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
Selezione pubblica per
l’assunzione a tempo indeterminato di complessive 530 unità per l’area
funzionari, per i servizi di pubblicità immobiliare - Agenzia delle
Entrate
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
- 0,08 per ogni domanda errata;
+ 0,43 per ogni domanda corretta;
0 punti per ogni domanda omessa.
Esito Prova: Non Superata
Punteggio Totale: 15,82 punti
42 corrette 28 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
16. 16/12/2023 Comune di
Savignano Irpino (AV), aspiranti Comandati della Polizia Locale.
Commissari impreparati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
17. 13/02/2024 Comune di
Capri (NA), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissari in mala
fede. Graduatoria di già graduati in altri corpi di polizia che non
hanno risposto a tutte le domande, o fatto in modo incompleto o
fuorviante. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato
vecchio e non raccomandato.
18. 20/02/2024 Comune di
Beinasco (Ente capofila) (TO), elenco di idonei aspiranti Comandati
della Polizia Locale dei comuni aderenti allo specifico accordo (Bruino,
Castagnole Piemonte, Orbassano, Rivalta di Torino, Sangano ed il
Consorzio C.I. di S.). Prova scritta: 5° su 50 candidati. Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate. Esito scontato per un sessantenne preparato.
19. 07/03/2024 Comune di
Borgomanero (NO), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Paese senza
bagni pubblici, nemmeno in stazione ferroviaria. Commissione domestica e
pretenziosa. Candidati due, di cui uno già funzionario in altro ente.
Entrambi bocciati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
20. 18/03/2024 Comune di
Melfi (PZ), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissione
domestica. Come di solito nelle città del Sud, una marea di candidati:
oltre 100. Una trentina presenti all’orale. In virtù della privacy
risultati dei 6 idonei in anonimato con corrispondenza ad un numero
domanda, di cui non si riesce a risalire al titolare, nemmeno per sé
stessi. Esito scontato. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
21. 13/05/2024 Comune di
Panicale (PG), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissione
domestica. Commissari in mala fede. Graduatoria di già graduati in altri
corpi di polizia che non hanno risposto a tutte le domande, o fatto in
modo incompleto o fuorviante. Esito scontato per un sessantenne
preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato. Così per me, così
per altri interpellanti presenti. Ti danno il 6/10 per impedire anche lo
scorrimento della graduatoria.
22. 05/06/2024 Concorso
Ufficio per il Processo. Su 72.901 candidati superato dai giovani
avvantaggiati dalle norme sul concorso (Il punteggio per le lauree
conseguite nei sette anni precedenti valgono doppio). Esito scontato per
un sessantunenne preparato. Concorso pubblico, per titoli ed esami, su
base distrettuale, ad eccezione di Trento e Bolzano, per il reclutamento
a tempo determinato di 3.946 unità di personale non dirigenziale
dell’Area funzionari, con il profilo di Addetto all’Ufficio per il
processo, da inquadrare tra il personale del Ministero della giustizia
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,375
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Non Superata
Punteggio Totale: 19,875 punti
31 corrette 9 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
23. 09/01/24 iscrizione al
"Concorso pubblico, per titoli ed esami, per il reclutamento di un
contingente complessivo di n.152 (centocinquantadue) unità di personale
non dirigenziale, a tempo pieno e indeterminato, da inquadrare nell’Area
Funzionari del Ministero della difesa, con competenze in materia
giuridico amministrativa (Codice A.1)". Esame il 10 luglio 2024. Idoneo
non vincitore su 36.323 candidati. Titoli di preferenza: gioventù.
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,25
(0,375 relazionali)
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Superata
Punteggio Totale: 21,25 punti
30 corrette 10 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti. Con lo stesso
criterio di punteggio avrei superato il concorso dell’Agenzia delle
Entrate e del Ministero della Giustizia (UPP), con meno domande
sbagliate (9).
24. 27/03/2024 iscrizione
al concorso "REGIONE PIEMONTE - CONCORSO PUBBLICO PER AUTISTI - BANDO N.
211". Esame il 24 luglio 2024. Candidati 977, presenti 406, voto 25,37,
escluso tra i primi quaranta previsti dal bando.
25. 25/04/24 iscrizione ad
AVVISO del Comune di Ginosa DI MANIFESTAZIONE DI INTERESSE PER IDONEI IN
GRADUATORIE DI CONCORSI PUBBLICI PER L’ASSUNZIONE A TEMPO PIENO E
DETERMINATO DI N. 4 UNITÀ DI PERSONALE DEL PROFILO PROFESSIONALE DI
AGENTE DI POLIZIA LOCALE: mai chiamato.
26. 12/05/2024. Iscrizione
concorso "Avviso di selezione pubblica per l’aggiornamento, relativo
all’anno 2024, dell’Elenco di Idonei da assumere quale Agente della
Polizia Locale nella Provincia di Lecce e negli enti locali aderenti
allo specifico accordo. Esame il 19 luglio 2024.
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,18
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni). ESITO
PROVA GNGNTN63H02A514Q GIANGRANDE ANTONIO
Superata
Punteggio Totale: 19,77 punti
29 corrette 11 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti. Con lo stesso
criterio di punteggio avrei superato il concorso dell’Agenzia delle
Entrate e del Ministero della Giustizia (UPP), con meno domande
sbagliate (9). 27. 16/06/2024 iscrizione GRADUATORIE DI CIRCOLO E DI ISTITUTO DI III FASCIA DEL PERSONALE AMMINISTRATIVO, TECNICO E AUSILIARIO della scuola.
28.
11/12/2024 Concorso pubblico Formez-Ripam su base territoriale, per
esami, per il reclutamento a tempo indeterminato di 2.200 unità di
personale non dirigenziale, di cui n. 111 unità da destinare alle
Regioni Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e
Sicilia e alle città metropolitane, alle provin-ce, alle unioni dei
comuni e ai comuni appartenenti alle predette Regioni, con il
profilo di specialista giuridico amministrativo per Regioni, Città
metropolitane e Enti locali.
|
ESPERIENZA ASSOCIATIVA |
Fondatore e Presidente Nazionale della
“Associazione Contro Tutte le Mafie”
www.controtuttelemafie.it -
www.telewebitalia.eu Primo presidente di Avetrana del Circolo politico di Alleanza Nazionale |
ATTIVITA’ SPORTIVE |
Calcio – Paracadutismo militare – Corsa di resistenza - Podismo
Boxe – Arti marziali |
FUNZIONI AZIENDALI OFFERTE
|
Figura Professionale Duttile, Competente |
MOVIMENTAZIONE
|
Disponibilità alle trasferte |
LEGGE SULLA PRIVACY
|
Autorizzati al trattamento dei dati ai sensi del D.Lgs. 196/2003 |
Dr Antonio Giangrande
ESAME DI AVVOCATO:
17 ANNI PER DIRE BASTA!
La testimonianza,
più unica che rara, di un candidato all’esame di avvocato, che dopo 17 anni di
bocciature si arrende e dice basta.
E’ TUTTA QUESTIONE
DI COSCIENZA.
Ognuno di noi è
segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si
chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca
commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola,
lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla
corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo
l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!».
Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché
tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà
senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi
la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento.
Antonio Giangrande.
Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani
si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per
conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo
sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e
come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa,
insegna.
Chi non sa: parla e
decide.
Chissà perché la tv
ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio
Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
«Noi siamo quel che
facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello
che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie.
Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir
l’anima. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed
osannato in morte. Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri
ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una
di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare,
né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale
o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per
salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura.
Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra
mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi
pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella
mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato.
Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv.
Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina
Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie
compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che
io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare
me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se
per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai
media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un
sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3
anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma
gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti
tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di
abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano
l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere
alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti,
specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi
gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di
sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia
capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio
da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi.
Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di
fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare
nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non
è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della
magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia
in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la
sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi
dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna
tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei
magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con
l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene:
per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un
decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna
senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione. Zittirmi sia mai. Pur
isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione.
Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno
i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me,
invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti
uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a
carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti
decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco,
l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi
l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati,
all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si
parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book
che si possono trovare su Lulu.com. e Google Libri, oltre che in forma di
lettura gratuita e free vision video su controtuttelemafie.it, mentre la
promozione del territorio è su telewebitalia.eu.»
Ha la preparazione
professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
«Non sono un
giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono
un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema
giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a
16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli
due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due
figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo
anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non
sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso
immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di
esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un
sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi
hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come
tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri,
essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non
perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché
posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza
condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta
questione di coscienza.»
E’ TUTTA QUESTIONE
DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di
Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che
cos'è questa coscienza
che spesso ho
sentito nominare.
Voglio esserne a
conoscenza,
spiegatemi, che cosa
significa.
Ho chiesto ad un
professore dell'università
il quale mi ha
detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si
è disintegrata,
pochi sono rimasti
quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e
dignità.
Adesso c'è l'assegno
a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono
molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli
che sanno rubare.
Chi li denuncia a
questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi,
chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con
il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane,
la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi,
hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno
sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire
di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme,
sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo
maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare,
nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e
la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi
andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso
solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a
vivere. (Vol tirà a campà)
Il Dito e la Luna.
L’attore con il dito indica la luna, gli stolti guardano il dito.
Quando l’attore
indica il problema e/o la sua soluzione, molti mirano l’attore e non
attenzionano il problema e/o la sua soluzione.
L’errore dei
saccenti è dare importanza alla Forma, ignorando la Sostanza.
La Forma è
momentanea, la Sostanza è eterna.
Slinding Doors:
porte scorrevoli. Quello che è e quello che dovrebbe essere. Il destino non si
cambia e bisogna accettare questo dogma. Non sei tu che cambi gli eventi, ma
sono gli eventi che cambiano te. Pensiamo di essere sfortunati e falliti,
perché, nonostante l'impegno tenace profuso e i tentativi reiterati, non
riusciamo a cambiare l'esito degli eventi. Probabilmente, durante la nostra
esistenza, abbiamo cambiato, con un fatto imprevisto, il corso degli eventi già
scritti. Non è sfortuna o incapacità: aspiriamo ad un posto che il destino non
ci ha destinato dalla nascita. Il mio evento dirimente è stato il diploma, preso
a 29 anni, e la laurea presa a 33 anni. Studi che potevano permettermi di salire
di livello sociale, ma che il destino per me non aveva preventivato, se non
sacrificio e privazioni.
Gli anziani non sono
vecchi, come se si riferisse alle cose, ma sono saggi, come se si riferisse alle
persone. Se i giovani, inesperti, spesso, fanno sentire il peso degli anni a chi
ne ha più di loro, basta ricordargli che: i giovani sono la cronaca, leggera;
gli anziani sono la storia...vissuta e portata sul loro corpo.
Dal web: Un padre ha
detto alla figlia:
"Ti sei laureata con
lode, ecco la macchina che ho comprato tanti anni fa. È un po' più vecchia
adesso, ma prima che te la dia, portala al parcheggio di auto usate in centro e
dì loro che vuoi venderla e vedere quanto ti offrono".
La figlia è andata
al parcheggio delle auto usate, è tornata da suo padre e ha detto: "Mi hanno
offerto 1.000 euro perché hanno detto che sembra piuttosto logora".
Il padre ha detto,
ora "Portala al banco dei pegni". La figlia andò al banco dei pegni, tornò da
suo padre e disse: "Il banco dei pegni ha offerto solo 100 euro perché è una
vecchia macchina".
Il padre allora ha
chiesto a sua figlia di andare in un club automobilistico ora e mostrare loro
l'auto. La figlia ha poi portato l'auto al club, è tornata e ha detto a suo
padre: "Alcune persone nel club hanno offerto 100.000 euro perché è una Holden
Torana ed è un'auto iconica e ricercata da molti collezionisti"
Ora il padre ha
detto questo a sua figlia: "Il posto giusto ti valorizza nel modo giusto". Se
non sei valutata, non arrabbiarti, significa che sei nel posto sbagliato. Chi
conosce il tuo valore è chi ti apprezza.
Non stare mai in un
posto dove nessuno vede il tuo valore.
Politica ed
economia.
Liberalismo,
assoluto o solidale. Socialismo, di destra (Fascismo: dittatura, legge ed
ordine), di sinistra (Comunismo: dittatura; Socialismo Liberal Woke: anarchia,
depravazione ed assistenzialismo,
estinzione delle nazioni e delle culture autoctone). Come dire? Per il
Liberalismo: tutti per uno. Per il Socialismo: uno per tutti. Con il
Liberalismo, c'è libertà e pace e si premia il merito e, quando è solidale, si
appagano i bisogni con sussidi. Per agevolare l'economia ed il lavoro-benessere
si incentivano consumi ed opere pubbliche: private ed artistiche (opere eterne).
Con il Comunismo non c'è libertà e mai pace e mai meritocrazia e non si agevola
l'economia con investimenti e consumi a discapito del benessere: la massa vive
di sussidi e miseria, ma nel divertimento; il management vive nel lusso. Con il
Socialismo Liberal le minoranze tiranneggiano e si soddisfano i vizi, a scapito
degli investimenti e del lavoro. Con il Socialismo il tutto è elevato a
religione strumentale per gli ignoranti. I liberali, oggi in Italia, sono in via
di estinzione e chi, al Governo, si è definito tale, era per fare i cazzi
propri.
Istruzione ed
economia.
Oggi in Italia solo
i falliti si laureano. I Ragazzi, figli di migliaia di statali meridionali
politicizzati, idolatri del posto fisso (alla Zalone) si chiedono: cosa farò da
grande? Il laureato. Chi sceglie di diplomarsi con l'istituto tecnico per
ragionieri o geometri, potrebbe fermarsi, ma, se continuano, come quelli del
classico o del liceo, che sono costretti a laurearsi, non sanno a cosa vanno
incontro: iscrizione ad un Albo professionale a conduzione patronale, da cui
tutti oggi scappano, oppure partecipare a dei concorsi pubblici, spesso
truccati, per pochi posti, assieme a decine di altre migliaia di candidati. Non
parliamo, poi, di come si diventa insegnanti: prima bastava prendere un diploma
e spostarsi al nord per prendere i crediti da supplente. Oggi, i crediti te li
compri. La baggianata che: "insegni solo se hai vinto il concorso", è lo
specchio per gli allocchi. Insegnano ancora i supplenti, che accumulano i
crediti; quelli che dovrebbero essere di ruolo per aver vinto un concorso,
stanno a casa. La vecchia bistrattata "Scuola Radio Elettra", o altri istituti
professionali, ti daranno meno titoli da sbandierare ai parenti, ma ti
riempiranno il portafoglio. Vuoi mettere un impiego come funzionario o come
istruttore a meno di 1.500-2.000 euro al mese e vivere in una città dove bastano
solo per vivere? Mentre i professionali (meccanici, elettrotecnici,
elettricisti, idraulici, parrucchieri, ecc.) sono meno rispettati come i
dottori, ma sono più temuti. Provate a chiamarli: per loro i 2.000 euro degli
statali sono bazzecole e, spesso, a nero. I ristoranti li affollano i
professionali e non i dottori professionisti. La sinistra ci ha convinti che
studiare ci eleva socialmente. E i meridionali ci cascano, spesso abbandonando
le imprese di famiglia e la terra natia. No! studiare significa solo fare
politica ideologica comunista alle università e morire di fame, quando ci si
laurea dopo anni fuori corso. I giovani settentrionali l'hanno capito. Meglio
rimanere nell'azienda di famiglia, o essere un autonomo professionale, o un
operaio specializzato a 18 anni, con un alto reddito immediato ed a casa
propria, che essere tra migliaia di candidati ad un concorso pubblico di pochi
vincitori, con un un posto malpagato e insostenibile in trasferta.
Concorsi pubblici: Spoils System vs Merit System
Di
Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di 450 saggi di inchiesta ed
approfondimento. Autore, tra l’altro, del testo “Pillole per la preparazione di
Concorsi Pubblici”, fonte utile ed indispensabile di molti candidati.
In
linea generale, nell’ordinamento italiano vige il modello del Merit System, in
ossequio all’articolo 97 della Costituzione
Art. 97 c. 2 – I
pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che
siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Lo spoils system è
un modello di selezione dei vertici amministrativi su base fiduciaria.
Nonostante sia in contrasto con il principio costituzionale di imparzialità
della pubblica amministrazione, viene però applicato molto diffusamente.
La procedura
concorsuale assevera la legalità, ma non rispecchia la legalità.
Gli scritti:
Nei Concorsi
Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:
Quella con risposte
uniche e motivate (testi elaborati), la cui correzione è, spesso, lunga,
farraginosa e fatta da commissioni, domestiche, clientelari, familistici e
incompetenti che non correggono, o correggono male non avendo il tempo
necessario, o la preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o
raccomandazione.
Quella con domande
multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono
velocità di correzione e uniformità ed imparzialità di giudizio.
Chi è abituato
all’aiutino disdegna i quiz a risposta multipla, in cui non si può intervenire,
se non conoscendoli in anticipo.
Il metodo di
correzione degli elaborati negli esami di Stato (vedi Avvocati/magistrati) o nei
concorsi pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non
sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto, non si abbisogna di
microfoni o microspie nelle segrete stanze delle commissioni e dei "Compari".
Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e controllare le
prove se e come sono state corrette, anche in relazione alle altre prove
ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di nefandezze commesse. Nel
ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco: perché così fan tutti!!
Giudicanti, ingiudicati.
L’orale:
I commissari d’esame sono
nominati dalle Amministrazioni procedenti. Ergo: fanno i loro interessi.
Il loro interesse è avere
come dipendente un elemento conforme ed omologato, più che preparato.
In questo senso la
Commissione in sede di esame orale:
sceglie l’affidabilità del
candidato in base al nominativo ricevuto da terzi;
sceglie l’esperienza del
candidato in base agli incarichi pregressi coperti già in altre Amministrazioni
Pubbliche. In questo caso il giudizio dei commissari è indirizzato, anche se vi
è scena muta.
La Commissione è preparata
in base alle sole domande da loro poste e non su tutti gli argomenti d’esame. Se
l’argomentazione del candidato approfondisce il tema, la si mette in difficoltà
e scatta la ripicca. Il candidato risultato primo allo scritto con 60 domande,
si ritrova escluso per inidoneità all’orale per sole due o tre domande.
La prova orale,
madre si tutte le arroganze e presunzioni. In sede di esame orale ti trovi di
fronte una schiera di Commissari di esame che fanno sfoggio della loro sapienza
rispetto a te e rispetto ai loro colleghi. Adottano per filo e per segno l’iter
burocratico tangibile ed accertabile, prescritto per legge, ma, poi, abusano
della loro discrezionalità indimostrabile.
Insomma: come la
moglie di Cesare, appaiono onesti, ma non sono tali. L’oggetto dell’esame non
verte sulla tua perizia rispetto alle materie esaminandi, ma sulla capacità di
metterti in difficoltà rispetto alla loro presunzione di saperne più di te e del
loro collega commissario. Tu che hai superato a pieni voti lo scritto ti trovi
di fronte una barriera di contestazioni, di approssimazioni, di fuorvianze, che
ti inceppano i ricordi e che minano il tuo stato psicologico. Se invece sei un
amico o conoscente, o, meglio, un raccomandato, tutto cambia. Le domande sono
benevole, o i voti sono in contrasto con la scena muta, o con risposte
incomplete o fuorvianti.
I senior, pur senza
limitazioni all’accesso, poi, sono penalizzati: non idonei a prescindere.
Chi, invece, già
opera in altre amministrazioni per tali funzioni, magari assunto con un concorso
truccato, e per capriccio e sazietà vuol cambiare, è favorito, pur se incapace.
Fortunati una volta, fortunati per sempre. Meglio allora se non si fanno più le
prove orali, in ossequio alla Costituzione.
Dr Antonio Giangrande
A proposito di
aborto. Ho appena visto il film "Call Jane" del 2022: mero strumento di
propaganda liberal e femminista. Il film parla della legittimazione dell'aborto
negli USA. La trama del film parla di un aborto clandestino per stato di
necessità inserito in un contesto di aborti speculativi per futili motivi e come
tali legittimati. Aborti indotti da una lesbica, invidiosa della maternità
etero. La manipolazione culturale della sinistra liberal americana influenza e
corrompe il mondo occidentale e fa sembrare normale quello che non è: uccidere
per futili motivi il figlio in grembo è un diritto delle donne. Un crimine
contro l'uomo, come singolo individuo, e contro l'umanità, provocandone
l'estinzione, se non fosse per quelle donne che scelgono responsabilmente la
maternità con sacrificio. Quelle donne normali e maggioritarie che, rispetto al
sentire comune egoistico di tagliare ogni fardello che impedisce carriera,
successo e bella vita, scevra di sacrifici e responsabilità, scelgono l'amore
della famiglia.
La Privacy: il
diritto al libertinaggio.
L’orientamento
sessuale di LGBTI e il diritto di abortire, ossia “Il diritto di essere lasciati
soli”: cioè, Il diritto di farsi i fatti propri.
Lo scimmiottamento
della deriva culturale liberal USA
"'Privacy e
orientamento sessuale. Una storia americana', libro di Vittoria Barsotti, non
soltanto costituisce uno sforzo a cavallo fra il diritto costituzionale e quello
privato - affrontando tanto la prospettiva delle scelte intime coperte dalla
protezione costituzionale quanto quella della c.d. privacy rientrante
chiaramente nella law of torts - ma costituisce pure un interessante studio
sulla sociologia, la cultura o, se si preferisce, il contesto giuridico
statunitense. La chiave di lettura capace di fornire la riduzione ad unità
tematica dell'ampia varietà di problemi coperti dalla locuzione privacy è
trovata da Barsotti in uno strumento metodologico proprio di quella
"sistematologia" giuridica: l'analisi dinamica delle fonti." (Ugo Mattei)
Ricordiamo cosa
sancisce la normativa europea (Regolamento UE 679/2016, il c.d. GDPR)
all'articolo 9 che pone uno specifico divieto di trattare i dati personali che
rivelino la vita e l'orientamento sessuale della persona.
The right to privacy: “il diritto ad essere lasciati
soli”
Da diritto.it. Era
il 1890 quando l’Harvard Law Review pubblicava un saggio intitolato “The
Right to Privacy. The Implicit Made Explicit” ad opera di due giovani
giuristi statunitensi: Samuel Warren e Louis Brandeis. Ciò che spronò i due
giuristi a creare il right to privacy fu il progresso tecnologico: nella seconda
metà dell’Ottocento infatti venne perfezionata la stampa a rotativa, che
permetteva di stampare numerose copie del giornale in poco tempo e proprio la Evening
Gazette di Boston fu una delle prime gazette ad utilizzare la stampa a
rotativa con cui pubblicava – come un moderno giornale di gossip –
fotografie, scattate a delle feste private della borghesia, unitamente a
dettagli riguardanti la vita privata, dando così luogo a delle violazioni della
privacy dell’individuo. Tra questi vi era la Signora Warren.
Così dalle
indiscrezioni riguardanti la sua vita coniugale, Warren e Brandeis si
ritrovarono a ragionare sulla sua intimità violata, sul desiderio di
preservarla, sulle informazioni personale che con un semplice scatto diventavano
di dominio comune.
Nacque così il “the right to be let alone”: ossia letteralmente il diritto ad
essere lasciati soli nella propria sfera privata, a non subire ingerenze
nella propria sfera domestica; “nell’esigenza di riservatezza di quei
«thoughts, emotions, sentiments and sensations» che già nel 1890 Samuel Warren e
Louis Brandeis posero alla base della prima teorizzazione sistematica del right
to privacy. Secondo i due autori, la divulgazione indesiderata dei pensieri,
degli stati d’animo e dei sentimenti degli individui è suscettibile di provocare
a essi notevoli importi di sofferenza ed è perciò «wrongful in itself», ossia
indipendentemente dalle conseguenze sulle loro relazioni sociali, sul loro
patrimonio o sui loro affari”.
Da agendadigitale.eu La prima definizione di privacy proviene da un’idea
giuridica nord americana del 1890, fondata sul “diritto ad essere lasciato
solo” (to be let alone). Due giovani avvocati di Boston preparavano una causa
contro le indiscrezioni sulla vita matrimoniale della moglie di uno di loro che
un giornale locale, la Evening Gazette, specializzata in pettegolezzi, fece
trapelare in alcuni articoli. La necessità di affermare un nuovo diritto
provenne dalla testuale affermazione: “Questa faccenda dei giornali che si
occupano troppo della vita mondana di mia moglie non può continuare”. I due
avvocati si ritrovarono quindi a ragionare su quali informazioni riguardanti la
vita personale di un individuo dovessero essere di pubblico dominio e quali,
invece, meritassero una tutela dalla curiosa invadenza altrui.
In Italia, la prima
affermazione giurisprudenziale del diritto alla privacy si registra con la
sentenza della Corte di Cassazione n. 4487 del 1956 a seguito del ricorso, dei
figli e nipoti del grande tenore napoletano Enrico Caruso, ad una casa
produttrice di un film che narrava in forma romanzata, episodi ed avvenimenti
relativi all’infanzia, alla giovinezza ed ai primi passi, alquanto impacciati,
della brillante carriera di Enrico Caruso. L’attenzione veniva richiamata su
talune scene. Per significare la poverissima estrazione del tenore, vi si
rappresentava un ufficiale giudiziario nell’atto di eseguire un pignoramento in
casa Caruso. Si dava risalto all’incerta economia familiare attraverso la
rappresentazione di una violenta reazione del padre verso il piccolo Enrico
perché fece cadere accidentalmente a terra una brocca colma di latte.
Inoltre, oggetto
specifico di ulteriori reclami erano la raffigurazione del giovane tenore in
stato di ebbrezza in occasione del suo debutto a Trapani e la dettagliata
descrizione dello scherno e dei dileggi che accompagnarono inopinatamente il suo
esordio. Parimenti lesive, si assumevano le scene in cui Caruso, indotto
dall’insuccesso manifestava propositi suicidi, tanto da apparire sul punto di
lasciarsi morire annegato ed il rivisitato abbraccio del suo amore giovanile
quando lei era già convolata a giuste nozze con un altro uomo.
I parenti
rivendicavano, quindi, la tutela di situazioni e vicende strettamente personali
e familiari anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico perché non
avevano per i terzi un interesse socialmente apprezzabile.
Affermazione questa,
che divenne, successivamente nella normativa italiana, un punto di riferimento
per il bilanciamento tra riservatezza e diritto di cronaca.
In Italia, il
concetto di privacy, inteso come rispetto della vita privata e familiare,
cominciò ad evolversi con una altra sentenza della Cassazione, la n. 990 del
1963 che condannò il settimanale “Tempo” (all’epoca uno dei più diffusi in
Italia) a risarcire gli eredi di Claretta Petacci, amante di Benito Mussolini,
per aver raccontato, in un articolo ed in modo offensivo vicende private in
assenza di interesse pubblico.
E’ interessante
leggere l’introduzione della sentenza: “Sebbene non sia ammissibile il diritto
tipico alla riservatezza, si viola il diritto assoluto di personalità, inteso
quale diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento
della personalità dell’uomo come singolo, la divulgazione di notizie relative
alla vita privata, in assenza di un consenso almeno implicito, ed ove non
sussista, per la natura dell’attività svolta dalla persona e del fatto
divulgato, un preminente interesse pubblico di conoscenza”.
Nelle sentenze
citate, non si riconosceva, ancora formalmente, il diritto alla privacy intesa
come principio di riservatezza ma si ammetteva la necessità di una tutela in
tale ambito.
Solo nel 1975, si
riconobbe il diritto alla privacy nella sentenza n. 2129 del 27 maggio 1975, con
la quale si tutelava il diritto alla riservatezza della moglie dello Scià di
Persia che era stata ripresa in atteggiamenti molto intimi con un uomo tra le
mura della sua abitazione.
La sentenza
affermava che costituisce lesione della privacy la divulgazione di immagini o
avvenimenti non direttamente rilevanti per l’opinione pubblica, anche quando
tale divulgazione venga effettuata con mezzi leciti e per fini non
esclusivamente speculativi.
Dunque, il concetto
di privacy nasce, anche in Italia, nel momento in cui la sfera privata appare
minacciata dalla crescente capacità di intrusione di chi osserva o ascolta e
riporta al pubblico ciò che accade in ambito domestico.
Tuttavia, bisogna
attendere la fine del ’96 per avere una legge che garantisce il trattamento dei
dati personali nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della
dignità delle persone fisiche con particolare riferimento alla riservatezza ed
all’identità personale nonché l’istituzione di un’Autorità amministrativa
indipendente. Normativa questa, prima consolidata in un decreto legge del
2001 poi abrogata dall’art. 183, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 196/2003 noto
anche come Codice in materia di protezione dei dati.
Da diritto.it. La
sentenza della corte suprema americana sull’aborto: una riflessione
Avv. Luisa Di
Giacomo
In
questi giorni non si parla d’altro nel web, su social, blog e forum, se non
della storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che ha
sovvertito il precedente Roe vs Wade del 1973 ed ha sostanzialmente reso
illegale l’aborto nella Federazione Americana.
Ma che cosa è
successo, veramente negli USA? Come è possibile che una sentenza, per quanto
emanata dalla corte di maggiore istanza del Paese, abbia tutto questo potere? E
adesso che cosa succederà nei vari Stati?
1. Il sistema
giudiziario americano e il ruolo del precedente
La Corte Suprema
costituisce il massimo grado giudiziario degli Stati Uniti, ovvero di tutti i 50
Stati che costituiscono la Federazione degli Stati Uniti d’America.
È composta da nove
giudici, che vengono nominati dal Presidente con il consenso del Senato.
Ad oggi, la Corte è
composta per i due terzi da Giudici nominati da Presidenti Repubblicano (dunque
il Partito più conservatore degli USA), in quanto sei dei nove giudici sono
stati nominati dal Presidente Trump e dai due Bush, padre e figlio.
Il mandato di un
Giudice nominato alla Corte Suprema è potenzialmente vitalizio, in quanto la
Costituzione prevede che duri per tutta la durata della “buona condotta” del
Giudice, ossia a meno di procedimento di impeachment.
Dinanzi alla Corte
Suprema, proprio come dinnanzi alla nostrana Corte di Cassazione, arrivano le
cause in terzo grado di giudizio da parte di tutti i 50 Stati, cioè le cause che
dibattono su diritti federali, trasversali a tutti gli Stati, e la
caratteristica delle sentenze emesse da questo organo è che esse costituiscono
un precedente vincolante, diversamente da quanto accade nel nostro Paese: nel
sistema giuridico della common law, che si basa essenzialmente su fonti non
scritte, ma di formazione giurisprudenziale, le sentenze della Supreme Court
dettano legge e le corti inferiori non possono decidere in difformità rispetto a
quanto da essa statuito. Inoltre, stavolta come la nostra Corte Costituzionale,
la Corte Suprema decide sulla costituzionalità di alcune leggi federali.
Solo la Corte stessa
può, con sentenza successiva, mutare un precedente già adottato e di conseguenza
mutare gli assetti legislativi dei singoli Stati americani.
2. Il caso Roe vs
Wade
Il precedente Roe
contro Wade fu un caso giudiziario molto importante che venne dibattuto dinanzi
alla Corte nel 1972 ed andato a sentenza nel gennaio del 1973, con una pronuncia
che fece storia: con il voto favorevole di sette giudici su nove, la Corte
riconobbe la sussistenza di un diritto federale (dunque applicabile a tutti gli
Stati) alle donne di interrompere volontariamente la gravidanza, anche in
assenza di problemi di salute della donna, del feto e di ogni altra circostanza
che non fosse la libera scelta della donna.
I Giudici fondarono
la propria decisione sul quattordicesimo emendamento della Costituzione, secondo
cui sussiste un diritto alla privacy inteso come diritto alla libera scelta di
ciò che attiene alla sfera più intima dell’individuo e stabilirono due principi
cardine: la possibilità di abortire senza alcuna limitazione fino al momento in
cui il feto non sia in grado di sopravvivere in maniera autonoma al di fuori
dell’utero materno e la possibilità di abortire anche al di là di questi limiti
qualora sussista un pericolo di vita per la donna.
Prima di questa
storia sentenza l’aborto era illegale, negli Stati Uniti, in 30 Stati; in 13 era
legale in caso di pericolo per la donna, stupro, incesto o malformazioni
fetali; in 3 solo in caso di stupro e di pericolo per la donna, mentre in soli 4
Stati l’unico requisito richiesto era la libera volontà della donna.
Il caso Dobbs contro
Organizzazione per la Salute delle Donne di Jackson.
Il 24 giugno
2022, con 5 volti favorevoli e quattro contrari, la Corte ha sovvertito il
proprio stesso precedente, stabilendo che il diritto all’aborto non è protetto
dalla Costituzione degli Stati Uniti, e di conseguenza non si tratta più di un
diritto federale.
Pertanto, ogni Stato
d’ora in poi è e sarò libero di legiferare in materia come ritiene opportuno e
corretto.
Il caso discusso ha
riguardato la costituzionalità di una legge dello Stato del Mississippi del 2018
che metteva al bando l’aborto dopo la 15ª settimana di gravidanza nella gran
parte dei casi; le Corti federali di grado inferiore avevano sospeso l’entrata
in vigore della legge, considerandola incostituzionale (proprio sulla base del
precedente Roe vs Wade) e provocando il ricorso alla Corte Suprema.
Gli effetti di
questa storica sentenza non hanno tardato a farsi sentire: in Utah, South
Dakota, Kentucky, Louisiana, Oklahoma, Missouri, Arkansas e Texas l’aborto è già
stato dichiarato illegale, ma l’elenco è destinato a crescere ed in altri Stati,
ad esempio Alabama, West Virginia, Wisconsin e Arizona, sono state chiuse le
cliniche per l’interruzione volontaria della gravidanza.
Di contro, molte
grandi aziende americane si sono dette pronte a coprire le spese di viaggio
necessarie alle loro dipendenti per andare ad abortire se il diritto è loro
negato nello Stato di residenza: tra i nomi più in vista, Disney, Apple,
Alphabet, JPMorgan Chase, Tesla, Meta e Bank of America, Yelp, Netflix, Levi
Strauss e Microsoft.
C’è da chiedersi,
tuttavia, quanto durerà questa rete di solidarietà, dal momento che alcuni
governatori repubblicani hanno minacciato di annullare i contratti con le
società che offrono sostegno all’aborto.
3. Il lato
conservatore dell’America
La sentenza Dobbs vs
Jackson Women’s Health Organization ha scatenato un’ondata di indignazione in
tutto il mondo, con cortei, manifestazioni e proteste nelle maggiori città
americane e dinnanzi alla sede della Supreme Court a Washington.
Si tratta
indubbiamente di un clamoroso passo indietro nel garantire i diritti civili ed
il principio di autodeterminazione del singolo ed oggi non possiamo fare altro
che stupirci che questa retrocessione arrivi da uno Stato che nel nostro
immaginario è sempre stato un baluardo di progresso, civiltà e democrazia.
Ma è veramente così?
L’immagine che noi abbiamo degli Stati Uniti d’America è quella
della cosmopolita New York, di Los Angeles e della California, dell’elegante
Boston e di Washington con i suoi intrighi di palazzo: è, in pratica, l’immagine
che vediamo nei film di Hollywood.
Ma che cosa sappiamo
delle cittadine e dei paesini del Nebraska, del South Carolina, del North
Dakota? Che cosa sappiamo della provincia americana remota, lontana da tutto,
dove ancora la maggioranza delle persone vota, appunto repubblicano,
dove Trump ha stravinto le elezioni, dove le leggi razziali sono state abolite
da 60 anni scarsi (nel Mississippi le leggi Jim Crow che discriminavano i neri
sono state abolite definitivamente solo nel 1964)? Che cosa conosciamo dei
movimenti per la supremazia della razza bianca, e dell’America agli Americani?
Noi vediamo ancora
gli Americani come i nostri salvatori a Omaha Beach, portatori sani di un’idea
di democrazia e di uguaglianza, dello slogan “Yes, we can” e del sogno americano
per cui chi lotta con tutte le sue forze e ci crede veramente può realizzare
qualsiasi cosa, anche se partito da casa con una valigia di cartone e due penny
nelle tasche bucate.
Eppure, l’America,
quella vera, è quello Stato federale in cui, su 50 Stati, 28 sono governati dai
Repubblicani e i Repubblicani sono stati eletti dal popolo. Gli stessi
Repubblicani che, all’indomani di una sentenza che ci fa ripiombare dritti
nell’oscurantismo, si sono precipitati a cancellare il diritto sacrosanto di
ogni donna a decidere in maniera autonoma del proprio corpo. E che, per quanto
il pensiero ci disturbi, non sono altro che l’espressione del popolo che li ha
regolarmente eletti al Governo del proprio Paese, che, forse, alla fine, non era
poi così progressista come finora lo avevamo immaginato.
“L’utero è mio e
lo gestisco io”: contraccezione e aborto nel movimento femminista degli anni
Settanta
di
Nadia Maria Filippini su uaar.it
Questo tema mobilitò
il movimento femminista in un’ampia serie di iniziative: dalle manifestazioni di
massa all’organizzazione di aborti autogestiti, dalle autodenunce collettive
alle mobilitazioni nei processi per aborto. Nel 1971, in Germania, 375 donne si
autodenunciarono sulla rivista Stern per interruzione della gravidanza,
come avvenne in Francia nel Manifeste des 343 salopes, firmato da
autorevoli intellettuali del tempo, Simone de Beauvoir in primis. I
processi a Marie-Claire Chevalier in Francia (1972) e a Gigliola Pierobon a
Padova (1973) divennero occasioni di grandi manifestazioni. Intanto crescevano
associazioni e gruppi, con lo scopo di fornire sostegno legale e pratico alle
donne, come MLAC (Mouvement pour la Liberté de l’Avortement et Contraception)
in Francia o in Italia il CISA (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto),
fondato nel 1973 da Adele Faccio, Emma Bonino, Maria Adelaide Aglietta.
Il crescente
coinvolgimento dell’opinione pubblica e l’appoggio dei partiti di sinistra
(seppur tra distinguo e differenziazioni) portò, tra la fine degli anni Settanta
e i primi anni Ottanta, alla promulgazione di leggi sull’interruzione volontaria
della gravidanza nella maggior parte dei paesi occidentali: in Gran Bretagna e
in vari Stati USA (1967), in Germania (1974), Francia (1975), Portogallo e
Spagna (1984, 1985). Negli USA una sentenza della Corte Suprema confermò, nel
1973, il diritto della donna di decidere l’interruzione della gravidanza,
legittimando le legislazioni già promulgate in vari Stati. In Italia una storica
sentenza della Corte Costituzionale dichiarava incostituzionale l’art. 546 del
Codice penale che vietava l’aborto terapeutico, sancendo per la prima volta la
priorità della vita materna su quella fetale. Tre anni dopo, nel 1978, il
parlamento varava la legge 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria di gravidanza). L’opposizione della Chiesa e
dei partiti cattolici fu particolarmente forte: in un clima di pesante scontro
sociale, la legge fu sottoposta a un referendum abrogativo (1981). La vittoria
che la riconfermava rivelava quanto fosse cambiata la mentalità collettiva,
quanto fosse intimamente penetrato anche tra le donne delle classi popolari e
cattoliche il principio della scelta della maternità.
Aborto: i perché di
un figlicidio.
Di Antonio
Giangrande domenica 26 giugno 2022.
La Corte suprema
degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade del 1973,
annullando così il diritto costituzionale Usa all'aborto. In questo modo ha
sentenziato che ogni Stato ha la competenza di legiferare in riferimento
all'interruzione della gravidanza.
In base al dibattito
che ne è scaturito sorgono delle domande spontanee.
1 Perché i media
politicizzati, fomentando dibattiti e polemiche, oltre che proteste, hanno fatto
passare il messaggio che la sentenza riguardasse l’abolizione dell’aborto e non
la libertà di scelta di ciascuno Stato?
2 Perché nei talk
show il dibattito era palesemente schierato a favore dell’aborto ed al diritto
costituzionale al figlicidio, considerando la sentenza un arretramento della
civiltà? Perché tutelare la vita del figlio è incivile e retrogrado?
3 Perché nel paese
più civile al mondo si considerano incivili da una parte la vendita delle armi
libere che causano morti e dall’altra parte la libertà di scelta di ogni Stato a
vietare la morte dei nascituri?
4 Perché la sinistra
fa sua la battaglia sull’aborto, confermando quel detto sui comunisti che
mangiano i bambini, non foss’altro che, intanto, ne agevolano la morte?
5 Perché è primario
il diritto della donna all’aborto, violando l’istinto naturale materno alla
difesa dei cuccioli, rispetto al diritto alla vita del nascituro?
6 Perchè il diritto
all'aborto della donna va pari passo al diritto della donna alla libera
sessualità, irresponsabile degli eventi?
7 Perché è diritto
della sola donna decidere sulla vita del nascituro, tenuto conto che c’è sempre
un uomo che ha avuto rilevanza fondamentale alla fecondazione? E perché, se il
figlio non lo si vuole per problemi economici e/o sociali, non si fa un regalo a
coppie sfortunate che la gioia di un figlio non la possono avere?
8 Perché una vita
deve essere sindacata in base alla cronologia dello sviluppo e non in base
all’esistenza?
9 Perché un delitto
viene punito in base all'evolversi del diritto politico alla morte e non al
diritto naturale alla vita?
Assumono
denominazioni specifiche l’uccisione del padre (parricidio), della madre
(matricidio), del coniuge (uxoricidio), di bambini (infanticidio), del fratello
o sorella (fratricidio), del sovrano (regicidio), di una donna (femminicidio).
Si noti bene: il
politicamente corretto elude il termine figlicidio, scaturente dal reato di
aborto.
La scriminante è la
carta del pepe.
Si dibatte quando,
l'embrione, prima, ed il feto, poi, ha valore di nascituro.
Il diritto alla vita
dell'embrione e del feto nascente: futuri nascituri di fatto.
10 Perché il
dispositivo dell'art. 544 bis Codice Penale prevede: “Chiunque, per crudeltà o
senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da
quattro mesi a due anni”; mentre per l’omicidio del nascituro la sinistra si
batte per l’immunità dell'omicida?
(1) Tale articolo è
stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189.
(2) La l. 20 luglio
2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la
necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto,
macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter
disp.att.).
(3) Il trattamento
sanzionatorio prima previsto nei limiti di tre e diciotto mesi di reclusione è
stato innalzato secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett a), della l.
4 novembre 2012, n. 201.
Ratio Legis
La norma è stata
introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva agli animali, i quali
però non ricevono copertura legislativa diretta, rimanendo ferma la tradizionale
impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali. Di
conseguenza risulta qui garantito il rispetto del sentimento per gli animali,
inteso come sentimento di pietà.
In conclusione:
perchè per gli animali si ha sentimento di pietà e per i futuri nascituri viene
negata l'umana misericordia?
ANAC: Organismo
anticorruzione che pretende un contributo.
La missione di ANAC,
dalla sua home page web
L’ANAC è un’autorità
amministrativa indipendente la cui missione istituzionale è individuata
nell’azione di prevenzione della corruzione in tutti gli ambiti dell’attività
amministrativa.
L’attività di ANAC
si esplica attraverso la vigilanza su vari fronti: applicazione della normativa
anticorruzione e rispetto degli obblighi di trasparenza, conferimento degli
incarichi pubblici, conflitti di interesse dei funzionari, affidamento ed
esecuzione dei contratti pubblici.
L’ANAC è organo
collegiale composto dal Presidente e da quattro componenti scelti tra esperti di
elevata professionalità, anche estranei all’amministrazione, con comprovate
competenze in Italia e all’estero, sia nel settore pubblico sia in quello
privato, di notoria indipendenza e comprovata esperienza in materia di contrasto
alla corruzione.
Organismo
anticorruzione che pretende un contributo.
CONTRIBUTO ANAC
2024: DEFINITO CON DELIBERA ANAC DEL 19 DICEMBRE 2023, N. 610 L’IMPORTO DEL
CONTRIBUTO DOVUTO ALL’AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE IN ATTUAZIONE DELL’ART.
1, COMMI 65 E 67 DELLA LEGGE N. 266 DEL 23 DICEMBRE 2005
A cura di Avv.
Emilia Piselli, Dott. Alessio Dell’Aquila
Nuova importante
delibera dell’Autorità Nazionale Anticorruzione con cui è stato fissato
l’importo del contributo dovuto alla stessa da stazioni appaltanti, operatori
economici e società organismi di attestazione, come previsto dalla legge 23
dicembre 2005, n. 266, in relazione all’anno 2024.
L’Autorità nazionale
Anticorruzione (ANAC), con Delibera n. 610 del 19 dicembre 2023, pubblicata in
Gazzetta Ufficiale il 12 gennaio 2024 (GU Serie Generale n.9, anno 165°, pg.
69), ha stabilito l’importo del contributo ad essa stessa dovuto per l’anno
2024.
Nel provvedimento,
in vigore dal 1°gennaio 2024, si definiscono:
I soggetti tenuti
alla contribuzione (art. 1);
L’entità della
contribuzione (art. 2);
Le modalità e i
termini di versamento della contribuzione (art. 3);
La riscossione
coattiva (art. 4);
La procedura
finalizzata all’ottenimento del rimborso in caso di versamenti indebiti (art. 5)
Soggetti tenuti alla
contribuzione
Ai sensi dell’art. 1
del provvedimento in esame, sono tenuti alla contribuzione in favore dell’ANAC
le stazioni appaltanti, gli operatori economici che intendano partecipare alle
procedure di scelta del contraente attivate dalle stazioni appaltanti e le
società organismo di attestazione.
Dal versamento della
contribuzione sono, invece, esentati le stazioni appaltanti e gli operatori
economici in relazione alle procedure di affidamento di lavori, servizi e
forniture in contesto di ricostruzione, pubblica e privata, a seguito degli
eventi sismici degli anni 2016 e 2017, nonché in relazione alle procedure di
affidamento alle quali si applica il decreto del Ministro degli Affari Esteri e
della Cooperazione Internazionale n. 192 del 2 novembre 2017.
Ai fini del predetto
esonero è, tuttavia, necessario che il responsabile del procedimento invii
all’indirizzo PEC protocollo@pec.anticorruzione.it, entro i 15 giorni solari
successivi alla pubblicazione della procedura, la richiesta di esonero mediante
apposito modello disponibile sul sito dell’ANAC.
Entità del
Contributo ANAC 2024
All’interno del
provvedimento, l’ANAC distingue due diversi regimi contributivi.
Per quanto riguarda
le stazioni appaltanti e gli operatori economici, sono state previste diverse
fasce relative all’importo posto a base di gara alle quali corrispondono diversi
importi da versare a titolo di contributo all’ANAC. Gli importi specifici sono
riportati nella seguente tabella.
Importo posto a base
di gara Quota stazioni appaltanti Quota operatori economici
Inferiore a € 40.000
Esente Esente
Uguale o maggiore a
€ 40.000 e inferiore a € 150.000 € 35,00
Esente
Uguale o maggiore a
€ 150.000 e inferiore a € 300.000 € 250,00
€ 18,00
Uguale o maggiore a
€ 300.000 e inferiore a € 500.000 € 250,00
€ 33,00
Uguale o maggiore a
€ 500.000 e inferiore a € 800.000 € 410,00
€ 77,00
Uguale o maggiore a
€ 800.000 e inferiore a € 1.000.000 € 410,00
€ 90,00
Uguale o maggiore a
€1.000.000 e inferiore a € 5.000.000 € 660,00
€ 165,00
Uguale o maggiore a
€5.000.000 e inferiore a € 20.000.000 € 880,00
€ 220,00
Uguale o maggiore a
€20.000.000 € 880,00
€ 560,00
L’ammontare del
contributo dovuto dalle società organismo di attestazione deve, invece, essere
pari al 2% dei ricavi risultanti dal bilancio approvato relativo all’ultimo
esercizio finanziario.
Modalità e termini
di versamento della contribuzione
Il provvedimento in
esame prevede modalità e termini differenziati in relazione ai diversi soggetti
tenuti alla contribuzione. In particolare:
Stazioni appaltanti:
il pagamento del contributo deve essere effettuato entro il termine di scadenza
del bollettino MAV, emesso dall’ANAC con scadenza trimestrale, per un importo
pari alla somma delle contribuzioni dovute per tutte le procedure attivate nel
periodo di riferimento;
Operatori economici:
il pagamento deve essere, in questo caso, effettuato mediante l’utilizzo del
portale dei pagamenti messo a disposizione dall’ANAC; gli OE sono tenuti a
dimostrare, al momento della presentazione dell’offerta, l’avvenuto versamento
della somma dovuta; essendo tale adempimento condizione di ammissibilità alla
procedura, la mancata dimostrazione dell’avvenuto versamento della somma dovuta
è causa di esclusione dalla procedura di scelta del contraente;
Società organismo di
attestazione: il pagamento va effettuato entro 90 giorni decorrenti
dall’approvazione del proprio bilancio mediante il portale dei pagamenti messo a
disposizione dall’ANAC; le somme dovute possono anche essere oggetto di
rateizzazione, previa corresponsione degli interessi dovuti per legge che
inizieranno a decorrere trascorsi i 90 giorni dall’approvazione del bilancio; il
termine ultimo per il versamento viene fissato dall’ANAC nel 31 dicembre 2024.
L’ANAC specifica,
inoltre, che per ciascuna procedura di scelta del contraente suddivisa in più
lotti, l’importo dovuto dalle stazioni appaltanti debba essere calcolato
applicando la contribuzione corrispondente al valore complessivo posto a base di
gara. Diversamente, gli operatori economici, qualora partecipino a procedure di
scelta del contraente suddivise in più lotti, dovranno versare il contributo
corrispondente al valore di ogni singolo lotto per il quale presentano offerta.
Riscossione coattiva
In caso di mancato
adempimento del pagamento della contribuzione da parte di stazioni appaltanti e
società organismi di attestazione, l’ANAC darà avvio alla procedura di
riscossione coattiva, mediante ruolo, delle somme dovuto maggiorate, oltre che
degli interessi legali, anche delle maggiori somme ai sensi della normativa
vigente.
Versamenti indebiti
e rimborso
Nel caso in cui i
soggetti tenuti alla contribuzione versino un importo maggiore a quello dovuto
in osservanza del provvedimento in esame, è possibile presentare all’ANAC
istanza motivata di rimborso corredata da idonea documentazione giustificativa,
seguendo le indicazioni e le modalità riportate sul sito dell’Autorità.
Sono un odiatore ed
un indifferente. Odio ostentazione, imposizione e menzogna. Odio quelli sempre
dalla parte giusta, che con l'indice puntato impongono agli altri a fare e a
dire quello che loro ostentano, usando la menzogna e prevaricando con violenza
le opinioni avverse altrui. Sono indifferente, perché, odiandoli, non li voto.
Odio ostentazione,
imposizione e menzogna. Ho scritto il saggio: la Scienza è un'opinione. Quando
la sinistra è messa di fronte alla realtà, per contestarla si affida proprio
alla Scienza: non a tutta; a quella partigiana. Lo fa con l'aborto, facendo
passare per oggetto un essere vivente. Lo fa con il COVID, chiudendo i sani e
liberando i malati. Lo fa con lo sport, favorendo i trans a danno delle donne.
Finché si corre, bene, come il caso delle olimpiadi precedenti, ma picchiare è
diverso.
25 aprile. Il
calendario riporta: Festa della Liberazione. Allora Onore ai giovani stranieri
degli eserciti alleati che sono morti a centinaia di migliaia per liberare
l'Italia dall'esercito tedesco nazista, rispetto alle poche centinaia di
partigiani, solo in minima parte comunisti. Tra i ragazzi stranieri molti erano
nella Brigata Ebraica, corpo militare dell'esercito britannico. bistrattata
dagli odierni partigiani comunisti. Partigiani che sono diventati migliaia,
centuplicati solo a guerra finita. Basta alla mistificazione di chi si intesta
in modo esclusivo la Liberazione in nome di una resistenza politica feroce e
criminale antifascista o anticomunista. Ai giovani raccontiamo e spieghiamo gli
avvenimenti senza fake news e senza adulterazione, contraffazione e
sofisticazione persistente della storia a tutt'oggi.
Da Wikipedia: La
campagna d'Italia costò dure perdite a entrambe le parti: gli Alleati ebbero
circa 313 000 soldati morti, feriti o prigionieri e persero circa 8 000 aerei,
mentre i tedeschi subirono circa 336 000 perdite fino alla fase finale
dell'aprile 1945; altre fonti riportano cifre più elevate per i tedeschi.
Da Regione Toscana:
Nella Campagna d'Italia del 1943-45 gli alleati ebbero circa 350000 "casualties"
– morti accertati, scomparsi o feriti – e i tedeschi ne ebbero circa 430000.
Come si vede i
partigiani ebbero solo un ruolo marginale, specie quelli comunisti.
In realtà, al
censimento del 30 aprile 1944 , prima che cominciasse l’assalto al carro del
vincitore (80mila partigiani a metà marzo ’45, 250mila a sfilare il 25 aprile) i
combattenti erano soltanto 12.600, di cui solo 5.800 garibaldini. Gli altri
erano 3.500 autonomi (come quelli della Osoppo), 2.600 azionisti di Giustizia e
Libertà, 700 cattolici. Uniti nella lotta al nazifascismo, i combattenti erano
divisi sul futuro dell’Italia nordorientale. "Eravamo d’accordo che avremmo
parlato dei confini alla fine della guerra – mi ha detto Paola Del Din –, ma i
comunisti volevano consegnarci a Tito subito". (Bruno Vespa su Quotidiano
Nazionale il 22 aprile 2023)
Onore, quindi, agli
eroi stranieri ignoti ed innominati nel nome di una piena e dovuta riconoscenza.
Il mondo alla
rovescia. In Israele, per ideologia, o per vantaggi politici, o per egoismo
familiare, si può essere nemici della patria in tempo di guerra contro i
terroristi? I martiri morti invano per liberare gli ostaggi o per difendere gli
ebrei dall'odio islamico, valgono niente, rispetto alle mire di potere? La
sinistra israeliana dovrebbe essere contro i terroristi di Hamas, che uccide gli
ostaggi, che ha sequestrato e violentato, ed i civili inermi, e non manifestare
contro chi li combatte. E', come dire?, che in Ucraina il suo popolo
manifestasse contro il suo Governo, anziché contro l'invasore russo.
Sanremo: I soliti
cantanti comunistoidi ed antisemiti hanno solidarizzato con i terroristi di
Hamas. Nessuno di loro ha solidarizzato con il napoletano Geolier, nemmeno i
suoi conterranei, per gli attacchi di razzismo territoriale avvenuti in platea.
I fischi e gli ululati nei suoi confronti non sono giustificabili se non come
rigurgiti anti-napoletani ed anti-meridionali avvenuti in una città del
Nord-Italia. Sempre si è cantato in sardo, in comasco, ecc., mai nulla è
successo.
Perché tanto odio
per Israele e tanta comprensione per Putin?
Risponde Luciano
Fontana su il corriere.it
Caro direttore,
ho visto in
televisione le immagini della manifestazione a Roma pro Palestina, in alcuni
casi purtroppo sfociata in scene di violenza. Ho visto addirittura elogiare il 7
ottobre e l’Iran, certamente non un esempio di Stato democratico. Sicuramente i
palestinesi dovrebbero poter avere un loro Stato ed un loro territorio, così
come ce l’ha Israele. Però, allo stesso tempo, mi chiedo perché non si vedano
manifestazioni a favore dell’Ucraina. Una Nazione libera ed indipendente come
l’Ucraina è stata invasa e aggredita dalla Russia di Putin, che dimostra
disprezzo verso le regole dell’Onu e del Diritto Internazionale con deliberati e
ripetuti massacri verso civili e ospedali. Credo che questo nessuno in buona
fede lo possa negare. Perché lo stesso fervore dimostrato verso i palestinesi
non lo si vede anche verso gli ucraini? Forse che ci sono Nazioni di serie A e
di serie B? Perché questi due stridenti ed evidentissimi due pesi e due misure
nel giudicare situazioni molto simili fra loro?
Alessandro Garanzini
Caro Garanzini,
È davvero
sconcertante, e dovrebbe suscitare sdegno tra tutti gli italiani, che qualcuno
possa inneggiare al 7 ottobre, un massacro deliberato e diretto a eliminare
cittadini indifesi solo perché ebrei. Un orrore che è all’origine di tutto
quello che è accaduto in questo anno. Anche io penso che i palestinesi abbiano
diritto a un loro Stato e che le scelte di Netanyahu, con un’operazione
distruttiva a Gaza e decine di migliaia di civili morti, stiano allontanando
definitivamente questa possibilità. La stessa sicurezza di Israele, minacciata
da organizzazioni che ne mettono in discussione l’esistenza, non credo possa
essere garantita da guerre feroci e prolungate. Ha ragione, c’è una pura e
semplice verità: le piazze si sono riempite contro Israele, l’unico Stato
democratico di quella dilaniata regione, e non hanno mai visto un corteo in
difesa degli ucraini e contro l’invasione russa. Alla fine circola una grande
comprensione sotterranea verso le ragioni del dittatore russo e delle sue mire
imperialiste: le colpe sono più spesso attribuite alla Nato, all’Occidente. A
Zelensky e agli ucraini sono state rimproverate perfino radici neo naziste, con
un capovolgimento della realtà: più comprensione per l’aggressore che per
l’aggredito. A smuovere alcune coscienze non sono servite neppure immagini
tremende come l’esecuzione a sangue freddo di un gruppo di soldati ucraini che
si erano arresi, in spregio di tutte le convenzioni internazionali. Questo
atteggiamento da «due pesi e due misure» è purtroppo diffuso, anche se non
maggioritario. Ha portato all’assenza di ogni mobilitazione a favore delle
decine di migliaia di civili ucraini uccisi. È un’assenza che deve farci
riflettere e anche un po’ vergognare: i morti del 7 ottobre e quelli
dell’Ucraina contano molto meno per tanti presunti democratici.
7 ottobre 2024
Traversetolo:
nessuno sapeva dei bimbi sepolti, tranne il cane. In famiglia, non potevano
sapere. Tutti fuori! Il paese non è omertoso. Avetrana: tutti sapevano di Sarah.
In famiglia non potevano non sapere. Tutti dentro! Il paese è omertoso:
condannato!
Illustre dr Salvo
Sottile di Farwest di Rai 3, buongiorno.
Sono Antonio
Giangrande, tra gli altri miei 450, sono autore, anche, dei libri su Sarah
Scazzi:
Sarah Scazzi Il
Delitto di Avetrana: Il resoconto di un avetranese.
Sarah Scazzi Il
Delitto Di Avetrana La Condanna e L'Appello.
Sarah Scazzi
L'Inchiesta Bis: Il corollario della Vergogna Resoconto di un Avetranese.
Non voglio
promuovere questi miei libri, in particolare, tanto meno voler apparire
protagonista, stante il mio anonimato per 14 anni. Non voglio nemmeno
parteggiare per i garantisti o per i giustizialisti.
Sul delitto di Sara
Scazzi la verità è sotto gli occhi di tutti con la prova regina, ma nessuno se
ne capacita.
Sarebbe ora e cosa
eticamente professionale, però, oltre che approfondire l’aspetto giudiziario
contestato e contestabile, così come io ho pedissequamente riportato, analizzare
l’aspetto accessorio o corollario alla vicenda, o come questo abbia influenzato
la decisione comoda ed interessata dei magistrati, dei media e degli spettatori.
Come avetranese mi
preme sottolineare l’ingiusta riprovazione morale addebitata ad una comunità mal
difesa dai suoi amministratori ed il riprovevole comportamento della “gente per
bene” che, stranamente, ha invaso Avetrana sin dal primo momento. La vicenda di
Avetrana è l’antesignana della Tv dell’orrore e, per la sua notorietà, la più
importante e duratura. Da quelle trasmissioni televisive si sono costruite
carriere. In quelle trasmissioni si osannava la magistratura e si denigrava la
comunità: mai nessuno ha puntato i riflettori sul protagonismo dei giornalisti,
avvocati, consulenti, organi giudiziari inquirenti e giudicati e forze
dell’ordine, associazioni, cittadini (altro che omertà), ecc.
Io, da parte mia,
avendo affrontato questi risvolti, inviterei lei ad affrontare questi aspetti
oggi, per ridare alla comunità quell’onore che merita, bistrattato da
comportamenti inetti di gente “Per Bene”. Lo faccia in contraltare rispetto a
quelle trasmissioni televisive che continuano, ancora oggi, ad osannare i
magistrati ed a denigrare la comunità avetranese.
Grazie per
l’attenzione.
Dr Antonio
Giangrande
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei
processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla
parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani
sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di
scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della
Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di
Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va
bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un
popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo”
di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle
cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene
le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene
che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce
sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel
formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe
dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a
Berlusconi.
Esemplare anche è
il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie
della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo
campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra,
Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in
associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia,
si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di
Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua
ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi:
«...
e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una
frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta
presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna
inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente
identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano
Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il
potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale
dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato
Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato
detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul
degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che
hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato
a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un
incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il
potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo
psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità
professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette
anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione
indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici
uffici per
Silvio Berlusconi:
il
processo Ruby
a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una
camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore
abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia
Turri,
Orsola De Cristofaro
e
Carmen D'Elia hanno
accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa,
rappresentata dai pm
Ilda Boccassini
(in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano
Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo
presenzi in dibattimento)
e
Antonio Sangermano.
I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli
atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di
Giorgia Iafrate,
la poliziotta che affidò Ruby a
Nicole Minetti.
Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di
diverse
olgettine,
di
Mariano Apicella
e di
Valentino Valentini.
Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a
Ruby,
Karima El Mahroug e
al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo
cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono
destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il
profitto".
I paradossi
irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo
il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta
tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi
i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa
non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati».
Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e
nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola
sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia».
Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in
difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo
assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la
giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin
dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non
poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più
in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i
testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni
portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della
Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno
preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e
tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole,
hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella
professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia.
Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei
giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le
trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere
dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni,
previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio
abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno
dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del
Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata
Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi
procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al
teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in
servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva,
infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico
ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in
condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato -
ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però,
nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che
afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura
finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a
Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia.
Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti",
con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era
presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul
libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello
- io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre
lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai
visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata
dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la
verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato".
Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze
che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea
di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista
Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di
chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne
giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione
diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato
di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di
Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni
internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far
contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era
stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni
Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca
diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si
sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali
di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore
Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un
viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del
tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non
piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo
per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro
Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere
conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di
testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità
assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non
ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi.
Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e
protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di
questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza
precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi.
Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma
soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla
condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film
Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi.
Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento,
la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità.
Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti
usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in
difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi,
bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi,
traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello
Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi,
tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati
travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte
alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver
testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di
diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale
il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che
se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati
omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere.
Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di
concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a
Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai
pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di
prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da
quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il
cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non
solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto
a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi
per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo,
uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi
istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da
realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il
tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi
juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è
stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere
rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi
noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare
una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il
caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni
e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada
Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della
Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver
ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi
juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era
sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007,
per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato
condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo,
determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati
come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove
anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per
Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima
Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento
per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di
Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al
fratello e al nipote.
Caso Marta Russo.
L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e
quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni,
studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa
all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola
alla testa.
Caso Jucker.
Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di
stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di
reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno
conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di
carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte
d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico
Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di
carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni
personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato
Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado,
Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di
reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa
ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della
provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era
stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione
per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e
tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante
gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino
supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi
minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di
poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli
(ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone.
Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate
rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna
a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli
8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel
novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e
Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di
Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi
Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate
due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre
imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della
moglie.
Pesaro. Picchiò e
gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno
scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per
sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà
versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila
per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la
notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata
Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto
15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi,
ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà
rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso:
condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi
Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion
Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San
Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della
'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà
scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati,
giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato
omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il
cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio
d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del
reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In
Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di
carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere
che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare
insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con
l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il
1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente
a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto
jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di
Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato
storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo
chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di
falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super
testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato,
perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima
Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima
Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti
coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora
Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno
c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su
di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono
anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai
contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96
alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati
eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non
c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora
arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi
ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono
soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite,
tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la
Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma
alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo:
beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per
calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i
verbali dei pentiti.
Taranto, Milano,
l’Italia.
“Egregi signori,
forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di
avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a
Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non
per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di
avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e
inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come
l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni
d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che
possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo
concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere
truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per
gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni,
come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi
non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là
dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia
vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami,
vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza
del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il
più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa,
senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del
dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le
vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non
per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi.
Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno
centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete
sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un
ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche
questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose:
potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché
morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e
grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di
dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 150 mila e
questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e
l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un
ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più
mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi.
Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei
945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si
cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui
rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in
galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li
chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno
di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò
succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per
calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di
avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i
cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio
Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e profondo
conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta
presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non
candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di
caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come
cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di
presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto
dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A
Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso
della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta
alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della
Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è
tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%
a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per
esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5
minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi
fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso
scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna”
all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le
intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per
l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o
mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle
streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i
professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura
uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche
l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il
dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono
l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste
sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari
pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta
presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le
azioni di tutela: una denuncia per
calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi
responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti.
Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla
dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica.
Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato
che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi
è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una
consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche
la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in
quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre
alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce
l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il
tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi,
se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può
spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per
occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli
avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame,
verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed
in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i
compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a
fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione
possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo
dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari
dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta,
non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera
primaria, fonte del plagio,
presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale
corrispondenza.
Essi, al di là
della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e
l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui
pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle
massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la
propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi
i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati
e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma
permettendo).
Dovrebbero, i
commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere,
accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo
dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho
denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati.
Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o
pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la
credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL
CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO:
spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte
dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di
studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza
(perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso
quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto.
Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le
Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed
i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME:
spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che
hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale
presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato
nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la
commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma
(decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18
luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli
Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal
Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri
nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli
avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità
anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre
sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del
proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle
componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame.
Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato,
del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le
Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e
clientelari.
I CONCORSI FARSA:
spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come
il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i
lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE:
le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei
fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse
nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame.
Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente
aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con
massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive.
Sessione
d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella,
Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato
bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n.
1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e
poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME:
spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni
prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del
sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per
l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede
all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle
Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del
tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di
ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in
precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte
le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti
all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in
un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la
prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle
relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di
testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE:
c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande
salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso
di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e
materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello
Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di
materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati
dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il
“Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame
di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova
annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è
permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come
succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere
da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e
nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo
scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte
per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla
commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei
elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti
identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile,
diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali
anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente».
Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo
svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa:
“scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di
non perdere il filo». «Che
imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non
avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata,
che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà
il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata
ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso
specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca
delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001
promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in
trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati
arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord
dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel
mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a
Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del
luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di
giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono
numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente
accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona
e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di
candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai
sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra
gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare
che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il
procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero
così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997
rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di
indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare
dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per
avvenuta prescrizione». Tutto finito.
Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse
nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame.
Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente
aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con
coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe
l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni
permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il
magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici
commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso.
I commissari
d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era
rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare
l’opera primaria, fonte del plagio,
presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale
corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare
che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione
totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo
essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per
suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur
essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono
per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della
riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti
sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si
dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano
integralmente i compiti.
In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in
vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto,
giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola
manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più
tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso.
Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi
non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto
a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in
maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono
qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per
copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi
ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led
viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in
classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo
della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente
formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e
arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display
elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO:
il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente
un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero
essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio.
Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari
firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI.
Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed
eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di
tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la
commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame
del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale
della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche
sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione
delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un
corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari,
giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli
elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si
legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo,
senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite
di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono
altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e
professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i
compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno
raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso
nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono
mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia
d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali,
familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni
abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un
indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni
avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il
rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in
relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il
cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione.
Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa
avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero
aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la
concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono
persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e
più competenti».
Paola Severino
incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata
all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per
infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal
Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School»
promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio
Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta
fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio
futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo
sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto
sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare
fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che
si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per
i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i
test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto
pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi
l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili,
quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di
tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque
a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia
famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi
agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia.
Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici
e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di
preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di
specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre
2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile,
la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi
promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi
spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati
previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia.
Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento
degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati
scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di
specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione
rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice
l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura
degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i
curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me
visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun
candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre
temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra
obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano
Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il
concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in
base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3
minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta
chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno
dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad
ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della
commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame
divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane
Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di
abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle
20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in
Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La
denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno
spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i
compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un
consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si
è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette
le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza
di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette,
significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record
da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che
ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori
hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa
identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori,
Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso.
L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la
presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità"
serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre
l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di
loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato
dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra
rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o
meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi
sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del
giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza
di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti,
ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se
la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere
un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza.
Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione,
quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per
leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido
il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa
magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato
tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli
orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni
voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di
professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi
agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un
servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi
di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al
concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato
ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico
ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi,
classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per
magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali
dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media
(comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e
quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel
1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una
vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che
vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario,
tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si
occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti
i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo
dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi
di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne
scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato
proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario
esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da
promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009
apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano
torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500
vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha
voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni
dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più
strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma
di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati
nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso,
figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria,
figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però,
ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al
concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI.
Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo
al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si
presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio
Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il
Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino
non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex
procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era
il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari
componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo
fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di
Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un
falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in
una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima
non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti
per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione
diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani
nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale
gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato
(una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale
episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali
pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari
attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere
particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella
commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico.
Sessione
d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella,
Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato
bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n.
1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e
poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
Il
presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo
gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha
risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di
presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA.
Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di
giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro
amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di
battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso,
dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza
175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito,
il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”,
secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di
abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion
di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle
commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e
giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del
loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non
promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro
presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento
giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella
massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio.
Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e
umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto
assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.
All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di
Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di
esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento
amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo
tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica
amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione
esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in
relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio
sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul
terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso
a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante
principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n.
8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le
commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande.
Da venti anni
inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed
il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i
trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi,
insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di
processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena.
Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A
parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare.
Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro
Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi
compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA
CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA
MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL
DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI.
Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il
voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine
cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente,
altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha
prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato
ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more
ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni
successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti
(25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di
correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a
presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi
successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata
alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi
presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di
accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i
ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si
contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una
pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una
decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre
2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto
in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica
con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3
compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici
questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati
amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di
Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia,
perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene
notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e
con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il
presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato
dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e
testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono
state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina
d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente,
tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le
sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi
pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della
Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad
annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i
candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le
denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi
sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica
esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un
consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si
è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette
le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza
di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette,
significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record
da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che
ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori
hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa
identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori,
Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso.
Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni
parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da
Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno
che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per
l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati
amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un
imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i
magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare
controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati
amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero
stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un
candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già
patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata
sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già
scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello
di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel
precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del
Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare
in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il
ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo
addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta
fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008),
che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della
decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il
concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale
De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove
scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una
altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato
(Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo
Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza
(Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi
Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da
irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di
autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e
magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non
ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei
nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima
delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di
concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in
aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.
Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del
concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco
perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le
caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di
abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività
professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina
del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina
arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio
Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte
del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si
scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da
buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una
imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha
scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su Google libri o in ebook
su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che,
ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane
altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno
iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro
Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare
Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e
dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti
professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno
un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che
provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze
al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei
cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh!
Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza
dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la
regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente,
non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per
tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto.
La riforma forense, approvata con Legge 31
dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici
frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati
in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro
roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che
hanno dato vita al primo
Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della
professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934
n.36) questa contro riforma reazionaria
gli fa un baffo.
Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene
in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di
persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in
un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto
che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era
quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi.
In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un
tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la
portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto,
ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in
colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello
aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta,
la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il
vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva
alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su
mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia
inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni
arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per
danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote.
Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando
la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però,
che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi
metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto
distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha
disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio
ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però,
che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che
la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la
vecchietta di cui sopra.
Una prima volta
sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la
domanda.
Tutti i giudici di
pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla
collega.
La tapina chiamata
in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La
poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata.
La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i
testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non
sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui
ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa
hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per
calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la
persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello
sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in
collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante
del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due
fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue
le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei
deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per
condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le
accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé
o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante
dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia
contro se stesso.
La procura ed i
giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro
l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per
anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui:
non è suo.
Il paradosso è che
si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che
si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico
non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può
condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa
arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente
per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale
triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno,
erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino,
non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito
Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La
stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non
vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In
via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna
senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte
queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti
tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia
quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco
a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti?
Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana
da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state
fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere
Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della
mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla
quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una
relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della
polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La
relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano
della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto
Tartaglia.
La legge forse è
uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive.
Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro
della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio
2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7
Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati...
le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è
altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di
intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a
parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i
campanilismi e le lobby».
Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli,
scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco
del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex
Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che
in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna
di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare
qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No,
evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a
non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e
pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e
potenti. È la Lobby ed anche Casta
dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non
fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla
verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la
sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il
ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo
pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura,
tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori
onda la Cancellieri si lascia
scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere
tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non
vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura
democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i
deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi,
nudda sentu”.
I magistrati,
diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi
metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di
Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564
giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni
nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei
tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio
la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella
giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e
della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo
penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15
anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per
Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e
premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti
televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai
vista in Italia. Il 26 ottobre 2012
i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro
anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa
(il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice
una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9
novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso
in appello. L'8 maggio 2013 la Corte
d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di
interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio
2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013
l'udienza del processo per frode
fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da
Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se
ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi
2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo
1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni
di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici
uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare
a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale,
il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi
avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono
esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il
migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la
sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista
un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime
i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello
che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente -
ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi
della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e
la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro
giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare
una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono,
significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore
risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci
sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti.
Tutto
iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato)
consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a
Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle
centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla
sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano
per affermare questo.
E su come ci sia
commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso
Alessandro Sallusti che
si confessa. In
un'intervista al
Foglio
di
Giuliano Ferrara,
il direttore de
Il Giornale
racconta i suoi anni al
Corriere della Sera,
e il suo rapporto con
Paolo Mieli:
«Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo
governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno
scoop pazzesco.
E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai
tempi di Mani pulite il
Corriere
aveva due
direttori, Mieli e
Francesco Saverio Borrelli,
il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una
tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in
cui pubblicammo l'avviso
di garanzia
a
Berlusconi.
Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi
piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e
Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di
insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono
grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già
scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero
stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il
presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva
nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe
sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di
principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello
sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che
sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa"
giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente
d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino
Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato
impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno
strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una
cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è
innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna
subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle
parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni,
le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i
vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché
sfogarsi con il classico "Italia
paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai
boiardi di Stato. E' reato, in quanto
vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la
Corte di cassazione
- Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a
Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano
2 novembre 2005
fermò un
uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una
vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione
fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad
arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si
vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante
prese nota di quella frase e lo denunciò.
Mille euro di multa -
In appello, il 26
aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la
contravvenzione
arrivò la condanna,
pena interamente coperta da indulto.
L'uomo decise così
di rivolgersi alla Cassazione.
La sentenza poi confermata dai
giudici della prima sezione penale del Palazzaccio.
Il verdetto:
colpevole di "vilipendio
alla nazione".
Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata
- di
mille euro
per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua
intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera
manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in
qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in
offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica
obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice
penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione,
da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia,
lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la
Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in
manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di
ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il
comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro
la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di
un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto
un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini”
- il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo
materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente,
tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla
coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi
cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate
espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore
e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita,
che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto
ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha
proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che
schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei
colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire
noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia).
Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe
non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me
(Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi
come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della
classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari
(Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano
stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati
o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra
Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro
poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli
artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E
quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si
può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano
dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento
lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe
milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove
sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato
di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti,
manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai
giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il
Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E
poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il
regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo
renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è
assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per
convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale
architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al
riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento,
questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per
l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio
precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca
Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale
riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm
milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su
quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una
semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un
reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E
l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle
perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra
Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi
come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere
non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua
presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra
ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare
regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni,
dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa
dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive
consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di
Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie
sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese
Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse
dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier.
Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle
indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini
perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola
sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità
giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe
indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a
mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati
baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort.
In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa
di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa,
Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a
conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono
indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci
all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi.
Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di
Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni
di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per
Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del
processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha
giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per
induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione
degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle
indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi
legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la
stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il
Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della
falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio
Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette
anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche
minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di
reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione
minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore
“orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono
state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è
stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che
erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda
“definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a
discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e
balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare
nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la
conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo:
consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una
o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone
alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto
a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il
14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e
il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in
arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base
all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009
dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le
partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo
le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina
messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in
quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso.
Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani
donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo
scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali
all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip.
Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da
Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione
le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno
paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la
gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di
presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle
cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle
ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e
“ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella
concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina
e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il
pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di
chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse
quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza
del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere
anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente
il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali
composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute
le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre,
Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere
mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby
viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda
per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già
successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché
valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby;
disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei
suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini
difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15
gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze
furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a
Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati
verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche
perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò
Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante
abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la
Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado
«Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per
altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore
che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che
all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e
Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla
Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante.
«Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi
difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò
Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di
trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini
difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo
completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono
verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E
ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis
di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria
già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai
fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è
davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori
hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi
sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini
difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice
Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e
cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti
Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha
voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta
Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e
composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici
donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici
Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la
Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare
l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi:
una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di
una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che
ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori,
proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto
femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi
fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno
dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo
maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78
uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ida Boccassini,
che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di
Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia
orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia
orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo
entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano
di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo
studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello
spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha
accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la
residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia
anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure
avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la
europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il
sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente
del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro,
introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se
ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip
Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di
rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare
l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una
statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una
importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe:
«La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È
per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria
Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato
di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera
regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle
Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro
Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno
condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare
Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano
molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una
battuta. La testimone
Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e
Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le
chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse
che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi
era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un
sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello
scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto,
presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose,
condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e
appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla
tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale,
invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a
tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino
è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di
Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato
assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno
condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola
De Cristofaro: sono i nomi dei
tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi
a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra
numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa
(perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso
chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica
De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando
ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del
Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore
professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della
Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini
sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si
trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”.
Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere
della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la
sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione”
e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio
quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente
avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha
puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum
dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la
preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di
grande impatto mediatico.
Giulia Turri
è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per
Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto
l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e
droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche
Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro
è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a
quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di
chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia
si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti
parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne:
la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme.
La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno
2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e
all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby
sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza
pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini.
Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico"
del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di
Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita
democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano
storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere
il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato
che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia
Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6
aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato
e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni.
Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip"
Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio
l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti.
Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della
cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte
nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida
milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club,
gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad
Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola
De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere
nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per
Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica,
imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio
sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve
diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei
procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di
giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio
Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu
un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a
Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di
condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli
altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio
Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei
derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso
Taranto. Ed è lo stesso “Libero
Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia
Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco,
il giudice per le indagini preliminari che
sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di
Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si
Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di
giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a
cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per
annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni,
i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha
una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una
donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si
aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle
ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura
19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si
è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della
direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva
ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle
ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è
cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze
sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione
del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera
con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino
che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu
assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il
peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Corriere
della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli
articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito
«avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi
occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa,
il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il
Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha
chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i
ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per
incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle
grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva
non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da
farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si
aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale
che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle
otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha
preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier
Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere
posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di
Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo
nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un
modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né
figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore
dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò
nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di
Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito
nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come
segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo
lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere
che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona
riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia,
proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra
all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la
procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore
giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o
dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura,
rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe
avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di
quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase.
«Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire
dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e
poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il
tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del
foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori:
i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è
occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno
ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un
suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per
presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non
c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con
il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una
comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da
farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso
Scazzi. Quelle del tutti dentro anche
i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come
imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra
il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice
a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata
registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il
presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due
posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e
se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah,
sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel
caso Vendola. Susanna De Felice,
il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che
rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola,
Desirée
Digeronimo
(trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione
del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione)
inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio
segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del
governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato
Raffaele Fitto. Condannarono Fitto:
giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni:
Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono
ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”.
La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel
dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro
anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il
procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito
Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta
che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla
procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte
d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché
si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le
motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di
Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva
condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli
altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo
serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna
elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della
magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa
campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi.
Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal
presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono
utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi -
aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha
condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo
dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel
quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento
era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi
giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà
precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella
di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto
vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente
l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti
che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è
capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato
svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di
Taranto che è stata denunciata da
Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da
questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice
criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano
ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un
sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei
fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato
l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto
amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si
professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua
testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire
«Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che
riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna
mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza
femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a
capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità
diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste
donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono
donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale.
E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono
una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per
assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna?
A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La
presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle
funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e
pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176
ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma
le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8
dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle
funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso
maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno
all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio
e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure
che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli
si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella
funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi);
che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il
complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe
inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella
donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle
necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità,
specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più
articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si
ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione
giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare
con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua
sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi
della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da
ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione
che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne
poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era
maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto
richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si
scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della
partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51
che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di
prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni
giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò
ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27
dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte
di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini.
La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben
poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle
differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non
fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario
aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè
il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte
Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il
richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le
donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di
potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del
9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche,
professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata
in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore
giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state
indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il
primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono
vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura.
Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha
registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5%
per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“
dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli
anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente
le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al
40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il
trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga
superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile
dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi
forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza
sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore
a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle
donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile,
almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico
modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato
unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed
introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena
legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro
ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave
quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli
uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e
della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle
donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello
dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate
gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,
tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole
comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al
femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia
grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse
è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO
ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo
Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale.
Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette -
Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia
delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di
abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che
impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a
vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da
altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello
che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei
allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda
su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su
dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle
Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è
la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia
dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo
stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti,
io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi
mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco
Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un
tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono
le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può
sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso
Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi
dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi
e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene.
L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e
squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i
ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli
altri (meglio se sinistri) e se a
questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In
questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione
proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le
sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo
vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli
italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno
l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone
in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012,
un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo
cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa,
pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i
poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali
per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012
infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede
nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo
stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo
certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente
dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si
dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una
mancanza di servizi corrisponde una
Spesa pubblica raddoppiata.
E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte
riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di
euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno
studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche)
che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È
uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la
questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una
interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul
federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo
Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema
ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le
tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali
(+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il
ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle
amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di
regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%:
il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per
fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una
esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello
locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a
livello centrale. I cittadini si
aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi,
maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder
aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla
Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi
vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono
aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli
ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del
573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre
il 17%.
Nonostante che i
Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che
è clamorosa
l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire
i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in
versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter
giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove
negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di
rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo
vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di
diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte -
va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai
visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».
Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le
infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella
Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali,
no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente,
nulla succede per caso. Intanto,
però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti
chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di
condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al
Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi
condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con
l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci
ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra
– Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino
– Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena
– La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da
augurio.
Caimano
– Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni
Moretti.
Cignalum
– Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum
(v.).
Cimice
– Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba
– Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo
– Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto
pre-mortem.
Delfino
– Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il
d. del caimano
(v.).
Elefante
– Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come
un e. in una cristalleria”.
Falco
– Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le
picchiate.
Gambero
– Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo
– Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre
attuale.
Giaguaro
– Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo
– Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo
– Uno che spera che
non vincano né i falchi né le colombe.
Orango
– L’inventore del
Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge)
ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione
– Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino
(v.).
Porcellum
– Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa
– Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo
- Chi non vuol
vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino
– Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga
– La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla
ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita
ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle
carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una
risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante
tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare
attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole
del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi
ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in
carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una
situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che
tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è
scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento.
Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni
carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe
possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e
considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha
una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia
cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile».
«Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del
carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura
Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità
e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare
«giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche
agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte
«c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un
dipendente).
“Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno
intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro
con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in
concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto
uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi
bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a
castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di
migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi
di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata
la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando
è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la
capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie
carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614.
«Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita,
sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione
nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai
detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia
e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro
è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un
ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere
della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una
sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il
Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che
conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23
luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il
miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i
giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano
i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La
seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di
mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che
Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero:
"Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli
avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo.
E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora
qui con noi».
Ma proprio questo è
il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone
della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano
credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro,
Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il
cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi
raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di
arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio
Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu
lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993
ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e
a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia
di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome
di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le
forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite.
Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo
dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in
un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva
costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare -
è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era
davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla
mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si
impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila
miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in
carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai.
Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due
personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato.
Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava.
Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva
raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma
non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto
piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire
chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro
nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino;
restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo
trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire
simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva
non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in
Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E
Giulio Andreotti.
«Il vero capo la
fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in
carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli,
tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e
per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho
conosciuto là».
Torniamo a Gardini.
E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco
Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero
l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica
alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli
sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di
porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di
Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i
conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria
Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era
ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino
presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le
frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi
arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai
carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo
venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con
discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di
Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per
avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo
arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere
stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in
piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il
poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto.
Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma
solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra.
Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva
mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo
dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in
quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore,
qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma
spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità,
Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo
neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio
d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che
era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si
serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per
me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di
mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non
volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una
svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei
mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa,
sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le
carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai
arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia
dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la
relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal
capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di
Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli
imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che
abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è
vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli
parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i
soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani
d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti
e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la
Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni.
Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno
abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di
Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per
autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle
mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro,
allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe
Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive
Stefano Zurlo su “Il Giornale”.
Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in
parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio
'93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta
Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della
Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di
più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex
leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con
la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro
tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di
quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di
Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il
Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco.
Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe
dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva
portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito
di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il
suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del
quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era
salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il
messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i
destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo
dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo
quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i
brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e
dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile
Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la
responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se
la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della
chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini
era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che
lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello
fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe
ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se.
E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di
Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano.
L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a
denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco",
scrive
Paolo Bracalini
Ieri come oggi la
farsa continua.
Dopo 5 anni arriva
la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo
Ottaviano del Turco
è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di
Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese.
L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil
all’epoca di
Luciano Lama
è accusato di
associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva
chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe
intascato 5 milioni di euro da
Vincenzo Maria Angelini,
noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura
Villa Pini.
«E' un processo che
è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè
senza prove
-
attacca l'ex
governatore dell'Abruzzo intervistato al
Giornale Radio Rai
-. Hanno cercato disperatamente le
prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di
teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno
per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20
anni di carcere come
Enzo Tortora».
E a
Repubblica
ha poi affidato un
messaggio-shock: «Ho un
tumore,
ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio
2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale
di Del Turco,
Giandomenico Caiazza,
che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo
richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza
che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale
del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo
di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un
precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i
soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico,
Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione
Camillo Cesarone
e a
Lamberto Quarta,
ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver
intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato
il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e
consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per
28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito
dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente
della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale
Walter Veltroni
si autosospese dal
Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione
nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e
il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco
condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per
presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna
traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci
su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a
favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del
tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi
nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco.
Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si
sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato
e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle
sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta
più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima
in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un
processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di
riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove
anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice).
Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il
piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore
Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi.
Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato
eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia
di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i
soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto
alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei
milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate
con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle
liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione
sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al
processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella
requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex
segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della
commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a
conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre
confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a
un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri
assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa
in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle
cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di
centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i
carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che
sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a
Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver
distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni
sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di
lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti
teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere
utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato
ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con
le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali
come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini
sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero,
prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi
inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua
casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è
vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti,
a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche
per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x?
Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi
vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la
prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la
persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto
risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento.
Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava
quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della
giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato
prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove
portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono
tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per
fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla
convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti)
qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la
parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il
reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio
vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due
sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di
darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e
riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in
una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei
mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato
senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia
molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura
accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle
parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà
sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di
difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI
GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla
grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi
tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti
di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due
esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di
carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato”
Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e
6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette
non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il
suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere
attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per
cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti,
più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine
internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di
patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e
lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che
variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8
mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto
giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio
confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede,
subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene
inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito
di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non
trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano,
né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a
identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da
segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate
è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica
opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando
a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho
ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col
suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro
dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale
non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue
colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle
emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che
meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza
diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità
o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure.
Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col
(buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti
ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del
24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa
ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex
governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli
era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data"
Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del
Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel
corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita
"l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere
indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere
soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente
attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a
delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie
di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e
apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre.
E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più
costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le
valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui
"in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe
doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria.
Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente
denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in
presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes",
sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i
magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico
elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una
approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il
Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla
Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato
ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia
già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come
Tortora.
Un punto di vista
(di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del
Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero
Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della
persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il
problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si
adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia
cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci
rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di
persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di
potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di
civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del
Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo
è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura
inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e
collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita
la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro
è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di
innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per
questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le
prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili
giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver
“favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto
assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono
rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli
indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna
anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo
nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico
dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una
prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni
indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula:
insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei
quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni
ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un
solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è
assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio.
Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno
(per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla
sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina
d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di
indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo
intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina
di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per
oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della
storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base
esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva
ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e
fannullone: loro il problema della giustizia.
Le condanne abnormi
sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si
può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo
Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo
Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il
problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I
casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica
che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza
magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a
forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha
finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun
paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e
un’intangibilità così.
Accade, nelle
carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano
sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi
che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non
mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.
Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso
e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli
stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla
custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo
qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha
stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di
procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione,
non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già
stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti,
l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma
“bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23
luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si
applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha
stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può
applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da
considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione
del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo
costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma
censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di
legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno.
Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la
disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore
sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere,
pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le
esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte,
a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità
graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da
differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a
prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare,
parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete».
Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012,
accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a
Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma
la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile
con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è
quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse
dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per
il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato
della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince
che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo.
Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la
custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare
misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici
costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore?
Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare
la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e
riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore
non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione
del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla
Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al
regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del
pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla
sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti
decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari
debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel
2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti
in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia
cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di
un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una
misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici.
Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte
dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte
Costituzionale,
scrive Deborah Dirani su Vanity Fair.
C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la
maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era
molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio
del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole
l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non
pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più
a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni
fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che
la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno
scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei
due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno.
Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie
dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si
ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la
faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli
di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di
uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe.
Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella
notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non
esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il
suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le
ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che
quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di
Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in
custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza
definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano
non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la
Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009
che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una
minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge
del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà
personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i
giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli
arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per
la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le
sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4
corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le
gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con
una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche
ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del
Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano
automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto
all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere
subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale).
Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua
luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella
che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in
galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che
possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari
(fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra
mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne
a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su
i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se
e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non
è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello
che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un
taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere
umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice
qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha
certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si
dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a
questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in
galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete,
alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà
fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti,
un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al
corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno
sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro
per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire
perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per
scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un
capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne.
Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per
tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni
unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il
principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano
Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei
giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle
intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel
caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo
Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe
italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al
collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica.
Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema
corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa
da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così:
spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza
pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra,
magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito
dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore,
alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i
titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti.
E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno
teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i
procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva
anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una
ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto
Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e
composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di
Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente
centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo
Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle
sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni
unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per
tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di
Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito
indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il
tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel
verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e
non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice».
Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due
misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E
poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono
protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va
ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il
ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere
rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione
mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura
giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante
sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato
dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro,
apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio
giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle
loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il
principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di
giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta
di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche,
sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di
sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più
strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o
di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo
meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14
vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e
obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici
italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa
Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in
equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il
cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il
secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e
fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito
disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro
non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al
datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il
comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento,
mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro
dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere
discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona
per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro
apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono
uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico.
Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di
famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice
del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD,
fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca
Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer
(giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato),
fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI
TUTTI!!!!
ITALIA PAESE
DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione
europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi,
“Le Iene” no!!
E la stampa censura
pure…..
Pensavo di averle
viste tutte.
La
Commissione Europea ha
aperto una
procedura di infrazione
contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla
responsabilità civile dei giudici
al diritto comunitario.
Bruxelles
si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i
risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del
1988
e assai stretta: il
legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso
di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede
“Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri
errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li
avvantaggia rispetto ad altri
lavoratori
e
professionisti
italiani, ma anche
rispetto ai propri
colleghi europei.
La legge italiana
117/88
restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo
e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere
della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante
che chiede
risarcimento
per il
danno subito.
Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al
diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e
della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza
anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi
e di
errata valutazione delle prove,
anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche
per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
Inoltre su un altro
punto è intervenuta l’Europa.
Condannare un giornalista alla
prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi
eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A
stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a
Maurizio Belpietro, direttore di
Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di
cronaca (“dare e ricevere notizie”) e
proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in
redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte
europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa,
con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla
Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i
giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la
fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il
17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle
perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei
supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il
valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie
attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti
dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia)
che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella
tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una
violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si
erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano
pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano
anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore
regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era
stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati
pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato
una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende
e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui
il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la
Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10
della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una
pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei
giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a
identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un
documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il
giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse
della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte -
che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono
informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i
giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di
indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i
giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti
riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far
conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di
fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte
europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di
“Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in
seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur
dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato
previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia”
divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3
“L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore
Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono
al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole
per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le
eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di
Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che
entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale,
sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto
la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà
d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il
diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto”
– diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato
Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha
ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo
diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della
Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata
rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la
lesione».
«Sono felice per la
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio
Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente
dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica
Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci
contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto
importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella
che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si
sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una
preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una
vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un
punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e
lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare
informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte
sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato
punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una
battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile.
Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta
con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm.
Antonio Ingroia,
nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta
l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili,
presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale
dell'avvocato Danilo Ammannato.
Antonio Ingroia
denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il
segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del
Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della
professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione
l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora.
Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione
"ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue
sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è
ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale.
La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per
violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul
mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in
materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte
inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde
acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città
di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è
riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della
direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane
non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto
adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure
per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto
questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse
altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di
Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci
ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a
pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di
altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de
“Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato
censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti,
Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra
Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di
professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è
truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena
approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a
scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE
IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si
imbatte nel caso di
Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle
Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
Una storia
davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza
parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a
farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere
il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha
subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno
inondato il 25 settembre 2013 la pagina
Facebook di Le Iene,
noto programma di
Italia Uno
la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti,
servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però
l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio
proprio dai loro stessi
fan.
Tempo fa
Andrea Mavilla,
blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre
militari
rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un
pacchetto della stessa. I
carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbale
che il
pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la
volante
quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del
negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A
quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma:
i
carabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute
Le Iene:
Viviani,
inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio
andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la
pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del
pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il
servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è
proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il
filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di
Italia Uno
non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social
network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv
criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal
sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e
Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di
persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono
in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte
per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori
bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case
improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche
insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di
amianto.”
In effetti il
filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla
situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del
pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie
bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel
servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso
nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle
baracche. «Scusate
ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte
le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la
televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop,
specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la
televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare
televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte
non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli
agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di
quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai).
Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".»
Giovanni scrive: «quello
è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori
stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo
il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di
ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo
documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia.
Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra
le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti.
Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei
pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità
di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume
illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e
non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che
eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica
dei luoghi.
Ai
buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro,
distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori,
togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue
penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede
ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per
verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti
criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui
il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa
verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI
L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE.
L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”,
tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”.
Opere
reperibili su Amazon.it.
Alla
fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la
Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le
toghe
paghino per i loro
errori: adesso
lo pretende la
Ue, chiede “Libero Quotidiano”.
La
Commissione Europea ha
aperto una
procedura di infrazione
contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla
responsabilità civile dei giudici
al
diritto comunitario.
Bruxelles
si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i
risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del
1988
e assai stretta: il
legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso
di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento
di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del
novembre 2011 la
condanna all'Italia da parte della
Corte di Giustizia Ue
per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile
dei giudici, mentre già nel
settembre 2012
la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del
decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di
Mario Monti
e
Enrico Letta
non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai
provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto
dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo
sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono
chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una
normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri
lavoratori
e
professionisti
italiani, ma anche
rispetto ai propri
colleghi europei.
La legge italiana
117/88
restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo
e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere
della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante
che chiede
risarcimento
per il
danno subito.
Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al
diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e
della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza
anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi
e di
errata valutazione delle prove,
anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche
per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le
autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante:
cambieremo la legge.
In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un
procedimento di infrazione, cioè a una cospicua
multa.
Insomma, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
La proposta di
aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico
della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè
Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a
constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto
quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel
2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge
italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo
eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali
errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle
norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che
hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola
incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti
europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei
magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la
responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa
grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha
interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che
abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione
Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla
magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi
nell'applicare il
diritto europeo,
non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o
colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia
importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da
provvedimenti comunitari.
Pronta la replica
delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e
personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del
cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele
Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue.
"L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto
comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei
giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari
Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale
magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo
di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità
civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti
uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i
magistrati? E invece no. I
magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con
pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla
politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si
possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive
Marvo Ventura su “Panorama”. La
Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei
confronti dell’Italia per
l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti
all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie.
Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita
delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che
in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la
proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del
2011 della Corte di Giustizia
che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la
legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi,
come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario
politico Silvio Berlusconi.
Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati,
c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva
purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non
pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere
discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente
inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di
farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi
contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della
giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre
ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la
fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila.
E l’Associazione nazionale magistrati
stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile
al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato
i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in
linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo
caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una
parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e
alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti,
non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero
gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato
appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è
peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti
appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza
morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non
trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di
presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei
quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere
rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica
e capo del CSM.
L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega
“Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche
Giorgio Napolitano che, il 20
settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare
Loris D'Ambrosio, riflette sul
rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la
magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici
sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso,
vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più
convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di
"concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano
che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale"
propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -
senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del
conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità
emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero
momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la
soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto"
ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della
magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché
proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i
giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più
propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha
indubbio bisogno da tempo e che
sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione
repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma
bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio.
"L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso
della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e
dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire
l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del
protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come
Henry John Woodcock, o
giudicanti, come il cassazionista
Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere
quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo".
Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del
giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli
indagati.
Inoltre su un altro
punto è intervenuta l’Europa.
Condannare un giornalista alla
prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi
eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A
stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a
Maurizio Belpietro, direttore di
Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
In sostanza, scrive
Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali
italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi
nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino
all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi
redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni
pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal
terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora
più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo.
Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire
Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese
legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato
italiano a pagare a Maurizio Belpietro
10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della
condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per
aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente
diffamatorio a firma Lino Jannuzzi,
allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria,
la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il
carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro
codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della
libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche
Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio
Feltri su Il Giornale
intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti
. “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale.
Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia,
citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in
pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il
processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito
testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia
Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le
proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un
parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i
querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca
quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e
passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte -
che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a
dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un
sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso
alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema
marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee
non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con
le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono
ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la
punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche
il fondo di Belpietro è dedicato
alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti,
tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una
stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo
nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena
pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di
Libero.
La
questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di
rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho
sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni
sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a
far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un
errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il
carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori
giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo
via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel
portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente
non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di
legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti
debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno
devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di
stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori
della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel
che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla
Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione,
condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che
un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto
severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una
rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada
di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei
professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive
Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un
giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una
violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza
più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti
dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente
sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche
molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta
essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il
giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che
passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una
riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere
evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio,
scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione
simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani,
un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione.
All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere
certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla
tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si
potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da
distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la
Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare
non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il
contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che
Paolo Siani potrebbe provare».
Eppure Roberto
Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del
quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”.
Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione»
nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali
«Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e
Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati
condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila
euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai
giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da
almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani
campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi
articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra
(corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà
agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui
carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si
può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che
ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno
inondato il 25 settembre 2013 la pagina
Facebook di Le Iene,
noto programma di
Italia Uno
la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti,
servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio
dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi
fan.
Ma andiamo con ordine.
Tempo fa
Andrea Mavilla,
blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre
militari
rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un
pacchetto della stessa. I
carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbale
che il
pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la
volante
quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del
negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A
quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma:
i
carabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute
Le Iene:
Viviani,
inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio
andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la
pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del
pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il
servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è
proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il
filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di
Italia Uno
non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa
mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla,
blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su
YouTube
un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle
strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz
Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di
30 carabinieri si precipita a casa sua, a
Cavenago di Brianza,
comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel
filmato intitolato “operazione
pasticcini”
il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno
della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa
dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in
prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”,
commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”.
Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto,
notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro
spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre
carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La
realtà è un’altra.
E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e
mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni
malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i
carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il
loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le
disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato
richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti.
In
mano avevano un pacchetto,
è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato
Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza
e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine
mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato,
e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava
chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora
il blogger rischia guai grossi,
perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per
aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e
controbatte: “Ho le prove che dimostrano
i soprusi di cui sono stato vittima
– annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso
per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una
violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo
in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma
i carabinieri non dovevano entrare in casa mia
e la
vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e
mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de
Le Iene,
in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea
Mavilla
è
protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che
documentava una
macchina dei carabinieri
parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una
pasticceria.
Mavilla,
già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in
questura dove, racconta a
Matteo Viviani
de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato:
dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e
che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto
notare che, in seguito al sequestro
dei computer
di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc
dell’autore del filmato incriminato.
Uno
dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella
prima puntata de
Le Iene Show,
è stato quello curato da
Matteo Viviani
che ha documentato un
presunto caso di abuso di potere
perpetrato dai Carabinieri nei confronti di
Andrea Mavilla.
L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione
ospite di
Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque.
Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani
in lacrime:
ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la
verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando
Andrea Mavilla filma,
con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce
pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle
strisce per circa venti minuti
mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria.
Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad
Andrea
di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il
Comandante dei Carabinieri
si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il
materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo,
gli agenti avrebbero iniziato a perquisire
la sua casa alla ricerca di materiale compromettente.
Matteo Viviani,
nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i
carabinieri registrato tramite
Skype
da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a
Le Iene Show,
poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo
Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato
pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario
il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato
tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene
abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per
un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle
intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un
imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati
della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il
lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla
drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella
con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi
due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate
nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o
per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti
dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per
ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i
giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro
colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà
dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi
oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai
due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza,
invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti
sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o
addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati"
con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto
disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei
diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad
un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di
risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da
cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il
massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano
anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora
in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di
Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna,
non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non
confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa
grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro
i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e
portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in
cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere
all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse
coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò
di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle
intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta
denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu
confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente
indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un
suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza
di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e
tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso
abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila
euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli,
che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a
Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista
del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale:
"C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la
magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un
pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma
soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto
anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso
della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che
vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai.
Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza
dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in
movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza.
Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella
sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo
Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione
che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in
cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli.
Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a
tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli
continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare
contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa
sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non
solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per
farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro
errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e
basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita
cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti.
Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia.
Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.
Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di
cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente
l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma
non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica.
L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e
manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a
un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante
magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso
di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca,
perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non
appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto
immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per
essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale
solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di
pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri
interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco
allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi
oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche
noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice
Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei
politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il
fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del
Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un
pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da
Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la
parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed
esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è
lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione
per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo
blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica
insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin
Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso
conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non
hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole
diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28
agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il
mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne
trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle
dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana
dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza
americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che
è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi
il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli
uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto
applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di
"discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande
trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo
stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e
l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma
costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del
rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in
fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha
sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli
italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io
amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica
in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che
propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse:
non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una
sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui
abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo
tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e
personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la
seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per
andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo
piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono
neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in
quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E'
riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo
del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col
fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia
divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?»
potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita
accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care
amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla
alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione
importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si
guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza
precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai
giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro
futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo:
occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata
percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente:
qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la
sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse,
un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e
di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre
proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente
volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre
famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non
ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti
con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi
particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili
per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per
la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più
la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di
una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature
dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità.
Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura
Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati
pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in
grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data
come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via
giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 -
’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni,
credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla
sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo
Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della
sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi
immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli
di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso
di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula
piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi
mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella
realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo,
tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e
morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun
riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno
aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha
riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro
volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me,
la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed
ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna
condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica,
con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere
definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti,
nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in
Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi
che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati
un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza
nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di
ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben
costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni
ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza,
due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in
capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società
Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi
a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici,
per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre
10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie
lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono
dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che
lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante
l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per
quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con
forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io
sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda
parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del
proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene
all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio
impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver
impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che
non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare
socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del
risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso,
di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di
mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio
giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della
democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi,
di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa
sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo
male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra
Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa
nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni
sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo
civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”,
ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile
uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon
senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di
forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So
bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la
politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una
inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un
mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla
vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi
tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta
sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica
stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del
tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci,
di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È
arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che
amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi
personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di
riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un
partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà
e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore
sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra
tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà,
della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia
sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i
cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima
della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il
nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e
rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia
sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà
diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la
maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma
maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare
ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per
liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in
campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà,
diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e
alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e
magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti
troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in
questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona
consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere
di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al
vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in
Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il
vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro,
non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno
a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti
politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati,
quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza
del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono
convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio
allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima
di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza
Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è
l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i
magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi
giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che
fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come
lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il
potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il
potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo
strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi
degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi.
Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla
povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a
carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali
mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che
l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un
cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di
innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è
vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a
Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del
popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa
che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della
povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama
bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità
soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le
filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la
verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e
criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i
difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità
per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere
quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del
male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è
qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E
questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi
a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede
veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le
cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti
sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di
raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza
imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e
che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i
magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di
destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla
l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno
politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei
"Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami
di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi,
cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti,
ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della
malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i
magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca
l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di
astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi
prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe
intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di
fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare
informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il
ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è
affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio
approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e
l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e
relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi
provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa
dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti
lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per
poter dare, sono nessuno.
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene.
È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno
decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni,
mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove
dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in
cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono
rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta
del Partito Democratico (ex PCI), che
- in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di
diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano
in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di
errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta
di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro
ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna.
Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani
coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa
25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire
dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per
ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e
la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso
sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice
assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte
(metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel
2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se
questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per
il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti
di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono
ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di
errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato,
con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non
creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro
dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip
sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo
Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia
Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione
ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è
davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale
sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza
Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni
d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito».
Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è
impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di
Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per
gli stilisti
Domenico Dolce
e
Stefano Gabbana,
con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013
li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa
dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La
sentenza li obbliga a risarcire con
500mila euro il «danno morale»
arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli»
della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della
sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare,
può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita:
il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per
l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il
pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità
del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a
ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti
Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione
fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per
protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare
l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare
una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo
è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure
non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la
magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme
abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle
motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire
che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di
accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non
possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per
«danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è
andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare
zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché
occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a
infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità
soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le
filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la
verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e
criminali.
Rappresentare con
verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e
caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci
e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo
ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve
pur essere diverso!
Ha mai pensato, per
un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un
e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella
sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose
ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che
servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano
sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non
leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che
impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri
son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa.
Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio
comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”.
Oramai c'è anche il
sigillo della scienza: la
politica
rende intellettualmente
disonesti.
Lo dimostra uno studio condotto da
Dan Kahan
della
Yale University:
la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a
distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del
politico, come risulta dallo studio, prova
a ogni costo
a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte
- Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated
numeracy and Enlightened self-government”),
ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione
intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle
tavole numeriche relativa alla capacità di provocare
prurito
di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni
sociali,
i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte -
In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole
che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e
variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo
l'argomento ovvia
rilevanza politica,
le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti
aritmetici in
contraddizione
con le proprie
convinzioni,
sbagliavano
in maniera
inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione
sgradita.
Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni -
Il prof della Yale
non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però
condiziona
il cervello. Una
volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o
riscontro oggettivo che possa fargli cambiare
idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale
“La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle
categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi
greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E
facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire
l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci
la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una
“categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte,
con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si
pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli?
Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile
che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e
il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel
senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura
vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci
si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un
peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché
– la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i
propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un
medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui
dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già
dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano
anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente
affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la
consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si
è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi
legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma
guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad
oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato
era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera
politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio
delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era
sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona
prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito –
proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione –
accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il
detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col
piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione
che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato,
infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci
riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni
avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche
dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad
essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a
prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e
vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage
per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile
individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea
dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il
tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la
vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali,
dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più
della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette
con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un
linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi,
concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi,
leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non
sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica
infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del
termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare
dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile,
capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che
racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in
Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran
lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le
porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa
difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui
si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse
considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa
di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le
cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno
momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso
pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega
che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un
suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre
professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe
dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale
che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i
più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le
cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai
mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al
compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta
dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di
riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non
sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema
giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL
MAGISTRATO?
"Giustizia usata
per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini...
Una sparata senza precedenti contro le
toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci
sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in
questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto
un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che
alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere,
per entrare in politica)». Alcuni
suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini
grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei,
sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una
sparata senza precedenti contro le
toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci
sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di
capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi
vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E
quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a
loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa
terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli
"non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la
forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre
vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni
di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del
libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm
milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si
sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla
quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria
è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha
concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi
citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba
fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore.
E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di
una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli
e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il
ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da
cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive,
chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo
altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene
Ilda Boccassini
a denunciare la
trasformazione sociale dell’identità del magistrato,
sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica
è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua
buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un
riconoscimento
che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della
legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di
assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE:
I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i
giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di
sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La
persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca
Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un
po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli.
«Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su
un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia».
Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano.
Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare
risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in
Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta
Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper -
anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società
italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili
da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La
magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono
condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra
preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio
quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma
scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme.
Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the
political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013».
Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la
casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le
attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono
eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano
condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa
succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e
dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le
mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati
empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un
partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici
sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali
aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una
chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di
autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento
nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il
partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con
l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli
organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione
sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di
sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro
(Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po'
bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato
inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati
forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle
indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra
appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di
destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di
voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di
destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di
autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due
ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e
finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto,
l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo
per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non
è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due
considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi,
che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale,
di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente
schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di
dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i
comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra:
quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra
preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni
caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta.
Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo:
fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il
suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di
ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I
COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va
usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di
centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia,
da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari,
gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria
politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere
della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi
elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e
penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su
abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie
per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un
programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa
del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da
Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista”
prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo
la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema
sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una
classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si
dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di
sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove
il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e
municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si
moltiplicano.
Così gli ex Pci
condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici
trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive
Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud
d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie,
scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati
scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente
soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello
scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri
di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e
temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre
2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo
slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad
un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe
all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove
indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre
altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della
classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a
prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi,
stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri
nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte
pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti,
che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della
fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani,
Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex
tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di
euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle
infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra
con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto
sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di
94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina
Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato
tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto
rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che
certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le
minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al
trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente
bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i
quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi
provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è
l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo.
Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di
Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo
nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare
all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del
reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con
la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni
colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato
dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere
minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare
le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario
regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi
fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA
MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva
assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua
villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo
stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana».
Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato
definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre
mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese
avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in
cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la
sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi
familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della
Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello
Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per
concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso
Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di
intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i
rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che
Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo
stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che
Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso
siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano
presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di
Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano
presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de
relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con
Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha,
con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi
a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze
dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio
mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale
dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è
«ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della
condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua
personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente
in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi
allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative
gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è
più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima
dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima
che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della
sua famiglia.
Chi paga il pizzo
per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a
tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora
denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche
parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia.
Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le
storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le
difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la
lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel
Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e
sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di
giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di
"collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono
necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono
un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno
visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché
è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco
apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse
problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima
utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla
stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché
non esiste.”
Lo scrittore
Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI.
L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su
Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media
genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al
guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e
massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere
legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi,
invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il
rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini
e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge,
vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto”
degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed
istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la
responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio
Giangrande.
«La mafia cos'è? La
risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia...
faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3
magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha
appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi
vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in
galera”.
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi -
ha dichiarato
Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 -
la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico
sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo
pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una
Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che
rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori
della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata
sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà
(che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un
diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché
essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti
politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e
massonerie.
Siamo un popolo
corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento.
Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere
politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e
logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere
formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione
di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è
rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità
giudiziaria.
La verità storica è
conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella
rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e
poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali
negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio
alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso
impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei
concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa,
finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di
imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una
balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato
d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i
carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona
(il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le
fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla
difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela.
Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una
nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna
sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade
per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di
revisione.
Non sarà la mafia a
uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle
stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non
proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti
la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare
loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene
le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene
che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce
sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la
richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo
condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è
il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie
della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo
campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra,
Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in
associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia,
si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di
Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua
ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi:
«...
e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una
frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta
presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna
inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente
identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano
Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il
potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la
legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la
Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul
caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della
discrezionalità.
Ed in fatto di
mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che
cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono,
i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una
cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre
queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire
che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano.
Così come in fatto
di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La
camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per
addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici
truccati.
I criteri di
valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio,
ecc.
Secondo la
normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un
Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi,
che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire
nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza,
logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione
della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione
della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione
della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente
all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di
persuasione.
Ciò significa che la
comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica
e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari.
Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di
cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente
leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi
su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta,
irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento
svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un
periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei
singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le
ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della
logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione
esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti
universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi
relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre —
con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica
del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola,
ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e
chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si
è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA
CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro
il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza
soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio
anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella
autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato
che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi
materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali
consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione
della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per
prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad
indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità.
quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine
ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante
subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di
Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al
delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto
proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui
scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O
straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del
destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un
risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento
delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208
pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli
«allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la
frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che
si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...».
Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono
scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino
in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti
di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI
MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA
ESPOSITO
Qualcuno potrebbe
definirla una
famiglia
“particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è
Antonio Esposito,
giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino
anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode
fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da
testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del
Cavaliere. Poi c'è la nipote
Andreana,
che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di
Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione.
Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe
essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che
come scrive, mercoledì 28 agosto, su
Libero
Peppe Rinaldi,
è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di
Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a
indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso
che
Vitaliano Esposito,
ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno
stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della
famiglia fa parte anche
Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano,
che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume
di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora
già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio
Fede.
Una famiglia, gli
Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra
come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante
viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e
tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole
usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le
incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i
vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché
sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio,
non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio
alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale -
Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo
della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE
MAGISTRIS.
La famiglia e le
origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni.
Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito
per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era
magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre,
Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex
ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia
alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante
quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia
perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di
famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia
è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha
scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità.
Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un
ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie
comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La
Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico
dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la
politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di
Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60.
A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo
Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare
il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi,
infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero
corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta,
verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I
giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è
stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione
da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati.
Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica
l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di
diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura
della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive
l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la
semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i
temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo
sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso
Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama
Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de
Magistris.
LA FAMIGLIA
BORRELLI.
Biografia di
Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002).
Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta
del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte
d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della
Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe
Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella
minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e
nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non
sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano
piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido
ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock
tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto
salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato
perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia
di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di
essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così».
Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al
liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei
(titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte
al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato
presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in
magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese
conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò
vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di
fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale,
dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della
Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne
il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo
Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il
suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo
slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli,
Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare
mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del
Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale
d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo
tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il
posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo
solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e
anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito,
l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il
Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me».
Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la
nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo
mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche.
Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica.
Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia
amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo
indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da
accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con
passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA
FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una
delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola
Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti
della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione
agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini
appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte
della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e
condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione,
favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti
vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un
poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio
Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di
Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per
presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco
Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica)
(Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia
finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone,
imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a
delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un
crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al
1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e
muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa
si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco
e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche
lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo
trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo
sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina
e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e
quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra
tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di
denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di
ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda)
un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio
intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco
della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno
e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi
attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di
Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale
si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da
Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le
Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci
miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro
perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più
volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo
discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di
magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se
il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma
qui i parenti chiacchierati sono tre.
Fra l’altro osservo che
Alberto Nobili,
dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato
stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE.
LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha
«prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
E quindi in tema di
giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore
di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e
stimati autori.
Sono il Dr Antonio
Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per
conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su
Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”.
Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione
la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si
osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho
scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni
città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.
Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera
scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con
l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore
quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni
qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi
è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi
magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari
emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su
Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso
gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa
più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana.
Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno
scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come
megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il
territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di
coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco
gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che
magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a
Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in
tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma
sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal
mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare,
degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia
da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei
programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando
i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La
domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi
programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla
di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli
ignavi?
Certo, direttore
Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon
programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello
professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di
levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al
bar: tutti allenatori.
Il suo programma,
come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo,
superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da
parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità
garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto
alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del
27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se
non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La
confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è
spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro
colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo
dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per
forza un garantista.
Alessandro Meluzzi:
«non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce
la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio
era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento,
sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del
processo?
E quello del dubbio
scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti
invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa,
però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti
delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto
di porre un termine al governo Letta».
Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non
mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che
amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere
incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E,
nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico
fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle
famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a
Tempi.
Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di
assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti
“magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei
salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro
di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi
politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è
avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il
coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere:
«Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di
una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario
che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un
calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm
del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né
pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta –
prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è
rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una
persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli
interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come
“sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate
nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono
responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli
italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso
fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione
finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno
fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e
piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per
questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere
invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come
quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe
ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del
centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando
il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi:
«Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a
sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro
schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse
a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una
nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le
condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti
fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più
chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento
delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della
modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati
della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata,
condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici
procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive
l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo
la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra
nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e
minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi
non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale
partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via
giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento
irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica.
Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che
senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che
ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e
fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho
scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto
la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma
perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile
al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole
una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea
ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi
dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per
esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per
primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato
se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di
giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto
sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei
confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di
trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove
la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di
aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi
imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione
di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e
prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci
come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano
educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma,
quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e
non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi
cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il
popolo italiano».
Sceneggiata in
fondo a destra,
scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo
può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin
con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima
serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su
Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in
queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto
populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio.
Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice?
Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire.
In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa?
Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre
la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di
Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma
ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e
Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita
partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i
dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande
sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta
lunga maratona in mattinata.
A Matrix
pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso
più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne
possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a
un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi
con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in
mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non
piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà
non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO
LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA
SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In
apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In
apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In
apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In
apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In
apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre
più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO
– In apertura: “La buffonata”.
Il Financial
Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta
al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione
a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di
BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria
di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana
anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e
chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo
l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando
alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una
photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente
adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex
premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non
perdere".
Il conservatore El
Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al
Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il
delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda
che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i
quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito
il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel
in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il
Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta
in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da
sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico
Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata
scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di
Berlusconi.
Il New York
Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia
indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali
russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che
dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi,
sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale
anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar,
che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride
sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le
Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la
defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la
fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi
cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra
Liberation.
Infine Le Figaro,
quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi
risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA
GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando
Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi
si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso
tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta
definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a
ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il
delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia
stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa
dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei
parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà
la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi.
Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al
Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo
Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto
perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita
discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia
al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della
giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30
del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un
lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa,
ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la
fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30,
“L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o
un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci
urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e
poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda
giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né
possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare,
può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto
focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il
presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi,
Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano
circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il
risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 -
dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della
scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel
pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo
alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi
dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo,
Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani,
Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi,
Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro
Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al
Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti
(escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali
si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In
questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria
a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a
seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che
''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo
una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non
hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una
prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla
sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al
Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono
comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta
fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi
ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del
partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala
antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se
uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''.
In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste
parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente
a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato
ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al
PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene
che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio
Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi
nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la
Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso:
voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le
12.10 Enrico Letta riprende la
parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti
drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime
gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula
e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del
M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della
persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti
proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal
Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono
cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di
governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente
del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi,
oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel
contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del
Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del
Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32.
Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la
dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e
senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha
rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato
è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un
governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando
tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere
solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il
clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione.
Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier
sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di
esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio
intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al
Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle
16.00 il Presidente del Consiglio,
Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un
rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore
precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da
transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma
si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della
conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per
la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel
dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle
21,30, la Camera ha espresso il
proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari.
Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un
governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa
trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi
spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di
merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se
volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una
storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo
sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la
Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di
Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una
tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue.
Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge
(assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue
regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a
ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti
delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti
in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno
mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine
di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in
giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle?
Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono
licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi
controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare
infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è
giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o
dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si
mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il
nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo
sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza
alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e
ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo
livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie
al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il
caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la
stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma
tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al
dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una
cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e
amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati
sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere
preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie,
i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore
è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una
commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle
probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai
irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i
privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in
fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il
refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere
in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande
rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa
troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del
privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati
di un Paese ancora feudale.
Un sistema
consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord
a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum,
Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta
condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15
concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle
università.
L’inchiesta di Bari
coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che
tutti sanno: le università sono una lobby, scrive
Vittorio Macioce su
“Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si
diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso.
Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di
vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante
componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano
così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se
sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto,
per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso
partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando
fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che
in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari
hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto
sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi
pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro
lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta
questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare?
L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e
pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è
che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per
fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È
quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una
costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta,
Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la
notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari
al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De
Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno
davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di
professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la
terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la
Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese
sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori,
con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri.
Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si
sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di
metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato
a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese
feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo
l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra
visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le
burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È
feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si
improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della
magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di
Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il
sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta
scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo
spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non
cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non
allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia
allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento
non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore
il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si
chiama Dc.
È una storia antica
quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno
trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di
Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e
ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università
telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo
Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che
parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi
di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato —
accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque
commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà
legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di
vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare.
Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La
prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che
citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta
del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore,
rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”.
Da una minuscola università telematica al Gotha del
mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha
individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi
universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I
finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari
avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli
accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e
Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex
garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato
i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare
tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università
di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma),
Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di
Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da
Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali.
La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche
Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della
Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono
elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli
incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di
commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario,
banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo
dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e
propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che
a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui
quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di
diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di
diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa
Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi
di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso
d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono
da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in
quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è
l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di
perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali,
istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al
vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi
universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente
d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e
propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in
grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda
fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori
ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo
il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini,
sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto”
nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi
di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici
procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in
quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di
perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri
trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli
accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla
Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men
che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più
grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione.
Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti
bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di
spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di
una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive
Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla
spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che
decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel
settore più delicato: la cardiologia.
Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario,
il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione
a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è
passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa,
l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato
la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi.
Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare
allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era
andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel
corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di
professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De
Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e
decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di
commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore
mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre
e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era
Paolo Rizzon, trevigiano
diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto
come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre
manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina
del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la
documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet,
non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri
finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino
l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della
“Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi
diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere
il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli
inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco
della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di
reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei
boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della
facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era
semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti
che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una
macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una
vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una
ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale
inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi
organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo
e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e
prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha
prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di
spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per
gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti
al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino
candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro
confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i
propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I
codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali,
ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari
delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza
definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore
Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario
sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al
primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una
lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo
a stranieri?
Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi
conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record
delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per
avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande
vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il
Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette
solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle
1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle
case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza
straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra
gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le
graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a
fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi
entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è
lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito
(basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli
immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet)
su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a
favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale
possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente
versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una
casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone,
consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una
potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di
costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a
sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono
nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho
molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla
casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a
trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi
stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e
assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano
essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso
godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli
enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i
5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi,
si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio
non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di
case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a
collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema
che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati
da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine
che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i
glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma
l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e
taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno
denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi
ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più
attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante
abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da
“esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un
qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da
“ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso
ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano
dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in
ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore,
qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe
rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso.
Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti
hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto.
Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i
nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari,
disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una
situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di
assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati
fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare
le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è
di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente,
fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa.
Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono
rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto,
è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo
sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono
clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e
affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per
Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate
abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto
permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga.
Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il
Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una
famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un
regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne
fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che
escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili,
vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha
la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente
problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare
che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai
presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti”
risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage
dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono.
Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine
vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma
implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito
che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali
delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli
appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x,
dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la
violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La
malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli
elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di
coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si
attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a
sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole,
chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai
ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti
minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un
alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e
dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio
2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case
degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro
ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che
regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima
del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una
legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009.
L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria
per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con
graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio?
Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle
norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una
battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati
e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da
ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli
enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è
pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci
sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e
nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna
circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica.
Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la
continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la
guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro
esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora
fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le
famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una
tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato
in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di
alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le
palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo?
Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità,
anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare
discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti
nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti
professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia
una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”.
I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di
«controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per
calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista
visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente
all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel
capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le
domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia
che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto
all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo
migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare
altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai
bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo
iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da
inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per
i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un
pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano,
Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi
assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia
camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando
le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri
«fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco,
praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti,
armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a
Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima
persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio
comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico:
«Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in
effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha,
avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di
proprietà?
Le Iene, 1 ottobre
2013: case occupate abusivamente.
23.40.
L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più
extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce
più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O,
peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per
molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta
la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una
casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un
immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano
scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri”
dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per
pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’
truffata anche lei.
L’occupazione
abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile,
scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile
può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella
disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal
senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro
i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il
legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di
ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto
ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi,
tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e
soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o
possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione
(e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere
altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando
và male.
Sotto il profilo
penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di
terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio
funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art.
635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa
abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio
(art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue
alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il
reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un
reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di
misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto
quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere
l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna,
non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che
l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che
offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche
laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini
nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità
di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei
vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello
penalistico.
La mancanza di
tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa
ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto,
come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove
si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali,
può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a
convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti,
occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche
ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle
ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59),
non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale
in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente,
solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il
coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza
scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe
rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza
che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in
essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di
questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te
la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano
commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato
l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un
sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che
consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché
"Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli
abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno
ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna
credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui
sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria
deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze
ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai
locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè
minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga
nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle
appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di
escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da
uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il
fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è
palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare
tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando
la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare
l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le
responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o
ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo
giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre
secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze
dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o
dell'omissione.
Cosa ha veramente
la Cassazione?
L'equivoco è nato
dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in
cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver
occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello
stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte
non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza
d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la
dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di
rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice
ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova
rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente
fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto
il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva
ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per
avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La
seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di
necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa
esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel
momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave
alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e
circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi
tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta
di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi
dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato
soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla
necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi
Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti,
attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e
ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54
Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo
surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro
preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di
eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura
cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità
dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze
del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di
Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il
caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di
proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione
avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il
sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi
difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della
responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta
indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per
la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In
sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva,
avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare
una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure
cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel
silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273
comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che
nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in
presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di
necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno
abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta,
e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel
lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso
sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è
ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei
fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con
riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto
concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che,
in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod.
proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato
compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una
analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di
espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale
in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità
della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi
in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità
della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di
investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la
fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000,
Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può
rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se
la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche
sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente
pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli
indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una
protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso
consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo
specifico.
L'articolo 633 cp
stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui,
pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a
querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa.
Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una
almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si
procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni,
fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato,
occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e
ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile
durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge
autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di
invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la
coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti
profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se
essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è
possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori
dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al
reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è
ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza)
nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al
pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di
servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è
limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono
ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare
contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può
assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a
permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per
apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno -
30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e
procedibilità d'ufficio.
Il reato
d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con
l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato
che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione
arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del
comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita
del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione
dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella
distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato
che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp),
conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la
consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo
trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale
invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai
sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538).
In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto
dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare
del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio
del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis
(edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di
per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è
sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si
devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha
mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi
titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma
anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti
predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare
"destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a
privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di
Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19
novembre 2011).
L'art. 634 c.p. -
Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei
casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con
minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la
reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si
considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci
persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione
possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633
è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di
conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non
qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti
profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso
di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di
cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice
introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di
turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del
possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare
l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art.
634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un
numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si
tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene
trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè
la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo,
sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di
violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in
flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine
di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per
tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia
giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano
portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto
sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi
ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero,
senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi
spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente
l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve
digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il
panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al
solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su
cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate
come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del
diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad
ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la
mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la
dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata
l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o
molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in
via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel
caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante;
in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo.
Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al
Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine
tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto
contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo
svolgimento.
A
difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di
enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a
far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente
spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di
manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative
all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una
funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare
integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche
verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della
proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere
di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità
del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione
di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di
nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni
inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA.
SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari
(e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza.
L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete
senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la
pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che
non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una
parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la
pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative,
professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i
poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si
rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti,
volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della
Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro
vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi
provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un
miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno
scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui
carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa
corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima
accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i
trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese
legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti,
mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati
chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna
che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i
disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero
dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per
integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti
asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre
soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le
frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di
porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7
milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal
Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i
rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per
misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come
co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il
fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome
perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel
2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus,
Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si
muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito
che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per
l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa».
Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le
organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero
dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi
pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto
e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli
albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro
diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi
retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire
come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati,
che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza
legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e
Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i
soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli
uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali
martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano
l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e
solidarietà.
Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo
Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto
significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si
presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini
su “La Repubblica”.
Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di
assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e
straniere.
Se saranno eletti,
buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i
propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà
internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e
Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del
parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere
un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte
queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la
destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più
attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la
cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente
trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma
dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i
cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è
così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che
ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche
estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento
fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il
volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo
che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra
italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra
che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi
sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il
calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che
ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria,
per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha
portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei
residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per
due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni
con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe
essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le
strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di
decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo
che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di
impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la
politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori
diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA
ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle
associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle
denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data
dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio
Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente
dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce
nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del
presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana
associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il
Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le
Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le
associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che
serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia
di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed
antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali
politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di
passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di
finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in
base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in
giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte
contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non
toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura
neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una
parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà
alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo
zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata
alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno
offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere
nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e
l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo
Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio
Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza
non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede
fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si
informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle
forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello
Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e
quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle
spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa
un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che
lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere
nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a
tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e
come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le
locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è
legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio
Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più
improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né,
tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se
scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato
non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri
sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli
avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono
critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è
sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come
autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google
libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali
youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del
territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi
italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non
sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!»
Il livore del PD,
SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti
dell’Associazione Caponnetto.
Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di
indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente
assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e
commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia
“Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché
più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo
in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai
più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la
vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe
dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono
oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra
all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler
privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo
mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato
la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi
ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché
il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose,
culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e
denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo
sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo
preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi
accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria
referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e
per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non
osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo
di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che
si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della
lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo
partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella
effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni,
del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione
Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio
quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli –
volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra
Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed
esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa
che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la
gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella
reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci
siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che
si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza
alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare
i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre
dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la
partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura
dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la
nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e
di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera
dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il
convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato
Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha
visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare
altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della
classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di
raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il
quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della
quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa
dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un
consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un
malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto.
Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del
PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri
confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e
lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto
probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente
ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché”
di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol
dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di
carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi
o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome
ma non di fatto.
E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della
legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le
cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una
sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i
problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci
dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici
domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di
cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che
solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli
errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie
ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella
democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è
Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a
sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto
bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per
risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più
indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti
che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione
e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome
di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e
contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro
questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in
via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei
politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è
un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei
propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle
società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il
giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche
bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non
è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la
questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera
che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa,
da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come
“antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera,
con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati.
Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano,
che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri
fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di
'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose
offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie
espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i
GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per
la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese.
Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle
grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e
connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al
fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che
impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al
mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri
fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto
importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima
di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma
una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il
caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti
delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale
tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha
una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle
propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome
della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi
immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a
Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un
bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno
eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale
chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche
in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore
con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale
era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il
sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi...
Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a
Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco:
Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”.
Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina
Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si
presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete
mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non
era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto,
che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione
antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come
macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni,
sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente
non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone
qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul
palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia
Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per
truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri...
quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del
personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano
decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI...
cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà,
sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi
Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del
Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito,
omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni
provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario
dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella
con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal
telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in
tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo
scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei
PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia
e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in
Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul
palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A
Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e
dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti
sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e
quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della
sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo
cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.
A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente
spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali
supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e
salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di
quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don
Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li
ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le
amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e
continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova
ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci
la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora
la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a
Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e
dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della
politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei
palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No!
Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi
che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi
politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di
smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non
vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si
faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe
intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza
dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte
vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera
ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il
referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di
centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino.
Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra,
quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra
gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può
quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza
marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in
cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi
vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da
stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!
Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una
delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il
“locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i
propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di
Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia
SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio
nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti
di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene
confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto
di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie!
Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo
per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi
crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna
dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è
proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono
brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere
demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un
fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni
amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal
anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il
CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione
Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto
del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le
mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa
pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi,
con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito
Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di
smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente
sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai
una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la
Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le
società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la
PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento
lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli
incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche
parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra.
Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna,
presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la
“colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali
hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per
avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor
prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse
di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo
Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione
nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio
alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E
mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un
perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera
contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di
tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio
devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che
dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla
devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da
quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.
Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della
non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere
“di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono:
indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta
ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione
della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere
provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore,
Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il
marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente
apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non
era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni
amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata,
apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta
legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può
nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha
risposto: “No,
perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”.
Ecco: come possono
gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il
problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese
ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva
perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice
che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può
combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non
solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi,
crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici,
c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è
stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più
colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è
palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare”
la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee
pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi
racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni,
responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della
Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo
Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto
pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex
sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla
Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo
Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop
è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato
è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese
della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri
dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER
(ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di
Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa
della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera
riaffermava la sua indipendenza...
«A
Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco
politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli
amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che
svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con
ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in
Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il
fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle
mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai
porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli
appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in
Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste
dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì
quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore
Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il
sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in
bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò
una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che
hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti
con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il
Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando,
Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia,
SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di
Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata,
c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di
Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come
testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di
BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un
dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno
l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova
ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo
l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che
il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano
denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a
Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di
centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici
Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di
organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati
e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo
dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti
attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e
agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non
parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso
Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del
gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la
concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste
cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di
“strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni,
come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia
pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui),
promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la
pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della
Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita
della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni
occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il
boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di
iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una
bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale
devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come
si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI,
CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la
regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti
a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle
indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha
elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo
dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi
perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si
dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è
socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete,
in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività
fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la
comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo
riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla
rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo
una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti
di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la
realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera,
che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed
alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato
“utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto
perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole.
Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà.
Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni
meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi
spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni
confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi
piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono
coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel
Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle
primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come
contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece
silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura
siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è
stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi:
perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove
sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a
ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è
evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni
confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro
di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati?
L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera.
Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni
usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e
conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di
accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è
davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel
secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come
“paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto
l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo
rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o
complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative
funzionano o no?
«Quelli
che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e,
purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora)
macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha
lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai
stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di
ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia
mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul
fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo
che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i
giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di
assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero
mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo
spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al
clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia!
Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in
questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati.
Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica
“Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale
quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di
vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano
usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni
confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime
percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli
occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei
casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da
terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei
primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare
Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella
pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo
stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di
Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari
per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su
un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma
fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo,
è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate
avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni
possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito
della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di
quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella
norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione
questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio,
in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati
dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per
questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché
“monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio
non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a
costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie
clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete
provato a parlare con don Ciotti?
«Non
c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che
testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo
che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona
fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano
di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che
non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare
questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e
risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di
ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale
perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci
sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e
perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una
terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è
acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto
meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per
farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e
comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e
denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci
mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula
dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che
conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo
consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che
rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui
volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e
si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose
che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente
ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione
corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e
perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi
abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili,
riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due
comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla
Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma
si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine,
odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra
fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di
accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare
l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata
effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla
Liguria...
«Sì,
le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i
fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo
contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno
da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a
mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando
sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli
abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI...
poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro
esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa.
Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici”
del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di
Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti
tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla
Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la
variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe
provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in
Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando
in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del
Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano
promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho
letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non
funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora
questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era
salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che
in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente
l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi,
con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a
Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per
anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la
Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i
rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di
Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da
risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da
una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della
Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di
un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La
questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o
concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti
quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se
stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da
millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a
conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad
esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà,
né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e
cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha
un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la
lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un
problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura
nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui
i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una
quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione.
Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui
si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che
frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale,
che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini
legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio
Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di
tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le
elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella
spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del
boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio
Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni
del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto
dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e
poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con
questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso,
incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don
Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla
mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino
Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la
logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione
dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la
lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione
giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna
mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici
frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che
occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità
di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la
mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le
attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione,
prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali
illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è
lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché
Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con
la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci
fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la
politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie
indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso
obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative
“mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni
di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia
ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità,
connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non
è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come
il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve
il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna
ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il
dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive
delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte
ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don
Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto
della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi
nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che
se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne
avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere
l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso
rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare?
Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative
se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche
giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo
è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera
è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo
le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo:
visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per
promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E
quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un
ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come
unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi
alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le
mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni
giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine
per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna
mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto
è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre
maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni
Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla
vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni
esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha
investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera
regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha
speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala.
Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi
mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le
teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di
mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la
latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che
l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente
manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli
'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e
Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno
l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori
dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto
con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o
comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea
“ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E'
pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano
seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro
screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un
territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che
tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se
tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con
il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni
nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo
sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera...
magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si
rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare
da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante
si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera
dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E
questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera
torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il
presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che
abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è
fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E',
come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni
soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo
stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese
della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la
politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto
risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così
come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e
spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese
mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati
aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a
volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia
di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti
investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato
nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo
perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le
cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se
non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei
probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed
invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche
quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla
politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la
spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che
queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è
meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio
concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando
sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti
legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i
dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di
Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di
Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò
quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla
Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di
Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli
anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di
“educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo
asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con
il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro
che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi
crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e
dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No,
come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter
“abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per
quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da
“paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una
cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci
siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo
una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano
tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e
decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano
riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è
più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete,
non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi
convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della
Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono,
si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato
di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se
indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona
fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte
quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo
di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede,
per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto,
oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della
Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il
“nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno
fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel
briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi
in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come
stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per
quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente
no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di
omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti
ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo
mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta
società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione
spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti
“indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti
perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti.
Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad
una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete
poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe
Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno
domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e
parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far
vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe
ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni
anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi
non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno
cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che
vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella
sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta
di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla
concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene
e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori
dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una
diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi
cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei
ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli
permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è
sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche
qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo
problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con
chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora
totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli
esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di
Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via
Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il
Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci
può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A
Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come
pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione
della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei
Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di
Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il
Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente
regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato”
per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni
che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura
di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le
misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non
esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato
per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta,
che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è
presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed
uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle
risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione…
fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un
“atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza,
atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla
presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza
contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si
potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e
non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo
eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi
potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che,
essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto
che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e
proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di
Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica
ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere
presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà
consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza
viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo
intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data
conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di
Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante,
significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario
ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso
resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto
anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse
ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà
perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco
politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di
Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva
nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe
sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno
devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento
alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei
Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del
“faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro
grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad
Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata,
una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come,
Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa
consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro
lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta
all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono,
coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la
Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi
quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo
parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma
come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di
confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non
saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra
presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo
dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo
da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel
silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco
feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di
speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo
significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché
ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo
tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un
contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si
possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua
rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE
ZOPPO.
Roberto Gervaso:
terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo
dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La
lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di
“Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto
questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo
dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia
irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla
fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano
aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti.
Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia
ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che
cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le
cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa
una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo
conduttore?
«La
storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da
che parte cadere.»
Si
parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì,
perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi.
Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi
dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E
l’Italia?
«Ha
vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia,
società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle
rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri
forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che
si affacciò al balcone...
«Tutto
era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del
1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non
hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la
destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a
un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O
qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si
affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una
colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La
moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e
Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei
tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli
italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo
un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della
libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è
l’utopia dell’invidia.»
Ma
che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia
ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla
gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come
si chiama questa malattia?
«Mancanza
di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non
crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il
miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La
cura?
«Utopistica:
che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono
cominciare dall’alto.»
E
parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un
economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e
fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve
cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno
l’economia.»
Beppe
Grillo?
«Un
Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si
instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la
riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un
giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa
di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai
preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un
pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte
che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si
muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più
teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter
Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un
perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di
conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier
Luigi Bersani?
«Un
paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un
uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un
grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma
non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo
presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che
invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai
compagni.»
Cultura a sinistra,
Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due.
Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre
democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su
“Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio
dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la
cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i
mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a
partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica
hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata.
L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva
del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da
una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in
tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica
democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante
delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese.
Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale
antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento
anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società
politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di
obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza
silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno
progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema
tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio
senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È
rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel
ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno
strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della
sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro,
un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non
dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una
forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta
dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e
l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione
dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di
questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte
prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A
pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche
le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che
ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte
delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è
stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività
delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per
reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente
coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio
sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume
carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da
rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia
presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto).
Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei
partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da
maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della
società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo
dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è
progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli
stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un
sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto
molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato
svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal
Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena
politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa
dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è
stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica
all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla
polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di
maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs
Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato
la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso
dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti,
poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio
di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato
solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica
- e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse
sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di
attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente
qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non
meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della
«degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e
della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione
politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S,
rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo
all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme
dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo
protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI
TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio
2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo
Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai
pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su
“Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva
contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un
Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza
quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava
anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il
fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di
prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i
traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che,
nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il
sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di
seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò
l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più
notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se
ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno
spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite –
ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la
procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer
fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano
altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli
occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare
dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone
raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che
gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per
proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga.
Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo
l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 –
erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni
malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano,
Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia
di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri
del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il
carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di
Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne
brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al
padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una
brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un
maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul
ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua
pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro
della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile –
dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che
vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un
carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2
lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla
‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose
che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso
una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma
“nei secoli fedele”.
«Traditore per
smisurata ambizione».
Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale
di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo
Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila
euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò
questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante
del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri,
tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con
pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia
decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer
ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di
rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno
del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in
combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al
traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera».
La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma
il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta
da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a
delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto
ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime
responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un
distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli
stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer
non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo
assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di
immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i
condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou
Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu
(ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato,
10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a
Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi
ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e
Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra
il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la
solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa
dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta
vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della
carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che
dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di
sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97”
che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento
disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In
caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati
all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i
delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a
carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica
nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi
appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più
parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa
allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte
un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco.
Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata
di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza
contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex
sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio
in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di
condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di
ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di
militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di
malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie
condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo
provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del
Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante
condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al
generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata
ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle
istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono
stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di
violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro
custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di
polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in
carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della
Questura.
Ed ancora. Erano un
corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati
arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso
ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando
alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del
Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è
emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000
euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo
Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata
Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme
intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita
solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è
arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte
coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente
in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia
Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre
agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile
della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora.
Arrestati due carabinieri nel Barese,
chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati
dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del
capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano
chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova.
Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto".
La Suprema
corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013.
"Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo
all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la
linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava
all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo
accantonamento dei principi-cardine
dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde
nella
caserma di Bolzaneto
dove furono portati i
manifestanti no global
arrestati e percossi durante il
G8 di Genova nel
luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di
“assoluta
percettibilità visiva e auditiva
da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle
110 pagine
depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013,
sono state rese
definitive sette condanne
e accordate
quattro assoluzioni
per gli
abusi alla caserma
contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo
dei grandi processi
sui
fatti del luglio 2001. Nel precedente
verdetto d’appello,
i giudici avevano dichiarato
prescritti i reati
contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti
penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei
risarcimenti.
Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il
dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che
ciascuno dei comandanti
dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto
all’obbligo di
impedire l’ulteriore protrarsi
delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta
dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come
oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la
posizione vessatoria,
non volassero
calci, pugni o schiaffi
al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le
modalità di accompagnamento
nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le
modalità vessatorie e violente
riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour
denunciano come il “compimento dei
gravi abusi
in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data
l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili
sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione
penale, è “inaccoglibile
la linea difensiva
basata sulla
pretesa inconsapevolezza
di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante
gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero
dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro
incolumità”.
La Cassazione
descrive inoltre i
comportamenti inaccettabili
di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no
global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei
sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti
la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una
responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la
posizione di garanzia
da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro
comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non
necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni
e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei
no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le
violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto,
un’occasione per
dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras
reso invalido dalla polizia:
"Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del
2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella
sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze
dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna
possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati
sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai
cosa? Secondo me quel giorno alla
stazione di Verona
cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine
estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa
che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve,
raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di
Federico Aldrovandi,
me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega
a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di
vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per
tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la
battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura
scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello
contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la
sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia
furono sicuramente dei poliziotti,
ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri,
Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe
Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un
autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in
stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili.
Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di
tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la
moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso
potrà forse avere
un risarcimento:
ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato
rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni
gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più
facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei
poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi.
”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una
sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni
Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno
fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai
raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza
delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua
solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno,
persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La
diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma
cranio cerebrale.
Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo
parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché
nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato
solo in testa”. E avevano picchiato,
certifica il giudice
Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al
contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottop